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Generazioni contro

Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Un Grillo nella testa dei giovani

Marco Albertini, Roberto Impicciatore e Dario Tuorto-lavoce.info

Una prima analisi dei risultati elettorali sembra mettere in luce un voto generazionale. Alla Camera, quasi la metà dei giovani hanno votato il Movimento 5 stelle. Sarebbe il più rilevante spostamento di voto della storia elettorale italiana.

UN VOTO GENERAZIONALE

Nei primi commenti al risultato delle elezioni molti opinionisti hanno suggerito che l’affermazione del Movimento 5 Stelle (M5S) ha fatto finalmente emergere il tema della frattura tra le generazioni – sia nel modo di fare politica, sia nella visione di cosa debba fare e di chi debba proteggere lo stato sociale. Lo stesso Grillo, il 27 febbraio, attraverso twitter e il suo blog, ha suggerito tale interpretazione: “Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per molto”; “Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c’è l’età” (post del “6 Febbraio). E anche la composizione per età degli eletti del M5S sembra confermare questa interpretazione: 33 e 46 anni l’età media per Camera e Senato.
Se così fosse queste elezioni avrebbero dato una risposta a uno dei puzzle di più difficile soluzione per gli studiosi di relazioni intergenerazionali: l’assenza di conflitto generazionale pur in presenza di forti squilibri di welfare tra giovani e anziani.
La natura del rompicapo può essere sintetizzata come segue. Negli ultimi decenni v’è stato in Italia (e, in misura minore, anche in altri paesi Europei) un forte inasprimento delle disparità tra le condizioni socio-economiche della popolazione giovane e quelle dei non-giovani:

1) una flessibilizzazione del mercato del lavoro avvenuta “al margine”, ovvero scaricandola completamente sui nuovi entrati nel mercato senza nemmeno sfiorare chi nel mercato del lavoro c’era già (gli insider, i protetti)
2) un sistema di welfare in cui la spesa sociale per la popolazione anziana è pari a 12 volte a quanto speso per i giovani (la media nella EU15 è di 3 volte)(1);
3) la rottura del patto generazionale alla base del sistema pensionistico con il passaggio da sistema retributivo a quello contributivo.

Nonostante tutto questo, però, numerosi dati sembravano indicare l’assenza – o irrilevanza – di conflitto generazionale.

a) le indagini mostravano che i giovani, al pari dei loro genitori, erano a favore del mantenimento degli attuali assetti di welfare (pensioni incluse);
b) erano assenti movimenti di protesta giovanile chiaramente connotati a livello anagrafico e che coinvolgessero quote rilevanti di popolazione;
c) la distribuzione del voto giovanile era relativamente omogenea rispetto a quella del voto dei genitori (2).

Non sorprende, quindi, che molti studiosi suggerivano che quello del conflitto generazionale fosse solo un mito delle società contemporanee (3). L’unica risposta plausibile al rompicapo sembrava essere che le differenze tra classi sociali (attorno a cui si è fin qui organizzata buona parte della rappresentanza politica) e l’influenza delle subculture politiche superavano di molto le diseguaglianze tra generazioni.

QUALCOSA È CAMBIATO

Le recenti elezioni sono un segnale che il panorama è mutato? è vero che è emerso un chiaro comportamento di generational voting?
In attesa dei dati di future indagini campionarie sul tema, tentiamo di dare una prima risposta al quesito utilizzando l’informazione relativa alla differenza nella quota di voti ai vari partiti alla Camera e al Senato. Attribuire tale differenza al voto giovanile, in particolare ai giovani nella fascia 18-24 anni (presenti alla Camera, assenti al Senato) necessita di due assunti forti. Primo, assumiamo che l’astensione sia sostanzialmente simile per giovani e non. Secondo, dobbiamo assumere che tra gli ultra 24enni il voto disgiunto risulti trascurabile, cioè che tutti, o quasi, abbiano votato al Senato lo stesso partito scelto alla Camera. Il primo assunto è sostenuto dal fatto che il tasso di partecipazione non presenta differenze tra Camera (75,19 per cento) e Senato (75,11 per cento ) (dati Ministero dell’Interno). Per quanto riguarda il secondo va detto, innanzitutto, che in assenza di dati completi sui flussi e da indagini campionarie post-elettorali è molto difficile depurare l’effetto del voto giovanile dalla pratica del voto disgiunto nello spiegare la differenza di voti al M5S tra Camera e Senato. Non possiamo escludere a priori che un gruppo consistente di individui abbia votato M5S alla Camera e un altro partito al Senato. Elettori mossi da calcolo razionale (votare diversamente al Senato nelle regioni più contendibili) o anche elettori “critici” – in particolare del Pd – che lanciano un segnale di protesta rivolto al partito o all’area politica in cui si identificano. Nel primo caso dovremmo attenderci uno scarto maggiore tra Camera e Senato nelle regioni in cui alla vigilia si pensava che ci sarebbe stato un risultato incerto (particolarmente in Lombardia), nel secondo che lo scarto sia maggiore nelle regioni “rosse”. Tuttavia, come mostrano le analisi seguenti, la stima del voto per il M5S tra gli under 24 rimane di molto sopra la media in tutte le regioni e non solo in quelle cosiddette contendibili (dove poteva agire una scelta razionale di voto difforme) o in quelle “sicure” della protesta da sinistra (le regioni della “zona rossa”): un possibile indizio del fatto che il voto disgiunto abbia giocato un ruolo marginale nel determinare il differenziale Camera-Senato nei voti per il M5S.

LA DIFFERENZA TRA CAMERA E SENATO

Al netto di questi caveat passiamo alle nostre stime. In tabella 1 abbiamo riportato i voti ottenuti dai principali partiti alla Camera e al Senato, e la relativa differenza. In termini assoluti, il M5S ha incassato un numero di consensi alla Camera superiore di oltre 1.400.000 voti rispetto a quanto ottenuto al Senato. Tra i principali partiti è quello che registra il differenziale più elevato. Sotto l’ipotesi che la differenza sia in toto voto giovanile possiamo stimare la percentuale di voti al M5S tra giovani di età 18-24. La percentuale, calcolata a livello regionale e nazionale, si ottiene dal rapporto tra la differenza nel numero di voti ottenuti alle due Camere e la stima dei voti validi attribuibili alla fascia di età 18-24. Quest’ultima viene calcolata riproporzionando i voti validi totali alla quota dell’elettorato di questa fascia di età (essendo la popolazione di riferimento quella fornita dall’Istat al 1.1.2011, abbiamo considerato come gruppo di interesse quello di età 17-23 anni).

Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Adottando questa procedura arriviamo a stimare che la quota di consensi per il partito di Grillo tra i giovani tra i 18 e i 24 anni ha superato il 47 per cento, contro una percentuale media del 25,6 per cento. Tale dato sembrerebbe indicare con tutta chiarezza l’emergere di un fenomeno di generational voting, ovvero un profilo di voto per i giovani drasticamente diverso rispetto a quello generale, con una forte sotto-rappresentazione del voto per gli altri partiti e per il Partito democratico in particolare. Un dato particolarmente significativo se si considera che applicando la stessa procedura all’elezione del 2008 la stima della percentuale di 18-24enni che votavano Pd non si discostava dal valore dell’intero elettorato. Il fenomeno peraltro rappresenterebbe la conferma di un trend rilevato già nel periodo pre-elettorale: nel corso del 2012, infatti, le intenzioni di voto per il M5S erano cresciute esponenzialmente prima e dopo la tornata di elezioni comunali, e con una velocità maggiore proprio nella fascia 18-24 anni (4). Nello stesso senso vanno anche i risultati di una recentissima indagine pubblicati sul Corriere della Sera: Tecné, infatti, stima che il 37,9 per cento degli elettori con meno di 30 anni hanno votato M5S alle ultime elezioni politiche (5).

CONCLUSIONI

I dati di survey pre-elettorali lasciavano intravvedere che l’attesa crescita dei consensi verso il M5S fosse trainata dai new voters o, comunque, dagli elettori più giovani. I risultati delle elezioni del 24-25 febbraio sembrano aver confermato (e rafforzato) questo fenomeno, tanto che è plausibile argomentare che il voto “grillino” abbia agito in modo deflagrante sulle dinamiche elettorali anche sul piano generazionale. La nostra tesi è che probabilmente siamo di fronte a una nuova dinamica del comportamento elettorale, con un forte e rapido allineamento del voto (anche) su basi generazionali. L’emergere di tale dinamica è di particolare rilevanza non solo dal punto di vista della soluzione del puzzle dell’assenza del conflitto generazionale, ma anche perché i giovani, al primo o al secondo voto importante, potrebbero avere trovato il loro partito e iniziato a esprimere un chiaro pattern politico, diverso da quello delle altre generazioni, con conseguenze importanti per le future tornate elettorali. Se ciò non fosse avvenuto, e il differenziale positivo di voti per il M5S alla Camera risultasse effettivamente da una generalizzazione su larga scala del voto disgiunto, saremmo di fronte a uno dei più rilevanti spostamenti di voto della storia elettorale italiana, assolutamente inatteso almeno quanto il riallineamento compatto dei giovani attorno a un nuovo partito. Attendiamo dati più solidi per scoprire il seguito. (Beh, buona giornata).

(1) Börsch-Supan, A. (2007) European Welfare State Regimes and their Generosity Towards the Elderly, in «Mea Discussion Papers», n. 128.
(2) Si veda ad esempio Arber, S. e Attis-Donfut, C., 2007, “The myth of generational conflict”, Routledge.
(3) Si veda l’indagine Demos 2008, http://www.demos.it/a00200.php
(4) Corbetta, P.G. e Gualmini, E. 2013 “Il partito di Grillo”, Il Mulino. Pagina 96.
(5) http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1T9KQJ

Bio dell’autore
Marco Albertini: è ricercatore presso l’Università di Bologna e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Carlo Cattaneo. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la sociologia della famiglia e i sistemi di welfare. Sito personale https://sites.google.com/site/mrcalbe. Twitter @madmakko.

Roberto Impicciatore: è ricercatore presso l’Università di Milano e membro del Consiglio Scientifico dell’Associazione Italiana per gli Studi di Popolazione. Si occupa di comportamenti demografici e transizione allo stato adulto.

Dario Tuorto: È ricercatore presso l’Università di Bologna, membro di Itanes (Italian National Election Studies). Ha fatto ricerca e pubblicato prevalentemente nell’ambito della sociologia politica.

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Attualità democrazia Movimenti politici e sociali Politica

Se avessimo votato col proporzionale?

di Giovanni Bronzino –

L’incertezza politica in cui versa l’Italia dopo le ultime elezioni politiche è stata da più parti addebitata al fatto che per la terza volta si è votato con le regole del cosiddetto porcellum. Nonostante per anni i partiti si fossero dichiarati quasi unanimamente d’accordi sulla necessità di una nuova legge elettorale, non si è mai riusciti a trovare un accordo che soddisfacesse tutti. Anche perché da anni il vizio d’origine è che le leggi elettorali non devono essere neutre, ma costruite su misura delle esigenze di questo o quel partito.

In verità stavolta il porcellum c’entra poco. La legge elettorale di Calderoli non ha comunque smentito la sua impressionante capacità di deformare il parlamento e la volontà del popolo sovrano secondo un bislacco sistema di sbarramenti plurimi, ma ad aver destabilizzato la relativa quiete della seconda Repubblica è stato semplicemente il fatto che il MoVimento 5 Stelle abbia preso il 25,55% dei voti validi.

Ipotizziamo che la ripartizione dei seggi alla Camera dei Deputati fosse avvenuta con la vecchia legge elettorale (ex art. 77 del DPR 361/1957) in vigore fino al 1993: un democratico proporzionale con attribuzione dei resti più alti col metodo del collegio unico nazionale e lasciando immutata la quota estero e l’uninominale della Valle d’Aosta, avremmo avuto questa situazione:

Si può notare che ci saremmo ritrovati con 5 liste extraparlamentari in meno (Rivoluzione Civile, Fare, La Destra, Grande Sud-Mpa e Die Freiheitlichen), e quindi oltre un milione e mezzo di cittadini avrebbero avuto una loro legittima rappresentanza in Aula, ma ai fini della cosiddetta governabilità sarebbe cambiato poco.

Le sinistre (Pd, Sel, Rc, Cd, Svp) avrebbero avuto 209 seggi contro i 190 delle destre (Pdl, Ln, Fd’I, Fare, La Dx, Gs-Mpa, Die Freih.) e i 66 del centro (Sc, Udc). Fatichiamo a collocare i 4 deputati Vallée d’Aoste, Maie e Usei, anche se dovrebbero essere di centro.

A fare pertanto la differenza anche con questa legge elettorale sarebbero i 161 grillini. Tuttavia la prassi del proporzionale imporrebbe in questo caso al M5s l’onere e l’onore di dover formare un governo e quindi ai grillini di doversi cercare in aula gli almeno 155 deputati necessari per formare una maggioranza. Non è una cosa da poco.

Poiché il porcellum ha dato una maggioranza d’ufficio alla coalizione di Bersani, tocca a quest’ultimo rincorrere Grillo e Casaleggio e rimanere in attesa di un sì o un no come in certi film i gladiatori sconfitti guardavano alla mano dell’imperatore per capire se avrebbero visto la luce del giorno dopo. Con un proporzionale onesto invece chi gode della massima popolarità nell’elettorato avrebbe dovuto farsi subito carico di tutto il peso dell’essere il partito più votato del paese. (Beh, buona giornata).

Se avessimo votato col proporzionale oggi sarebbe Grillo a inseguire Bersani.
Se avessimo votato col proporzionale oggi sarebbe Grillo a inseguire Bersani.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

In piena quarta crisi, nasce in Italia un nuovo quotidiano.

di Pino Cabras – Megachip.info

Sta per nascere un nuovo quotidiano, «Il Fatto», e ha già un volume di abbonati potenziali che appare subito significativo perché sembra voler chiamare a raccolta quanto resta dei “ceti medi riflessivi” italiani.

La cosa merita un po’ di domande e alcune valutazioni. L’iniziativa sembra avere il pregio di poter durare. Come si risponde all’emergenza informativa del nostro paese dominato dall’impresario dello spettacolo che vive la sua fase più sguaiata e pericolosa? C’è un modello imprenditoriale in grado di reggere una nuova impresa nel mondo della comunicazione? Quali sono le sponde politiche?

Sono domande molto attuali, che ci poniamo in piena fase di pericolo per la libertà di parola.

Nel momento in cui sarebbe più necessario che mai poter raccontare una grande crisi, maggiore è invece la difficoltà di fare una buona narrazione e trovare gli strumenti. I media più importanti, nonostante quegli strumenti li abbiano, non li usano, essendo essi stessi troppo dentro le cause della crisi. In Italia, per giunta, questi media sono sotto schiaffo di Papi l’Insaziabile, che insiste ormai ogni giorno per indirizzare ‘pro domo sua’ le risorse pubblicitarie, che con la crisi si sono fatte sempre più scarse. Papi in sostanza che fa? Avverte gli imprenditori con tutta la sua “immoral suasion” affinché non osino finanziare i giornali scomodi. L’avvertimento è pronunciato ormai ogni volta che apre bocca in pubblico. Delimita l’area entro cui il mercato mediatico può funzionare. Per gli altri, fuori dal suo perimetro, pretende che la crisi dell’informazione, un fenomeno mondiale, li strazi più che altrove, perché a loro «bisogna chiudere la bocca».

Negli ultimi due anni, proprio durante l’esordio della grande crisi, sono nate tante iniziative fuori da quel perimetro. C’è chi ha imitato maldestramente la già dimessa Current TV di Al Gore, ma in chiave di bollettino di partito. YouDem è uno specchio perfetto della crisi verticale del Partito Democratico. Non conta quasi nulla nemmeno la cugina dalemiana, Red TV. Sono nati nuovi quotidiani a sinistra, «Terra» e «L’Altro», mentre sono stati investiti da forti trasformazioni editoriali altri quotidiani esistenti, «l’Unità» e «Liberazione». Il loro peso nella società italiana, come la capacità di raccontarla, tendono all’irrilevanza, in ciò riflettendo la dissipazione della sinistra novecentesca in Italia: anche questa è una tendenza di cui le ultime elezioni europee hanno rivelato la portata internazionale.

Ci sono poi le esperienze della Rete. In questi ultimi anni Beppe Grillo ha rafforzato il suo efficiente modello imprenditoriale in cui c’è sinergia fra il suo blog, gli spettacoli, un certo networking su temi politici, sociali e ambientali. Qualche volta l’«azienda Grillo» ha inciso sull’agenda della comunicazione, ma è difficile scalfire un modello di consumo comunicativo nel quale il 70% dei cittadini apprende tutto soltanto dalla TV. Daniele Luttazzi aveva liquidato i V-Day grillini come dei flash mob un po’ più articolati. Allo stesso modo dei flash mob, i raduni di Grillo rompevano la quotidianità, ma poi la quotidianità ritornava, e le urne del vasto blocco sociale berlusconiano si riempivano ugualmente di voti nei giorni delle elezioni. Grillo ha segnato tuttavia una tendenza, così che anche altri comunicatori hanno ricreato “modelli di business” sostenibili in cui al centro c’è internet, la grande ostetrica delle nicchie intellettuali. Anche questa è una tendenza che si manifesta su scala mondiale.

D’altronde i media non sono compartimenti stagni.
Beppe Grillo ha guadagnato il suo primo sostrato di popolarità dalla sua originaria caratura di personaggio televisivo, ha integrato questo patrimonio con lo specifico del teatro, lo ha riportato sul terreno di internet, dove ora fa ritornare anche un certo uso della grammatica delle immagini, che descriverei comunque come “televisive” in mancanza di migliori definizioni.

Si può richiamare un altro esempio di interazione fra media diversi. Marco Travaglio assieme a Elio Veltri aveva scritto un libro nel 2001, “L’odore dei soldi”, che rompeva tutti i tabù mediatici sulla biografia di Berlusconi. Un buon libro può influenzare i lettori, crescere e sedimentarsi anche quando questi lettori siano poche migliaia. Può perfino arrivare in TV. Successe anche a quel libro. Travaglio presentò il suo volume in televisione, e la rottura del tabù pervenne a milioni di persone. Il segmento di mercato librario raggiungibile dal più documentato cronista giudiziario italiano si moltiplicò fino ai suoi confini naturali potenziali, tanto che Travaglio in questo decennio è diventato una macchina mediatica in grado di sfornare decine di best-seller, al punto di dare forma a un “genere”, adoperato in varia misura anche da altri scrittori. Nascono nuove collane e perfino nuove case editrici fondate apposta da quelle più grosse per consentire più agilità ai direttori editoriali nello sfruttamento del filone. Sebbene i punti più delicati delle inchieste di Travaglio non passino se non occasionalmente in televisione, la TV è comunque una piattaforma di lancio non secondaria per l’indotto, assieme ai DVD, ai blog e, recentemente, al teatro. Adesso dunque entra in gioco anche un quotidiano.

L’idea che la televisione sia ancora il formato dominante nella comunicazione è stata invece alla base di Pandora TV, il progetto promosso a partire da un appello di noti intellettuali, giornalisti, personalità dello spettacolo, che ha visto anche Megachip spendersi in prima fila nella promozione. Come oggi spiegano i promotori nel documento in cui rilanciano il progetto, le sottoscrizioni materiali sono state finora nettamente inferiori alle attese e al numero dei firmatari. Sebbene sia «stata costruita un’agenda televisiva insolita, che ti dà l’idea di come potrebbe essere potente una TV con più mezzi, che intenda diffondere quel che qualcuno non vuole che tu sappia», si è scontato un problema più esteso, che riguarda Pandora come altre esperienze: «la profonda crisi culturale e democratica del paese, la spaccatura a sinistra tra intellettuali ormai incapaci di trovare un linguaggio comune e comuni obiettivi, un pubblico sempre più annichilito dall’agonia dell’informazione», senza tralasciare il peso della crisi economica, non certo un buon viatico per investire a fondo perduto in un bene pur essenziale come la comunicazione. Oggi stiamo tentando di riproporre il progetto, perché l’emergenza è ancora più forte di prima. Scontiamo tutta la grande difficoltà del compito, ma il terreno televisivo andrà presidiato in qualche modo.

Intanto, non trasmette ancora Europa 7, la TV generalista di Francesco Di Stefano bloccata per anni dal sistema politico italiano in barba alle leggi con accanimento bipartisan. L’ultima beffa del 2009 è stato concederle un sistema di frequenze che copre solo una minima parte del territorio nazionale. A queste condizioni, se Europa 7 partisse ora fallirebbe in sei mesi. Per la TV – medium ancora dominante – non ci sono di fatto spazi per grandi operazioni se non con disponibilità economiche immense su nuove piattaforme (Murdoch) o con operazioni “corsare” che osino informare e intrattenere rompendo gli schemi (Pandora se avesse risorse).

In questo quadro politico e mediatico nasce dunque l’iniziativa imprenditoriale denominata «Il Fatto Quotidiano», imperniata sulla diretta partecipazione nella compagine sociale di due giornalisti, Antonio Padellaro e Marco Travaglio, rispettivamente con il 22% e l’11% delle azioni, nonché di un soggetto editoriale forte, la casa editrice Chiarelettere (con il 22%), che appartiene interamente al terzo gruppo dell’editoria libraria italiana, le Messaggerie Italiane, un gruppo relativamente poco noto con questa denominazione, mentre sono molto conosciute le tante case editrici che controlla. Oltre a Chiarelettere, sono controllate infatti dalle Messaggerie anche Bompiani, Garzanti, Salani-Ponte alle Grazie, Longanesi, Vallardi, TEA, Guanda, e altre ancora, tra cui l’ultima acquisita, nel luglio 2009, la Bollati Boringhieri. Il fatturato consolidato del gruppo supera il mezzo miliardo di euro. Le copie stampate sono circa dieci milioni all’anno. L’utile registrato negli ultimi bilanci è sempre stato di poco inferiore ai sette milioni di euro. Del gruppo fa parte anche Internet Bookshop Italia (IBS), la più nota piattaforma italiana di vendita di libri on line. Si tratta dunque di un soggetto che, in base a questi e altri parametri, potrebbe ipoteticamente offrire ampie garanzie, fideiussioni e “collaterals” in grado di ridurre drasticamente il rischio d’impresa per una sua nuova iniziativa in fase di “start up”.

Nel quadro dell’operazione è stata lanciata anche una campagna di disponibilità ad abbonarsi al nuovo quotidiano, con 40mila aderenti finora persuasi dalla promessa che «non avrà padroni». È un segno di un possibile successo fra i lettori, anche se questo non dice nulla in merito alla sostenibilità del business una volta che si dovranno fare i conti con la pubblicità e i costi di distribuzione, le note dolentissime dell’attuale crisi dei quotidiani cartacei.

Un quotidiano costa e costerebbe ancora di più senza editori a reggerlo. Senza editori si hanno le mani libere e si rende conto solo ai propri sostenitori e lettori, ma si è troppo esposti ai rovesci. L’elenco dei quotidiani italiani falliti su queste premesse è lunghissimo. «Il Manifesto» è un’eccezione che sopravvive camminando sempre su un filo sottilissimo, pronto a spezzarsi.

L’operazione «Il Fatto», come abbiamo visto, è meno avventata di altre. L’editore industriale c’è.

E c’è anche l’identificazione di una missione politica ed editoriale che ha alcuni margini di espansione, una missione che vede convergere diversi soggetti.

La crisi del Partito Democratico ha concesso estese praterie elettorali all’Italia dei Valori, il partito fondato e dominato da Antonio Di Pietro. Un elettorato numeroso e smarrito osserva con avvilimento la triste parabola dei partiti che normalmente votava, e oscilla tra l’astensione e lo sguardo rivolto a progetti politici diversi (dal partito in cui detta legge Di Pietro fino a Beppe Grillo e alla spinta laica post-girotondina). Sul numero 4/2009 di «Micromega», Paolo Flores d’Arcais fa notare che tra le elezioni politiche del 2008 e quelle europee del 2009 il PD ha perso diecimila voti al giorno, mentre Italia dei Valori ne guadagnava quattromila al giorno. E la sinistra ha confermato l’incapacità di superare i quorum. Su vari candidati dipietristi è arrivato un robusto ‘endorsement’ da parte di testimonial un tempo restii a dare indicazioni di voto: ancora Grillo, ancora Travaglio. E poi il netto schierarsi di «Micromega» e altre riviste e movimenti.

Pura constatazione: si sta formando una galassia di “intellettuali organici” a un progetto, che trova sempre più stabili occasioni di convergenza e luoghi di interazione. La definizione gramsciana di “intellettuale organico”, dal punto di vista metodologico, parte dal fatto che ogni intellettuale è militante; legato in modo “organico” a un gruppo sociale, a una formazione sociale, e riproduce costantemente, perfino inconsciamente, un certo quadro di interessi; senza che questo si traduca necessariamente in una posizione partitica blindata. Un quotidiano che s’inserisse in questo contesto magari non sarebbe un “organo” di partito, ma sarebbe naturalmente “organico” a una proposta politica in divenire.

Per via delle dinamiche elettorali in corso, le liste dell’Italia dei Valori-Di Pietro sono diventate un campo gravitazionale in grado di ricomporre e attrarre con una certa forza quella parte di opposizione che intende consistere in sé e per sé e vuole difendere la Costituzione sotto scacco. Quella parte sa bene che Di Pietro sui contenuti – adottati con disinvoltura a tratti cinica – interviene con la prontezza di un vero “imprenditore del consenso”: realizza “affari politici” in tempi che un tipico esponente del PD non realizzerebbe mai, e lo fa in modi sostanziali e spregiudicati. Questa opposizione in fieri è talmente consapevole di alcuni difetti costitutivi dell’«azienda Di Pietro» che fa di tutto per enfatizzare le possibili correzioni promesse dal capo del partito.
Travaglio ha scritto ad esempio qualche riga di coinvolto e partecipe incoraggiamento nei confronti dei modesti segnali di cambiamento nello statuto del partito, finora corazzato in modo proprietario nelle mani del furbo Tonino.
Flores D’Arcais intervista Di Pietro con lo stesso tono partecipe, chiedendogli – già nello speranzoso titolo del dialogo su «MicroMega» – «cosa vuol fare l’IDV da grande?»

Di Pietro ha un disegno. Nell’aprire parzialmente la sua macchina politica alla galassia degli intellettuali, allarga la classe dirigente e punta a un raddoppio dei consensi. Cioè un partito del 16%. Il che forse corrisponde al numero di elettori che vedono al primo posto la questione della legalità sopra tutti gli altri temi. Di fronte all’afasia del PD è una prospettiva plausibile, tanto più verosimile quanto più il progetto si dimostri in grado di captare in modo più strutturato i famosi “ceti medi riflessivi”, per svariati motivi non più rappresentabili dal PD. Per una tale strutturazione la presenza nell’area di un giornale quotidiano – ancorché non finanziato dal partito – potrebbe essere un pezzo importante del mosaico.
I vari media hanno raggi d’azione diversi, imprimono effetti sulla realtà che non derivano solo dal numero di persone raggiunte direttamente, ma pure dall’influenza che possono esercitare su gruppi particolari, sulle élite, su strati di cittadini particolarmente attivi che a loro volta interagiscono con altri.

Al mosaico mancano alcuni pezzi.

Innanzitutto quale sarà il peso delle questioni internazionali, così centrali per capire le emergenze ambientali ed economiche di oggi? I quotidiani italiani su questo fronte non hanno informato bene, per usare un eufemismo. Quale sarà l’analisi degli scenari di guerra? Il foglio di Travaglio & C. saprà liberarsi dagli schemi dei dinosauri della Guerra Fredda su molte decisive questioni? Questo non lo sappiamo ancora, ed è un tema altrettanto fondamentale quanto quello della legalità interna.

Un altro pezzo del mosaico è la questione del pubblico di riferimento per l’informazione. Un quotidiano, quando le cose riescono bene, fa riflettere il caro vecchio “homo legens”. E magari gli dà strumenti per agire e contare, specie se si trova in posizioni in cui decide. Un articolo che lascia un buco informativo ai giornali che ignorano i fatti fa sempre rumore e li mette in una posizione scomoda. Tuttavia quel quotidiano da solo non raggiungerà il nuovo “homo videns”, che rappresenta la maggioranza dei cittadini. Posto che – per le ragioni prima accennate – aumentano le convergenze fra segmenti comunicativi diversi (quotidiani, rete, TV) rimane un incombenza per chi vuole rafforzare l’informazione libera: è quella di non smarrire l’importanza di un percorso per immagini e contenuti di tipo televisivo.

Un’ultima considerazione. Ho usato più volte in modo intercambiabile i termini informazione e comunicazione. In realtà la comunicazione è un fatto molto più ampio dell’informazione.
Si fa bene a essere sensibili al tema dell’informazione. Ma questa è una componente sottile di tutta la corrente dei messaggi, in cui prevalgono le concezioni del mondo date da intrattenimento e pubblicità. La grande manipolazione dei media ha certo come ingrediente di base l’inganno informativo nonché la scomparsa dei fatti e delle domande scomode, ma il grosso di essa si compie nel resto della comunicazione, ampiamente fruita dalla maggioranza dei cittadini.

Il nuovo quotidiano aprirà qualche finestra in più davanti alla coscienza democratica dell’Italia e perciò mi auguro che possa avere successo, intanto che però mi pongo il problema di fondo, ancora irrisolto: come aprire le porte e finestre più importanti, come varcare la soglia delle stanze in cui si decide la vera colonizzazione delle menti, per immagini ed emozioni. (Beh, buona giornata)

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

Niente fiori, ma dimissioni sulle tombe dei morti di Viareggio.

Questo invito è rivolto a: i ministri Sacconi (lavoro) e Matteoli (infrastrutture e trasporti); l’on Mario Valducci (commissione trasporti Camera dei Deputati); il sen. Luigi Grillo (commissione lavori pubblici e comunicazione Senato della Repubblica); il Vice presidente della Commissione europea, responsabile per la politica dei Trasporti, Tajani; il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Bertolaso (capo del dipartimento della Protezione civile); l’on. Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana. Beh, buona giornata.

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