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“Il tunnel” di Gianni Perrelli: un romanzo in zona reportage.

La copertina di Tunnel
La copertina de Il Tunnel
Gianni Perrelli scrive reportages e interviste prevalentemente dall’estero per “L’Espresso”. Dopo una parentesi giovanile nel giornalismo sportivo (era inviato di calcio al “Corriere dello Sport”) è stato caporedattore, capo degli esteri e corrispondente da New York per “L’Europeo” e “L’Espresso”. Ha inoltre diretto il settimanale sportivo “Special”. È autore di saggi e romanzi.
Gianni Perrelli scrive reportages e interviste prevalentemente dall’estero per “L’Espresso”. Dopo una parentesi giovanile nel giornalismo sportivo (era inviato di calcio al “Corriere dello Sport”) è stato caporedattore, capo degli esteri e corrispondente da New York per “L’Europeo” e “L’Espresso”. Ha inoltre diretto il settimanale sportivo “Special”. È autore di saggi e romanzi.
di Riccardo Tavani

L’ultimo romanzo di Gianni Perrelli, Il tunnel, per i tipi di Di Renzo Editore, è un intrigo di personaggi letterari prima che di città e traffici missilistici internazionali. Da veterano degli inviati e corrispondenti esteri per diversi giornali, l’autore, nel tessere le scene dell’intrigo tra una capitale e l’altra, mette soprattutto in scena la sua abilità nel padroneggiare il genere “reportage”. Anzi, l’intrigo internazionale di bruciante attualità che Perrelli sagacemente imbastisce, gli serve sì da carburante per mantenere alta l’attenzione del lettore, ma si tratta di un’attenzione finalizzata soprattutto al reportage.

Reportage da dove e su cosa, dunque? Da quelle capitali e sulle tensioni tra quei Paesi di cui parla il romanzo? Perrelli è troppo istruito sul suo mestiere per cadere in una trappola del genere. In questa ibrida zona narrativa lui non è inviato di nessun vero giornale; semmai lo è solo di quella coppia surreale formata da se stesso e da un indefinibile lettore di romanzi. Così gli bastano pochi sobri quanto efficaci riferimenti toponomastici e atmosferici per restituirci le pulsazioni e le pulsioni più intime di una città, di una sua zona, del suo traffico di superficie e sotterraneo. Gli è sufficiente il ricevimento nel salone di una ambasciata estera a Roma per far balenare l’intero poligono di tensioni in atto in questo momento tra Tel Aviv, Teheran, Roma, Damasco, Parigi e Washington. Gli è sufficiente questo per farci capire quanto lui conosca quelle città e situazioni e quanto potrebbe autorevolmente dilungarsi a riportarne.

Proprio per questo sarebbe, però, soprattutto per lui, operazione troppo banalmente scontata; e noiosa: da scrivere e da far leggere a quel fantomatico lettore della strana coppia. Assodato che il reportage giornalistico – proprio come l’intervista – è un genere letterario in sé che non ha bisogno di “romanzarsi”, rimane da stabilire come esso, senza imbastardirsi, trasli dentro un romanzo, senza, però, neanche ridurre quest’ultimo a reportage allungato a brodaglia.

Detto per altra via: considerato che il reportage è lo stile – di vita prima che letterario – di Gianni Perrelli, cosa diventa esso in quella particolare zona di tensione del mondo che è la sua creazione narrativa? Ovvero: di quale particolare zona del romanzo perrelliano ha bisogno il reportage per tradursi in narrazione senza tradirsi come genere?

Ecco, questa zona appare in tutta evidenza quella dei personaggi. Non si può davvero capire e apprezzare quest’ultimo romanzo di Perrelli senza tenere presente tale sua precipua caratteristica. Non le città, i loro quartieri, il gioco spionistico e le vicende di guerra e di politica internazionale in ballo sono il vero contenuto del reportage, ma i personaggi del romanzo, tanto nella loro originale singolarità quanto nelle loro tensioni e connessioni, altrettanto critiche e disperate. Non la città del personaggio è la scena della narrazione, ma il personaggio della città. Non c’è più una zona spaziale e temporale nella quale si iscrive un personaggio, ma un personaggio-zona tout court, che reca intrinseche le coordinate stilistiche, narrative, urbanistiche e cronologiche del reportage. Lo spazio della città o di una frontiera di guerra non fanno tanto da sfondo quanto sono uno sfondo che riverbera dal personaggio.

Già nel suo precedente romanzo Non avrai altro dio il vero nocciolo letterario del testo è il drammatico reportage sulla guerra che da esterna si fa interna al protagonista. Li, però, ci trovavamo in una situazione claustrofobica, concentrazionaria, conseguenza di una prigionia continuamente oscillante tra la vita e la morte. Il “fuori” della cella nella quale è rinchiuso non c’è proprio per il personaggio, oppure è ridotta soltanto al passato, ai suoi ricordi, a ciò che avvenne in lui e per il mondo quel fatidico 11 settembre 2001. Tutto in quella vicenda era già “dentro”.

Qui, invece, il “fuori” c’è e, anzi, abbonda. Nello spazio come nel tempo, c’è sempre un “fuori” che fa da sfondo. Mentre si legge il romanzo viene da domandarsi: “Perché l’autore fa tutte queste lunghe digressioni su fatti o su pensieri magari meramente accidentali, i quali non solo non hanno una stretta connessione con il nocciolo del plot ma, anzi, allontanano dalla sua buona sostanza?”. Si può rispondere in maniera pertinente a questa domanda solo se si tiene presente che ogni capitolo del romanzo ha come titolo il nome di una città nella quale si svolge una tappa dell’intrigo. La lunga digressione narrativa avviene dunque sempre all’interno di una città, la quale si intona a sfondo, con il suo paesaggio sobriamente mutante, al passage all’interno del personaggio.

L’autore sembra un flâneur baudelairiano, non di città ma di persone. Bruno e Gina, a Roma sono l’oggetto di un particolare reportage, tanto dettagliato quanto stilisticamente fluido, spigliato. Quando poi si spostano, per una breve vacanza sentimentale, a Parigi, i due personaggi diventano zona di un nuovo reportage, che fa emergere una toponomastica umana impossibile da rappresentare a Roma. Flâneur, abbiamo detto, perché quella del Perrelli non è un’altisonante introspezione psicologica o psicanalitica del personaggio, sebbene una deambulazione, una passeggiata, all’interno dei suoi viali, lungofiume o vicoli ciechi, senza una direzione, una meta precisa ma attraverso uno sguardo tanto rabdomante quanto perspicace.

Il motto dello stile reportage esistenziale di Perrelli è: “Vai, vedi, scrivi” ed è esattamente quello che lui fa di ogni suo personaggio. Non solo, come abbiamo detto, lo spazio fa da sfondo al reportage sul personaggio ma anche il tempo, il presente che fugge, il passato che torna, il futuro che si apre simile a una minacciosa chiusura. Assistiamo anche a uno sdoppiamento tra due io narranti: quello di Bruno e quello di Stefano, quasi a sottolineare che l’uno è una parte del paesaggio dell’altro, ovvero una diversa dislocazione bellica,geografica e urbanistica dell’altro.

Il reportage, pur nel suo andamento sempre spedito e anche ironico, alla fine si rivela però drammatico. I personaggi si disperdono nelle loro traiettorie e l’autore non può, non vuole attenuare il senso di tragedia e smarrimento. Solo dal passato di Bruno sembra aprirsi una nuova possibilità di reportage da una zona-personaggio sconosciuta: un passage non semplicemente temporale ma nel tunnel di una generazione smarrita che si infila dentro quello di un’altra dimenticata.

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