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No, non si fa così.

(fonte: repubblica.it)
Il tribunale di Milano ha condannato tre dirigenti di Google per violazione della privacy, per non avere impedito nel 2006 la pubblicazione sul motore di ricerca di un video che mostrava un minore affetto da autismo (e non da sindrome di Down come erroneamente comunicato in un primo tempo ndr) insultato e picchiato da quattro studenti di un istituto tecnico di Torino. Ai tre imputati sono stati inflitti sei mesi di reclusione con la condizionale; i dirigenti sono stati invece assolti dall’accusa di diffamazione, un quarto dirigente che era imputato è stato assolto. Si tratta del primo procedimento penale anche a livello internazionale che vede imputati responsabili di Google per la pubblicazione di contenuti sul web. Durissima la reazione della società: “Un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito internet” spiega il portavoce di Google, Marco Pancini. “Siamo negativamente colpiti dalla decisione”, dice in un comunicato l’ambasciatore americano a Roma David Thorne.

I dirigenti coinvolti sono David Carl Drummond, ex presidente del cda di Google Italy ora senior vice presidente, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy ora in pensione, e Peter Fleischer, responsabile delle strategie per la privacy per l’Europa di Google Inc. I tre sono stati condannati per il capo di imputazione di violazione della privacy. Assolto Arvind Desikan, responsabile del progetto Google video per l’Europa, cui veniva contestata la sola diffamazione. Nei loro confronti l’accusa aveva chiesto pene comprese tra 6 mesi e un anno di reclusione.

Il video venne girato a fine maggio 2006 e caricato su Google l’8 settembre: rimase online due mesi, fino al 7 novembre, prima di essere rimosso, totalizzando 5500 contatti. Nel filmato si vedono una decina di compagni di classe che stanno a guardare, mentre uno dei ragazzi indagati sferra qualche pugno e qualche calcio al compagno disabile, un altro è intento a riprendere la scena con la telecamera, un terzo che disegna il simbolo “SS” sulla lavagna e fa il saluto fascista. Il ragazzo aggredito rimane immobile. Al giovane disabile vengono anche tirati oggetti e per ripararsi lui perde gli occhiali e si china a cercarli affannosamente. Nell’indifferenza del resto della classe.

Nel corso del processo i legali del ragazzino disabile avevano ritirato la querela nei confronti degli imputati. Nulla di fatto per il comune di Milano per l’associazione ViviDown che si erano costituite come parti civili. La loro posizione era legata al reato di diffamazione per cui gli imputati sono stati assolti. “Faremo appello contro questa decisione che riteniamo a dir poco sorprendente, dal momento che i nostri colleghi non hanno avuto nulla a che fare con il video in questione, poiché non lo hanno girato, non lo hanno caricato, non lo hanno visionato – dice il portavoce di Google – se questo principio viene meno, cade la possibilità di offrire servizi su internet”.

Opposta la reazione di pm milanesi. “Con questo processo abbiamo posto un problema serio, ossia la tutela della persona umana che deve prevalere sulla logica di impresa” affermano il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo e il pm Francesco Cajani. Nell’annunciare l’intenzione di appellare la sentenza di condanna, i legali dei dirigenti condannati, Giuseppe Bana e Giuliano Pisapia, affermano: “Google si è comportato correttamente, perché non aveva alcun obbligo di controllo preventivo sui video e i messaggi messi in Rete, mentre invece dal momento in cui è stato informato di quel filmato ignobile l’ha subito eliminato”. “Non ci sono né vinti né vincitori”, aggiungono i legali, che poi interpretano l’assoluzione dall’accusa di diffamazione come “la non esistenza dell’obbligo giuridico di controllo preventivo da parte di Google su cosa viene messo in Rete”.

Gli Stati Uniti, per bocca dell’ambasciatore americano a Roma David Thorne, esprimono il proprio disagio per la decisione giudiziaria. “Siamo negativamente colpiti dall’odierna decisione di condanna di alcuni dirigenti della Google inc. per la pubblicazione su Google di un video dai contenuti offensivi”, afferma in un comunicato Thorne. “Pur riconoscendo la natura biasimevole del materiale – precisa l’ambasciatore – non siamo d’accordo sul fatto che la responsabilità preventiva dei contenuti caricati dagli utenti ricada sugli internet service provider”.

“Il principio fondamentale della libertà di internet è vitale per le democrazie che riconoscono il valore della libertà di espressione e viene tutelato da quanti hanno a cuore tale valore”, dice Thorne ricordando che “il segretario di Stato Hillary Clinton lo scorso 21 gennaio ha affermato con chiarezza che internet libero è un diritto umano inalienabile che va tutelato nelle società libere”. “In tutte le nazioni – conclude il comunicato – è necessario prestare grande attenzione agli abusi; tuttavia, eventuale materiale offensivo non deve diventare una scusa per violare questo diritto fondamentale”. (Beh, buona giornata).

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Vietato globalizzare il mondo delle idee.

Perché il potere ha paura del web
Scontro tra Cina e Usa sul motore di ricerca. In gioco c’è la libertà d’informazione. E il concetto di sovranità nazionale ai tempi di Internet di FEDERICO RAMPINI-repubblica.it

“Il nostro obiettivo è cambiare il mondo”, è uno slogan di Eric Schmid, il chief executive di Google. Lo stesso Schmid che quattro anni fa, all’inaugurazione del motore di ricerca in mandarino, con l’indirizzo locale segnato dal suffisso “. cn”, dichiarò: “Siamo qui in Cina per rimanerci sempre”. Ora quelle due affermazioni – cambiare il mondo, rimanere in Cina – sono diventate tra loro inconciliabili. Se Google non accetta le regole di Pechino, e la censura delle autorità locali, la sua avventura cinese dovrà chiudersi. Lo scontro epico che si è aperto fra la più grande potenza di Internet e la più grande nazione del pianeta, è destinato a ridefinire nei prossimi anni l’architettura globale del web, i limiti geopolitici della libertà d’informazione, e il nuovo concetto di sovranità nello spazio online.

Il precipitare degli eventi ha colto tutti di sorpresa, almeno in Occidente. Questo copione non è stato scritto né a Mountain View, il quartier generale di Google nella Silicon Valley californiana, né tanto meno a Washington nelle sedi del potere politico. Negli scenari più pessimisti elaborati dal Pentagono, quando due anni fa l’Esercito Popolare di Liberazione centrò in pieno un proprio satellite in un test di guerre stellari, fu detto che la conquista dello spazio sarebbe stata la prossima sfida tra l’America e la Cina. Nessuno aveva messo in conto quello che sta accadendo da due settimane: l’improvviso gelo tra i soci del G2 per il controllo del cyber-spazio.

Eppure quando Google lanciò la sua versione in mandarino nel 2006, la censura di Stato esisteva già. Come Microsoft, come Yahoo, come Rupert Murdoch, anche il colosso di Mountain View accettò il patto con il diavolo: collaborare con il regime facendo propri i suoi tabù, interiorizzarne i limiti alla libertà di espressione, autocensurarsi con dei filtri di software automatici approvati dalle autorità locali. Sembrava logico. Google si comportava come tante altre multinazionali “normali”, separava le regole universali del business capitalistico dal contesto politico locale. Come un qualsiasi fabbricante di auto o di jeans, Schmid pensò di poter chiudere gli occhi sugli abusi contro i diritti umani, e partire alla conquista del più vasto mercato mondiale. Anzi, nel 2006 la questione di coscienza per gli americani sembrava risolta una volta per tutti dalle parole ottimiste di Bill Gates: “Per quanti limiti possano mettere all’attività di Microsoft, l’avvento di Internet introduce nella società cinese un volume d’informazioni senza precedenti. La Cina sarà comunque migliore di prima, grazie a noi”. Ai vertici di Google, a onor del vero, non tutti la pensavano così. Sulle condizioni dello sbarco in Cina aveva dei forti dubbi uno dei due co-fondatori dell’azienda, Sergey Brin. Per la sua biografia personale – nato nell’Unione sovietica, emigrò in America da bambino con i genitori – aveva intuito un’incompatibilità insolubile, tra la “natura” profonda del business di Google e quella della Repubblica Popolare.

La casistica dei conflitti tra i regimi autoritari e la libertà online è ricca di precedenti, dall’Iran alla Birmania. Ma la questione cambia completamente quando la posta in gioco è un mercato di 330 milioni di utenti, ormai il più popoloso del pianeta. Il comunicato del governo cinese che stigmatizza Google e ribatte alle critiche di Hillary Clinton, fa esplicito riferimento alle “regole della rete cinese”. Nessuno immagina che possa esistere un “Internet iraniano”. Ci sono solo le barriere che Teheran frappone per l’accesso locale alla rete: che resta una, indivisa e globale. Ma l’idea che la Cina possa organizzarsi come un cyber-universo autonomo da noi, è altrettanto impensabile?
In Occidente diamo ormai per scontato da anni che la superficie terrestre sia scandagliata minuziosamente da GoogleMap. Ricordo il divertimento con cui mi accorsi, quando abitavo a San Francisco, che dalle foto satellitari si poteva vedere non solo casa mia ma anche la targa della mia auto. Non appena mi trasferii a Pechino nel 2004 scoprii che intere zone della capitale cinese invece erano oscurate, a cominciare dal quartiere di Zhongnanhai dove risiede la nomenklatura comunista. Ciò che a noi appare naturale, o inevitabile, cioè che la mappatura terrestre sia fatta da un’impresa privata americana, non è accettabile a Pechino. E’ un’intrusione virtuale nella sovranità: un valore per il quale gli Stati scendono in guerra da secoli. E visto da Pechino il confine che separa un colosso privato come Google dal governo di Washington, è labile.

Ken Auletta, autore del saggio “Googled” (il passivo del verbo “googlare”), osserva che “poche altre tecnologie – la stampa di Gutenberg, il telefono – hanno avuto effetti sociali rivoluzionari come questo motore di ricerca, che ha sconvolto il nostro modo di produrre informazione, selezionarla, consumarla”. Ma Internet essendo nato in America, tutta l’organizzazione del world wide web ha un’impronta made in Usa. Porta i segni inconfondibili di un “sistema”: regole e valori nati negli Stati Uniti, per estensione occidentali, non necessariamente percepiti come universali a Pechino. Dove noi parliamo di “architettura aperta”, altri capiscono “egemonia americana”.

La Grande Muraglia di Fuoco, è il nome che i dissidenti hanno affibbiato alla censura online della Repubblica Popolare. E’ il più moderno e sofisticato apparato di controllo dell’informazione, con almeno 15.000 tecnici informatici in servizio permanente. Eppure il governo di Pechino ha avuto bisogno fino a ieri di appoggiarsi sul “collaborazionismo” di Google, Yahoo, Microsoft. I dissidenti, o anche i giovani cinesi più curiosi e dotati per l’informatica, hanno appreso ad aggirare la Grande Muraglia. Usano metodi simili a quelli degli hacker: ad esempio per dissimularsi attraverso domicili online all’estero. Sono esattamente i metodi mutuati dai cyber-pirati al servizio del governo, nelle incursioni denunciate da Google il 12 gennaio. Hanno violato la privacy della posta elettronica Gmail di numerosi militanti dei diritti umani; nonché di un grande studio legale di Los Angeles impegnato in un processo contro aziende di Stato cinesi per violazioni di copyright. E hanno profanato le email di 34 aziende hi-tech nella Silicon Valley, un grave episodio di spionaggio industriale che getta un’ombra sulla sicurezza di tutto l’impero Google.

L’esperto d’informatica Holman Jenkins evoca per questa offensiva un precedente poco noto. “All’inizio degli anni Novanta ci fu un’escalation di episodi di pirateria navale nel Mare della Cina meridionale. Hong Kong, che era ancora una colonia inglese, raccolse le prove che i pirati erano in realtà al servizio delle forze armate cinesi. Era un modo per rivendicare la sovranità di Pechino su rotte di comunicazione strategiche”. I cyber-pirati che la Cina ha scatenato contro Google, innescando un conflitto che ha portato fino all’intervento dell’Amministrazione Obama, starebbero facendo un gioco simile. Come il corsaro Francis Drake al servizio di sua maestà Elisabetta I contro l’impero spagnolo. In palio stavolta c’è uno spazio virtuale, perfino più strategico delle rotte marittime. La Cina punta molto in alto, se ha sentito il bisogno di intimidire Google fino a mettere in discussione la privacy dei suoi clienti industriali: tutti ormai potenzialmente spiati. I dirigenti della Repubblica Popolare possono immaginare un Trattato di Yalta del terzo millennio, con cui l’America prenda atto della loro sovranità su una parte di Internet. Se passa il loro piano, il discorso visionario di Hillary Clinton che ha esaltato Internet come “il grande egualizzatore”, si applicherebbe solo al di qua della Grande Muraglia. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Crisi della pubblicità: quella gran voglia di dire che il peggio è passato contagia anche Google.

Google registra una crescita del fatturato del 27% nel terzo trimestre del 2009, segno dell’inizio della ripresa nel mercato del search. Secondo Eric Schmidt, Ceo di Google il peggio della crisi economica sia passato.

“Nonostante vi sia ancora molta incertezza sulla velocità della ripresa, crediamo che il periodo peggiore sia finito”, ha dichiarato Schmidt. Il fatturato netto derivante dal search engine si è attestato a 1,64 miliardi di dollari, rispetto all’1,29 miliardi di un anno fa. Le revenue sono di 5,94 miliardi di dollari, ovvero a +7% sullo stesso periodo del 2008.

Il search advertising è considerato un buon indicatore del sentiment generale del mercato. L’impatto degli investimenti nel search è misurabile con precisione e proprio dai dati ottenuti Google evince che le aziende stanno ora lentamente incrementando il loro spending nel search.

Dal punto di vista di Google, la migliore performance del search segnala un ritorno alle assunzioni, alle acquisizioni e agli investimenti.

Tra le categorie ad aver registrato le performance più positive nel terzo trimestre del 2009 troveremmo: le campagne pubblicitarie per le automobile e per le assicurazioni.

Ancora in flessione invece Viaggi e Finanza. La Finanza, paragonata con un il terzo trimestre del 2008 risulterebbe particolarmente positiva. Il dato si evincerebbe da una improvvisa impennata degli investimenti, forse relativa a un momento magico della comunicazione finanziaria. Ma non è affatto detto che possa essere un indicatore duraturo della ripresa. Con buona pace delle migliori intenzioni di Eric Schmidt. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: è vero che Google voleva comprare il New York Times.

Google voleva comprare il New York Times, parola di Ceo di Gianni Rusconi -sole24ore.com

Non erano speculazioni ma indiscrezioni fondate. Quando nei mesi scorsi i media americani parlavano spesso e volentieri delle intenzioni di Google di investire direttamente nell’editoria non stavano arrampicandosi alla notizia dell’anno. Che il gigante dei motori di ricerca stesse realmente valutando l’opportunità di acquisire una grande quotidiano – il nome più gettonato era il New York Times – l’ha confessato in una lunga intervista al Financial Times il Ceo della società di Mountain View, Eric Schmidt. L’ammissione è stata però accompagnata da un’importante precisazione: Google, oggi, non è più interessata ad investire in alcun media cartaceo per via dei rischi collegati a un’operazione particolarmente dispendiosa. Niente acquisti e nemmeno l’ipotesi di una quota azionaria (per la storica testata si vociferava una possibile cessione del 20% del pacchetto azionario, offerto dal fondo Harbinger Capital Partners) dunque. Il mestiere della compagnia, ha detto in sostanza Schmidt, è quello di sviluppare e vendere tecnologia e non contenuti e quanto al rapporto con i grandi editori (che vivono una fase di grande difficoltà) le collaborazioni sono le benvenute con l’unico obiettivo di fare funzionare bene la pubblicità sui siti Web di questi ultimi (con il Washington Post e altri la partnership è già avviata da tempo).

Arrivata quindi l’ufficiale conferma del passo indietro, molto analisti si sono chiesti cosa sarebbe potuto cambiare per Google se avesse portati avanti il progetto di scalata al New York Times. Non è stata infatti la casa californiana a contribuire alla picchiata delle vendite delle copie stampate dei più grandi giornali d’America? Buttarsi nel mercato dei contenuti, oltretutto con un modello non profit (Google.org, avrebbe sconfessato la missione tecnologica della società e sconvolto i già precari equilibri del settore media? Sarebbe stata solo un’azione speculativa, dettata dalla possibilità di accaparrarsi “a prezzi di saldo”, una quota importante di uno dei giornali più importanti del mondo? O una precisa strategia per fare il botto nell’advertising on line?
Domande a cui ora non ha più senso dare risposte. Google rimane al suo (in fluentissimo) posto e Schmidt pure. Al Financial Times il top manager, che è membro del team economico voluto da Barak Obama, ha confermato che non correrà per un ruolo politico, perché “non c’è una seconda vita dopo Google…”. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi secondo il capo di Google.

(fonte: blitzquotidiano.it)

L’ad di Google, Eric Schmidt, ha suggerito agli editori di quotidiani di continuare ad affidarsi alla pubblicità, ma anche di trovare nuove idee per attirare lettori.

Intervenendo alla convenzione annuale della Newspapers Association of America a San Diego, California, Schmidt non ha presentato proposte specifiche per affrontare la grave crisi dei quotidiani ma ha delineato alcune possibilità, portando l’esempio di Wikipedia, l’enciclopedia online che consente agli utenti di contribuire con materiale o integrare contenuti.

Ha poi sollecitato gli editori a concentrarsi sulla tecnologia mobile e sullo sviluppo di nuove piattaforme per diffondere le notizie. Schmidt ritiene che ci sia ancora spazio per gli abbonamenti e gli articoli che possono essere letti a pagamento, ma ha insistito sull’importanza della pubblicità, che nel caso di Google rappresenta il 98 per cento delle entrate.

Schmidt ha poi rilevato che i notiziari su internet richiedono troppo tempo per essere letti, ancor più che sfogliare un giornale, ma che si tratta di un difetto che può essere corretto con nuove tecnologie.

«Noi di Google», ha proseguito Schmidt, «stiamo lavorando per risolvere le questioni tecnologiche, ma al momento non abbiamo risultati che possano essere definiti soddisfacenti». (Beh, buona giornata).

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