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Il tonfo di Endemol: il format e la sostanza.

S’è rotto l’uovo di Colombo. Fare programmi a basso costo, di bassa qualità con un’ alta redditività pubblicitaria non paga più. Il tonfo di Endemol lo ha dimostrato. La televisione ha ingannato per anni gli inserzionisti pubblicitari, vendendogli format in grado di fare ascolti, che si volevano trasformati in altrettanti contatti utili alle campagne pubblicitarie. Ma a un certo punto il giocattolo si è rotto. Perché il successo di alcuni programmi era effimero, gonfiato dalle società di rilevamento dell’audience. Quando la crisi ha cominciato a picchiare duro, sono crollati i consumi, dunque le vendite, dunque gli introiti. E le grandi compagnie hanno cominciato a disinvestire in pubblicità televisiva.

Ecco la verità del tonfo di Endemol. Una verità che in Italia è ancora più rimarchevole. Pensate solo al fatto che Mediaset è la più grande compagnia del settore televisivo privato, ma è anche azionista di Auditel, ma è anche proprietaria di Endemol. Se poi non ci dimenticassimo che il capo di tutto questo è anche il capo del governo italiano, dovremmo tenere a mente che nel 2009 Berlusconi, che è anche il capo di Mediaset, di Auditel e di Endemol diceva che la crisi non c’era, poi che era alle spalle, poi che non bisognava investire pubblicità sulle testate “catastrofiste”. Risultato?

Secondo Nielsen Media Reaserch, compagnia americana operante anche in Italia, specializzata nelle ricerche di mercato, la raccolta pubblicitaria nelle tv italiane nel 2009 è scesa a -10%. Dunque, “Il Grande Fratello”, piuttosto che “Chi vuol essere milionario”, piuttosto che “Che tempo che fa”, tanto per citare solo alcuni format targati Endemol non sono riusciti a fermare la crisi dei consumi e di conseguenza la crisi degli investimenti pubblicitari in televisione. La formula secondo la quale, più abbasso la qualità più rendo fruibile la visione, più è facile inserirvi la pubblicità, più è garantito il successo delle vendite è andato a farsi friggere.

Il tonfo di Endemol non è un fatto semplicemente finanziario. E’ la prova provata della crisi di un modello di business della pubblicità. Se i consumatori se ne sono accorti, tanto da non dare più retta ai “consigli per gli acquisti” in tv; se i telespettatori se ne sono accorti, tanto da non accordare gli stessi livelli di audience; se gli investitori se ne sono accorti, tanto da penalizzare la tv a favore di internet; quello che stupisce è che non se ne siano accorti in tempo Goldman Sachs, Mediaset e Jon De Mol. Ma forse no. Dopo le “bolle speculative” cui siamo stati abituati, cosa volete che siano le “balle speculative” che sono state raccontate in questi anni ai consumatori, ai telespettatori e agli investitori pubblicitari?

Insomma, il vero reality show non è andato in onda nelle case dei telespettatori, è andato in sala riunione delle case produttrici di prodotti e servizi, ingannati dalla facilità con la quale gli si potevano vendere mediocri programmazioni televisive, da farcire con mirabolanti pianificazioni pubblicitarie. Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Freedom House: in Italia la televisione fa molto male all’informazione.

Giornalismo, rapporto Usa: solo grazie a giornali e internet in Italia informazione parzialmente libera: colpa della tv-blitzquotidiano.it

L’informazione italiana continua a essere “parzialmente libera” anche se i giornali stampati e internet sono totalmente liberi, a causa della pesante concentrazione nel campo della tv e la crescente interferenza da parte del governo nelle scelte editoriali del servizio pubblico televisivo. Lo afferma il rapporto annuale di Freedom House, un’organizzazione americana che monitora sin dal 1980 la libertà di stampa a livello mondiale.

Si tratta di un giudizio che fa della tv il centro dell’informazione di un paese e non dà il giusto peso che hanno i giornali e in misura crescente i siti internet nella informazione della opinione pubblica. I giornali in Italia sono liberi, ognuno può scrivere quello che vuole anche se nessun giornale ospiterebbe stabilmente articoli di collaboratori di tendenza contraria a quella del giornale stesso.

Questo vale per tutti i giornali, anche quelli che si sostengono unici difensori della libertà di stampa, ed è anche codificato dalla gurisprudenza e dal contratto di laovro nazionale dei giornalisti. Difficilmente un giornalista di destra potrà lavorare secondo le sue idee in un giornale di sinistra e viceversa.

Oggi comunque, grazie alla moltiplicazione delle fonti di informazione e alla caduta delle barriere d’accesso dovute a internet, è possibile formarsi una opinione abbastanza ampia su ogni evento.

Per quanto riguarda la tv, non era necessario che ce lo dicessero gli americani, perché lo sapevamo da noi, comunque, secondo il rapporto, il nostro Paese resta la nazione con il più alto tasso di concentrazione dei mezzi di comunicazione tra quelle dell’Europa occidentale e questo appunto è dovuto al fatto che una sola persona, Silvio Berlusconi, controlla direttamente, con Mediaset, tre delle dodici reti tv nazionali e, almeno temporaneamente, in quanto capo del governo, due delle tre reti e due dei tre tg della Rai.

Ancor più sbilanciata appare la situazione in campo televisivo se si considera che tra Rai e Mediaset occupano il 90% dell’audience e della pubblicità televisiva.

Come l’Italia, per quanto riguarda la libertà di stampa, in Europa, ci sono solo i paesi balcanici e quelli dell’Est, come Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bulgaria e Romania. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Media e tecnologia Pubblicità e mass media

No, non si fa così.

(fonte: repubblica.it)
Il tribunale di Milano ha condannato tre dirigenti di Google per violazione della privacy, per non avere impedito nel 2006 la pubblicazione sul motore di ricerca di un video che mostrava un minore affetto da autismo (e non da sindrome di Down come erroneamente comunicato in un primo tempo ndr) insultato e picchiato da quattro studenti di un istituto tecnico di Torino. Ai tre imputati sono stati inflitti sei mesi di reclusione con la condizionale; i dirigenti sono stati invece assolti dall’accusa di diffamazione, un quarto dirigente che era imputato è stato assolto. Si tratta del primo procedimento penale anche a livello internazionale che vede imputati responsabili di Google per la pubblicazione di contenuti sul web. Durissima la reazione della società: “Un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito internet” spiega il portavoce di Google, Marco Pancini. “Siamo negativamente colpiti dalla decisione”, dice in un comunicato l’ambasciatore americano a Roma David Thorne.

I dirigenti coinvolti sono David Carl Drummond, ex presidente del cda di Google Italy ora senior vice presidente, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy ora in pensione, e Peter Fleischer, responsabile delle strategie per la privacy per l’Europa di Google Inc. I tre sono stati condannati per il capo di imputazione di violazione della privacy. Assolto Arvind Desikan, responsabile del progetto Google video per l’Europa, cui veniva contestata la sola diffamazione. Nei loro confronti l’accusa aveva chiesto pene comprese tra 6 mesi e un anno di reclusione.

Il video venne girato a fine maggio 2006 e caricato su Google l’8 settembre: rimase online due mesi, fino al 7 novembre, prima di essere rimosso, totalizzando 5500 contatti. Nel filmato si vedono una decina di compagni di classe che stanno a guardare, mentre uno dei ragazzi indagati sferra qualche pugno e qualche calcio al compagno disabile, un altro è intento a riprendere la scena con la telecamera, un terzo che disegna il simbolo “SS” sulla lavagna e fa il saluto fascista. Il ragazzo aggredito rimane immobile. Al giovane disabile vengono anche tirati oggetti e per ripararsi lui perde gli occhiali e si china a cercarli affannosamente. Nell’indifferenza del resto della classe.

Nel corso del processo i legali del ragazzino disabile avevano ritirato la querela nei confronti degli imputati. Nulla di fatto per il comune di Milano per l’associazione ViviDown che si erano costituite come parti civili. La loro posizione era legata al reato di diffamazione per cui gli imputati sono stati assolti. “Faremo appello contro questa decisione che riteniamo a dir poco sorprendente, dal momento che i nostri colleghi non hanno avuto nulla a che fare con il video in questione, poiché non lo hanno girato, non lo hanno caricato, non lo hanno visionato – dice il portavoce di Google – se questo principio viene meno, cade la possibilità di offrire servizi su internet”.

Opposta la reazione di pm milanesi. “Con questo processo abbiamo posto un problema serio, ossia la tutela della persona umana che deve prevalere sulla logica di impresa” affermano il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo e il pm Francesco Cajani. Nell’annunciare l’intenzione di appellare la sentenza di condanna, i legali dei dirigenti condannati, Giuseppe Bana e Giuliano Pisapia, affermano: “Google si è comportato correttamente, perché non aveva alcun obbligo di controllo preventivo sui video e i messaggi messi in Rete, mentre invece dal momento in cui è stato informato di quel filmato ignobile l’ha subito eliminato”. “Non ci sono né vinti né vincitori”, aggiungono i legali, che poi interpretano l’assoluzione dall’accusa di diffamazione come “la non esistenza dell’obbligo giuridico di controllo preventivo da parte di Google su cosa viene messo in Rete”.

Gli Stati Uniti, per bocca dell’ambasciatore americano a Roma David Thorne, esprimono il proprio disagio per la decisione giudiziaria. “Siamo negativamente colpiti dall’odierna decisione di condanna di alcuni dirigenti della Google inc. per la pubblicazione su Google di un video dai contenuti offensivi”, afferma in un comunicato Thorne. “Pur riconoscendo la natura biasimevole del materiale – precisa l’ambasciatore – non siamo d’accordo sul fatto che la responsabilità preventiva dei contenuti caricati dagli utenti ricada sugli internet service provider”.

“Il principio fondamentale della libertà di internet è vitale per le democrazie che riconoscono il valore della libertà di espressione e viene tutelato da quanti hanno a cuore tale valore”, dice Thorne ricordando che “il segretario di Stato Hillary Clinton lo scorso 21 gennaio ha affermato con chiarezza che internet libero è un diritto umano inalienabile che va tutelato nelle società libere”. “In tutte le nazioni – conclude il comunicato – è necessario prestare grande attenzione agli abusi; tuttavia, eventuale materiale offensivo non deve diventare una scusa per violare questo diritto fondamentale”. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Nessuna categoria Pubblicità e mass media

La pubblicità italiana a -13,4%. I Ceo della pubblicità in Italia raccontano balle.

Tra la chiusura del 2009 e l’inizio del 2010 i manager italiani delle agenzie di pubblicità hanno rilasciato dichiarazioni incoraggianti. Chi ha vantato incrementi a due cifre (uno ha avuto la sfacciataggine di affermare che la sua filiale di Roma ha fatto più 11%), chi ha avuto addirittura il coraggio di dichiarare +50%. Qui si è letto che un’agenzia ha fatto 40 milioni di fatturato, lì che ha un “billing” di 6o milioni. Balle, balle, solo balle. La verità è che è andato in fumo un modello di business: si è distrutto valore, professionalità, autorevolezza. E si sono distrutti centinaia di posti di lavoro.

Infatti, Nielsen Media Research comunica che gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2009 ammontano a 8.515 milioni con una flessione del -13,4% sull’anno precedente. La variazione dicembre 2009 su dicembre 2008 è del -1,6%. Nel confronto mensile, infatti, si registrano valori in crescita per la Televisione, la Radio, il Cinema, Internet, le Cards e l’Out of Home Tv. Rallenta il trend negativo dei Quotidiani.

Ferrero, Wind, Unilever, Vodafone, Tim, Procter&Gamble, Barilla, Volkswagen, L’Oreal e Telecom guidano la classifica dei Top Spender del 2009 con investimenti pari a 1.212 milioni di euro, in calo del -6,6% sul 2008.

Nel 2009 la Televisione, considerando i canali generalisti e quelli satellitari (marchi Sky e Fox), mostra una flessione del -10,2%, ma a dicembre si registra una crescita del +2,5%. Hanno andamenti positivi sul mese: Alimentari, Automobili, Toiletries, Gestione Casa e Farmaceutici.

La Stampa nel 2009 ha un calo del -21,6%. I Quotidiani a pagamento mostrano una flessione del -16,0% con l’Automobile a -26,0%, l’Abbigliamento a -19,7%, la Distribuzione a -19,7% e la Finanza/Assicurazioni a -23,7%. Per quanto riguarda le tipologie pubblicitarie, la Commerciale segna il -17,8%, la Locale il -13,6% e la Rubricata/Di Servizio il -14,8%. In contrazione del -26,6% la raccolta dei Quotidiani Free/Pay Press. I Periodici nel 2009 diminuiscono del -28,7% con l’Abbigliamento a -29,2%, la Cura Persona a -23,0% e l’Abitazione a -32,5%.

La Radio chiude il 2009 a -7,7%, con un exploit del +24,6% sul mese di dicembre grazie alle performances di Auto, Alimentari e Finanza/Assicurazioni. Per quanto riguarda gli altri mezzi gli andamenti sull’anno sono: Affissioni -25,4%, Cinema -4,4%, Cards +0,9%, Out of Home Tv +0,2% e Direct Mail -15,8%. Internet cresce del +5,1% grazie al decisivo apporto della tipologia Search.

Si aggiungono al mercato fin qui analizzato gli investimenti pubblicitari sul Transit, la pubblicità dinamica gestita da IGPDecaux su metropolitane, aeroporti, autobus e tram. Nel 2009 l’advertising su questo mezzo è pari a 99 milioni di euro.

I Ceo delle agenzie di pubblicità italiane dovrebbero rispondere a una sola domanda: mentre raccontavate stronzate ai giornali di categoria, quanta gente avete licenziato? Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Media e tecnologia

Addio agli 800 milioni promessi per portare la banda larga a 20 Megabit al 96% entro il 2012. Il Governo italiano non vuole lo sviluppo di Internet.

(fonte:repubblica.it)

L’annuncio è arrivato ieri da Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: “I soldi per la banda larga li daremo quando usciremo dalla crisi”. Si riferisce agli 800 milioni che il governo aveva promesso di dare da mesi nell’ambito di un progetto da 1,47 miliardi di euro: il cosiddetto “piano Romani” – da Paolo Romani, viceministro per lo Sviluppo con delega alle Comunicazioni.

Era un piano per portare la banda larga 20 Megabit al 96% della popolazione entro il 2012, e almeno i 2 Megabit alla parte restante. Attualmente il 12% degli italiani non può avere nemmeno i 2 Megabit ed è afflitta da una crescente saturazione che rallenta le connessioni degli utenti.

Negli altri Paesi europei ci sono da anni piani nazionali per portare banda larghissima a 50-100 Megabit. Al 75% delle case entro il 2014 in Germania; a 4 milioni di case nel 2012 in Francia (che investirà 10 miliardi di euro).

Ma tant’è: il Governo italiano ha deciso che il nostro Paese deve rimanere ai minimi termini per la connessione internet. A nulla sono valse le pressioni, per sbloccare quei fondi, da parte di Telecom Italia, Agcom (Autorità garante delle comunicazioni), dello stesso Romani e del ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta.

L’Italia rimane al palo, mentre l’Europa ha stimato che la banda larga porterà un milione di posti di lavoro fino al 2015 e una crescita dell’economia europea di 850 miliardi di euro. Si noti che di quei 1,47 miliardi, questi 800 milioni sono gli unici fondi assegnati dall’attuale governo alla banda larga. Gli altri vengono da altre fonti, stanziati dal governo Prodi oppure della Comunità europea. E allora?

Zitti tutti. Gianni Letta ha comunicato che la banda larga può aspettare. Beh, buona giornta.

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Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La pubblicità italiana non riesce a uscire dalla quarta crisi.

Secondo Nielsen Media Research da gennaio ad agosto 2009 gli investimenti pubblicitari ammontano a 5.275 milioni di euro con una flessione del -16,4% rispetto al corrispondente periodo del 2008. Ad agosto 2009 verso agosto 2008 la variazione è del -15,8%. A livello di settori merceologici, considerando il periodo cumulato, si registrano: -11,6% per gli Alimentari, -21,9% per le Auto e -5,4% per le Telecomunicazioni.

Unilever, Wind, Vodafone, Telecom It. Mobile, Barilla, Ferrero, L’Oreal, Volkswagen, Procter&Gamble e Fiat Div. Fiat Auto guidano la classifica dei Top Spender nei primi otto mesi del 2009 con investimenti pari 715 milioni di euro, in calo del -13,4% sul corrispondente periodo dell’anno scorso.

La Televisione, considerando i canali generalisti e quelli satellitari (marchi Sky e Fox), mostra una flessione del -13,9% sul periodo cumulato e del -17,7% sul singolo mese.

La Stampa, nel suo complesso, da gennaio ha un calo del -23,9%. I Periodici diminuiscono del -28,8% con l’Abbigliamento a -28,7%, la Cura Persona a -25,7% e l’Abitazione a -29,5%. I Quotidiani a pagamento mostrano una flessione del -20,2% con l’Auto, l’Abbigliamento e la Finanza/Assicurazioni, i tre settori più importanti, che riducono la spesa rispettivamente del -36,9%, del -27,0% e del -32,0%. Sono in controtendenza l’Abitazione che aumenta del +7,7% e il Turismo/Viaggi con il +8,6% sul cumulato e il +17,5% sul mese. A livello di tipologie la Commerciale segna il -23,9%, la Locale il -15,3% e la Rubricata/Di Servizio il -17,7%. In contrazione anche la raccolta dei Quotidiani Free/Pay Press (-27,4%).

La Radio diminuisce del -15,8% in otto mesi e del -1,9% sul singolo mese. Fanno registrare variazioni negative anche: Affissioni (-26,4%), Cinema (-8,3%), Cards (+1,8%) e Direct Mail (-17,3%). Performance positiva invece per Internet che cresce del +6,2% raggiungendo i 371 milioni di euro. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Per fermare la recessione basta la televisione?

L’indice di fiducia dei consumatori mondiali è salito da 77 a 82 punti secondo i risultati della “Consumer confidence survey”, la ricerca trimestrale condotta da Nielsen a fine giugno. La ricerca dice anche che è calata la percentuale dei consumatori che pensano che il proprio Paese sia in recessione: dal 77% di aprile all’attuale 71%.

In Europa è l’Italia insieme alla Gran Bretagna a segnare il maggior incremento nell’indice di fiducia che passa dai 70 punti di aprile ai 77 di giugno.

“Per quanto riguarda il nostro Paese – ha dichiarato Stefano Galli, Amministratore delegato di Nielsen Italia – il dato di giugno segna una inversione di tendenza del clima di fiducia che torna a posizionarsi sui livelli della fine del 2007”. L’incremento di 7 punti nell’indice di fiducia sarebbe anche legato ai messaggi più rassicuranti e alle decisioni prese a supporto delle famiglie e delle imprese da parte del governo nell’ultimo periodo e alla forte caduta della pressione mediatica sul tema della crisi.

“A questo riguardo i buzz online- ha detto Galli- le discussioni in rete contenti la parola ‘recessione’ sono infatti diminuiti del 35% , come dimostrano i dati Nielsen”.

Insomma, per far risalire gli indici della fiducia dei consumatori italiani bisogna prendere due piccioni con una fava. Vale a dire: la tv deve sempre parlar bene del governo, i giornali non devono mai parlar male della crisi.

Le cose vanno male lo stesso, visto che il 20% degli intervistati si dice molto preoccupato per la possibile perdita del posto di lavoro, come rilevato da Nielsen. Però almeno l’indice della fiducia risale.

Ci sarebbe da chiedersi: a che serve l’indice della fiducia, se è basata sulle mezze verità di giornali e televisioni? Oh, bella: serve proprio ai giornali e alle televisioni, che potrebbero riprendere ad accogliere la pubblicità delle aziende, convinte che se uno ha fiducia nella ripresa, riprende a spendere.

Uno potrebbe dire: ma se la tv parla bene del governo e i giornali non parlano male della crisi, non è che questo è un bel modo per manipolare la realtà? Sì certo: ma secondo una certa “scuola di pensiero” molto in voga da noi in questi mesi, è proprio questa la fava di cui ai due piccioni, cioè giornali e televisioni. O no? Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi spinge la pubblicità verso Internet, frenano centri media, agenzie di pubblicità e l’entablishment dei media italiani.

(da Affaritaliani.it)
Si tiene oggi, mercoledì 15 luglio al Salone delle Fontane, all’zona Eur, lo Iab Forum Roma 2009, evento dedicato alla comunicazione interattiva. Fra gli interventi più attesi c’è Layla Pavone, presidente di Iab Italia e managing director Isobar Communications, che con Affaritaliani ha fatto il punto in questa intervista dello stato della pubblicità online in Italia, nel contesto di una crisi che sta penalizzando fortemente pressoché tutti i media con la sola eccezione della Rete.

“Questa crisi – spiega Layla Pavone – ha portato le aziende a incrementare l’attenzione ai costi, a dove mettere ogni euro investito. E internet si conferma un mezzo che genera efficacia ed efficienza, completamente misurabile, permettendo fra l’altro variazioni e cambiamenti ‘in tempo reale’ e quindi un’ottimizzazione ‘strada facendo’ degli investimenti. Una flessibilità che tutti gli altri media non hanno. E poi ci sono le grandi possibilità che il web offre da qualche anno a questa parte con la diffusione della banda larga, ormai giunta anche in Italia a un livello di penetrazione rilevante favorendo l’utilizzo di internet come medium di entertainment, oltre che di informazione e di utilità”.

Quindi stiamo entrando in una nuova fase di internet…
“Sì. Fino a qualche tempo fa la caratteristica di ‘utilità’ era predominante. Oggi questo è acquisito, i consumatori si basano sul web quando devono informarsi ad esempio su un prodotto, non importa se poi lo acquisti online o offline. Ora sta crescendo moltissimo tutta l’area dell’entertainment, che va dalla visione di video al gioco, fino all’ascolto di musica, trasformando la Rete in un medium ‘caldo’. Questo ha incrementato il tempo passato online dagli utenti, tempo che oggi è mediamente è di un’ora e mezza a persona. Un dato assolutamente rilevante; e per le aziende oggi è fondamentale indirizzare gli investimenti pubblicitari là dove sono gli utenti”.

Insomma, in questo contesto di crisi le aziende investono meno soldi, ma quelli che investono li indirizzano maggiormente su un medium “cost effective” come internet…
“Assolutamente sì”.

Ma se le aziende hanno capito le potenzialità di internet come mezzo pubblicitario, secondo lei i centri media lo hanno capito altrettanto? Spesso gli editori digitali lamentano una scarsa propensione a ridistribuire gli investimenti pubblicitari verso i media digitali da parte di chi gestisce i grandi budget.
“I centri media sono stati certamente i primi ad avere un’attenzione e una sensibilità strategici per l’importanza di internet, dal momento che svolgono continuamente analisi sui consumatori. Fanalini di coda in questo movimento sono piuttosto le agenzie creative, per quanto stiano ora cercando di recuperare il terreno perduto: queste sii sono arroccate nel difendere l’autorevolezza conquistata ai tempi in cui la televisione pesava moltissimo sugli investimenti pubblicitari, quando si pensava che per fare una campagna pubblicitaria bisognasse necessariamente partire da uno spot televisivo. Oggi le cose sono completamente cambiate ma le agenzie creative se ne sono rese conto in ritardo. Poi certo, nessuno è mai contento, capisco che gli editori digitali vogliano di più. Ma, più che con i centri media, bisognerebbe prendersela con l’entablishment dei media italiani…”

Tornando a parlare di pubblicità online, bisogna comunque distinguere fra display, search, viral…
“Sicuramente restano trainanti search e display, che rispondono a obiettivi diversi di marketing e comunicazione. Il primo ha la funzione di traghettare in brevissimo tempo l’utente verso l’informazione che sta cercando, anche se di carattere commerciale. Quindi l’azienda deve farsi trovare al posto giusto, nel momento giusto, quando un navigatore ricerca informazioni su prodotti e servizi. Dall’altra parte il ruolo del display è legato al concetto di awareness, di ‘ricordo’ e di coinvolgimento emozionale, detto che – come dicevamo – internet sta diventando un medium ‘caldo’, capace di trasferire la stessa ’emozionalità’ che è sempre stata riconosciuta alla televisione. Senza ovviamente escludere la possibilità di generare, attraverso un click, un coinvolgimento diretto che nessun altro mezzo consente. Attenzione: questa classificazione fra mezzi e tipologie di advertising è importantissima ma non deve escludere le numerose sinergie possibili, che garantiscono risultati decisamente superiori rispetto all’utilizzo di un singolo veicolo. Ad esempio le ricerche dimostrano che esiste sinergia fra tv e search o fra search e display online”.

Ultimamente, poi, le aziende mostrano una certa attenzione per i social network: solo una moda del momento?
“E’ un mondo ancora tutto da esplorare e sperimentare. Al di là dei cosiddetti fan page, brand channel e in generale pagine che sono riconducibili a siti web ‘evoluti’ in termini di engagement in quanto ospitati all’interno di social media, se un’azienda vuole investire su un social network non fa altro che investire in pubblicità tabellare. Il che va benissimo, ma ci sono molte altre potenzialità da esplorare in questo settore. E si faranno sicuramente degli errori, come ne sono stati fatti nel momento del boom di Second Life: i social media realtà che raccolgono milioni di persone, è vero, ma quando si parla di business bisogna avere le giuste competenze per ‘prendere le misure’ a questi strumenti, altrimenti si rischiano grandi cantonate…”

Questo Iab Forum si tiene proprio nel pieno del dibattito scatenato dalle dichiarazioni di Rupert Murdoch, secondo il quale l’informazione online dovrà muoversi verso il modello a pagamento, visto che le risorse pubblicitarie non sono sufficienti a coprirne i costi. Si va verso un’integrazione fra advertising e fee per i contenuti online?
“In parte sì e in parte no. Non credo sia più possibile tornare indietro e far pagare ciò che per 10-15 anni l’utente ha avuto gratuitamente, anche perché sull’informazione online c’è una concorrenza agguerritissima che mi consentirà sempre di trovare, gratis, le notizie veloci, in pillole. Anche attraverso gli user generated content. Le opportunità del pay si profilano piuttosto per quei gruppi editoriali molto forti e consolidati, che hanno un patrimonio di contenuti a valore aggiunto, di qualità, il cui valore può essere sfruttato per generare ricavi”.

Ma i grandi editori sembrano ancora restii a spostare l’attenzione verso il digitale, anche se nell’attuale situazione di crisi qualcosa si sta muovendo…
“Finora, sia all’estero sia in Italia, si sono perse moltissime opportunità in questo senso. Ci sono realtà che potrebbero ‘pacchettizzare’ i loro contenuti di valore e offrirli a pagamento su internet, ma non lo hanno fatto principalmente perché le varie divisioni in cui sono organizzate non riescono a mettersi d’accordo per mettere a fattor comune il patrimonio di cui queste aziende dispongono. Credo che la situazione sia abbastanza chiara: o si fa un atto di umiltà e si mettono da parte le barriere, oppure morti e feriti non mancheranno”.
(Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: è utile e fattibile far pagare le news su internet?

Editoria on line/ Murdoch lo dice, gli altri lo fanno: il New York Times vuole mettere il suo sito a pagamento-blitzquotidiano.it

Rupert Murdoch l’aveva detto. Il magnate dell’editoria aveva predetto la fine delle notizie on-line gratis. Ora anche il New York Times, dall’alto del suo record di 18 milioni di contatti singoli al mese, sta valutando di far pagare l’accesso al suo sito, unica risposta al crollo dei profitti.

«Stiamo considerando la possibilità di introdurre una tariffa mensile di 5 dollari per accedere ai nostri contenuti, inclusi articoli, blog e multimedia» dice un annuncio pubblicato sull’ edizione cartacea del New York Times.

Non è la prima volta che il New York Times fa questo esperimento. Nel 2005 lanciò il “Times Select”, che introduceva una tariffa per l’ accesso ad alcune opinioni ed editoriali, ma chiuse il programma due anni dopo.

Sulla questione delle news a pagamento su internet si è espressa anche Layla Pavone, presidente della sezione italiana di Iab (Interactive Advertising Bureau). Intervistata dal Corriere della Sera, la Pavone ha affermato: «È troppo tardi per fare pagare le notizie agli utenti, almeno se parliamo di internet, perché per quanto riguarda il mobile il discorso è già molto diverso. Sul web è difficile fare un passo indietro dopo quasi venti anni di notizie free. Personalmente non credo che l’informazione a pagamento possa avere un impatto positivo sui business model delle aziende editoriali».

TAG: giornali on line, iab, internet, layla pavone, new york times, pagamento, rupert murdoch

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Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: scendono gli investimenti pubblicitari, cresce il conservatorismo dei committenti, soffrono i centri media.

di Ilaria Myr-NC
La crisi globale sta interessando tutta la filiera della comunicazione, si è detto. E i centri media non fanno eccezione. Soprattutto se si considera l’attuale sistema di remunerazione delle centrali media, basato sui fee e i diritti di negoziazione. Come spiega Giorgio Tettamanti, chief operating officer Carat Italia : “La voce prevalente della remunerazione è rappresentata da una percentuale applicata all’investimento dei nostri clienti e la seconda voce di ricavo è costruita dai premi di fine anno, dalle concessionarie, al raggiungimento di determinati obiettivi di volume. È innegabile che entrambe queste voci risentano negativamente dei trend di mercato in corso”.

Gli fa eco Federico de Nardis, amministratore delegato di Mc2 Mediacommunication: “La crisi internazionale sta portando a una forte compressione dei budget di molte grandi aziende. A seconda dei settori la riduzione si può stimare tra un -5% e un -20%. In un modello tradizionale dove il centro media è la struttura di pianificazione e acquisto dei suoi clienti, la remunerazione si riduce in modo proporzionale alla contrazione dei budget”.

Tutto ciò influenza anche il lavoro stesso, come spiega Marco Muraglia, amministratore delegato Starcom: “L’impatto è significativo dal momento che in molti casi siamo remunerati in misura proporzionale agli investimenti. Inoltre, purtroppo la quantità di lavoro necessario non si è ridotto. Anzi, il tempo delle persone per produrre strategia, pianificazione e acquisto è incrementato: si devono valutare molte più alternative, peraltro tentando di ottenere risultati soddisfacenti con risorse inferiori”.

D’altronde, la questione dei diritti di negoziazione è al centro di calorose discussioni già ormai da qualche tempo. “La crisi sta impattando su un processo di revisione di questo sistema che era già in corso – specifica Alessandro Villoresi, coo Vizeum -. E anche dal Parlamento sono uscite proposte per normalizzare la questione. Certo è che in un momento come questo, in cui le aziende tendono a fare saving dei propri investimenti, ne risentono anche i consulenti”.

La sofferenza dunque c’è. Ma una soluzione può venire dalla crisi stessa, come sostiene Vittorio Bonori, ceo ZenithOptimedia, che concorda con Hartsarich sulla necessità di sfruttare la congiuntura negativa in atto e sull’inevitabile cambiamento del modello di business dei centri media. “Ogni crisi nasconde grandi opportunità ed è su queste che occorrerebbe concentrarsi per superare le difficoltà e prepararsi alle sfide future. Il modello di business dei centri media è destinato a cambiare così come quello di tutti i componenti della filiera, a partire dalle aziende fino ad arrivare a editori e concessionarie di pubblicità. Allo stesso modo, i modelli economici di remunerazione seguiranno questi cambiamenti e contribuiranno a riallocare le risorse presso i soggetti della filiera che si conquisteranno una posizione centrale e strategica sul mercato”.

Le aziende: fra vecchio e nuovo

I clienti, dal canto loro, reagiscono alla situazione attuale con un atteggiamento che, se può sembrare contraddittorio, dice in realtà molto su come si stia evolvendo oggi la comunicazione. Come spiega Walter Hartsarich: “I clienti oggi cercano di mira- re al massimo al target di riferimento e, a fronte di investimenti ridotti, concentrano i budget sui mezzi che facilitano il raggiungimento degli obiettivi di vendita in modo più immediato, sia classici che più innovativi, come il digitale”.

Da un lato quindi si assiste a una concentrazione degli investimenti verso la tv, mezzo da sempre ‘rassicurante’. Ne è convinto Roberto Binaghi, ceo Omd (da giugno, vicedirettore generale Manzoni, ndr), che al tema aveva dedicato un intervento allo Iab Forum di novembre. “Quando le cose vanno male, la tendenza è fare meno esperimenti e affidarsi al ‘bene rifugio’ – dichiara -. Nella pubblicità tale bene è la televisione. Gli investitori la usano perché hanno ritorni importanti, la considerano un mezzo efficace. Non è un caso che, in Italia, attiri la metà abbondante del totale investimen- ti. Quindi, la tv è l’ultimo mezzo a essere tagliato”.

Concorda con questa posizione Marco Muraglia di Starcom, che spiega: “Nelle situazioni di stagnazione e crisi economica, prevale da parte delle aziende un atteggiamento protettivo e maggiormente conservatore, che porterà prevedibilmente, nel prossimo futuro, a un maggior ricorso al mezzo tv, tradizionalmente percepito come ‘meno rischioso’, e più sicuro in termini di impatto positivo sul giro d’affari”. Dall’altro lato, cresce la domanda di strumenti e soluzioni innovative, che più di quelle tradizionali raggiungono in modo efficace il tanto ricercato coinvolgimento del consumatore. Si accentua così una tendenza ben presente sul mercato negli ultimi tempi, anche prima della crisi, come ben emerge ogni mese dalle pagine di questo giornale. Spiega Tettamanti di Carat: “Non è la crisi che sta cambiando modalità di approccio dei clienti. La maggior attenzione al ‘consumer insight’, al ritorno sull’investimento, alla misurabilità, il maggior ricorso al narrowcasting, l’importanza crescente del concetto di ‘engagement’: sono tutti trend che caratterizzano il nostro presente ma che trovano origine già nel recente passato”.

In particolare internet e il digitale sono strumenti che, a fronte di investimenti più contenuti rispetto a mezzi più classici, permettono di realizzare comunicazioni molto targettizzate. Prova ne è la crescita che questo settore continua a mettere a segno (+2% a gennaio, dati Osservatorio Fcp-AssoInternet). E sebbene si tratti di una quota ridotta rispetto al passato, il web è il mezzo che cresce di più, in un mercato che invece cala vertiginosamente. Come precisa Binaghi, “è possibile che quest’anno si debba accontentare di una crescita a una sola cifra, però sta guadagnando quota a scapito di altri mezzi, come la stampa”. Soprattutto, esso viene scelto per la sua misurabilità: variabile, questa, che sarà sempre più determinante nel futuro. È quanto sostiene Vittorio Bonori, che spiega: “L’allocazione di un budget di comunicazione dipende sostanzialmente da quattro variabili: dagli obiettivi, dal target, dall’arena competitiva e dalla dimensione del budget. Queste regole non muteranno nel breve termine, ma tenderanno a semplificarsi notevolmente nel momento in cui la misurabilità dei media consentirà di lavorare in un’ottica di performance marketing. Lo stiamo già sperimentando su alcuni media digitali, con un guadagno significativo in termini di efficienza di investimento”.

Tutto ciò, però, avviene in quell’atmosfera di attesa, diffusa in tutti i campi e i settori, che si traduce nell’allungamento da parte dei clienti dei tempi di decisione degli investimenti. “In un momento in cui è notorio che gli investimenti sono depressi – spiega Alessandro Villoresi – i clienti tendono a dilazionarli nel tempo, nella speranza/attesa di cogliere delle opportunità. E questo, come è immaginabile, ha un’influenza anche sul lavoro dei centri media”. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: “La stampa non è mai riuscita a coprire i costi grazie al suo core business, cioè vendere notizie ai lettori, ma vendendo la audience dei suoi lettori agli inserzionisti. Insomma, la pubblicità.”

di Enrico Beltramini – da Limes

La crisi che sta attraversando il mondo della stampa negli Stati Uniti è probabilmente irreversibile. Il modello di business è insostenibile, e l’intreccio tra informazione, politica ed economia che ha contrassegnato la vita nell’ultimo secolo di storia americana, al capolinea.

Non è soltanto il giornalismo politico che sta attraversando una crisi profonda, ma l’intera industria dell’informazione americana su carta. Dall’inizio dell’anno ad oggi (e siamo a metà anno), 105 giornali sono stati chiusi, lasciando a casa circa 10 mila persone (giornalisti e non). La pubblicità è scesa del 30%, 23 dei 25 più importanti giornali americani hanno dichiarato una riduzione della circolazione tra il 7 e il 20%, e hanno registrato il crollo verticale del valore dei titoli quotati. Per la cronaca, 61 di questi 105 giornali appartenevano a quattro gruppi editoriali: Gannett Co., GateHouse Media, The Sun-Times Media Group e The Journal Register Company. Il gruppo Tribune, che pubblica il Chicago Tribune e il Los Angeles Times, ha chiesto l’accesso alle procedure di in bancarotta, mentre il New York Times ha cominciato ad ipotecare gli immobili. Il Miami Herald è in vendita. Più del 20% del settore editoriale ha problemi finanziari.

Megan McCardle ha spiegato su The Atlantic che “for most of history, most publications lost money, or at best broke even, on their subscription base, which just about paid for the cost of printing and distributing the papers. Advertising was what paid the bills. To be sure, some of that advertising is migrating to blogs and similar new media. But most of it is simply being siphoned out of journalism altogether. Craigslist ate the classified ads. eHarmony stole the personals. Google took those tiny ads for weird products. And Macy’s can email its own damn customers to announce a sale”.

Secondo Cardle, non dovremmo meravigliarci della crisi che ha colpito oggi i giornali. Il problema è che i loro fondamentali sono sempre stati deboli. La stampa non è mai riuscita a coprire i costi grazie al suo core business, cioè vendere notizie ai lettori, ma vendendo la audience dei suoi lettori agli inserzionisti. Insomma, la pubblicità. E anche così, non ha mai raccolto abbastanza soldi per raggiungere il break even. Ecco perché i giornali offrivano altri servizi: la pubblicità locale, i messaggi personali, la comunicazione istituzionale delle aziende, ecc..

Ora però i servizi accessori sono stati strappati via dal corpo del giornale e sono diventati attività a se stanti, servizi indipendenti online con un loro business model specifico; Google offre micro advertising, Craigslist le inserzioni personali, e le aziende possono informare la loro clientela direttamente attraverso il loro sito. Costretta a dover contare soltanto sul suo core business, vendere notizie ai lettori, la stampa ovviamente collassa. Qualcuno spinge l’analisi sulla crisi dei giornali americani ancora più in profondità.

Ricorda Dave Winer, uno dei pionieri delle informazioni in digitale, che le fonti delle notizie non sono mai state pagate. Quindi, integrando il ragionamento di McCardle con quello di Winer, possiamo concludere che vendere notizie ai lettori non è mai stato sufficiente per coprire i costi nemmeno nel caso in cui le notizie fossero gratuite. Insomma, il mestiere di raccolta, selezione, impacchettamento e assemblaggio e vendita della notizia non riesce a pagarsi abbastanza per coprire i costi.

Non c’è da sorprendersi se oggi il business vacilla.

Jeff Jarvis, docente alla City University di New York e famoso bloggista, affonda il coltello senza riguardi. “Owning the printing press or broadcast tower used to define advantage: I own and control the means of production and distribution and you and don’t, which enables me to decide what gets distributed and forces you to come to me if you want to reach the public through news or through advertising, whose price I alone set with little or no concern for competition”.
Quindi, la proprietà dei mezzi di produzione e di distribuzione comporta il controllo sul contenuto, e quindi sulle informazioni.
E’ interessante il ragionamento di Jarvis: creando una connessione tra la proprietà dei mezzi di produzione e distribuzione e il core business della stampa, dimostra la vulnerabilità della stampa dal punto di vista economico e anche dal punto di vista culturale.
Dal punto di vista economico, è proprio il costo dell’infrastruttura che si sta dimostrando insostenibile.

E’ innanzitutto lì che Internet sta ottenendo i maggiori successi, impiegando tecnologie che aprono una conversazione con la audience ad una frazione del costo di un giornale. Dal punto di vista culturale, racconta Jarvis, la proprietà dei mezzi ha determinato la diffusione di una cultura del controllo della notizia. La proprietà dei mezzi si è trasferita a quella delle notizie.

“We journalists own the news, that we’re necessary to it, that we decide what’s reported and what’s important, that we can package the world for you every day in a box with a bow on it, that what we do is perfect (with rare, we think, exceptions), that the world should come to us to be informed, that we deserve to be paid for this service, that the world needs us”. Il cerchio è chiuso. La proprietà dei mezzi determina il controllo dell’informazione. E il controllo dell’informazione rende la stampa una realtà potente.

Il potere è un elemento dell’equazione. Un elemento che Megan McCardle aveva dimenticato. Ovviamente, i giornali servono per dare notizie; ma anche per progetti economici – rendere attraente una nuova area urbana precedentemente depressa, e costruirci sopra una speculazione; e politici – sostenere la candidatura di un politico o un altro.

Il giornale, soprattutto se assurge ad una diffusione nazionale, forgia narrative, costruisce modelli culturali, entra in ogni aspetto importante della vita dei suoi lettori. Tutto questo, naturalmente, significa che intorno a questi progetti, di qualunque natura siano, si raccoglie interesse: interesse economico. Soldi.
Perché il giornale, come tutte le creature economiche, non vive di buoni propositi.
Il giornale ha quindi un ruolo sociale. Ma questo ruolo può essere svolto soltanto se c’è qualcuno che continua a comprare i giornali e qualcun altro che non smette di pagare per metterci sopra la sua pubblicità. Così, quando i soldi che arrivano alle casse del giornale dai lettori o dagli inserzionisti iniziano a declinare, a declinare, e il declino non si ferma più.

Quando il giornale non sembra più essere il veicolo su cui costruire un progetto, o annunciare una conferenza, o cercare un amministratore delegato.
Quando emergono altri mezzi che permettono di aprire una conversazione con milioni di lettori ad un costo minimo.
Quando i conti cominciano a non tornare, e tutta la retorica costruita intorno al giornale che plasma il paese, sostiene un personaggio pubblico, o semplicemente trova il miglior candidato, evapora; quando non ci sono più i soldi per pagare i giornalisti, sostenere sedi estere, avviare inchieste.
Quando tutto questo accade, allora è il momento di voltare pagina. (Beh, buona giornata).

Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/la-stampa-americana-i-dettagli-di-una-crisi-epocale/5498?h=0.

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La quarta crisi: la pubblicità italiana crolla a -18%.

Gli investimenti pubblicitari, nei primi tre mesi dell’anno ammontano a 2.095 mln con una diminuzione del -18,2% rispetto al corrispondente periodo del 2008. L’analisi dei mezzi mostra una flessione del -15,4% per la Tv, del -25,8% per la Stampa, del -20,1% per la Radio. Variazioni negative anche per Outdoor (- 37,1%), Cinema (-26,7%), Cards (-39,0%) e Direct mail (-16,0%). Performance positive per Internet e per l’Out of home tv, entrambi a +3,5%.

Nei primi tre mesi di quest’anno gli investimenti pubblicitari ammontano a 2.095 mln con una diminuzione del -18,2% rispetto al corrispondente periodo del 2008. Il confronto mensile marzo 2009 verso marzo 2008 fa registrare il -16,3%. Tutti i settori merceologici hanno ridotto la spesa rispetto all’anno scorso ad eccezione di Enti/Istituzioni e Turismo/Viaggi che crescono rispettivamente del +1,5% e del +3,2%. Wind, Vodafone, Ferrero, Volkswagen, Barilla, Unilever, Procter&Gamble, Danone, Fiat Div. Fiat Auto e Telecom Italia Mobile sono i dieci Top Spender del trimestre con circa 303 mln euro, il 12% in meno del corrispondente periodo del 2008.

L’analisi dei mezzi mostra per la Televisione, considerando sia i canali generalisti che quelli satellitari (marchi Sky e Fox), una flessione sul trimestre del -15,4% e sul mese del 14,4%. Tra i principali settori si evidenzia il calo di Alimentari (-12,1%), Automobili (-23,6%), Telecomunicazioni (-6,7%) e l’exploit di Enti/Istituzioni (+66,2% ), grazie a Campagne Sociali e Concorsi/Pronostici.

La Stampa, nel suo complesso, ha un calo del -25,8%. I Periodici diminuiscono del -29,2% con l’Abbigliamento a -32,0%, la Cura persona a -23,2% e l’Abitazione a -19,0%. I Quotidiani a pagamento mostrano una flessione del -23,6% con l’Automobile e l’Abbigliamento, i due settori più importanti, che riducono gli investimenti rispettivamente del -40,3% e del -36,9%. In controtendenza il settore Abitazione che raggiunge gli 11,7 milioni con una crescita sul trimestre del 34,9% e del 74,4% sul mese. E’ soprattutto la Commerciale Nazionale a frenare con una diminuzione del -28,9%, ma sono in calo anche la Locale (-17,4%) e la Rubricata/Di Servizio (-19,3%). In contrazione anche la raccolta dei Quotidiani Free/Pay Press (- 26,9% ).

La Radio diminuisce del -20,1% sul trimestre, ma del -8,6% sul confronto mensile. Tra i settori in positivo a marzo 2009 si evidenziano: Auto, Moto/Veicoli e Gestione Casa. Fanno registrare variazioni negative Outdoor (- 37,1%), Cinema (-26,7%), Cards (-39,0%) e Direct mail (-16,0%). Performance, invece, positive per Internet e per l’Out of home tv: entrambi i mezzi crescono del +3,5%.

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La quarta crisi: la Huffington dice che il futuro del giornalismo non dipende dal futuro dei giornali.

Editoria/ Il Senato di Washington corre in aiuto dei giornali Usa prima che diventino ”estinti”-blitzquotidiano.it

I problemi che stanno falciando l’industria dei giornali negli Stati Uniti sono arrivati al Senato di Washington, dove una sottomissione ha preso in esame la questione offrendo come prima proposta la possibilità che i quotidiani si trasformino in aziende senza scopi di lucro sulla falsariga delle stazioni radio pubbliche con in testa National Public Radio (Npr), a quanto riferisce il Wall Street Journal.

Un disegno di legge presentato dal senatore democratico del Maryland, Ben Cardin, propone che i quotidiani trasformati in aziende senza scopi di lucro sarebbero esentati dal pagare le tasse sulla pubblicità e sui redditi da abbonamenti oltrechè sui contributi dei privati.

In base al disegno di legge, però, i giornali non potrebbero più appoggiare ufficialmente – il cosiddetto ”endorsement” – candidati in competizioni elettorali, pur potendo riferire su qualsiasi argomento incluse le campagne elettorali. Cardin ha precisato che il suo obiettivo è proteggere i giornali locali e non le conglomerate.

La proposta del senatore non ha però convinto del tutto, tra gli altri, l’ex-direttore del Washington Post, Steve Coll, il quale, pur appoggiando il disegno di legge, ha dichiarato che, anche nelle migliori delle ipotesi, «un numero molto limitato di quotidiani potrebbero diventare aziende senza scopo di lucro».

Il senatore democratico del Massachusetts, John Kerry, presidente del sottocomitato senatoriale sulle comunicazioni, la tecnologia e internet, ha avvertito che i licenziamenti, le chiusure e i tagli di personale hanno trasformato i giornali americani in una «specie in estinzione» a causa della fuga dei lettori e della pubblicità verso internet.

Kerry ha auspicato iniziative affinchè i media possano rimanere diversificati e indipendenti, e si è detto preoccupato dal fatto che se i giornali dovessero scomparire ne soffrirebbero l’imparzialità e l’accuratezza dell’informazione.

Chi non si preoccupa troppo del futuro dei giornali quotidiani è Arianna Huffington, direttrice di The Huffington Post, uno dei siti aggregatori più visitati ed influenti di internet. La Huffington è del parere che, nonostante la crisi dei giornali, «questi sono tempi felici per chi vuole tenersi informato».

«Qualcuno può davvero sostenere – ha chiesto – che non è magnifico che i lettori possano navigare in rete, usare i motori di ricerca e andare sui siti aggregatori per poter accedere ai migliori articoli provenienti da fonti dislocate in tutto il mondo ed avere a disposizione notizie sempre aggiornate e non statiche su fogli di giornale»?

La Huffington ha detto alla commissione che il futuro del giornalismo non dipende dal futuro dei giornali.

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La quarta crisi convince Murdoch alla convergenza sul web.

(fonte: Affari e Finanza-Repubblica)

Rupert Murdoch lancia il nuovo portale internet che raccoglie notizie da ogni angolo del suo impero mediatico.

‘Sarà il portale dove si concentrerà l’essenza dell’informazione planetaria’ ha annunciato il magnate australiano, come riportato su ‘Affari&Finanza’.

Sulla piattaforma andranno a confluire le notizie pubblicate e trasmesse dalle testate ed emittenti controllate da News Corp , tra cui spiccano il Wall street journal , il New York Post, e, in Inghilterra, il Sun e l’elitario Times. Ci sono anche la casa editrice Harper-Collins, le reti televisive Sky e FoxNews e il social network MySpace.com. Fino ad ora, queste unità non avevano mai sperimentato una condivisione sul web.

La neo-iniziativa, guidata da John Moody, il vice presidente di Fox News, viene giustificata come un’operazione per potenziare l’efficienza dell’attività di raccolta di notizie e creazione di contenuti.Beh, buona giornata.

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La quarta crisi colpisce anche Google: 300 posizioni eliminate, tagli del 40%.

(Fonte: Affari e Finanza-Repubblica)

Google, nonostante il fatturato sia calato per la prima volta nella sua storia del 3% rispetto all’ultimo trimestre, continua a investire nell’innovazione come riportato su Affari & Finanza di Repubblica del 27 aprile. Google Ventures, la nuova società di venture capital fondata dal colosso del motore di ricerca per scovare e finanziare aziende appena nate ma dal grande potenziale, ha messo a disposizione delle startup tecnologiche un fondo di 100 milioni di dollari. Tra i primi investimenti di Google Ventures c’è Pixazza, promotrice di una nuova tecnologia che permette di inserire pubblicità contestuali nelle immagini digitali.

Il fatturato globale di Google è calato rispetto allo scorso trimestre, dopo tre anni di crescita ininterrotta, ma il fatto è dovuto all’andamento economico generale e non a una debolezza specifica del business di Google: il reddito dell’azienda dipende dall’andamento della pubblicità online che risente a sua volta della contrazione generale dei consumi. Il settore della pubblicità on-line è in forte crisi e risente della situazione mondiale, anche colossi del calibro di Google incominciano ad avere problemi.

Se i risultati del primo trimestre 2009 sono comunque positivi rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (+6%), confrontati con quelli dell’ultimo trimestre del 2008 mostrano un calo del 3%. E’ il secondo trimestre consecutivo in cui le entrate diminuiscono rispetto al precedente, una cosa mai successa a Google, che sta già riducendo il personale, con 300 posizioni eliminate. Anche le spese sono state ridotte del 40% e si sono attestate sui 263 milioni di dollari.

Le vendite pubblicitarie online, core business del motore di ricerca, si sono ridotte del 5%: detratte le commissioni dovute ai suoi partner web, nel primo trimestre Google ha totalizzato 4,07 miliardi di dollari di raccolta pubblicitaria, in linea con le aspettative degli analisti e con il trend negativo che caratterizza ultimante il settore dell’advertising.

Quello che preoccupa maggiormente è la diminuzione del valore ‘per click’ degli ads venduti da Google. Il motore di ricerca utilizza un sistema pubblicitario che paga i siti che espongono le pubblicità per ogni click che viene effettuato sui banner.

E sebbene i dati di Google mostrino che il numero di click da parte degli utenti sia addirittura aumentato rispetto allo scorso anno (+17%), a essere cambiato è il rapporto fra click e vendite. ‘Le persone cercano e cliccano sulle pubblicità come prima’ spiega Jeffrey Lindsay, senior analyst della Sanford Bernstein ‘ma se prima bastavano tra i 10 e i 15 click perché comprassero qualcosa, adesso sono tutti più cauti: e di click, prima di acquistare, ne servono in media 20.’

Come risultato, i prezzi per click degli ads di Google sono calati del 13% rispetto all’ultimo trimestre del 2008. Beh, buona giornata.

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E Obama inventò l’e-democracy.

di Lorenzo Montagna, commercial director Yahoo! Italia

Tutto il percorso che ha portato Barack Obama alla 44ma presidenza degli Stati Uniti, dalle primarie alla candidatura ufficiale, dall’Election Day all’Inauguration Day, è stato caratterizzato da un nuovo approccio ai media, in particolar modo internet. Usando le sue stesse parole, un ‘cambiamento’ totale che rivoluzionerà per sempre il rapporto tra web, politica e democrazia. Sicuramente Obama non è stato il primo personaggio politico ad affacciarsi al web, ma è quello che l’ha fatto con più convinzione e maggiore determinazione.

L’epoca pre-Obama è caratterizzata dall’uso non mirato e marginale del web per fare propaganda politica. Si restava, comunque, nell’ambito di una comunicazione one- to-many, dove i commenti (se presenti) restavano senza risposta e la partecipazione era inesistente. Ecco, la partecipazione. Il merito di Obama (e del suo staff) è stato passare dalla comunicazione al dialogo, allargando la possibilità di partecipazione prima a pochi gruppi di sostenitori e poi, a macchia d’olio, a un intero partito, a un paese, al mondo.

Obama ha sicuramente tratto vantaggio dal web, ma è vero anche il contrario. La sua elezione ha fatto da traino a un media che aveva bisogno della consacrazione al di fuori della cerchia degli addicted. Aveva bisogno di uno shock, di un evento che dimostrasse a tutti le sue straripanti potenzialità di aggregazione e di interattività. Così come lo sbarco sulla Luna nel 1969 fu determinante per l’affermazione della tv, 40 anni dopo l’elezione di Obama lo è per internet: un’esperienza aggregante che un’intera generazione ricorderà di aver vissuto soprattutto online.

L’Obama-mania è culminata il 20 gennaio con l’Inauguration Day, un evento che ha messo a dura prova la resistenza del mezzo e che ha fatto registrare un incredibile boom di contatti. Yahoo! Notizie, per esempio, negli USA è stato visitato da più di 9 milioni di utenti unici (1), piazzandosi al terzo posto tra i portali di news e confermandosi un punto di partenza ideale per informarsi in rete, mentre su Flickr (2) 3.439 utenti hanno seguito live la cerimonia caricando più di 13.500 foto direttamente da Washington o dedicate all’evento. Così il tanto citato ‘popolo della rete’ è stato definitivamente sdoganato passando da nicchia a opinion maker, allargando il proprio bacino a tutti coloro i quali volevano sentirsi parte della rivoluzione in corso. Ecco perché, al di là dell’importanza storica, l’elezione di Obama sarà ricordata come uno degli eventi più coinvolgenti della storia. Questa è anche l’opinione dei nostri utenti che recentemente hanno collocato l’evento subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle e la morte di Giovanni Paolo II in un sondaggio lanciato da Yahoo! Notizie (3).

Obama ha capito per primo il vero funzionamento della rete intesa non più come vetrina espositiva, ma finalmente come un intreccio di connessioni e ne ha sfruttato appieno le potenzialità del buzz. Tutto ciò che Obama ha detto, fatto e pensato durante la campagna elettorale è stato condiviso attraverso le più famose piattaforme del web. Non mostrato, ma condiviso. Le 53.526 foto caricate sul suo account Flickr sono state viste e commentate milioni di volte, ma non sono rimaste un fenomeno confinato alla rete, sono state riprese da tutti i siti, le televisioni e i giornali del mondo.

Il segnale che qualcosa sta cambiando, e che internet sta passando da media di nicchia a comun denominatore di molti, è il passo deciso verso forme di e-democracy concrete.

Alcune pubbliche amministrazioni, le più lungimiranti, stanno aprendo canali di interazione con i cittadini, altre si limitano alla messa in rete di documenti o alla digitalizzazione di procedure.

Alcuni personaggi politici stanno aprendo canali video e incentrando le proprie campagne sull’online.

Obama docet e sull’onda del suo successo segnalerei la campagna di comunicazione del ‘Plan E’, la soluzione alla crisi economica messa a punto dal governo Zapatero. Un lastminute website chiaro e funzionale dove il premier e i ministri spagnoli spiegano con video e immagini i piani del governo per uscire dalla crisi. È assente la parte ‘2.0’ di interazione e commento, ma è apprezzabile il tentativo d’importazione del modello web-centrico USA. (Beh, buona giornata).

Note:

1 Fonte: Nielsen Online , NetView Custom Analysis, 22 gennaio 2009

2 http://www.flickr.com/groups/inauguration2009/

3 Coinvolti più di 6.000 votanti. I risultati sono su http://it.notizie.yahoo.com/sondaggi/42319-risultati-wv.html

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La quarta crisi secondo il nuovo direttore de Il Corriere della Sera.

(fonte: advexpress.it)
Ecco uno stralcio del discorso di insediamentoidi Ferruccio De Bortoli alla direzione del Corriere della Sera:

“Viviamo in una stagione nella quale l’informazione è una commodity gratuita, purtroppo – ha dichiarato – La si può avere ovunque. La nostra unica salvezza, ma anche la nostra grande opportunità, è spingere su una informazione di qualità, con notizie, approfondimenti e inchieste. Una informazione di qualità che si integri meglio con la rete. Ma sia difficilmente replicabile e giustifichi il suo valore d’uso. Noi dobbiamo spingere al massimo, ancora di più di quanto abbiate fatto finora, nell’integrazione fra web e carta. Ma distinguendo di più fra i due mezzi. Affinché il primo non soffochi la seconda e la rete costituisca la difesa e la promozione, con tutte le modalità multimediali, di un grande marchio di qualità come il Corriere della Sera. I giornali sono in crisi. In tutto il mondo. Ma non sono mai stati così letti, su carta e sul web, come oggi. Ci sarà una ragione se un navigatore sceglie, per avere un’informazione certificata, una testata storica. Vuol dire che quella testata è credibile, affidabile. I giornalisti devono affrontare la sfida, mettersi in gioco, uscire dalle protezioni corporative”.

E poi uno sguardo al futuro dei quotidiani: “I quotidiani hanno un futuro? Io sono convinto di sì e non lo dico per farmi coraggio o per farvi coraggio. Dico sempre, a mo’ di battuta, che i giornali vengono da lontano ma non appartengono al passato. Pensate a quanto è ancora forte, pur con diffusioni calanti, il rapporto fra un lettore e il suo giornale (…). Però, ve lo dico subito, bisogna essere più umili, mettersi di più nei panni di chi legge, avere la pazienza di rispondere alle mail, per esempio. Ogni lettore va curato personalmente, non deve mai sentirsi abbandonato dal proprio quotidiano. Perché poi non torna più. E perché, ricordatevi, nella rete il lettore sta un gradino sopra di noi. E’ insieme navigatore, utente, consumatore, certificatore e persino giornalista. Qualche volta migliore di noi. Guardate con interesse il fenomeno dei social network e del citizen journalism. Non con sufficienza. Nel minuto successivo alla scossa del terremoto in Abruzzo c’erano già otto persone che l’avevano comunicato, facendo i cronisti, su Twitter”.

Infine de Bortoli ha delineato le caratteristiche che dovrà avere il ‘nuovo’ Corriere della Sera. “Dobbiamo affrontare la sfida del cambiamento – ha detto – cercando di fare un giornale di maggiore qualità, più snello, con una grafica più sobria ma ugualmente accattivante, con un’infografica che consenta un vero secondo percorso di lettura, non una divagazione estetica. Avendo cura di spiegare e semplificare realtà complesse a un lettore che al 52% ci legge la sera, dopo cena. E al mattino ci sfoglia soltanto. Con un’ attenzione maggiore ai fatti e meno alla sovrastruttura degli avvenimenti. Più costruttivi e meno distruttivi”. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi secondo Arianna Huffington.

Il futuro dei quotidiani è sul web: parola dell’Huffington Post. da blitzquotidiano.it

«Fino a quando la generazione che è cresciuta prima dell’era di Internet non si sarà estinta, ci sarà un mercato per i quotidiani stampati»: così, Arianna Huffington, fondatrice e direttrice dell’ Huffington Post, il quotidiano on-line più influente negli Usa e non solo, con oltre 20 milioni di visitatori al mese, parla della crisi dei giornali stampati.

Intervistata dal Corriere della Sera, la direttrice cinquantanovenne, nata in Grecia, parla molto del suo sito e di come sia diventato grande nel tempo, e quando le viene chiesto se il destino dei quotidiani è comunque on-line, risponde sicura: «Sì. Il futuro è ibrido: i vecchi editori e lettori abbracceranno i newmedia (la trasparenza, l’interattività e l’immediatezza) e i newmedia adotteranno le pratiche migliori dei vecchi media: onestà e accuratezza».

Arianna Huffington è stata eletta dal Time, una delle 100 persone più influenti degli Stati Uniti. (Beh, buona giornata).

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Vogliono irreggimentare la rete, trasformarla in un servizio controllato dall’industria dei contenuti, privarla della neutralità?

Pacchetto Telecom, blackout europeo?
di Gaia Bottà

Una rete in cui il cittadino è telespettatore, una rete soggetta alle istanze dei detentori dei diritti. Emendamenti e votazioni, dibattiti e aggiustamenti: il Pacchetto Telecom sta progressivamente assumendo una forma. Quelli che ora sembrano punti fermi, osservano in molti, potrebbero irreggimentare la rete, trasformarla in un servizio controllato dall’industria dei contenuti, privarla della neutralità.

Le istituzioni europee si sono riunite nei giorni scorsi per affinare il testo delle disposizioni e per prepararle ad essere messe al voto. Alla Commissione Mercato Interno (IMCO) sono stati sottoposti testi ed emendamenti: IMCO, nell’intervenire sulla Direttiva Servizi Universali, sembra essersi espressa a favore di una rete alla mercé dei provider. Ha infatti dominato la linea tracciata dal rapporto stilato da Malcom Harbour, relatore che, nella propria attività in Europa, sembrerebbe mostrarsi sensibile alle istanze dell’industria dei contenuti. Ha sbaragliato la possibilità di prendere in considerazione certi emendamenti che avrebbero garantito tutele al cittadino in linea con quanto approvato nel rapporto Lambrinidis: filtraggio e potere discrezionale agli ISP, che si troverebbero in una posizione privilegiata per avvantaggiarsi o per stringere alleanze strategiche con i detentori dei diritti, denuncia ad esempio il candidato svedese all’europarlamento Erik Josefsson, veicolando contenuti e servizi attraverso corsie preferenziali e corsie discriminate.

Via libera dunque a non meglio precisate “politiche di gestione della rete”. L’obbligo al quale saranno sottoposti i provider sarà semplicemente quello di informare i propri utenti: nel contratto che stipuleranno con i cittadini dovranno indicare le “condizioni che limitano l’accesso o l’uso dei servizi e delle applicazioni”, dovranno garantire informazioni riguardo ad “ogni procedura di analisi del traffico e di traffic shaping messa in campo” al fine di non sovraccaricare l’infrastruttura.
Sembrano ora mancare i riferimenti alla proporzionalità nell’utilizzo di queste misure, che erano contenuti nell’emendamento conosciuto in prima lettura come 166: ai provider non viene più raccomandato di soppesare l’introduzione di strumenti per la gestione del traffico tenendo contro della loro effettiva necessità e limitandone il raggio d’azione in modo che non ostacolino “lo sviluppo della società dell’informazione” e che non collidano con “i diritti fondamentali del cittadino, incluso il diritto alla privacy e il diritto ad un giusto processo”. L’emendamento è per ora in fase di stallo, verrà ridiscusso.

A presidio dei diritti del netizen ci sarebbe dovuto altresì essere l’emendamento noto come 110, che prevedeva che i provider non fossero coinvolti nel controllo di ciò che i cittadini avessero fatto della connettività, se non sotto l’ordine dell’autorità giudiziaria. L’emendamento è stato modificato: potrebbe agevolare, presso gli stati membri, l’introduzione di sistemi di risposta graduale come quello che la Francia ha ormai innestato nel proprio quadro normativo.

A tutela dei netizen europei nei confronti di meccanismi fatti di giustizia privata, di sorveglianza, di avvertimenti e di disconnessioni avrebbe inoltre dovuto agire l’emendamento 138. Introdotto nel Pacchetto Telecom nei mesi scorsi, stralciato e di nuovo reintrodotto dalla parlamentare europea Catherine Trautmann, avrebbe dovuto impedire che calassero ghigliottine deterrenti e punitive sulle connessioni, sul diritto del cittadino a informarsi e ad esprimersi. Nel corso del trilogo tra le istituzioni europee, sotto le pressioni di Francia e Regno Unito, la disposizione ha subito delle modifiche: non rappresenta più un paletto all’avvento di un regime di risposta graduale che culmina con il blocco dell’erogazione di connettività. Si tratterebbe ora di una semplice raccomandazione non vincolante.

Ma non è tutto: se la prima versione dell’emendamento imponeva che fosse l’autorità giudiziaria l’unica a poter agire sulle libertà del cittadino, ed eventualmente a poterle comprimere per sanzionare comportamenti illegali, il testo del frammento dispone ora che non sia necessariamente l’autorità giudiziaria ad essere investita da questa responsabilità, ma siano invece “le autorità che la legge definisce competenti”. L’Hadopi francese, ad esempio, l’Haute Autorité pour la diffusion des ouvres et la protection des droits sur Internet, che non sarà composta da magistrati, avrà libertà di imporre identificazioni e disconnessioni in quanto riconosciuta dalla legge. Sarà la Commissione Industria, ricerca e energia (ITRE) a doversi esprimersi a riguardo in una votazione che, salvo variazioni di programma, avverrà il 21 aprile.

Il voto finale al Pacchetto Telecom è previsto per il 5 maggio. I cittadini della rete hanno organizzato la resistenza. L’Europa si prepara al blackout. (Beh, buona giornata).

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«Permettere a qualcuno di curiosare sul vostro traffico internet sarebbe come permettere ad una società di installare una telecamera nella vostra stanza, con la differenza che direbbe loro molto di più».

di Sean Poulter – «Daily Mail»

L’inventore del World Wide Web ha sferrato un attacco infuocato contro i piani volti a spiare le abitudini domestiche di navigazione di milioni di utenti.
Sir Thomas Berners-Lee mette in guardia sul fatto che tali tecnologie risulterebbero ancor più minacciose del permettere alle compagnie di installare telecamere nelle nostre case, e sostiene che i dettagli rivelati potrebbero essere utilizzati da persecutori o da servizi segreti stranieri che volessero ricattare politici britannici.

Gli internet provider BT, TalkTalk e Virgin Media stanno tutti prendendo in considerazione un sistema chiamato Phorm, che potrebbe lasciar traccia delle 11 milioni di pagine che i loro utenti visitano. Questo sistema potenzialmente profittevole crea un profilo anonimo con un ventaglio di interessi che è poi utilizzato dai venditori per inviare pubblicità mirate.
Phorm assicura di essere molto meno intrusivo dei sistemi per tracciare e schedare gli utenti usati da motori di ricerca del calibro di Yahoo e Google. Sostiene che non ci sia nulla che colleghi un nome o indirizzo al profilo e i clienti possono anche starsene fuori.
Ad ogni modo Sir Tim, 53, ha indetto un riunione dei vertici parlamentari per discutere una legge sulla Privacy: “É molto importante che possiamo utilizzare internet senza il pensiero che, quando clicchiamo, una terza parte saprà su cosa abbiamo cliccato in modo che questo influisca negativamente sul cambio del nostro premio assicurativo, sulla nostra possibilità di stipulare una polizza vita o di trovare un altro lavoro”.
“Pacchetto di Investigazione Profonda” è il termine tecnico utilizzato per il monitoraggio della navigazione di un individuo.
Sir Tim ha affermato che questo genere di attività fornisce informazioni sull’individuo mai fornite prima.
«Rivela enormi quantità di informazioni sulla vita delle persone, ciò che amano, ciò che odiano e ciò che temono. Le persone utilizzano la rete quando sono in crisi».
«È molto importante che possiamo utilizzare internet senza il pensiero che, quando clicchiamo, una terza parte saprà su cosa abbiamo cliccato tanto da poter avere effetti negativi sul cambio del nostro premio assicurativo, sulla nostra possibilità di stipulare una polizza vita o trovare un altro lavoro».
Ha affermato: «Permettere a qualcuno di curiosare sul vostro traffico internet sarebbe come permettere ad una società di installare una telecamera nella vostra stanza, con la differenza che direbbe loro molto di più». «Credo che l’atto di utilizzare internet sia qualcosa che deve esserci permesso di fare senza alcuna interferenza o controllo ispettivo».
Sir Tim ha aggiunto: «Una volta che l’informazione è stata raccolta può essere utilizzata sia dalla società che da un infiltrato. Potrebbe trattarsi di informazioni su navigazioni registrate di un membro del parlamento, potrebbero essere utilizzate da un potere straniero per attaccare la Gran Bretagna intercettando personalità chiave, scoprendo ciò che hanno fatto e ricattandole». «Potrebbero accadere molte brutte cose. Persino un manico .sessuale potrebbe utilizzarle per perseguitare una vittima con dettagli incredibili».
Sir Thomas ha descritto aziende che vogliono sviluppare ed utilizzare questo sistema come «spioni nel bel mezzo della rete».
Ha anche affermato: «Sono imbarazzato come cittadino britannico che stia accadendo questo mentre negli Stati Uniti si è tracciata una netta linea di demarcazione per impedirlo.»
Il guru di internet si è così espresso durante un evento tenuto nella sede del Parlamento a cui erano presenti i membri della Camera dei Comuni e della Camera dei Lord che stanno valutando se siano necessari cambiamenti alla Leggi sulla Privacy. Questi giudizi accentueranno la pressione su BT, TalkTalk e Virgin affinché abbandonino i piani di utilizzo del sistema Phom.
Dame Wendy Hall, professore di scienze informatiche presso l’ Università di Southampton durante la seduta ha detto: «Se ci spiano su internet è come se aprissero la corrispondenza privata» . «Il monitorare le nostre conversazioni su internet, in social network ed altri siti, è come se intercettassero i nostri telefoni»
«Tutto questo ha a che vedere con chi siamo e con che cosa sia privato nell’ Era Digitale. Il Governo deve riflettere su come prendersi cura di ciò».
Nel 2006 BT ha condotto 3 test preliminari d’acquisto col sistema Phom, che hanno compreso la creazione di migliaia di profili di navigazione di propri utenti. Il test pilota segreto è stato effettuato senza il consenso degli utenti, quindi per le leggi dell’ Unione Europea sarebbe illegale.
Phorm insiste di essere molto meno invadente degli altri sistemi di registrazione della navigazione casuale di altri motori di ricerca come Yahoo e Google. Afferma che non c’è nulla che connetta il profilo a un nome o un indirizzo, inoltre il cliente può scegliere di non aderire.
L’amministratore delegato di Phorm, Kent Ertugrul, ha respinto le accuse dei Neo Luddisti sostenendo che Sir Tim e gli altri critici non avrebbero capito come funziona la tecnologia.
Ertugrul sostiene: «Hanno insinuato che abbiamo utilizzato qualcosa di oscuro e malefico che ha svelato ciò che tutti fanno, ma questo è esattamente quello che il nostro sistema non fa.
«Abbiamo creato qualcosa che riconcilia il bisogno di privacy e quello del guadagno.
Ertugrul ha affermato che la sua tecnologia permette ai siti internet di diventare un mezzo commerciale fornendo pubblicità mirata.
Phorm sostiene che il suo sistema sia molto più sicuro di quello utilizzato dai più popolari motori di ricerca.
Il signor Ertugrul ha aggiunto: «Sono d’accordo che al giorno d’oggi esista un problema relativo alla privacy, ma la risposta non è quella di entrare in una sorta di taglio Neo-Luddista bensì quella di creare una soluzione tecnologica al problema esistente. Questo è quanto crediamo di aver fatto». (Beh, buona giornata).

Articolo originale: Internet ad tracking system will put a ‘spy camera’ in the homes of millions, warns founder of the web

Traduzione a cura di Romina Chiari per Megachip

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