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La dittatura mediatica.

Avete presente quando le orche marine fanno le loro evoluzioni e poi sbattono, gettandosi di peso, fragorosamente sulle onde del mare producendo copiosi schizzi d’acqua? Esattamente come quando l’altra sera Giuliano Ferrara dai microfoni di Radio Londra, luogo televisivo che continua a occupare, nonostante gli ascolti lo puniscano, come continuano a punire il Tg di Minzolini, esattamente come Giuliano Ferrara, quando si è buttato a pesce sulle tesi sostenute su Il Manifesto da Alberto Asor Rosa.

Asor Rosa dice cose giuste: la nostra democrazia è al collasso, il berlusconismo che si compra tutto, si è comprato anche la democrazia parlamentare, la situazione di impotenza istituzionale è paragonabile alla presa del potere di Mussolini e di Hitler. I quali non andarono al potere con un golpe, ma sfruttando la totale debolezza politica delle istituzioni del tempo, si fecero incaricare, sfruttando le pieghe delle regole istituzionali.

E qui la similitudine tra la debolezza dell’attuale opposizione con l’inconsistenza delle opposizioni sia nell’Italia del ’24 che nella Germania del ’33 è, ahinoi, lampante.

Asor Rosa suggestiona l’idea che lo Stato scateni le forze dell’ordine contro il berlusconismo. Idea balzana, ma che la dice lunga sulla totale sfiducia nella possibilità di un cambiamento. Asor Rosa dice che non è prevedibile un cambiamento promosso dal “basso”, vale a dire promosso dai cittadini, le associazioni, dalla base popolare dei partiti, dalle forze del lavoro, dello studio, della cultura.

Forse, piuttosto che attardarsi sulle ipotesi di “golpe istituzionale”, bisognerebbe capire perché l’indignazione per le porcherie del governo Berlusconi non riesce a diventare forza di trasformazione, che metta in moto un processo di superamento di questi partiti, di queste forze politiche, per arrivare a prefigurare una vera alternativa alla crisi della democrazia italiana.

Una delle ragioni è sicuramente la dittatura mediatica, esercitata contro la democrazia del nostro Paese. Una dittatura feroce, capillare, letale per le coscienze. Quella dittatura che si esplicita all’insegna del semplice “se vuole fare carriera, sposi un uomo ricco”, oppure se da precario cerchi lavoro, cerca di fare il provino per “Non è mai troppo tardi”, talent show prossimamente condotto da Signorini, uno dei lacché del signor B. La vicenda delle sconsiderate nottate del capo del Governo ci ha spiegato con dovizia di particolari che il bunga-bunga è un modo per far carriera nel mondo dello spettacolo e che anche la politica, in Italia, fa parte del mondo dello spettacolo. D’altro canto, “I responsabili”, il gruppo parlamentare di Mimmo “monnizza” Scilipoti non sembra forse il titolo di un programma tv?

Il fatto è che questa dittatura mediatica si esercita soprattutto quando si distrae il pubblico dalla politica vera, dal reale disagio sociale, dalle proteste di massa che hanno invaso le piazze del Paese. Secondo l’Osservatorio di Pavia, le reti televisive italiane hanno dedicato nel 2010 alle vicende di nera e processuali nei rispettivi telegiornali: 867 servizi all’omicidio di Avetrana, 204 al caso Claps; 98 al delitto di Perugia, 55 al delitto di Garlasco. Senza contare i talk show, con tanto di criminologi, plastici, e ospiti tuttologi a comando. Il collasso di cui parla Asor Rosa non è solo istituzionale, è sistemico.

Il conflitto di interessi è stato superato brillantemente dai fatti: oggi in Italia la politica è solo una questione di interessi personali, la tv è ormai solo una commodity di quegli interessi. Beh, buona giornata.

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Una fotografia della carta stampata a sinistra in Italia.

(fonte: blitzquotidiano.it)
Le voci della sinistra si sono moltiplicate e l’offerta in edicola è ampia e variegata. Si espande infatti la galassia di carta con risultati sorprendenti (anche se non tutti i giornali sono certificati), e con una nuova platea che si fa largo: Il Fatto è la sorpresa di quest’anno, l’Unità è in buona salute e cresce rispetto all’anno scorso, più o meno stabili Liberazione e il Manifesto così come il Riformista.

Nell’elenco ci sono anche Gli altri di Piero Sansonetti (4000 copie vendute), e Terra che rappresenta l’istanza ecologista. Il Fatto è l’ultimo arrivato, seguito – ma solo in questo – nella sua scelta di rinunciare ai finanziamenti pubblici – dal Clandestino, il quotidiano di David Parenzo e Pierluigi Diaco in edicola da qualche giorno.

Il giornale fondato da Antonio Padellaro e Marco Travaglio – considerando i dati – è il fenomeno dell’anno: nato il 23 settembre, dopo una campagna di promozione che ha attraversato tutta l’Italia, si è assestato nell’ultimo mese su una media di 65 mila copie vendute. Nei suoi primi trenta giorni di vita la media è stata di 75 mila. In più ci sono i quarantunomila abbonamenti postali e on line.

Un giornale da centomila copie: il picco con 133 mila l’8 ottobre, il giorno dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il Lodo Alfano. Dieci redattori, venti pagine, tante firme, collaboratori autorevoli e free lance anche all’estero, Il Fatto rappresenta un nuovo pubblico e ‘pesca’ in una inedita fetta di mercato: i lettori mostrano di apprezzare il giornale con le sue scelte nette e per la riuscita integrazione con Internet.

Nel momento della sua uscita, l’idea comune era che avrebbe portato via copie ai suoi ‘fratelli’, primo fra tutti l’Unità, ma questo non è accaduto. L’Unità, firmata da Concita De Gregorio dal 25 agosto 2008, è in crescita: a ottobre l’indice positivo è del 9,8 %, 55.672 copie di media giornaliera contro le 50.716 dell’ottobre del 2008 (dati Fieg).

Il Fatto ha quindi raccolto consensi in altri e inesplorati ambiti: i suoi lettori – secondo gli analisti – sono giovani, più vicini ad Antonio Di Pietro che a Pierluigi Bersani, quelli che riempiono teatri e piazze alle presentazioni dei libri di Marco Travaglio e agli spettacoli di Sabina Guzzanti, lontani dai partiti tradizionali e contro Silvio Berlusconi. Una conferma a questa tesi arriva dai dati riguardanti gli altri giornali.

Il Manifesto, storica testata diretta da Valentino Parlato e gestita da un collettivo di giornalisti, secondo i dati forniti dal giornale, vende circa 24 mila copie giornaliere (primo semestre 2009) , senza registrare particolari fluttuazioni rispetto al 2008. Né rispetto all’uscita del Fatto: nei giorni successivi al 23 settembre ha accusato un calo temporaneo di 400-500 copie.

Stabile Liberazione, organo di Rifondazione Comunista: le vendite – spiegano al giornale – sono di circa 10 mila copie al giorno. Un nocciolo duro di lettori rimasti fedeli alla linea del direttore Dino Greco subentrato a Piero Sansonetti, rimosso dal suo incarico per volontà della segreteria di Rifondazione guidata da Paolo Ferrero.

Sansonetti, per cinque anni alla guida di Liberazione, ha dato vita a Gli Altri. Il primo numero è uscito il 12 maggio di quest’anno: la vendità è di circa 4000 copie. Il Riformista completa il puzzle: il quotidiano, fondato da Antonio Polito e ideato dall’ex consigliere politico di Massimo D’Alema, Claudio Velardi, è stabile su 12-15 mila copie vendute, secondo le cifre fornite dallo stesso giornale. Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media: il medium cambia, cambiamo il messaggio.

CENSIS E MEDIA La crisi seleziona:su i prodotti gratuiti e i social network-di FRANCESCO PICCIONI, Il Manifesto

Il messaggio batte il /medium/, McLuhan non abita più questo mondo.
L’ottavo rapporto del Censis sulla comunicazione («I media tra crisi e metamorfosi») registra e tematizza i cambiamenti più rilevanti nell’arco degli ultimi 10 anni. E decreta, in parte, «la rivincita dello spettatore», che non accetta più di esser preda dell’«ipnotismo televisivo» e passa all’«azione diretta».

I diversi media diventano relativamente indifferenti, di fronte a una ricerca di informazione e socializzazione (sia pure virtuale) che vede il singolo teso a soddisfare i propri interessi saltando a pie’ pari la mediazione del produttore di contenuti. Almeno all’apparenza, perché – nell’indescrivibile quantità di informazioni disponibili – «risulta sempre più difficile cogliere il confine tra verità e finzione, tra eventi del mondo reale e prodotti della fantasia».

Questo individuo-agente, infatti, è a sua volta un prodotto. Di un lungo processo sociale di «affermazione del primato del soggetto», per un verso, della disponibilità a basso costo delle tecnologie digitali, per l’altro. In ogni caso, rappresenta solo una metà della società italiana, per lo più giovanile o con buoni livelli di istruzione; che convive con una quota altrettanto rilevante di «vittime del /digital divide/», escluse per età, reddito o formazione dall’uso di questi media. Ma entrambe le metà convergono nel momento in cui solo un soggetto è chiamato a garantire la «verificabilità» delle informazioni: la tv. La ricerca conferma che «ad orientare le scelte di voto della grande maggioranza degli italiani sono i telegiornali delle tv generaliste nazionali».

La conclusione è solo apparentemente paradossale, perché l’effettiva totale libertà individuale – nel reperimento delle informazioni secondo una personale scala di priorità, nella formazione dell’opinione – si scontra con due limiti ineliminabili: l’individuale /capacità di discernere/ (cultura, livelli di istruzioni, esperienza) e l’/attendibilità/ delle informazioni (comunque «confezionate» da altri).

Proprio la modalità di fruizione dei contenuti digitali (rapide, spesso casuali, im-mediate) brucia quello che Giuseppe De Rita chiama «il prefisso ‘ri’ (riflettere, ritornare, ripensare)», identificato da sempre come «il fondamento della cultura». Tradotto: nella giungla delle informazioni digitali ci si muove senza più una guida. Finché non la si ritrova sullo schermo che tutto riunisce: quello televisivo.

La crisi economica ha accelerato questi processi. Creando ora anche un /press divide/, una massa crescente di persone che ha eliminato la stampa su carta dalla propria «dieta mediatica»: il 39,3%. Non solo analfabeti di ritorno, ma anche giovani e adulti istruiti. Se infatti il numero di quanti usano internet si è stabilizzato (47%, crescerà ormai solo con il normale «tasso di sostituzione generazionale»), si è intensificato il suo utilizzo a scapito della stampa (dal 6 al 12,9%) – e persino della /free press/ – con i quotidiani che hanno visto calare le vendite del 15% in soli due anni. Soprattutto, la crisi ha favorito «l’espansione dei mezzi gratuiti e la sostanziale battuta d’arresto di quelli a pagamento». O meglio, ha favorito quei media che permettono di avere il massimo di servizi informativi col minimo di costi economici.

Quindi sì all’Adsl e alla tv a pagamento (con boucquet che coprono tutti gli interessi familiari, dal calcio ai cartoon, ai serial); sì ai cellulari, ma solo nelle versioni /basic/ (telefonate e sms); sì soprattutto alla radio (+12,4%), che copre in buona parte i bisogni di ben 13 milioni di pendolari. Sopravvivono i libri, ma molto ci sarebbe da dire sullo «spessore» di quelli che «vendono». La tv, si diceva, raggiunge proprio tutti (98%); ma via web ha triplicato gli adepti in due anni. L’ampliamento delle scelte possibili fa della rete il medium ideale di chi vuole «agire». Lo svluppo impetuoso dei /social network/ (Facebook, YouTube, Messenger, ecc) risponde a un’esigenza di socializzazione attiva che è già una reazione all’isolamento individuale.

Ma cambia radicalmente anche il modo di pianificare il marketing (qualsiasi produttore professionale di contenuti, in rete, sopravvive solo grazie alla raccoltà pubblicitaria). Il fenomeno era «preesistente alla crisi economica, che però lo ha sottolineato».

Per Marco Ferri, del Consorziocreativi, «è il momento di capovolgere il paradigma, e lo devono comprendere anche le imprese: quando decidono un budget prima si devono comprare una buona idea, e poi vedere come veicolarla, non viceversa». Vale anche per i quotidiani: «chi indovina la nuova formula fa bingo, gli altri…». (Beh, buona giornata)

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In piena quarta crisi, nasce in Italia un nuovo quotidiano.

di Pino Cabras – Megachip.info

Sta per nascere un nuovo quotidiano, «Il Fatto», e ha già un volume di abbonati potenziali che appare subito significativo perché sembra voler chiamare a raccolta quanto resta dei “ceti medi riflessivi” italiani.

La cosa merita un po’ di domande e alcune valutazioni. L’iniziativa sembra avere il pregio di poter durare. Come si risponde all’emergenza informativa del nostro paese dominato dall’impresario dello spettacolo che vive la sua fase più sguaiata e pericolosa? C’è un modello imprenditoriale in grado di reggere una nuova impresa nel mondo della comunicazione? Quali sono le sponde politiche?

Sono domande molto attuali, che ci poniamo in piena fase di pericolo per la libertà di parola.

Nel momento in cui sarebbe più necessario che mai poter raccontare una grande crisi, maggiore è invece la difficoltà di fare una buona narrazione e trovare gli strumenti. I media più importanti, nonostante quegli strumenti li abbiano, non li usano, essendo essi stessi troppo dentro le cause della crisi. In Italia, per giunta, questi media sono sotto schiaffo di Papi l’Insaziabile, che insiste ormai ogni giorno per indirizzare ‘pro domo sua’ le risorse pubblicitarie, che con la crisi si sono fatte sempre più scarse. Papi in sostanza che fa? Avverte gli imprenditori con tutta la sua “immoral suasion” affinché non osino finanziare i giornali scomodi. L’avvertimento è pronunciato ormai ogni volta che apre bocca in pubblico. Delimita l’area entro cui il mercato mediatico può funzionare. Per gli altri, fuori dal suo perimetro, pretende che la crisi dell’informazione, un fenomeno mondiale, li strazi più che altrove, perché a loro «bisogna chiudere la bocca».

Negli ultimi due anni, proprio durante l’esordio della grande crisi, sono nate tante iniziative fuori da quel perimetro. C’è chi ha imitato maldestramente la già dimessa Current TV di Al Gore, ma in chiave di bollettino di partito. YouDem è uno specchio perfetto della crisi verticale del Partito Democratico. Non conta quasi nulla nemmeno la cugina dalemiana, Red TV. Sono nati nuovi quotidiani a sinistra, «Terra» e «L’Altro», mentre sono stati investiti da forti trasformazioni editoriali altri quotidiani esistenti, «l’Unità» e «Liberazione». Il loro peso nella società italiana, come la capacità di raccontarla, tendono all’irrilevanza, in ciò riflettendo la dissipazione della sinistra novecentesca in Italia: anche questa è una tendenza di cui le ultime elezioni europee hanno rivelato la portata internazionale.

Ci sono poi le esperienze della Rete. In questi ultimi anni Beppe Grillo ha rafforzato il suo efficiente modello imprenditoriale in cui c’è sinergia fra il suo blog, gli spettacoli, un certo networking su temi politici, sociali e ambientali. Qualche volta l’«azienda Grillo» ha inciso sull’agenda della comunicazione, ma è difficile scalfire un modello di consumo comunicativo nel quale il 70% dei cittadini apprende tutto soltanto dalla TV. Daniele Luttazzi aveva liquidato i V-Day grillini come dei flash mob un po’ più articolati. Allo stesso modo dei flash mob, i raduni di Grillo rompevano la quotidianità, ma poi la quotidianità ritornava, e le urne del vasto blocco sociale berlusconiano si riempivano ugualmente di voti nei giorni delle elezioni. Grillo ha segnato tuttavia una tendenza, così che anche altri comunicatori hanno ricreato “modelli di business” sostenibili in cui al centro c’è internet, la grande ostetrica delle nicchie intellettuali. Anche questa è una tendenza che si manifesta su scala mondiale.

D’altronde i media non sono compartimenti stagni.
Beppe Grillo ha guadagnato il suo primo sostrato di popolarità dalla sua originaria caratura di personaggio televisivo, ha integrato questo patrimonio con lo specifico del teatro, lo ha riportato sul terreno di internet, dove ora fa ritornare anche un certo uso della grammatica delle immagini, che descriverei comunque come “televisive” in mancanza di migliori definizioni.

Si può richiamare un altro esempio di interazione fra media diversi. Marco Travaglio assieme a Elio Veltri aveva scritto un libro nel 2001, “L’odore dei soldi”, che rompeva tutti i tabù mediatici sulla biografia di Berlusconi. Un buon libro può influenzare i lettori, crescere e sedimentarsi anche quando questi lettori siano poche migliaia. Può perfino arrivare in TV. Successe anche a quel libro. Travaglio presentò il suo volume in televisione, e la rottura del tabù pervenne a milioni di persone. Il segmento di mercato librario raggiungibile dal più documentato cronista giudiziario italiano si moltiplicò fino ai suoi confini naturali potenziali, tanto che Travaglio in questo decennio è diventato una macchina mediatica in grado di sfornare decine di best-seller, al punto di dare forma a un “genere”, adoperato in varia misura anche da altri scrittori. Nascono nuove collane e perfino nuove case editrici fondate apposta da quelle più grosse per consentire più agilità ai direttori editoriali nello sfruttamento del filone. Sebbene i punti più delicati delle inchieste di Travaglio non passino se non occasionalmente in televisione, la TV è comunque una piattaforma di lancio non secondaria per l’indotto, assieme ai DVD, ai blog e, recentemente, al teatro. Adesso dunque entra in gioco anche un quotidiano.

L’idea che la televisione sia ancora il formato dominante nella comunicazione è stata invece alla base di Pandora TV, il progetto promosso a partire da un appello di noti intellettuali, giornalisti, personalità dello spettacolo, che ha visto anche Megachip spendersi in prima fila nella promozione. Come oggi spiegano i promotori nel documento in cui rilanciano il progetto, le sottoscrizioni materiali sono state finora nettamente inferiori alle attese e al numero dei firmatari. Sebbene sia «stata costruita un’agenda televisiva insolita, che ti dà l’idea di come potrebbe essere potente una TV con più mezzi, che intenda diffondere quel che qualcuno non vuole che tu sappia», si è scontato un problema più esteso, che riguarda Pandora come altre esperienze: «la profonda crisi culturale e democratica del paese, la spaccatura a sinistra tra intellettuali ormai incapaci di trovare un linguaggio comune e comuni obiettivi, un pubblico sempre più annichilito dall’agonia dell’informazione», senza tralasciare il peso della crisi economica, non certo un buon viatico per investire a fondo perduto in un bene pur essenziale come la comunicazione. Oggi stiamo tentando di riproporre il progetto, perché l’emergenza è ancora più forte di prima. Scontiamo tutta la grande difficoltà del compito, ma il terreno televisivo andrà presidiato in qualche modo.

Intanto, non trasmette ancora Europa 7, la TV generalista di Francesco Di Stefano bloccata per anni dal sistema politico italiano in barba alle leggi con accanimento bipartisan. L’ultima beffa del 2009 è stato concederle un sistema di frequenze che copre solo una minima parte del territorio nazionale. A queste condizioni, se Europa 7 partisse ora fallirebbe in sei mesi. Per la TV – medium ancora dominante – non ci sono di fatto spazi per grandi operazioni se non con disponibilità economiche immense su nuove piattaforme (Murdoch) o con operazioni “corsare” che osino informare e intrattenere rompendo gli schemi (Pandora se avesse risorse).

In questo quadro politico e mediatico nasce dunque l’iniziativa imprenditoriale denominata «Il Fatto Quotidiano», imperniata sulla diretta partecipazione nella compagine sociale di due giornalisti, Antonio Padellaro e Marco Travaglio, rispettivamente con il 22% e l’11% delle azioni, nonché di un soggetto editoriale forte, la casa editrice Chiarelettere (con il 22%), che appartiene interamente al terzo gruppo dell’editoria libraria italiana, le Messaggerie Italiane, un gruppo relativamente poco noto con questa denominazione, mentre sono molto conosciute le tante case editrici che controlla. Oltre a Chiarelettere, sono controllate infatti dalle Messaggerie anche Bompiani, Garzanti, Salani-Ponte alle Grazie, Longanesi, Vallardi, TEA, Guanda, e altre ancora, tra cui l’ultima acquisita, nel luglio 2009, la Bollati Boringhieri. Il fatturato consolidato del gruppo supera il mezzo miliardo di euro. Le copie stampate sono circa dieci milioni all’anno. L’utile registrato negli ultimi bilanci è sempre stato di poco inferiore ai sette milioni di euro. Del gruppo fa parte anche Internet Bookshop Italia (IBS), la più nota piattaforma italiana di vendita di libri on line. Si tratta dunque di un soggetto che, in base a questi e altri parametri, potrebbe ipoteticamente offrire ampie garanzie, fideiussioni e “collaterals” in grado di ridurre drasticamente il rischio d’impresa per una sua nuova iniziativa in fase di “start up”.

Nel quadro dell’operazione è stata lanciata anche una campagna di disponibilità ad abbonarsi al nuovo quotidiano, con 40mila aderenti finora persuasi dalla promessa che «non avrà padroni». È un segno di un possibile successo fra i lettori, anche se questo non dice nulla in merito alla sostenibilità del business una volta che si dovranno fare i conti con la pubblicità e i costi di distribuzione, le note dolentissime dell’attuale crisi dei quotidiani cartacei.

Un quotidiano costa e costerebbe ancora di più senza editori a reggerlo. Senza editori si hanno le mani libere e si rende conto solo ai propri sostenitori e lettori, ma si è troppo esposti ai rovesci. L’elenco dei quotidiani italiani falliti su queste premesse è lunghissimo. «Il Manifesto» è un’eccezione che sopravvive camminando sempre su un filo sottilissimo, pronto a spezzarsi.

L’operazione «Il Fatto», come abbiamo visto, è meno avventata di altre. L’editore industriale c’è.

E c’è anche l’identificazione di una missione politica ed editoriale che ha alcuni margini di espansione, una missione che vede convergere diversi soggetti.

La crisi del Partito Democratico ha concesso estese praterie elettorali all’Italia dei Valori, il partito fondato e dominato da Antonio Di Pietro. Un elettorato numeroso e smarrito osserva con avvilimento la triste parabola dei partiti che normalmente votava, e oscilla tra l’astensione e lo sguardo rivolto a progetti politici diversi (dal partito in cui detta legge Di Pietro fino a Beppe Grillo e alla spinta laica post-girotondina). Sul numero 4/2009 di «Micromega», Paolo Flores d’Arcais fa notare che tra le elezioni politiche del 2008 e quelle europee del 2009 il PD ha perso diecimila voti al giorno, mentre Italia dei Valori ne guadagnava quattromila al giorno. E la sinistra ha confermato l’incapacità di superare i quorum. Su vari candidati dipietristi è arrivato un robusto ‘endorsement’ da parte di testimonial un tempo restii a dare indicazioni di voto: ancora Grillo, ancora Travaglio. E poi il netto schierarsi di «Micromega» e altre riviste e movimenti.

Pura constatazione: si sta formando una galassia di “intellettuali organici” a un progetto, che trova sempre più stabili occasioni di convergenza e luoghi di interazione. La definizione gramsciana di “intellettuale organico”, dal punto di vista metodologico, parte dal fatto che ogni intellettuale è militante; legato in modo “organico” a un gruppo sociale, a una formazione sociale, e riproduce costantemente, perfino inconsciamente, un certo quadro di interessi; senza che questo si traduca necessariamente in una posizione partitica blindata. Un quotidiano che s’inserisse in questo contesto magari non sarebbe un “organo” di partito, ma sarebbe naturalmente “organico” a una proposta politica in divenire.

Per via delle dinamiche elettorali in corso, le liste dell’Italia dei Valori-Di Pietro sono diventate un campo gravitazionale in grado di ricomporre e attrarre con una certa forza quella parte di opposizione che intende consistere in sé e per sé e vuole difendere la Costituzione sotto scacco. Quella parte sa bene che Di Pietro sui contenuti – adottati con disinvoltura a tratti cinica – interviene con la prontezza di un vero “imprenditore del consenso”: realizza “affari politici” in tempi che un tipico esponente del PD non realizzerebbe mai, e lo fa in modi sostanziali e spregiudicati. Questa opposizione in fieri è talmente consapevole di alcuni difetti costitutivi dell’«azienda Di Pietro» che fa di tutto per enfatizzare le possibili correzioni promesse dal capo del partito.
Travaglio ha scritto ad esempio qualche riga di coinvolto e partecipe incoraggiamento nei confronti dei modesti segnali di cambiamento nello statuto del partito, finora corazzato in modo proprietario nelle mani del furbo Tonino.
Flores D’Arcais intervista Di Pietro con lo stesso tono partecipe, chiedendogli – già nello speranzoso titolo del dialogo su «MicroMega» – «cosa vuol fare l’IDV da grande?»

Di Pietro ha un disegno. Nell’aprire parzialmente la sua macchina politica alla galassia degli intellettuali, allarga la classe dirigente e punta a un raddoppio dei consensi. Cioè un partito del 16%. Il che forse corrisponde al numero di elettori che vedono al primo posto la questione della legalità sopra tutti gli altri temi. Di fronte all’afasia del PD è una prospettiva plausibile, tanto più verosimile quanto più il progetto si dimostri in grado di captare in modo più strutturato i famosi “ceti medi riflessivi”, per svariati motivi non più rappresentabili dal PD. Per una tale strutturazione la presenza nell’area di un giornale quotidiano – ancorché non finanziato dal partito – potrebbe essere un pezzo importante del mosaico.
I vari media hanno raggi d’azione diversi, imprimono effetti sulla realtà che non derivano solo dal numero di persone raggiunte direttamente, ma pure dall’influenza che possono esercitare su gruppi particolari, sulle élite, su strati di cittadini particolarmente attivi che a loro volta interagiscono con altri.

Al mosaico mancano alcuni pezzi.

Innanzitutto quale sarà il peso delle questioni internazionali, così centrali per capire le emergenze ambientali ed economiche di oggi? I quotidiani italiani su questo fronte non hanno informato bene, per usare un eufemismo. Quale sarà l’analisi degli scenari di guerra? Il foglio di Travaglio & C. saprà liberarsi dagli schemi dei dinosauri della Guerra Fredda su molte decisive questioni? Questo non lo sappiamo ancora, ed è un tema altrettanto fondamentale quanto quello della legalità interna.

Un altro pezzo del mosaico è la questione del pubblico di riferimento per l’informazione. Un quotidiano, quando le cose riescono bene, fa riflettere il caro vecchio “homo legens”. E magari gli dà strumenti per agire e contare, specie se si trova in posizioni in cui decide. Un articolo che lascia un buco informativo ai giornali che ignorano i fatti fa sempre rumore e li mette in una posizione scomoda. Tuttavia quel quotidiano da solo non raggiungerà il nuovo “homo videns”, che rappresenta la maggioranza dei cittadini. Posto che – per le ragioni prima accennate – aumentano le convergenze fra segmenti comunicativi diversi (quotidiani, rete, TV) rimane un incombenza per chi vuole rafforzare l’informazione libera: è quella di non smarrire l’importanza di un percorso per immagini e contenuti di tipo televisivo.

Un’ultima considerazione. Ho usato più volte in modo intercambiabile i termini informazione e comunicazione. In realtà la comunicazione è un fatto molto più ampio dell’informazione.
Si fa bene a essere sensibili al tema dell’informazione. Ma questa è una componente sottile di tutta la corrente dei messaggi, in cui prevalgono le concezioni del mondo date da intrattenimento e pubblicità. La grande manipolazione dei media ha certo come ingrediente di base l’inganno informativo nonché la scomparsa dei fatti e delle domande scomode, ma il grosso di essa si compie nel resto della comunicazione, ampiamente fruita dalla maggioranza dei cittadini.

Il nuovo quotidiano aprirà qualche finestra in più davanti alla coscienza democratica dell’Italia e perciò mi auguro che possa avere successo, intanto che però mi pongo il problema di fondo, ancora irrisolto: come aprire le porte e finestre più importanti, come varcare la soglia delle stanze in cui si decide la vera colonizzazione delle menti, per immagini ed emozioni. (Beh, buona giornata)

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