Categorie
Attualità democrazia libertà, informazione, pluralismo, Media e tecnologia Potere

Liberismo e libert

(Redazione del Fatto Quoptidiano)
La libertà di stampa e di espressione del pensiero è a grave rischio nell’Occidente capitalistico, quello stesso di cui si vantano tanti bei soloni che, sprofondati nel lusso delle mance ricevute a piene mani dalla classe dominante, non si stancano di ripetere le lodi del nostro sistema illuminato e di lanciare anatemi su coloro che ancora insistono a non riconoscere la naturale supremazia del mercato e l’infallibilità dei suoi servi ben pagati, cioè loro stessi.
Si guardi a quanto sta recentemente succedendo, ad esempio, in Italia e in Grecia. In Italia, la legge varata con la scusa di salvare dal carcere il pessimo Sallusti (proposito che mi lascia assolutamente indifferente, anche perché non si capisce perché in carcere debbano terminare sempre i soliti poveracci), monetizza in sostanza la diffamazione, minando la possibilità dei giornalisti di formulare ipotesi ed accuse a pena di risarcimenti ingenti.

Guai a dire la verità sui potenti, si rischia di dover pagare caro! Una logica e una sanzione ben in linea con l’attuale dittatura neoliberista della finanza, contro le quali si esprimono le legittime preoccupazioni della Federazione nazionale della stampa. Tale legge non farebbe del resto che codificare una prassi in atto. Basti pensare a De Corato, immarcescibile consigliere della destra postfascista milanese che potrà presto, come Paperon De’ Paperoni, farsi il bagno nelle monetine raccolte da migliaia di persone giustamente solidali con il giornalista del manifesto Luca Fazio, condannato a dare ventimila euro al suddetto immarcescibile. Chi vuole contribuire sottoscrivendo qualche monetina per De Corato (buon pro gli faccia!) guardi questo link.

Ancora più grave la vicenda greca, che ha visto l’arresto di ben due giornalisti: uno, Kostas Vaxevanis, reo di aver diffuso una lista di evasori fiscali in un Paese nel quale vengono smantellati servizi pubblici di ogni tipo per onorare gli impegni presi nei confronti del potere finanziario. Nella lista, nel frattempo scomparsa, pare fosse presente mezzo governo “moralizzatore” ellenico. Una ben strana concezione della privacy al servizio dell’illegalità delle classi dominanti! L’altro, Spiros Karazaferris, perché avrebbe diffuso notizie non autorizzate sul default ellenico, mettendo in forse i presupposti stessi dell’attuale devastazione neoliberista del Paese all’insegna dell’insopportabile feticcio europeo del pareggio di bilancio.

Non a caso i due Paesi menzionati sono Paesi nei quali si sta scatenando negli ultimi tempi una feroce offensiva neoliberista volta a spazzare via quanto resta dello Stato sociale. Non a caso il capitale farebbe volentieri a meno delle elezioni che potrebbero in qualche modo far avanzare forze contrarie alle sue mortifere ricette. Non a caso in questi Paesi continuano a regnare caste legate anche all’evasione fiscale e all’economia illegale. Non a caso si tratta di Paesi mediterranei soggetti alla dittatura germanocentrica della signora Merkel.

Ma il discorso si potrebbe forse estendere anche ad altri Paesi capitalistici nei quali però, occorre riconoscere, determinati principi liberali sembrano almeno per il momento avere radici più salde. Ma anche lì, leggi e pronunce giudiziarie contro la diffamazione dei ricchi e processi di concentrazione dei media rischiano di dare gravissimi e irreparabili colpi alla libertà d’informazione. Sempre più spesso poi ricorrono in tribunale per vedersi riconosciuti risarcimenti milionari le multinazionali che sostengono la lesione del loro preteso buon nome, come la fabbrica di amianto Eternit nei confronti dell’avvocato francese Jean-Paul Teissonière che l’ha accusata di avere avvelenato la gente per oltre vent’anni. Ovunque le cricche al potere hanno paura della verità e per questo non risparmiano gli sforzi per controllare in ogni modo l’informazione.

Ce n’è da riflettere per i soloni nostrani. Quelli, per intendersi, pronti a stracciarsi le vesti per le presunte minacce alla libertà di stampa in Venezuela o per ogni smorfia di disappunto di Yoani Sanchez e che tacciono, per ignoranza o malafede, di fronte agli almeno trenta giornalisti assassinati in Honduras dopo il golpe neoliberista e filostatunitense che ha spodestato il presidente democraticamente eletto Zelaya. Perché sprecare energie preziose che possono essere dedicate al discredito delle esperienze alternative al neoliberismo, opera ben più à la page nei salotti bene e soprattutto molto meglio retribuita?(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

1° Luglio 2010, per la libertà di stampa e la libertà dell’informazione in Italia.

NO AL DDL INTERCETTAZIONI, NO AL SILENZIO DI STATO
Il 1° luglio 2010 a Roma, dalle ore 17, in piazza Navona

“Una grande mobilitazione per dire no al disegno di legge Alfano, che ostacola il lavoro di magistrati e giornalisti e rende i cittadini meno sicuri e meno informati; per dire no ai tagli alla cultura italiana previsti dalla manovra economica.
Una manifestazione per far sentire che non può essere sottratto al Paese il racconto di vicende giudiziarie di rilievo pubblico, pur nel rispetto del diritto delle persone alla riservatezza; per respingere gli interventi punitivi ai danni della produzione culturale e salvaguardare il diritto dei cittadini alla conoscenza; per contrastare il pericolo di chiusura di testate giornalistiche colpite dall’indiscriminata riduzione dei fondi pubblici; per tenere accese le luci dei media sul mondo del lavoro e sui drammatici effetti della crisi.
Un’iniziativa a difesa della Costituzione, per dare voce ai tanti soggetti e temi che rischiano l’oscuramento”.

Comitato per la libertà e il diritto all’informazione e alla conoscenza

Il primo luglio è prevista anche una ‘notte bianca’ della Fnsi, dell’Associazione di Stampa dell’Emilia-Romagna, dell’Anpi e dell’amministrazione cittadina a Conselice, il comune del Ravennate dove c’è l’unico monumento italiano alla libertà di stampa.

Info e aggiornamenti sul sito della Fnsi
(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Media e tecnologia

La lettera aperta che Maria Luisa Busi, giornalista Rai ha scritto a Augusto Minzolini, direttore del TgUno. Una fotografia dell’Italia.

(fonte: repubblica.it).
“Caro direttore ti chiedo di essere sollevata dalla mansione di conduttrice dell’edizione delle 20 del Tg1, essendosi determinata una situazione che non mi consente di svolgere questo compito senza pregiudizio per le mie convinzioni professionali. Questa è per me una scelta difficile, ma obbligata. Considero la linea editoriale che hai voluto imprimere al giornale una sorta di dirottamento, a causa del quale il Tg1 rischia di schiantarsi contro una definitiva perdita di credibilità nei confronti dei telespettatori”.

“Come ha detto il presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli: ‘La più grande testata italiana, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha visto trasformare insieme con la sua identità, parte dell’ascolto tradizionale”.

“Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E’ stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l’informazione del Tg1 è un’informazione parziale e di parte. Dov’è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d’Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c’è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l’onore di un nostro titolo.

E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell’Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perchè falliti? Dov’è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell’Italia esiste. Ma il tg1 l’ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale”.

“L’Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un’informazione di parte – un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull’inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo – e l’infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale”.

“Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore, una conduttrice, può soltanto levare la propria faccia, a questo punto. Nell’affidamento dei telespettatori è infatti al conduttore che viene ricollegata la notizia. E’ lui che ricopre primariamente il ruolo di garante del rapporto di fiducia che sussiste con i telespettatori”.

“I fatti dell’Aquila ne sono stata la prova. Quando centinaia di persone hanno inveito contro la troupe che guidavo al grido di vergogna e scodinzolini, ho capito che quel rapporto di fiducia che ci ha sempre legato al nostro pubblico era davvero compromesso. E’ quello che accade quando si privilegia la comunicazione all’informazione, la propaganda alla verifica”.

Nella lettera a Minzolini Busi tiene a fare un’ultima annotazione “più personale”: “Ho fatto dell’onestà e della lealtà lo stile della mia vita e della mia professione. Dissentire non è tradire. Non rammento chi lo ha detto recentemente. Pertanto:
1)respingo l’accusa di avere avuto un comportamento scorretto. Le critiche che ho espresso pubblicamente – ricordo che si tratta di un mio diritto oltre che di un dovere essendo una consigliera della FNSI – le avevo già mosse anche nelle riunioni di sommario e a te, personalmente. Con spirito di leale collaborazione, pensando che in un lavoro come il nostro la circolazione delle idee e la pluralità delle opinioni costituisca un arricchimento. Per questo ho continuato a condurre in questi mesi. Ma è palese che non c’è più alcuno spazio per la dialettica democratica al Tg1. Sono i tempi del pensiero unico. Chi non ci sta è fuori, prima o dopo.
2)Respingo l’accusa che mi è stata mossa di sputare nel piatto in cui mangio. Ricordo che la pietanza è quella di un semplice inviato, che chiede semplicemente che quel piatto contenga gli ingredienti giusti. Tutti e onesti. E tengo a precisare di avere sempre rifiutato compensi fuori dalla Rai, lautamente offerti dalle grandi aziende per i volti chiamati a presentare le loro conventions, ritenendo che un giornalista del servizio pubblico non debba trarre profitto dal proprio ruolo.
3) Respingo come offensive le affermazioni contenute nella tua lettera dopo l’intervista rilasciata a Repubblica 2, lettera nella quale hai sollecitato all’azienda un provvedimento disciplinare nei miei confronti: mi hai accusato di “danneggiare il giornale per cui lavoro”, con le mie dichiarazioni sui dati d’ascolto. I dati resi pubblici hanno confermato quelle dichiarazioni. Trovo inoltre paradossale la tua considerazione seguente: ‘il Tg1 darà conto delle posizioni delle minoranze ma non stravolgerà i fatti in ossequio a campagne ideologiche”. Posso dirti che l’unica campagna a cui mi dedico è quella dove trascorro i week end con la famiglia. Spero tu possa dire altrettanto. Viceversa ho notato come non si sia levata una tua parola contro la violenta campagna diffamatoria che i quotidiani Il Giornale, Libero e il settimanale Panorama – anche utilizzando impropriamente corrispondenza aziendale a me diretta – hanno scatenato nei miei confronti in seguito alle mie critiche alla tua linea editoriale. Un attacco a orologeria: screditare subito chi dissente per indebolire la valenza delle sue affermazioni. Sono stata definita ‘tosa ciacolante – ragazza chiacchierona – cronista senza cronaca, editorialista senza editoriali’ e via di questo passo. Non è ciò che mi disse il Presidente Ciampi consegnandomi il Premio Saint Vincent di giornalismo, al Quirinale. A queste vigliaccate risponderà il mio legale. Ma sappi che non è certo per questo che lascio la conduzione delle 20. Thomas Bernhard in Antichi Maestri scrive decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo, dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno”.

E conclude: “Caro direttore, credo che occorra maggiore rispetto. Per le notizie, per il pubblico, per la verità.
Quello che nutro per la storia del Tg1, per la mia azienda, mi porta a questa decisione. Il rispetto per i telespettatori, nostri unici referenti. Dovremmo ricordarlo sempre. Anche tu ne avresti il dovere”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Media e tecnologia

“La tutela della privacy è divenuta il pretesto per aggredire l’odiata magistratura, l’insopportabile stampa.”

La legge che ordina il silenzio stampa, di STEFANO RODOTÀ-repubblica.it
SE LA legge sulle intercettazioni verrà approvata nel testo in discussione al Senato, sarà fatto un passo pericoloso verso un mutamento di regime. I regimi non cambiano solo quando si è di fronte ad un colpo di Stato o ad una rottura frontale. Mutano pure per effetto di una erosione lenta, che cancella principi fondativi di un sistema. Se quel testo diverrà legge della Repubblica, in un colpo solo verranno pregiudicati la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto di sapere dei cittadini, il controllo diffuso sull’esercizio dei poteri, le possibilità d’indagine della magistratura. Ci stiamo privando di essenziali anticorpi democratici. La censura come primo passo concreto verso l’annunciata riforma costituzionale, visto che si incide sulla prima parte della Costituzione, quella dei principi e dei diritti, a parole dichiarata intoccabile? Se così sarà, dovremo chiederci se viviamo ancora in uno Stato costituzionale di diritto.

Questa operazione sostanzialmente eversiva si ammanta del virtuoso proposito di tutelare la privacy. Ma, se questo fosse stato il vero obiettivo, era a portata di mano una soluzione che non metteva a rischio né principi, né diritti. Bastava prevedere che, d’intesa tra il giudice e gli avvocati delle parti, si distruggessero i contenuti delle intercettazioni relativi a persone estranee alle indagini o comunque irrilevanti; si conservassero in un archivio riservato le informazioni di cui era ancora dubbia la rilevanza; si rendessero pubblicabili, una volta portati a conoscenza delle parti, gli atti di indagine e le intercettazioni rilevanti.

Su questa linea vi era stato un largo consenso, che avrebbe permesso una approvazione a larga maggioranza di una legge così congegnata.

Ma l’obiettivo era diverso. La tutela della privacy è divenuta il pretesto per aggredire l’odiata magistratura, l’insopportabile stampa. Non si vuole che i magistrati indaghino sul “mostruoso connubio” tra politica e affari, sull’illegalità che corrode la società. Si vuole distogliere l’occhio dell’informazione non dal gossip, ma da vicende che inquietano i potenti, dal malaffare. Se quella legge fosse stata approvata, non sarebbe stato possibile dare notizie sul caso Scajola, perché si introduce un divieto di pubblicazione che non riguarda le sole intercettazioni.
In un paese normale proprio quest’ultima vicenda avrebbe dovuto indurre alla prudenza. Sta accadendo il contrario. Al Senato si vuole chiudere al più presto. E questo è coerente con l’affermazione del presidente del Consiglio, secondo il quale in Italia “c’è fin troppa libertà di stampa”. Quale migliore occasione per porre rimedio a questo eccesso di una bella legge censoria?

Scajola, infatti, è stato costretto a dimettersi solo dalla forza dell’informazione. Una situazione apparsa intollerabile. Ecco, allora, il bisogno di arrivare subito ad una legge che interrompa fin dall’origine il circuito informativo, riducendo le informazioni che la magistratura può raccogliere, impedendo che le notizie possano giungere ai cittadini prima d’essere state sterilizzate dal passare del tempo. Non si può tollerare che i cittadini dispongano di informazioni che consentano loro di non essere soltanto spettatori delle vicende politiche, ma di divenire opinione pubblica consapevole e reattiva.

Si arriva così all’infinito silenzio stampa, all’opinione pubblica impotente perché ignara dei fatti, visto che nulla può esser detto su qualsiasi fatto delittuoso fino all’udienza preliminare, dunque fino a un tempo che può essere lontano anni dal momento in cui l’indagine era stata aperta. Che cosa resterebbe della democrazia, che non vuol dire soltanto “governo del popolo”, ma pure governo “in pubblico”? In tempi di corruzione dilagante si abbandona ogni ritegno e trasparenza, si dimentica il monito del giudice Brandeis: in democrazia “la luce del sole è il miglior disinfettante”. Stiamo per essere traghettati verso un regime di miserabili arcana imperii, di un segreto assoluto posto a tutela di simoniaci commerci di qualsiasi bene, di corrotti e corruttori, di faccendieri e di veri criminali.

Questo regime non avvolgerebbe soltanto in un velo oscuro proprio ciò che massimamente avrebbe bisogno di chiarezza. Creerebbe all’interno della società un grumo che la corromperebbe ancor più nel profondo. Le notizie impubblicabili, infatti non sarebbero custodite in forzieri inaccessibili. Sarebbero nelle mani di molti, di tutte le parti, dei loro avvocati e consulenti che ricevono le trascrizioni delle intercettazioni, gli atti d’indagine, gli avvisi di garanzia, i provvedimenti di custodia cautelare. Questo materiale scottante alimenterebbe i sentito dire, la circolazione di mezze notizie, le allusioni, la semina del sospetto. Renderebbe possibili pressioni sotterranee, o veri e propri ricatti. Creerebbe un clima propizio ad un “turismo delle notizie”, alla pubblicazione su qualche giornale straniero di informazioni “proibite” che poi rimbalzerebbero in Italia.

Accade sempre così quando ci si allontana dalla via retta della democrazia e dei diritti. Dal diritto d’informazione in primo luogo, che non è privilegio dei giornalisti, ma diritto fondamentale d’ogni persona, la premessa della sua cittadinanza attiva, del suo “conoscere per deliberare”. Ce lo ricordano le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, dov’è sempre ripetuto che “la libertà d’informazione ha importanza fondamentale in una società democratica”. In una sentenza del 2007, che riguardava due giornalisti francesi autori d’un libro sulle malefatte di un collaboratore di Mitterrand, la Corte ha ritenuto che la notorietà della persona e l’importanza della vicenda rendevano legittima la pubblicazione anche di notizie coperte dal segreto. In una sentenza del 2009 si è messo in evidenza che eccessivi risarcimenti del danno a carico di giornalisti e editori possono costituire una forma di intimidazione che viola la libertà d’informazione: che cosa dovremmo dire quando, da noi, il testo all’esame del Senato impugna come una clava le sanzioni pecuniarie con chiaro intento intimidatorio? E guardiamo anche agli Stati Uniti, al fermo discorso di Hillary Clinton sul nesso tra democrazia e libertà di espressione su Internet, alle ultime sentenze della Corte Suprema che, pure di fronte a casi sgradevoli e imbarazzanti, ha riaffermato la superiorità del Primo Emendamento, appunto della libertà di espressione

Un velo d’ignoranza copre gli occhi del legislatore italiano. Ma non è il benefico velo che lo mette al riparo da pressioni, da influenze improprie. È l’opposto, è la resa alla imposizione di chi non vuole che si guardi al mondo quale veramente è. Nasce così un’anomalia culturale, prima ancora che giuridico-istituzionale. Ci allontaniamo dai territori della civiltà giuridica, e ci candidiamo ad esser membri a pieno titolo del club degli autoritari Certo la nostra Corte costituzionale prima, e poi quella di Strasburgo, potranno ancora salvarci. Intanto, però, la voce dei cittadini può farsi sentire, e non è detto che rimanga inascoltata.
(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia

Il ministro della Difesa “personale” del premier aggredisce un giornalista: La Russa torna ai tempi belli, quando era il capo del Fronte della Gioventù di Milano, l’organizzazione giovanile neofascista del MSI. Ma che razza di governo hanno eletto gli italiani? Che cosa si possono aspettare dalle prossime elezioni regionali?

http://www.repubblica.it/politica/2010/03/10/foto/il_premier_e_il_contestatore_il_battibecco-2580233/1/

http://tv.repubblica.it/copertina/la-russa-e-il-contestatore/43729?video

http://tv.repubblica.it/copertina/parapiglia-tra-la-russa-e-il-contestatore/43718?video

http://tv.repubblica.it/copertina/presidente-non-esageri/43717?video

Guardare per credere come siamo finiti. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Che cosa insegna alla pubblicità italiana la manifestazione del 3 ottobre per la libertà di stampa a Roma.

Centinaia di migliaia di persone hanno manifestato a Roma il 3 ottobre per la libertà di stampa in Italia. Lo hanno fatto dopo che centinaia di migliaia di cittadini avevano firmato l’appello proposto da Repubblica, il quotidiano italiano che insieme a l’Unità è stato querelato dal presidente del Consiglio dei ministri. Quello stesso quotidiano a cui era stato lanciato un anatema: non investite la vostra pubblicità nei giornali che parlano male del governo, aveva detto a più riprese il capo del Governo italiano.

Centinai di migliaia di cittadini italiani sono stati protagonisti di una presa di posizione perfettamente democratica: la libertà di stampa è un diritto inalienabile per la vita democratica della società civile in Italia; i giornali non sono un fenomeno residuale nell’era delle nuove tecnologie; anche i consumatori di messaggi pubblicitari sono titolari a tutti gli effetti del diritto di cittadinanza di essere informati in modo corretto, pluralista, libero.

La pubblicità è vissuta e si è sviluppata dentro il perimetro della libertà di informazione: chi inventa i messaggi, chi paga l’invenzione dei messaggi, chi li veicola all’interno del timone di un giornale o del palinsesto di una tv ha sempre saputo che l’autorevolezza del messaggio pubblicitario è relativa alla autorevolezza della testata giornalistica che quel messaggio edita. Quella autorevolezza ha il pilastro nella libera esercitazione della libertà di pensiero a mezzo stampa. Non ci può essere una buona tv, un buon sito internet, una buona emittente radiofonica, una buona testata giornalistica sulla carta stampata, quotidiana, settimanale o mensile se non c’è un sano principio di libertà di informazione. Senza piena libertà di informazione, non c’è neppure una proficua attività di comunicazione commerciale.

La competizione tra i media, nel marketing mix che le aziende hanno a disposizione per comunicare ai lettori-cittadini-consumatori la loro migliore offerta commerciale non ha possibilità di essere efficace se questa competizione avviene sul territorio della negazione della libertà di pensiero: chi fa bene il mestiere di informare crea media affidabili nella fedeltà alla testata, dunque affidabili come veicoli della comunicazione pubblicitaria.

In piena crisi tra i mezzi di comunicazione di massa e la pubblicità, che possiamo definire a pieno titolo la “quarta crisi”, quella stessa che colpendo i giornali e l’informazione si è aggiunta alla crisi ambientale, alla crisi energetica, alla crisi finanziaria, ebbene, quello che è successo a Roma sabato 3 ottobre è una buona notizia: la libertà di stampa fa bene ai giornali, ma fa bene anche agli inserzionisti; fa bene ai lettori, ma fa bene anche ai consumatori.

Perché tutto quello che fa bene alla democrazia fa bene a tutto e a tutti. Dunque anche alla pubblicità e ai pubblicitari. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
democrazia Media e tecnologia

” L’offensiva di Berlusconi contro la stampa libera è predisposta per accentrare ancor più il potere esecutivo ma è al contempo guerra mentale, per conquistare il cervello degli italiani e creare in essi uno stato confusionale diffuso.”

Le dicerie contro la verità di BARBARA SPINELLI-La Stampa.

Una guerra mentale è in corso in Italia, condotta dall’esecutivo per tacitare, intimidendola, il controllo esercitato dalla stampa e per neutralizzare ogni sorta di contropotere. Nei confronti della stampa assistiamo a vere rese dei conti, e per capire quanto sta accadendo è più che mai urgente distinguere tra due attività: la diffusione di dicerie, e l’accertamento dei fatti. La guerra non ha come soli protagonisti l’élite politica e giornalistica: ogni cittadino – se vuol restar cittadino – è chiamato a distinguere l’opinione dal fatto, la calunnia dal disvelamento di reati. L’offensiva di Berlusconi contro la stampa libera è predisposta per accentrare ancor più il potere esecutivo ma è al contempo guerra mentale, per conquistare il cervello degli italiani e creare in essi uno stato confusionale diffuso.

All’origine del dispositivo bellico c’è una sensazione di debolezza acuta: l’esecutivo ha l’impressione di non poter fare politica senza un’opinione pubblica che non solo approvi i suoi programmi ma esalti il capo considerandolo legibus solutus, non soggetto alla legge.

Manuel Castells, studioso dell’informazione, si sofferma sui metodi delle guerre mentali nei media. Il termine fu coniato a proposito del conflitto in Vietnam da Paul Vallely, analista di Fox News: «Se perdemmo la guerra – così Vallely – non è perché fummo sconfitti sul campo ma per la guerra psicologica dei media», e perché il potere non seppe contrapporre una sua «guerra mentale» (Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi 2009).

È simile la guerra mentale di Berlusconi, e simili sono gli strumenti, da lui maneggiati con perizia e risorse sovrabbondanti prima ancora di entrare in politica: sin dall’inizio la sua battaglia fu di trasformare i mezzi televisivi d’informazione in mezzi di distrazione, infotainment, gossip. «Per questo è così importante – prosegue Castells – che i magnati dei media non diventino leader politici, come nel caso di Berlusconi». Per questo è legittima la domanda del direttore di Famiglia Cristiana, don Sciortino: «Quello che accade non riguarda solo il giornalismo. Quando in un Paese è in discussione la funzione del giornalismo, la sua libertà di esprimersi, di criticare o di commentare le azioni di un potere che non è solo potere di governo, ma pervasivo controllo del sistema mediatico, possiamo parlare di vera democrazia?».

La guerra mentale ha fini e mezzi specifici. Il fine è il pensiero dell’uomo della strada («questa creatura mitologica che ha rimpiazzato la cittadinanza nel mondo mediatico», scrive Castells). Il mezzo è la confusione dei concetti, il caos nell’uso delle parole. Si parla molto, in questi giorni, di killeraggio o imbarbarimento generale: concetti perversi oltre che diseducativi, perché escogitati per rendere appunto confondibili, in un magma indistinto, i due comportamenti radicalmente diversi che sono la diceria e l’accertamento dei fatti. Tutti sarebbero killer: il giornalista che interroga criticamente il Premier (rapporti di suoi collaboratori con la mafia, corruzione di testimoni e magistrati, coinvolgimento in giri di prostituzione) e quello che costringe alle dimissioni il direttore dell’Avvenire Dino Boffo, usando veline anonime. Proviamo dunque a distinguere quel che viene confuso.

Una cosa è la diceria. Nella Russia di Putin si chiama kompromat, materiale che compromette e può anche spedirti in Siberia. È la calunnia che insinua fabbricando prove, e mira a distruggere il carattere dell’avversario politico (character assassination, in inglese). In genere la diceria ha come obiettivo la vita privata del politico, non il suo programma o la cura che egli ha della repubblica e dei suoi vincoli.

Altra cosa è l’indagine sui comportamenti dei politici (comprese le massime cariche dello Stato) e sulla verità dei fatti. L’oggetto della ricerca sono condotte che hanno rilevanza pubblica. Da questi comportamenti può derivare un carattere personale più o meno ostico, ma il bersaglio non è il carattere.

Ambedue i procedimenti, è vero, si propongono di indebolire chi è preso di mira, di delegittimare il leader. Sono ambedue guerre mentali, volendo persuadere chi l’uomo della strada, chi il cittadino, ma il funzionamento della democrazia è influenzato in modi ben diversi dai due operati.

La democrazia accetta il conflitto, esige e stimola la ricerca del vero, anche se il vero è scomodo per il potente. E l’accetta continuativamente, non solo il giorno del voto, perché democrazia non è Unzione dell’Eletto ma un arcipelago di poteri che si frenano l’un l’altro affinché nessuno commetta abusi. Questo gioco di equilibri è garantito dalle costituzioni e da poteri autonomi, tra cui campeggiano la stampa e la televisione. È in tale ambito che la differenza fra accertamento dei fatti e calunnia diventa cruciale. La verità sul comportamento del politico è il fine di chi esercita un contropotere, e l’effetto che si vuol ottenere è la correttezza e l’autolimitazione del potere. Non vuol distruggere, ma correggere. Può darsi che la verità si riveli falsa. È per questo che il cercatore del vero raduna prove, fatti, sentenze di tribunale.

La diceria vuole non salvaguardare ma abolire l’equilibrio dei poteri: personalizzando-privatizzando la politica, accentrando tutti i poteri. La sua guerra mentale è distruttiva: nella testa degli elettori, dei telespettatori, dei lettori, va lacerato tutto quel che li lega alle norme costituzionali, alla politica, allo Stato, alle istituzioni, ai giornali, alla chiesa stessa. È uno strumento antico, è l’anti-Stato teorizzato nelle stagioni terroriste. Fruga, non cerca. La diceria ha un rapporto singolare con la verità, non più fine ma mezzo di scambio utile a sganciare il principe dalle leggi: se tu dici una verità amara su di me, io ne dirò una peggiore su di te. Da tempi immemorabili la calunnia viene usata in tempi di torbidi, non quando lo Stato è forte ma quando vacilla (Rivoluzione francese, uscita dal Terrore nel Termidoro).

Se tutto è diffamazione privata, anche la ricerca della verità pubblica scade al rango di diceria, di assassinio di carattere. Perfino chi condanna l’attacco al direttore dell’Avvenire, perfino chi chiede più prudenza alla Chiesa (un direttore gay è ricattabile se dirige il quotidiano della Cei, scrive Vittorio Messori sul Corriere della Sera), dimentica che la parola chiave nella questione Boffo non è l’omosessualità, ma le minacce a un privato cittadino: un decreto penale di condanna, nel 2004, lo giudicò colpevole di molestie telefoniche, nei confronti di una giovane donna, durate 6 mesi. L’omosessualità non c’entra niente: quel che conta è un comportamento (l’intimidazione) di rilevanza pubblica. Patteggiamenti o risarcimenti aboliscono la pena, non il fatto.

La cosa più grave per i giornalisti sarebbe reagire all’offensiva contro alcuni giornali e reti televisive dividendosi. Accusandosi l’un l’altro di temerarietà o codardia, a seconda. Sostiene Berlusconi che alle dieci domande risponderebbe, se fossero altri giornali a porle. Dicendo questo, egli ammette che domandare è lecito e che rispondere è doveroso. Motivo di più perché tutti continuino a porre domande al premier.

Ricordiamo quel che accadrebbe in Francia e Germania, in simili circostanze. In entrambi i paesi è ben raro che i giornalisti si aggrediscano l’un l’altro (tranne in presenza di reati). Ma se una o più testate sono attaccate per la determinazione con cui indagano sui potenti, tutta la professione fa quadrato. È come se valesse, non scritta, una legge simile all’articolo 5 del Patto Atlantico: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse… sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti». Fare lo stesso in Italia aiuterebbe a preservare l’arcipelago di poteri di cui è fatta la democrazia. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

Le reazioni dall’estero alla denuncia contro Repubblica: i giornali esistono per fare domande.

(fonte: la Repubblica).
JOFFRIN: “DOMANI PUBBLICHIAMO LE 10 DOMANDE”
E’ un inammissibile attacco alla libertà di espressione e di critica. Non mi stupisce che venga da un personaggio come Berlusconi, ma è un segnale inquietante per tutta l’Europa. Tra l’altro, non escludo che si possa fare ricorso alla Corte europea per contrastare questa palese minaccia al diritto dell’informazione. I metodi del primo ministro italiano mostrano un disprezzo assoluto delle regole democratiche. Rispondere alle domande dei giornalisti è infatti il minimo che gli elettori possono pretendere da ogni governante. Berlusconi invece è infastidito da ogni manifestazione di opposizione. Fa finta di dire che sono attacchi alla sua vita privata e cerca di nascondere alle troppe menzogne che ha detto in questi mesi. I suoi metodi mi ricordano quelli di Putin: manca soltanto che faccia uccidere i giornalisti più scomodi. In Francia non sarebbe pensabile una denuncia come quella che ha fatto Berlusconi a Repubblica. Sarebbe uno scandalo. Esiste una tacita regola repubblicana che impedisce al Presidente di portare in giustizia giornalisti e oppositori. Libération ha deciso che pubblicherà domani le 10 domande di Repubblica a Silvio Berlusconi.
Laurent Joffrin (direttore di Liberation)

RUSBRIDGER: “ESISTIAMO PER FARE DOMANDE”
Gli organi di informazione indipendenti esistono per chiedere domande scomode ai politici. In Gran Bretagna, come nella maggior parte delle democrazie, sarebbe impensabile per un primo ministro fare causa a un giornale perché fa delle domande. Sarebbe anche impensabile usare le leggi sulla diffamazione per impedire ai cittadini di sapere quello che autorevoli giornali stranieri stanno dicendo sul loro paese. Le azioni contro la Repubblica somigliano molto a un tentativo di ridurre al silenzio o intimidire gli organi di informazione che rimangono direttamente o indirettamente indipendenti dal primo ministro italiano. Spero che i giornali di tutto il mondo seguano con grande attenzione questa storia.
Alan Rusbridger (direttore del quotidiano The Guardian di Londra)

CAMPBELL: “INIMMAGINABILE”
Chiunque abbia esperienza del modo in cui funzionano i media in Gran Bretagna, troverà piuttosto straordinario il fatto che un primo ministro faccia causa a un giornale per una serie di domande, e per avere riportato quello che scrivono giornali stranieri.
Il tutto è ancora più straordinario perché il primo ministro in questione è a sua volta un potentissimo editore. Un fatto, anche questo, che sarebbe inimmaginabile nella cultura politica del nostro paese.
Alastair Campbell (ex portavoce di Tony Blair)

DI LORENZO: “E’ IN GIOCO LA DEMOCRAZIA”
Per il direttore di Die Zeit, “la questione non riguarda certo solo Repubblica, è in gioco il ruolo dei media in una democrazia. E non credo che Repubblica si lascerà intimidire, per cui non capisco il passo di Berlusconi nemmeno da un punto di vista tattico.
Giovanni Di Lorenzo (direttore di Die Zeit)

VIDAL: “UN AVVERTIMENTO A TUTTI I GIORNALISTI”
Questa denuncia è un avvertimento a tutti i giornalisti italiani, un modo di zittire la stampa. Il messaggio è chiaro: vietato criticare, vietato fare domande. E’ molto preoccupante vedere che il premier italiano vuole colpire così platealmente una delle poche voci di informazione libera e indipendente. La cifra richiesta, poi, è disproporzionata. Nel merito il premier italiano sbaglia, perché il compito di un organo di stampa è anche quello di fare domande. La Repubblica ha posto domande non soltanto sono legittime ma sono anche doverose, visto che Berlusconi ha spudoratamente mentito al suo paese. Questo attacco legale dimostra che in Italia c’è un’anomalia, ovvero un premier proprietario di un impero mediatico che ha anche la tendenza a voler mettere sotto silenzio l’opposizione. Reporters Sans Frontières è pronta a denunciare in ogni sede internazionale questo grave attacco alla libertà di stampa in Italia.
Esa Vidal (responsabile Europa Reporters sans Frontieres)

WERGIN: “IN ITALIA POCA PLURALITA”
Secondo Clemens Wergin, editorialista di politica estera ed esperto di affari italiani della Welt, a proposito della querela di Berlusconi legata alle dieci domande poste da Repubblica, “il fatto è strano, visto che la pluralità del panorama mediatico in Italia mi sembra già abbastanza ristretto. La situazione appare a tinte forti in generale, uno scandalo in cui sembra essere coinvolto il capo del governo italiano, feste forse con prostitute seminude, sembra molto strana, vista dalla Berlino protestante, dove governa una Cancelliera tutt’altro che a forti tinte. Berlusconi ha commesso un grave errore, sembra che non capisca il ruolo di una stampa libera. Il semplice fatto che Repubblica abbia posto domande è parte del giusto ruolo dei media. Uno stile inquietante.”
Clemens Wergin (editorialista del Die Welt)

GIESBERT: “LA DEMOCRAZIA E’ MALATA”
Il conflitto tra il potere politico e la stampa è sempre latente ma quando esplode in questo modo significa che la democrazia è malata. Finora in Francia c’è stata una regola d’oro secondo la quale i Presidenti non si rivolgono a un giudice per difendersi dagli attacchi dei giornali. Per i francesi la funzione presidenziale è sacra. Il capo dello Stato sa che se si abbassasse a questi metodi contro la stampa perderebbe inevitabilmente prestigio. Il fatto che Berlusconi abbia attaccato legalmente Repubblica è un’ammissione di debolezza. Il vostro capo del governo si comporta come un qualsiasi cittadino, dimenticando il suo ruolo istituzionale. Ma per il vostro giornale è paradossalmente anche un attestato di libertà e di indipendenza.
Clemens Wergin (editorialista del Die Welt). Beh buona giornata.

Share
Categorie
Media e tecnologia

L’associazione dei giornalisti tedeschi ha assegnato il premio per la libertà di stampa a Marco Travaglio.

da Italiadallestero.info

Libertà di stampa

I sette membri del consiglio direttivo federale della DJV, l’associazione dei giornalisti tedeschi, quest’anno hanno assegnato il premio per la libertà di stampa al giornalista e autore italiano Marco Travaglio.

Michael Konken, presidente federale della DJV, ha motivato la decisione dichiarando: “Assegnamo il premio a Marco Travaglio, un collega che si è contraddistinto per il coraggio critico e l’impegno dimostrato nel combattere per la libertà di stampa in Italia.”

Travaglio ha saputo denunciare pubblicamente i tentativi dei politici italiani, in particolare di Silvio Berlusconi, di influenzare il lavoro dei media e di ostacolare lo sviluppo di un giornalismo critico. Le critiche di Travaglio si sono orientate anche ai colleghi italiani con lo scopo di incoraggiarli a non sottomettersi alla censura. “Il premio della DJV per la libertà di stampa è il riconoscimento più adatto a Marco Travaglio,” ha dichiarato Konken. “Travaglio deve dare coraggio ai giornalisti italiani affinché possano svolgere la loro funzione di vigilanza e non cadano vittima di intimidazioni”.

Il premio della DJV per la libertà di stampa consiste in 7.500 Euro ed è stato conferito a Marco Travaglio a Berlino lo scorso 28 aprile 2009 presso il Palazzo della Bundespressekonferenz (ufficio della stampa federale).

Con questo premio la DJV onora personalità o istituzioni che si impegnano in prima persona in battaglie per il mantenimento e la creazione della libertà di stampa. I precedenti vincitori sono stati il giornalista serbo Miroslav Filipovic, la giornalista russa Olga Kitowa e la redazione del giornale “Berliner Zeitung”. Filipovic ha ricevuto il premio per aver scoperto i crimini di guerra serbi in Kosovo, Kitowa è stata premiata per la sua difficile battaglia contro la corruzione in Russia e la redazione del “Berliner Zeitung” per l’impegno dimostrato nel difendere la libertà di stampa in Germania e l’indipendenza editoriale da Mecom Group, la casa editrice che l’ha rilevata.

[Articolo originale “DJV-Preis für Marco Travaglio”]

Share
Categorie
democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Freedom House: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati. L’Italia è l’unico Paese europeo a essere retrocesso nell’ultimo anno dalla categoria dei «Paesi con stampa libera» a quella dei Paesi dove la libertà di stampa è «parziale».

Rapporto di Freedom House, organizzazione non-profit e indipendente-da Freedomhouse.org
Libertà di stampa: l’Italia fa un passo indietro, unica nazione in Europa di Alessandra Farkas-corriere.it

La causa: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati. L’Italia è l’unico Paese europeo a essere retrocesso nell’ultimo anno dalla categoria dei «Paesi con stampa libera» a quella dei Paesi dove la libertà di stampa è «parziale». La causa: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati». Lo afferma in un rapporto Freedom House, un’organizzazione non-profit e indipendente fondata negli Stati Uniti nel 1941 per la difesa della democrazia e la libertà nel mondo, la cui prima presidente fu la first lady Eleanor Roosevelt. Lo studio viene presentato venerdì al News Museum di Washington e sarà accompagnato da un live web cast che si potrà scaricare sul sito Freedomhouse.org.

CLASSIFICA – Nell’annuale classifica di Freedom House, l’Italia va indietro come i gamberi, insieme a Israele, Taiwan e Hong Kong. «Un declino che dimostra come anche democrazie consolidate e con media tradizionalmente aperti non sono immuni da restrizioni alla libertà», ha commentato Arch Puddington, direttore di ricerca per Freedom House. Su un punteggio che va da 0 (i Paesi più liberi) a 100 (i meno liberi), l’Italia ottiene 32 voti: unico Paese occidentale con una pagella così bassa. I «migliori della classe» restano le nazioni del Nord Europa e scandinave: Islanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca e Svezia (prime cinque a livello mondiale). Le «peggiori»: Corea del nord, Turkmenistan, Birmania, Libia, Eritrea e Cuba.

PROBLEMA ITALIA – Il «problema principale dell’Italia», secondo Karin Karlekar, la ricercatrice che ha guidato lo studio, è Berlusconi. «Il suo ritorno nel 2008 al posto di premier ha risvegliato i timori sulla concentrazione di mezzi di comunicazione pubblici e privati sotto una sola guida», spiega. Altri fattori: l’abuso di denunce per diffamazione contro i giornalisti e l’escalation di intimidazioni fisiche da parte del crimine organizzato. Intanto giovedì il Committee to Protect Journalists, un’organizzazione non-profit che lavora per salvaguardare la libertà di stampa nel mondo, ha pubblicato la top ten dei peggiori Paesi al mondo per i blogger. La Birmania guida la lista, seguita da Iran, Siria, Cuba e Arabia Saudita. Sesto il Vietnam, seguito a ruota da Tunisia, Cina, Turkmenistan ed Egitto. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia Popoli e politiche

La notizia è che il governo italiano intimorisce sistematicamente i giornalisti stranieri: “Questi interventi diplomatici presso organi di stampa di paesi democratici sono di solito praticati da governi autoritari o dittatoriali.”

di Bernardo Valli da Repubblica

Avrei scritto anch’ io, non volentieri ma con slancio, l’ articolo di Philippe Ridet pubblicato ieri da Le Monde. Questa mia immediata e candida affermazione deriva dal fatto che quanto dice il corrispondente del quotidiano parigino lo sentono molti italiani come me residenti all’ estero. In particolare se svolgono lo stesso mestiere di Ridet e quindi vedono quotidianamente come l’ immagine dell’ Italia si riflette fuori dai patri confini. L’ Italia soffre, scrive Ridet, ma non vuole essere criticata dagli stranieri. E il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che controlla in quanto diretto proprietario o in quanto capo del governo l’ ottanta per cento dei media, è l’ araldo di questa «resistenza». Resistenza che si esprime con una raffica di proteste dei nostri ambasciatori invitati dal loro ministro a reagire quando i quotidiani stranieri parlano male dell’ Italia.

È capitato al Times quando ha ironizzato sulle parole di Silvio Berlusconi che invitava i rifugiati dell’ Aquila a «passare il weekend di Pasqua al mare». È capitato al Guardian quando ha scritto che la fusione tra Alleanza Nazionale e Forza Italia segnava la nascita di una formazione «postfascista». È capitato al Pais quando ha definito Berlusconi uno dei leader «più sinistri». E allo Spiegel quando, al momento delle immondizie napoletane, ha chiamato l’ Italia «uno stivale puzzolente».

Questi interventi diplomatici presso organi di stampa di paesi democratici sono di solito praticati da governi autoritari o dittatoriali, particolarmente sensibili alle critiche, considerate insulti, anche perché spesso ignorano le libertà di informazione e di opinione, non essendo quest’ ultime parte della loro tradizione. Philippe Ridet racconta come lui e il suo collega del Wall Street Journal siano stati convocati alla Farnesina (sede del nostro ministero degli Esteri) e invitati a spiegare come vedevano l’ Italia e con quali criteri la raccontavano nelle loro corrispondenze.

I due giornalisti si sono trovati d’ accordo per dire, con un linguaggio diplomatico simile a quello usato dai loro interlocutori, che almeno quattro ostacoli impedivano di fare l’ elogio quotidiano della Penisola: «La mafia (e le sue declinazioni locali), l’ inefficienza dell’ amministrazione e dello Stato in generale, la politica xenofoba raccomandata – e a volte applicata – dalla Lega del Nord e gli spropositi verbali (mauvaises blagues) di Silvio Berlusconi». Aggiungo io, ancora, sebbene sia superfluo sottolinearlo, che queste convocazioni di giornalisti stranieri da parte delle autorità, sia pure fatte con garbo, vale a dire con diplomazia, sono di solito pratica corrente nei paesi emergenti, dove le critiche, indispensabile sale di ogni libero giornalismo, sono considerate violazioni di lesa maestà.

Scrive Ridet: «Suscettibile, Silvio Berlusconi? Sì, ma non più degli italiani che rifiutano di riconoscersi nello specchio che tende loro la stampa straniera. Eppure non sono avari nel criticare se stessi. Hanno persino inventato un’ espressione per questo, l’ autolesionismo, al fine di evocare la loro tendenzaa vedersi come gli ultimi della classe, impopolari in Europa. Ma quando qualcuno lo fa al loro posto, subito gli stessi che si descrivono “abitanti di un paese in cui nulla funziona” inforcano il cavallo dell’ orgoglio nazionale. Ne è un’ illustrazione l’ atteggiamento pieno di dignità offesa di Silvio Berlusconi che rifiuta l’ aiuto internazionale dopo il dramma dell’ Aquila». Il corrispondente di Le Monde ricorda l’ intolleranza di Silvio Berlusconi nei confronti dei giornali italiani che descrivono la corruzione, i pubblici abusi e i delitti mafiosi. Precisa Ridet, nella sua Lettre d’ Italie, che il presidente del Consiglio si è detto persino tentato di ricorrere «a misure dure». L’ irritazione di Berlusconi è dovuta anche al fatto che i giornalisti stranieri traggono dalla stampa nazionale le notizie per le loro corrispondenze.

Da un lato prospetta quindi «misure dure», e dall’ altro tenta di tenere a bada la stampa straniera mobilitando gli ambasciatori. Come fanno, appunto, i regimi autoritari. L’ operazione diplomatica è destinata ad alimentare la cattiva immagine della nostra democrazia, incapace di sopportare le critiche. E accentua la caricatura del presidente del Consiglio. Philippe Ridet è comunque garbato nella sua Lettre d’ Italie, poiché aggiudica tutto all’ orgoglio nazionale, ben radicato anche nel suo paese. Molti italiani che vivono fuori dai patri confini sono colpiti invece dal fatto che quell’ orgoglio non spinga a ripudiare democraticamente all’ interno, l’ immagine reale dell’ Italia oggi in Europa. (Beh, buona giornata).

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: