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“Tra sette giorni si va a votare: e si vedrà allora se la marcia dei ministri su Roma è stata l’inizio della rivincita in una campagna elettorale disastrosa. O l’ultima istantanea scattata prima della sconfitta.”

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«Avanti governo!», grida un uomo rasato con il berretto militare e il megafono in mano che si rivela essere il deputato ex An Fabio Rampelli. «Attenzione», avverte all’incrocio con via Merulana, «ora c’è una curva e poi una salita, la prova peggiore che potete affrontare. Curvate piano e poi salite». E il Governo esegue: gira, sale, scende, si ferma, riparte, sempre agli ordini di Rampelli. Canta, perfino.

«Ragazzi, la sapete quella di Troisi? Quella dei fratelli?», grida il ministro La Rissa, al secolo Ignazio La Russa, con un tricolore in mano. Ronchi, Gasparri, Cicchitto, Prestigiacomo si guardano interrogativi. No, non la sanno. «Quella dei fratelli in “Non ci resta che piangere”», insiste il ministro della Difesa. «Coraggio, cantiamola tutti insieme: Po-poropò-poropopopopò Fratelli d’Italia…». E il Governo, docile, intona: l’Italia s’è desta…

Ore quindici e trenta, parte la manifestazione del partito dell’Amore, via ai cortei, che spettacolo meraviglioso. Il Governo in piazza, al gran completo, per le strade di Roma. Uno accanto all’altro ministri e sottosegretari pigiati in favore di telecamera, felici come una scolaresca in gita. Faticano a sistemarsi dietro la striscione con la scritta “L’amore vince sempre sull’odio”. Qualche istante di incertezza. «Alzate lo striscione!», «Macchè, mettetelo giù, sennò Brunetta non si vede!». Poi finalmente partono.

Alfano con la giacca Belstaff. Matteoli avvinghiato a una signora. Bondi in girocollo celestino tenuto al guinzaglio dalla compagna Manuela Repetti, deputata Pdl. La Brambilla inerpicata sui tacchi tra i binari del tram. E Fazio il ministro della Salute mai visto in azione, figuriamoci in corteo. E la Santanchè con i boccoloni bicolori. E Brunetta a suo agio in questo sabato da spensierati fannulloni. E la banda venuta da Frosinone che improvvisa una marcetta. Sembrano usciti da una vignetta di Forattini: «Giù le mani dar valoroso popolo iracheno…», ma sono ministri e non si capisce bene per cosa marcino, dato che il potere sono loro. Una marcia contro se stessi?

Alle spalle della prima fila governativa si capisce finalmente quale sia la divisione dei ruoli all’interno del Pdl tra ex Forza Italia e ex An. Ai reduci di An, gente di movimento e di lotta, spettano il servizio d’ordine e l’animazione del corteo. C’è il deputato Marco Marsilio con la pettorina gialla della sicurezza. C’è il coordinatore romano Vincenzo Piso in giubbotto di pelle che dirige un altro spezzone, dove cantano a squarciagola Battisti, «planando sopra un bosco di braccia tese», e ci siamo capiti.

C’è la moglie del sindaco Alemanno Isabella Rauti che impugna il megafono e strepita come ai tempi di via Sommacampagna: “Siamo noi siamo qua/Polverini vincerà”. Prova a far gridare anche le colleghe di Forza Italia: la Rizzoli con cappello, la Calabria, la Savino, la Mariarosaria Rossi. Ma quelle niente, non sono abituate. “Polverini presidente”, grida la Rauti, petto in fuori, piglio da leader. E quelle, poverette, si prendono per mano, per farsi coraggio. Insomma, una mosceria. «Ahò», esclama la Polverini con i ministri, manco fosse un deejay, «me sa che vado in fondo alla fila, so’ più allegri. Ve dovete riprendere un po’!»

I ministri fanno ingresso in piazza al suono di Star Wars, che fico, anche Giovanardi sembra un cavaliere jedi. Arrivati in piazza San Giovanni quelli di An spariscono. Resta il mitico senatore Gramazio, “er pinguino”, lui non delude mai. Quando cadde il governo Prodi si fece beccare che sventolava una fetta di mortadella nell’aula del Senato. Oggi si aggira con una scritta stradale, “Via Michele Santoro da Rai Due”, che divertente.

Sul palco si esercita l’egemonia culturale di Forza Italia: il disco pub. C’è Maurizio Lupi che conduce al microfono, una vita ai meeting di Comunione e liberazione non passano invano. Mentre La Russa cade sui fondamentali: «Adesso cantiamo nell’azzurro dipinto d’azzurro…», che poi sarebbe nel blu dipinto di blu. C’è l’orchestra di Demo Morselli scatenata con tutto il repertorio degli anni Settanta-Ottanta: Sinatra, i Bee Gees di “Staying Alive”, i figli delle stelle di Alan Sorrenti, Julio Iglesias («Non ti sembra un po’ caro/il prezzo che sto per pagare…se un uomo tradisce/tradisce a metà») mentre si fa vedere Tremonti, Rino Gaetano e la sua Gianna che sogna un-mondo-diverso-ma-fatto-di-sesso. E in quel momento spunta Silvio.

Un Berlusconi classico. La sorpresa che avrebbe dovuto cambiare la campagna elettorale non arriva. L’unico jolly sono i centomila alberi da piantare, chissà come si conciliano con il piano casa. E l’annuncio che nei prossimi giorni arriverà nelle case una pubblicazione con i risultati del governo, preparatevi.

In compenso, il Cavaliere inciampa sui numeri. Verdini ha detto che i manifestanti sono un milione? E Berlusconi lo corregge: «Nel 2006 eravamo due milioni…», come dire che oggi sono la metà. Cita se stesso per la seicentesima volta. La religione della libertà. La scesa in campo del ‘94. La sinistra con i suoi giudici eccetera. La richiesta alla piazza di ripetere i suoi sì e i suoi no, come si fa nei battesimi: sì a Silvio, no alla sinistra. Ma la fede comincia a vacillare, anche nelle prime file. «Io a Berlusconi dico sì, ma per me non ho visto ancora una lira», si sfoga una signora con la bandiera proprio sotto il palco. E quando il premier cita il successo dell’Alitalia sbotta: «Lascia perdere l’Alitalia, Silvio mio…».

Le uniche novità arrivano quando il Cavaliere ammette che per una volta gli è sfuggita di mano la campagna elettorale: «la sinistra ha fatto credere che le liste non le abbiamo presentate per colpa nostra, lo hanno scritto anche i giornali amici, purtroppo, e la gente c’è cascata». E quando accanto al premier sale Umberto Bossi: «Sono uno dei pochi che non ha chiesto soldi a Berlusconi», spiega il Senatur alla piazza, gelando sotto il palco ministri e parlamentari miracolati. E racconta che la sua amicizia con Silvio è nata quando il Cavaliere disse no alla pedofilia e alla “famiglia trasversale”.

Qualsiasi cosa sia, l’asse B&B c’è, eccome. Mentre nella piazza il desaparecido si chiama Gianfranco Fini. A Gubbio, sei mesi fa, disse che il Pdl era come la temperatura di Bolzano, «non pervenuto». Ma oggi il non pervenuto è lui. Nessuno lo nomina. I pochi finiani presenti, Flavia Perina, Benedetto Della Vedova, si fanno forza e scherzano con i giornalisti.

Quando Berlusconi descrive la nascita del Pdl fa solo un rapido passaggio su «An e gli altri partiti amici che si sono sciolti insieme a Forza Italia». E abbracciato a Bossi fa a pezzi l’idea del voto agli immigrati extracomunitari, cara al presidente della Camera: «La sinistra vuole sostituire i proletari italiani che ha perso con gli stranieri promettendo la casa e il lavoro», ringhia Bossi. E Berlusconi: «Ma no Umberto, non c’è più il problema, i clandestini sono spariti!»

La manifestazione finisce con i candidati governatori che firmano con la mano sul cuore un patto con il Governo nazionale, cioè con Berlusconi, e leggono il testo tutti insieme, tipo Padre nostro. Formigoni vestito da Tony Manero, sempre più berlusconizzato. E Cota della Lega che corre in Piemonte, «io lo amo», lo presenta il Cavaliere.

Prima di andare via Berlusconi si inebria per l’ultima volta del coro che sale dalle prime file: «Un presidente/c’è solo un presidente». C’è solo un leader, si metta l’anima in pace Fini. E la coppia che vuole vincere le elezioni e guidare l’Italia è quella formata da Silvio e Umberto. Sono loro gli unici co-fondatori della destra italiana. Tutto il resto è plastica. Teatrino. Bandiere arrotolate. Pullman che tornano a casa. Tra sette giorni si va a votare: e si vedrà allora se la marcia dei ministri su Roma è stata l’inizio della rivincita in una campagna elettorale disastrosa. O l’ultima istantanea scattata prima della sconfitta.

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