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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Niente rigore, equità e futuro: la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata».

di LUCA RICOLFI- La Stampa

Lì per lì, sentite le prime notizie sulla super-manovra, mi sono detto: saranno pure sacrifici, e sacrifici alquanto impopolari, ma meglio tardi che mai. In fondo erano almeno tre anni, dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, che quasi tutti gli analisti indipendenti scongiuravano il governo di non mettere la testa sotto la sabbia, di smetterla con gli annunci e le dilazioni (vedi l’annacquamento del federalismo), di agire subito e con determinazione. Ora anche Berlusconi e Tremonti l’hanno capita, e si apprestano ad affrontare i gravissimi problemi della nostra economia. Spiace riconoscerlo, ma ai mercati è riuscito quello che alle menti illuminate dei riformisti di destra e sinistra non era mai riuscito: convincere un governo immobilista (come gli ultimi cinque, dal ‘98 a oggi) che non si può restare oltre con le mani in mano, paralizzati dalle divisioni e dagli interessi privati del premier. Poi però, accanto a questo sentimento di relativa soddisfazione, se ne è installato un altro, di segno opposto. Che cosa mi ha fatto cambiare atteggiamento?

In primo luogo, la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che – dopo aver per anni disprezzato e sbeffeggiato chiunque osasse mettere in dubbio la solidità dei conti pubblici italiani – ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata», la tempesta che ha investito borse e titoli di Stato «non era prevedibile», e via cadendo dalle nuvole.

Eh no, tutto si può dire ma non che non foste stati avvertiti. La stragrande maggioranza degli studiosi, in questi anni, mesi, settimane e giorni era assolutamente concorde sulla diagnosi di base: i conti pubblici italiani non sono affatto in sicurezza, l’entità del nostro debito pubblico ci rende permanentemente vulnerabili, la manovra varata un mese fa era una presa in giro dei mercati e delle istituzioni europee, perché rimandava l’85% dell’aggiustamento al 2013-14, quando non si sa nemmeno chi governerà, né di conseguenza si può avere la minima garanzia che rispetterà gli impegni presi oggi.

Ricordate lo «scalone» delle pensioni? Anche allora, eravamo nel 2004, Tremonti lo varò per legge rimandandone però l’applicazione al 2008, e il governo successivo – come si poteva facilmente prevedere – se lo rimangiò in un sol boccone. E anche per quanto riguarda la manovra di luglio, che il governo si è finalmente deciso ad anticipare di un anno, vorrei ricordare quello che Roberto Perotti e Luigi Zingales scrivevano più di un mese fa, quando era già del tutto evidente che i mercati non credevano alle vaghe promesse del nostro governo: «Esiste quindi una sola via d’uscita, che ci metta al riparo dalla volatilità del mercato: raggiungere il pareggio di bilancio nell’arco diciamo di un anno».

Se anziché accontentarsi della solidarietà e dell’approvazione dei colleghi europei, i nostri governanti avessero preso un po’ più sul serio i mercati, avrebbero agito molto prima, e oggi il prezzo che sono costretti a chiedere ai cittadini sarebbe minore. Insomma, aver rimandato i sacrifici significa averli aggravati. Questa è una gravissima responsabilità, un errore che una classe dirigente degna di questo nome non avrebbe fatto. Anche se va aggiunto, per amore di verità, che la timidezza del governo è anche il risultato dell’immaturità dell’opposizione: se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizioni e parti sociali li avrebbero massacrati.

E’ paradossale, e duro da accettare, ma la lezione di questi giorni è anche questa: la paura suscitata dai mercati rende possibili oggi al governo scelte che – senza quella paura – sarebbero state semplicemente impraticabili, perché avrebbero richiesto un’opposizione seria, disponibile al dialogo sulle riforme economico-sociali anziché ossessionata dall’incubo della democrazia in pericolo.

Ma non è solo la sfrontatezza del governo che mi ha fatto cambiare atteggiamento sulla manovra. E’ la lettura dei suoi contenuti che mi ha lasciato alquanto perplesso. E questo sotto almeno tre profili: equità, rigore, futuro.

Equità. Ci sono anche cose ragionevoli, per non dire sacrosante, ma la misura centrale, il «contributo di solidarietà» sui redditi superiori a 90 mila euro, è profondamente ingiusta. Essa infatti colpisce una minoranza di cittadini (poco più dell’1%) che ha due sole colpe: guadagnare più di 4000 euro netti al mese, e pagare le tasse. A parte l’ipocrisia della parola solidarietà (la solidarietà non può essere coatta), un prestito semantico necessario per ingraziarsi i sindacati e nascondere che si tratta – né più né meno – di un innalzamento dell’aliquota marginale Irpef, la misura è iniqua perché i ricchi «nominali» sono una piccola frazione (tra il 5% e il 10%) dei ricchi «reali».

Bastano pochi elementari confronti – ad esempio sui consumi di lusso, o sui patrimoni finanziari e immobiliari – per capire che almeno il 90% dei veri ricchi sono evasori fiscali, che vivono nell’abbondanza ma dichiarano redditi da ceto medio. Meglio, molto meglio anche sotto il profilo del gettito, sarebbe stato agire con una piccolissima imposta sul patrimonio (tipo il 5 per 10.000). Almeno avrebbero pagato anche gli evasori.

Così, sempre sotto il profilo dell’equità, sarebbe stata doverosa una esplicita differenziazione fra territori-formica, che producono molto ed evadono poco, e territori-cicala, che producono poco ed evadono molto. Alle amministrazioni più virtuose, proprio perché hanno già razionalizzato la spesa, non si possono imporre gli stessi tagli che si chiedono alle amministrazioni che hanno ancora un lungo cammino di risanamento da compiere.

Rigore. Qui le obiezioni sarebbero moltissime, per cui mi limito a quattro esempi: manca un piano di dismissioni del patrimonio pubblico; manca un intervento incisivo sulla previdenza (in particolare su chi è andato in pensione prima dei 50 anni); diverse misure, a partire dal contributo di solidarietà, non hanno carattere strutturale; l’idea di togliere le tredicesime ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche che spendono troppo è peregrina in assenza di obiettivi di budget ben studiati e se prima non si ristabilisce il «comando» nei pubblici uffici, due precondizioni che mancano del tutto.

Futuro. Ma è soprattutto sulle prospettive future del Paese che la manovra, così come si profila in queste ore, appare più deludente. Il nostro problema centrale, la nostra palla al piede, è il debito pubblico. Pensare di risolvere questo problema senza accelerare la crescita, senza portarla dallo stentato 1% attuale ad almeno il 2%, è pura illusione. Se non torneremo a crescere a un ritmo decente non ci saranno né posti di lavoro per i giovani e per le donne, né soldi per completare il nostro stato sociale, che è ipertrofico dal lato delle pensioni ma rachitico su tutto il resto.

Ma nella manovra, per riconoscimento unanime, quel che manca sono proprio le due misure fondamentali per la crescita: riduzione della pressione fiscale sui produttori, abbattimento del numero di adempimenti per le imprese. E al loro posto, incredibilmente, compaiono ulteriori aggravi per lavoratori autonomi e società: dalla «rimodulazione» degli studi di settore per i primi, alla riduzione – per le seconde – della possibilità di abbattimento delle perdite.

Può darsi che quel che non si vede oggi spunti domani dalla delega fiscale. Può darsi che il governo si decida ad alzare l’Iva sui beni di lusso, a ridurre la selva delle esenzioni ed agevolazioni dei regimi fiscali. Ma se una parte cospicua di questi risparmi non verrà usata per dare ossigeno all’Italia che produce e che compete, se – come purtroppo è avvenuto finora – ogni centesimo di gettito recuperato andrà a finire nel calderone del bilancio pubblico senza alleggerire la pressione fiscale sui produttori, allora temo che anche i sacrifici che ora ci vengono richiesti finiranno per essere stati vani. (Beh buona giornata).

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Attualità democrazia Leggi e diritto Pubblicità e mass media

Il governo Berlusconi vara una legge contro la corruzione? Ci avevate creduto, eh!?

Gira a vuoto la vite anti corruzione, la nuova legge dura lo spazio di un mattino, di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Berlusconi annuncia, i giornali registrano: pene più severe per corrotti e corruttori Poi il Consiglio dei ministri riflette, esamina, studia una “bozza” E l’operazione “Liste Pulite” prevede eccezioni, deciderà una commissione interna del Pdl caso per caso e le dimissioni, politiche e non giudiziarie, di Cosentino sono respinte dal premier

Al mattino, alle prime ore del mattino di venerdì 19 febbraio, anno 2010, diciotto anni dopo il “febbraio che inaugurò Tangentopoli”, i giornali, tutti i giornali, raccontano di una grande e significativa “svolta”. La Stampa titola: “Giro di vite sulla corruzione” e specifica: “Pene più dure e fuori dalle liste elettorali chi ha commesso reati”. A decidere e comunicare la “svolta” è stato nel pomeriggio del giovedì precedente il presidente del Consiglio.

Infatti la Stampa accompagna e sostiene l’importante notizia con un commento dal titolo: “Il Cavaliere formato Di Pietro”. L’autore, Michele Brambilla, coglie e sottolinea: “Mai ci saremmo aspettati di vederlo vestito con i panni del giustizialista… il protocollo che intende introdurre nel Pdl somiglia molto a quello screening che è uno dei pilastri portanti dell’Idv: un esame preventivo della moralità giudiziaria dei candidati… ce ne ha dato notizia Libero con due articoli i cui titoli parlano da soli: Esame di onestà per i candidati del Pdl e Il coraggio di far fuori le mele marce…”. Brambilla registra, segnala e spiega: “Berlusconi è uomo di sondaggi, qualcosa deve aver fiutato, sa che alle inchieste non si può sempre rispondere parlando di toghe rosse. Qualche volta forse sì, ma non sempre”.

Esagerati è un po’ ridondanti la lettura e il racconto della realtà da parte de La Stampa? Nelle stesse ore di primo mattino il prudente e compassato quotidiano della Confindustria, il Sole 240re titola: “Berlusconi: ai corrotti pene più alte“. E resoconta: “Il Consiglio dei ministri approverà oggi un disegno di legge sull’inasprimento delle pene, lo ha deciso il premier”. Repubblica annuncia la stessa cosa, con un pizzico di malizia titola: “Berlusconi scopre la corruzione“. Il Fatto Quotidiano la notizia della nuova, imminente legge per dare più galera ai corrotti e corruttori in prima pagina non la dà. A dimostrazione di quanto sia una “notizia” buona per Berlusconi e scomoda per i suoi avversari. Insomma Berlusconi che esclude dalle liste elettorali del Pdl gli indagati e il varo pronto-sforno di una legge con pene più dure per i reati tipici dei “colletti bianchi” è uomo che morde cane. Stampa, Sole 24ore e Corriere della Sera (titolo in prima: “Il premier annuncia misure anti corruzione”) stupiscono e quasi trasalgono, Repubblica incassa e comunica a denti stretti, il Fatto, il giornale più giustizialista che c’è, stranamente ma non tanto si distrae ed omette. Questa la situazione, questa la realtà, fedelmente riportata, sia pure con vari umori, di primo mattino, alle prime ore del mattino.

Ma dura, appunto, lo spazio di un mattino. A mezzogiorno il governo riunito comunica: “Avviato l’esame… fatta una sorta di ricognizione di esame preventivo… il testo è solo una bozza“. Questo è quel che è rimasto della legge-fulmine contro la corruzione. Il ministro Brunetta va in conferenza stampa e chiarisce: “Dobbiamo marginalizzare i fenomeni corruttivi, farli diventare fisiologici”. Chiaro, no? Per gli incontentabili pignoli che aspettavano la legge annunciata Brunetta ha la risposta: “Mettere le procedure on line”. Panico tra i corrotti e i corruttori.

Casini commenta: “Come il piano casa, non si è vista una casa…”. Ma Casini è dell’opposizione, ci si può fidare del suo scetticismo? Certo, la legge e le pene più dure sono rimandate a “più attento esame”. Il governo l’aveva annunciata come legge già fatta, sarà stato frettoloso. Resta comunque l’operazione “Liste Pulite” proclamata dal Pdl. Si legge poi tra le righe che l’esclusione dalle liste di chi è in odor di corruzione sarà “decisa caso per caso” e demandata ad “apposita commissione interna”. Insomma “tolleranza zero” però andiamoci piano, riparliamone anche qui, caso per caso. E Nicola Cosentino che si è dimesso da tutto non è forse la prova, la prima e forte prova della “nuova pulizia”? A voler leggere si apprende che Cosentino ha sbattuto la porta del Pdl e del governo per dissenso politico sulla gestione delle presenti alleanze e futuro potere in Campania. L’insostenibilità morale o giudiziaria dei suoi incarichi nulla c’entra con le sue dimissioni, ci mancherebbe altro. Ad ogni buon conto dimissioni che Berlusconi ha respinto.

Si è fatto pomeriggio dello stesso venerdì di febbraio: la legge più severa con i corrotti e corruttori non c’è, l’operazione “Liste Pulite” prevederà, se del caso, eccezioni, le dimissioni di Cosentino sono tanto “irrevocabili” quanto non operative. Tranquilli dunque, la notizia vera era: cane morde uomo. Berlusconi non adotta il “metodo Di Pietro”. Era probabilmente vero che è preoccupato da qualche sondaggio. Ed ha reagito con il “metodo Berlusconi”. Un grande e deciso annuncio, l’annuncio di una legge a tambur battente come si conviene al “governo del fare”. Poi, tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia

Silvietto e il G8, Silviotto e il G Etto: “Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane – presumibilmente ascoltato da Carla – perché le first ladies non venissero al G8.”

Barbara Spinelli-La Stampa.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La “quarta crisi” miete vittime eccellenti. Chi ci rimette sono i lettori di un’ottimo giornale italiano.

di Sabina Rodi – Italia Oggi

Il forsennato giro di poltrone ai vertici dei grandi giornali ha subito un’accelerazione, in questo fine settimana, con le dimissioni dalla direzione della Stampa di Giulio Anselmi e la sua sostituzione con Mario Calabresi, corrispondente di la Repubblica dagli Stati Uniti. E con la contestuale nomina di Giulio Anselmi a presidente dell’agenzia Ansa. I giornalisti sono le vestali della trasparenza. Per professione, dovrebbero togliere le tende che impediscono di vedere che cosa c’è sotto i fatti. In questo caso invece sono stati tutti zitti e muti a partire dai protagonisti di questo giro di poltrone. Cerchiamo di capire che cosa è successo e soprattutto perché è successo.

Partiamo dalle dimissioni dalla Stampa di Giulio Anselmi, un giornalista di 64 anni. In pratica, Anselmi è stato prepensionato solo un anno prima di poter essere messo legalmente in pensione dal suo editore. Anselmi, con questa sua ultima decisione, ha abbandonato il terzo quotidiano politico nazionale per coprire un incarico (la presidenza dell’Ansa) che è formalmente di prestigio, ma che è anche più o meno onorifico e, comunque, da fine percorso professionale.

Non a caso, chi lo ha preceduto nella carica, l’ambasciatore Boris Biancheri, non solo non era un giornalista professionista, ma era diventato presidente dell’Ansa dopo essere stato messo in pensione dal ministero degli Esteri per aver raggiunto la massima età per poter rimanere in servizio ed è poi stato in via della Dataria per addirittura quattro mandati triennali consecutivi (cioè per 12 anni abbondanti) fino ad arrivare ai suoi attuali 80 anni che non si può certo dire sia l’età di un uomo che è nel pieno delle forze. Dalla sua, per non abbandonare La Stampa, Anselmi aveva anche il fatto che, nei suoi tre anni di direzione del quotidiano torinese, era riuscito a trasformare un giornale invecchiato, asmatico e pieno di acciacchi, nel migliore e più innovativo quotidiano italiano.

Il suo è stato un lavoro non solo duro e senza soste ma anche molto intelligente. Un lavoro poi, che, per riconoscimento unanime, ha dato abbondanti frutti giornalistici. Lasciare una Stampa così, per andare a dirigere la Repubblica o il Corriere della sera sarebbe stata una decisione naturale ed inevitabile. Si dirà che la direzione de la Repubblica non è disponibile (ieri l’altro infatti Carlo De Benedetti, spegnendo ogni roumor contrario, ha detto che Ezio Mauro resta dov’è) e che la direzione del Corriere della sera è stata assegnata a un altro.

Tutto vero. Però, se le cose stanno così, perché Anselmi ha lasciato La Stampa? Non poteva restare in un posto giornalisticamente attivo e di grande visibilità personale ancora per un anno? Non è infatti possibile pensare che un editore (la Fiat), dopo questo exploit, sia disposto a privarsi di un direttore così significativo come Anselmi. Tuttavia l’ipotesi che Anselmi sia stato sofficemente spinto fuori, sta in piedi. A Torino però tutti sono abbottonatissimi, non hanno nulla da aggiungere, né, tanto meno, da spiegare.

Solo Anselmi dice a Italia Oggi: «Tutte le stagioni si concludono. Ho ricevuto dall’Ansa un’offerta che mi interessa, anche perché viene da una realtà che conosco bene e in cui mi piace tornare». Una dichiarazione opportuna, ma non totalmente convincente. Procediamo quindi per induzione dalle indiscrezioni che si conoscono.

Nel mondo sindacal-giornalistico torinese si dice infatti da tempo che la proprietà de La Stampa (preoccupata per il davvero imbarazzante deficit economico della testata e per il fatto che, nonostante che il giornale abbia sicuramente qualità nazionali, esso sia sempre restato prevalentemente acquistato solo nelle regioni del Piemonte, della Liguria e della Val d’Aosta) sia rassegnata a prendere atto di questo fatto e voglia restringere a livello tri-regionale la diffusione in tutte le edicole del quotidiano, realizzando, con questa sua scelta, una drastica riduzione dei costi.

Primo, tagliando su carta, stampa e diffusione realmente nazionali. E, secondo, riducendo il peso dei costi redazionali, compreso quello, oggi onerosissimo, di alcune sedi di corrispondenza (compresa quella, molto folta, di Roma) i cui argomenti, nell’epoca di Internet, possono essere coperti anche stando a Torino o mandando degli inviati, che comunque già ci vanno, nei momenti e negli appuntamenti importanti, chessò, dal G20 al terremoto dell’Abruzzo.

Ora, una rivoluzione di questo genere, piena di lacrime e sangue, non poteva sicuramente essere avallata da un direttore come Anselmi che è all’apice del suo fulgore direzionale. Meglio quindi lasciare il campo prima del diluvio che può essere affrontato con minori danni da un direttore giovane che ha poco da perdere e molto da guadagnare, diventando direttore di una testata così importante dopo aver oscuramente lavorato come un folle nella complessa cucina de la Repubblica e come corrispondente dagli Stati Uniti dove però, pur essendo molto bravo, veniva permanentemente oscurato da un corrispondente ingombrante come Vittorio Zucconi che, avendo una mostruosa capacità di lavoro, è da sempre abituato a lasciare solo le briciole informative ai suoi colleghi più giovani.

In tutta questa vicenda direttorial-presidenziale, resta a piedi, per un’altra volta, l’ex direttore de La Stampa, Marcello Sorgi (oggi riluttante corrispondente da Londra de La Stampa ma che, in pratica, vive a Roma e che, comunque, dei problemi della Queen non gli interessa un baffo). Sorgi, nonostante sia stato a lungo supportato, per la presidenza dell’Ansa, da Gianni Letta, che in questo settore è un mammasantissima, non ce l’ha fatta ad arrivarci, per l’unanime opposizione degli editori che avrebbero dovuto votarlo. Gli hanno preferito il suo amico (ancora?) Giulio Anselmi che, del resto, lo aveva già sostituito alla direzione de La Stampa. (Beh, buona giornata).

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