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Il bello che c’è nelle cose sbagliate, il brutto che si trova nelle cose giuste.

Cominciamo dal brutto. Una manifestazione per il Primo Maggio a Milano viene affumicata dai black bloc e oscurata dai media. “I black bloc si nascondono nella pancia dei cortei” dicono gli esperti dell’ordine pubblico. E allora: se la testa e il corpo dei militanti di un corteo non si occupano della pancia, c’è qualcosa che non va nel modo di andare in piazza. Bisognerebbe che se occupassero finalmente gli organizzatori di quelle manifestazioni. La questione della gestione dell’agibilità politica in piazza è una questione non più rimandabile.

Continuiamo col brutto. Un nutrito gruppo di giovani si organizza per scatenare gli scontri con le forse dell’ordine. Sono furiosi, odiano, spaccano tutto. Se la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato dei giovani in Italia ha raggiunto livelli mai visti, forse bisognerebbe occuparsene. Se c’è chi si sente legittimato a rappresentare la rabbia giovanile, più che degli arrabbiati, bisognerebbe occuparsi dei motivi che scatenano la violenza. Certo, dire, come a detto il capo del governo che “sono quattro figli di papà” non aiuta, semmai aizza. Senza contare che il capo di un governo democratico dovrebbe occuparsi di tutti i cittadini, anche di quelli che fanno solo casino, anche di quelli che lo contestano. Per fermare la violenza politica di piazza del ’77, l’allora governo Andreotti non usò solo la polizia, ma chiese un prestito internazionale col quale finanziò la famosa legge 285/77 per l’occupazione giovanile, che favorì un reddito e di conseguenza fermò le manifestazioni violente. L’attuale governo Renzi dovrebbe essere meno burbanzoso. E, per continuare col brutto, quello che è successo a Bologna, dove la polizia ha respinto manifestanti che volevano entrare alla Festa de l’Unità per contestare il capo del governo non s’era mai visto. Un partito di sinistra che sa parlare solo con gli industriali e non sa dare risposte ai precari della scuola non è né un partito di governo, né è di sinistra.

E adesso veniamo al bello. Il bello è stato la partecipazione di migliaia di cittadini milanesi che volevano rimettere a posto le cose sfasciate dagli scontri del Primo Maggio. L’orgoglio di sentirsi una comunità solidale è un sentimento puro. Purtroppo la causa è sbagliata: le città non sono vetrine, né Milano si può trasformare in un “temporary store”. Milano è molto di più della città che ospita Expo. Expo non è la soluzione della crisi, né rappresenta un prospettiva per il prossimo futuro. È un evento commerciale, fra sei mesi finirà quello che ancora non è stato neppure finito in tempo. Si dice Expo sia un’opportunità. Se lo sarà, lo sarà per le grandi corporazioni, per le multinazionali, per il mercato. Non per i cittadini di Milano, o comunque non per tutti. Bisognerà, allora raccogliere e coltivare questo sentimento di comunanza e di cura della città, e indirizzarlo verso l’innalzamento della qualità della vita e la gestione positiva della differenza sociali che convivono nella metropoli lombarda. Il sindaco Pisapia ha avuto una felice intuizione a indire l’assemblea pubblica a piazza Cadorna. La domanda è: quei cittadini che hanno partecipato a “nessuno tocchi Milano” sapranno darsi strumenti autonomi di protagonismo politico o arriveranno di nuovo i partiti a spartirsi il consenso per le prossime scadenza elettorali?

Ancora sul bello nelle cose sbagliate. È bello che si protesti con veemenza contro l’arroganza della maggioranza parlamentare che vorrebbe imporre la nuova legge elettorale. Ma è brutto il modo in cui forze politiche di opposte posizioni politiche, per non dire di contrapposte sensibilità democratiche hanno voluto praticare l’opposizione parlamentare. Neanche nei reality show televisivi la pantomima delle contestazione sarebbe riuscita a rappresentarsi tanto finta e strumentale al gioco delle parti. Se le giuste preoccupazione della coerenza democratica tra la Costituzione e le leggi che regolano la partecipazione dei cittadini della Repubblica alle elezioni vengono rappresentate con queste modalità, è chiaro che non c’è da fidarsi della buona fede dell’opposizione.

Poi c’è il brutto che si ritrova a suo agio nello sbagliato. La politica sull’immigrazione del governo è sbagliata, perché tende non a trovare una soluzione equa, quanto piuttosto a camuffare il problema di fronte all’opinione pubblica, inorridita dai naufragi e preoccupata dall’accoglienza. C’anche il più brutto nel peggior modo di sbagliare. Quando per mera propaganda, certe froze politiche vorrebbero respingimenti e affondamenti, mentre sventolano lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, succedono cose brutte nel modo peggiore: la Lega ha partecipato a tutti quei governi che durante i G8 e G20 promettevano aiuti ai paesi africani, senza mai poi versare un euro. Se i nodi non vengono al pettine, è il pettine che si incarica di sciogliere con durezza i nodi: è vero che l’Italia è molto esposta all’immigrazione di masse di disperati, ma è altrettanto vero che la nostra politica ha commesso errori drammatici nei confronti di quei paesi che oggi “esportano” fame e miseria in Europa, passando per le nostre coste.

Infine, il bello delle cose giuste. Un ragazzo disabile non è potuto salire sul pullman della gita scolastica e tutti i suoi compagni di scuola non sono voluti partire e quella gita che non si poteva fare per uno, nessuno ha voluta farla. Questa si chiama solidarietà. Non quella di un euro via sms, perché quella è elemosina. La solidarietà è quel sentimento collettiva di rinuncia a un privilegio per pochi perché possa essere condiviso da tutti. Anche se i tutti sono uno solo, quel ragazzo in carrozzella.

Manifestazione "Nessuno tocchi Milano", piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Manifestazione “Nessuno tocchi Milano”, piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Dovremmo ricordarcelo più spesso. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Gli spacca il culo o la faccia? In Parlamento, la crisi del bipolarismo è lampante, forse anche allarmante.

«Ma che cazzo me ne fotte – è sbottato Brigandì, deputato della Lega Nord (il partito di Umberto Bossi), rivolgendosi a Evangelisti, deputato dell’UDC (il partiro di PierFerdi Casini) – dì una parola che ti spacco il culo e non farti più vedere in giro perchè appena ti incontro da solo ti spacco la faccia».

E’ ancora sconvolto Pier Ferdinando Casini quando esce dall’aula dopo la rissa tra deputati dell’Idv e della Lega. ‘Sono rimasto impressionato’, ha raccontato. E poi si e’ rivolto al ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, incrociato in Transatlantico: ‘Un minimo di decenza’, ha detto, ‘ho visto i leghisti venire giu’ come dei pazzi e mi e’ anche arrivato un regolamento in testa. Siamo allo squadrismo, non si puo’ trasformare la Camera dei deputati nella Camera dei fasci’. Beh, buona giornata.

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democrazia

C’è chi paragona Berlusconi a Chavez. Ma il ddl di iniziativa popolare ha tutta l’aria di un coniglietto dal cilindro, per distogliere l’attenzione sui casi Mills e Noemi.

Berlusconi e l’appello al popolo sulla testa del parlamento. Una deriva populista, da comunista alla Chavez-blitzquotidiano.it

I siti internet di Repubblica e del Corriere della Sera hanno aperto la loro edizione domenicale con una notizia uguale: l’intervoista di Silvio Berlusconiu a una radio commerciale in cui rilancia la sua idea di una legge di iniziativa popolare che ridurre il numero dei parlamentari e aumentare i poteri del primo ministro. Un po’ è per polemica col suo vice politico Gianfranco Fini, un po’ però ci crede davvero.

Leggendo l’intervista nel contesto di una serie di altre dichiarazioni molto aggressive nei confronti di giornali e magistratura vengono i brividi e viene anche da pensare a un paese dell’America Latina dove Berlusconi potrebbe avere trovato un modello: il Venezuela di Hugo Chavez. Chavez, non dimentichiamolo, è un dittatore di matrice comunista che basa il suo potere su un rapporto diretto e quasi viscerale col popolo.

Il paragone è impressionante. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

La democrazia e i pericoli del leader carismatico.

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Scriveva, negli Anni Venti, Max Weber che la leadership carismatica è definita da «una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva dagli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non sono accessibili alle persone normali, ma sono considerati di origine divina o esemplari, e sulla loro base l’individuo in questione è trattato come un leader».

Pensando a queste note, ieri, non si poteva che provare simpatia per il presidente della Camera mentre teneva il suo discorso alla Fiera di Roma per dire addio ad An e scioglierla nel Pdl. Nell’eterna saga del suo dualismo con Silvio Berlusconi (uno dei pochi punti fermi della politica italiana, esattamente come il dualismo Veltroni/D’Alema) Gianfranco Fini ha provato, come sempre fa da anni, a mantenere il proprio ruolo di alleato leale ma diverso, mettendo paletti e definendo regole per il futuro partito unico. Ma, in realtà, che partita davvero può giocare un normale (sia pur talentuoso) politico di fronte a un leader quale quello raccontato da Weber?

La vera novità del Pdl unificato, che nascerà formalmente nell’assemblea convocata a Roma da venerdì a domenica prossima, è proprio la scelta di una leadership carismatica. Concetto che nella storia abbiamo visto spesso emergere, nel bene e nel male, da Gandhi a Hitler (la definizione, dice Weber, non ha in sé un giudizio «morale»). Ma mai nessuno ha finora provato a tradurlo in una regola politica, applicandolo cioè alla formazione di un partito, che rimane, dopo tutto, un’entità burocratica, sia pure nel senso più alto. Compito di una organizzazione è selezionare la classe dirigente, coordinare le politiche di un’area di pensiero, lavorare al rapporto fra cittadini e istituzioni (coltivando consenso o dissenso), produrre cultura politica. Un partito è insomma uno dei bracci operativi della democrazia, nel senso proprio di fluidificare il rapporto tra potere e cittadinanza.

Tant’è che i partiti moderni, in particolare quello americano, sebbene considerato «leggero» (e a cui pure si riferisce il nuovo Pdl), sono su base elettiva – a cominciare dalle primarie. Il «carisma», è vero, è sempre stato un concetto forte della politica, in particolare negli Usa. Ma come attributo della personalità: ad esempio, Carter (senza carisma) e Obama (carismatico) sono stati eletti e hanno governato con le stesse regole. Viceversa, i partiti in cui la classe dirigente non è selezionata da una scelta di base (penso al partito comunista dell’Unione Sovietica) sono solo una finzione che copre o autoritarismo o populismo.

Tecnicamente, dunque (e mi piacerebbe ascoltare il parere dei costituzionalisti), partito e leadership carismatica dovrebbero essere incompatibili. E segni di questa incompatibilità si avvertono fin da ora anche sulla strada appena iniziata dal Pdl.

Silvio Berlusconi è l’indiscusso leader della sua area politica e della stessa Italia. Altro però è che venga eletto come guida del suo partito senza nessuna (nemmeno formale) selezione. Sappiamo che se un pazzo volesse presentarsi contro di lui nella prossima assemblea non potrebbe, perché non è prevista nemmeno la procedura per un diverso candidato: si può immaginare qualcosa di più debole? La leadership così eletta si riproduce infatti immediatamente nell’alterazione delle regole della stessa organizzazione: sarà ancora Silvio Berlusconi, eletto plebiscitariamente, a nominare gli organismi che guideranno il partito. Allora a cosa servono i delegati, e a che serve il partito se non a esprimere la propria classe dirigente? Aggiungiamo che nelle intenzioni del premier la segreteria sarà formata dai ministri più qualcun altro: che ruolo ha un partito espressione diretta di un governo, visto che invece dovrebbe lavorare esattamente lì dove il governo non arriva?

Si può obiettare, e a ragione, che il Pd prova che nella sostanza le primarie e le elezioni assembleari possono essere aggirate e ridursi a commedia. Ma, è sempre il Pd a provarlo, il principio comunque diventa vitale quando poi si arriva alla crisi di una gestione.

Torniamo così a Fini. Il presidente della Camera non può non sapere queste cose. Per questo ha riproposto un partito con «dialettica interna», che non si appiattisca sul «pensiero unico», né sul «culto della personalità», né su un presidenzialismo «che emargini il Parlamento». Ma la sua è una concezione normale, terrena potremmo dire, del lavoro politico. Quella di Silvio Berlusconi è invece una concezione eccezionale. Il partito che nasce è una emanazione e un sostegno al leader assoluto, del governo come delle piazze. Del resto è già così: chi in Italia può competere per forza popolare e fortuna personale con Silvio Berlusconi? Solo che fondare un partito su una leadership carismatica vuol dire formalizzare questa superiorità assoluta.

Quella del presidente della Camera potrebbe essere dunque definita una battaglia permanentemente persa. E molti osservatori lo scrivono. Ma c’è un’idea politica anche nell’ostinazione con cui si ripresentano le proprie convinzioni. E soprattutto c’è sempre un’idea politica nell’attesa stessa. Tanto per citare di nuovo Max Weber: «Per la sua peculiare natura e per la mancanza di un’organizzazione formale, l’autorità carismatica dipende dalla cosiddetta legittimità politica percepita. Se dovesse vacillare la forza di siffatta fede, lo stesso potere del capo carismatico potrebbe decadere rapidamente, il che per l’appunto costituisce una manifestazione di come questa forma di autorità sia instabile». (Beh, buona giornata).

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