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3DNews/La finanza Auditel, quel PirL che insegue il PIL.

I dati Auditel sulle pagine del Televideo Rai.

di Giulio Gargia
L’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società. Sono termometri di una mentalità da cambiare, indicatori di una marcia da invertire. Esempio: “Gli uragani Katrina e Rita avranno ripercussioni negative sull’economia americana solo nel breve periodo, il successivo processo di ricostruzione stimolera’ infatti la crescita”.
Così diceva il segretario al Tesoro Usa, John Snow, presente al vertice del Fondo Monetario Internazionale di Washington. Insomma, benvenuta Katrina, se l’economia poi cresce che sarà mai qualche morto annegato e qualche saccheggio ?
Questa è la logica demenziale di quello che si chiama pensiero unico. Ed è questa logica che l’Auditel ha portato in televisione.

Perciò oggi l’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società . Provo a spiegarlo, usando un bell’articolo di Giorgio Ruffolo di qualche tempo fa sul PIL, l’indice che misura lo sviluppo economico di un paese. Scrive Ruffolo :
“Il governo italiano, ma tutti i governi del mondo sono incollati allo schermo del Pil. Zero virgola in meno, iattura, zero virgola in più, vittoria. Elettorale, s´intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Pil, è una cosa seria? Domanda per niente affatto nuova, come ben sappiamo, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dagli economisti che l´hanno inventato e dai politici che ne usano e ne abusano”.

La cosa curiosa è che tutte le sue giuste argomentazioni si possono trasporre, senza colpo ferire, alla questione dell’Auditel, su cui da anni – grazie anche agli sforzi di Megachip – ormai si discute. Sostituiamo qualche parola e vediamo se è davvero così.
Per inquadrare la questione, riportiamo un’agenzia sugli ascolti di domenica 2 ottobre.
Prime time festivo alla Rai con il 42,83% rispetto al 36.39% di Mediaset, con Raiuno al 26,31%. Mediaset invece si è aggiudicata la seconda serata con il 39.87% (38,19% Rai). In seconda serata lo speciale Tg1 con una puntata sul fenomeno del bracconaggio ha ottenuto uno share del 16,84% e 2 milioni 190 mila spettatori superando il diretto concorrente ‘Terra su Canale 5 che ha avuto 1 milione 508 su Canale 5, share 10.60% occupandosi di Islam. Su Raitre il programma di Serena Dandini ‘Parla con mé ha registrato l’11,13% con 777 mila spettatori.

E‘ evidente che anche qui “Il governo della TV italiana è incollato ai grafici dell’Auditel. Zero virgola in meno, sconfitta, zero virgola in più, vittoria. Televisiva, s’intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Auditel, è una cosa seria? Domanda per molti versi nuova, come ben sappiamo sollevata da noi e da articolo 21, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dai pubblicitari che l´hanno inventato e dai direttori e responsabili TV che ne usano e ne abusano”.
Continuiamo. Afferma Ruffolo sul PIL : “La risposta è sì, certo, è cosa seria, ma solo se utilizzato correttamente, nell´ambito del suo significato: e cioè, come indice della produzione complessiva dei beni e dei servizi venduti sul mercato. Dei beni e dei mali, purtroppo. Se invece è usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice di efficienza dell´economia nazionale nel suo insieme o, addirittura, del benessere sociale, la risposta è tre volte no”.

Contro canto sull’Auditel : ” La risposta è molto dubbia. Ma i dubbi diventano certezze, in negativo, perché certamente l’Auditel non viene utilizzato correttamente, nell’ambito del suo significato ( cioè quello di misurazione per mettere un prezzo agli spot pubblicitari ) ma è ormai indice di gradimento e di giudizio sulla sopravvivenza di un programma. Viene quindi usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice unico di efficienza di un programma e di una rete e, addirittura, del gradimento sociale verso la TV nel suo insieme. Perciò la risposta alla domanda se Auditel è una cosa seria è: tre volte no”.
Ruffolo continua : “Chi sarebbe disposto a sostenere che un paese in cui sono aumentate le devastazioni ambientali la criminalità e le diseguaglianze, diminuita l´istruzione e peggiorate le condizioni sanitarie, stia alla pari con uno in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché il Pil sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino.

Contro canto Auditel : Chi sarebbe disposto a sostenere che una Tv in cui sono aumentate le sopraffazioni,le manipolazioni, in cui è messa la bando la cultura, ( al massimo relegata in 3° serata) quasi azzerata la qualità complessiva dei programmi e peggiorate le condizioni del pluralismo, stia alla pari con un canale in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché l’Auditel sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino
Riprende Ruffolo : “Diceva l´economista Oskar Morgenstern, autore, insieme a von Neuman, della Teoria dei giochi: «Quando la scienza economica raggiungerà uno stato più maturo, sembrerà incredibile che tali misure siano state prese sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera nazione: misure di questo tipo appartengono ai secoli bui».

E allora, perché sono prese sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo del capitalismo; e il capitalismo è diventato la forma sociale e ideale suprema delle società «avanzate».
Diciamo noi : “Quando l’opinione pubblica sarà davvero messa in grado di giudicare, quando le saranno stati forniti strumenti meno rozzi e più flessibili dell’Auditel, sembrerà incredibile che tali dati siano state presi sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera televisione: misure di questo tipo appartengono a tempi bui. E allora, perché li dati Auditel sono presi sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo della Tv dominata dall’Auditel”
Argomenta ancora Ruffolo : La sinistra porta il lutto della catastrofe comunista. Un lutto che si estende anche a quella non comunista e che comporta la sostanziale rinuncia a ogni forma di guida politica e l´adesione sostanziale a una economia di mercato totalitaria: un´adesione troppo a lungo ritardata, e forse per questo acritica.

Di questa acriticità fa parte l´adozione del Pil come stella polare: al posto della rivoluzione, e va benissimo; ma anche di qualunque progetto di società che tenga conto dei bisogni e dei valori che il mercato ignora o offende: e va malissimo.
In questo contesto di resa culturale incondizionata al pensiero unico si colloca il pirlismo della sinistra: la riduzione della sua strategia alla deriva della crescita continua e indifferenziata (di tutto, di più) orientata da una «misura priva di teoria», come diceva l´economista Koopmans.

Coloro che si permettono di ricordare che l´insignificanza del Pil non è un problema di tecnica statistica, ma è una grande ed essenziale questione culturale e politica, sono considerati frivoli disturbatori di una politica severamente e altrimenti impegnata: per esempio, nel grande dibattito sul Partito Democratico .
Ma che cosa pretendono questi disturbatori?

Diciamo noi : E la Sinistra, che dice su Auditel? Cosa dice Petruccioli, che ha celebrato la vittoria della RAI su Mediaset affidandosi ai dati Auditel ? Ma in questo almeno bisogna capirlo. Quali altri strumenti ha ? Perciò ci tratta da disturbatori.
Chiosa Ruffolo : Risponderei che pretendono di ricordarsi dell´insegnamento teorico e delle proposte pratiche di economisti “eretici”, come l´americano di origine romena Georgescu Roegen, l´americano di origine indiana Amartya Sen; i nostri Giorgio Fuà e Giacomo Becattini, nel senso:

(a) di una riforma del Pil che lo depuri dalle bestialità più clamorose per farne un indice realmente rappresentativo dell´attività economica;
(b) di costruire indici del benessere in grado di rappresentare sinteticamente la qualità sociale del paese nei suoi aspetti più critici: lavoro, ambiente, sanità, istruzione, sicurezza;
(c) di definire infine, al massimo livello della responsabilità democratica, un traguardo progettuale collocato nel tempo, che integri in un «indice normativo» equilibrato gli obiettivi economici e sociali adottati come scelte da proporre al Paese.
Rispondiamo noi: eppure le cose da fare sono semplici.
a ) Bisogna applicare la legge 249 e far sì che sia l’Autorità delle Telecomunicazioni in prima persona a fare i rilevamenti degli ascolti.
b) L’Auditel deve consegnare i dati grezzi ( cioè non trattati dai suoi software ) ad esperti indipendenti per consentire elaborazioni alternative.
c ) Bisogna che l’Autorithy avvi ricerche qualitative che integrino e correggano il dato Auditel nell’opinione pubblica. E devono essere diffusi in contemporanea.

In sostanza, chi dice quanti spettatori hanno visto Fede, ci deve anche dire a quanti è piaciuto e a quanti no, di modo che il numero non diventi automaticamente indice di qualità.d ) Dev’essere reso pubblico l’IQS RAI, ovvero la ricerca sul gradimento dei programmi del servizio pubblico. Ricerca resa pubblica una sola volta, nell’ottobre dello scorso anno, che ha dato risultati “eversivi” per gli attuali vertici RAI e che da allora è stata nuovamente segretata. Nonostante la sua pubblicazione sia prevista , ogni trimestre, dall’accordo tra Stato e RAI.

E chiudiamo, sottoscrivendo la conclusione di Ruffolo sul Pil che vale anche per l’Auditel: Cari compagni: non è questo un modo intelligente e pratico per uscire da un´afasia culturale e politica mal dissimulata dalle chiacchiere sul riformismo; di mettere i numeri al posto dei simboli; gli impegni al posto dei discorsi; insomma, di riacquistare, credibilmente, una bussola perduta ?
E di seguito diciamo noi : non è il caso di ricostruirsela da soli, una bussola, che segni i nostri punti cardinali, senza inseguire quella degli altri ?

Giulio Gargia è l’autore del libro ” L’arbitro è il venduto” , sulle storture delle rilevazioni degli ascolti.

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Rivalutare, riconcettualizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare: le sei erre del futuro prossimo venturo.

di Serge Latouche – Traduzione di Laura Pagliara

Fonte: http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100917/pagina/11/pezzo/287060/.

Di che cosa parliamo se parliamo di felicità. La differenza sostanziale tra il ben-avere e il ben-essere e i passaggi necessari per raggiungerlo.
Bisogna risalire alla seconda metà del ‘700 per trovare le origini del pensiero economico che fa coincidere il «benessere» statistico con il «ben avere», sebbene nello stesso periodo l’illuminista napoletano Antonio Genovesi avesse sottolineato la necessità di una economia fondata sulla ricerca del bene comune. Temi che si ripropongono oggi con grande urgenza e che richiedono l’elaborazione di nuovi codici e regole. L’anticipazione di un intervento a Pordenonelegge.

Per concepire e costruire una società di abbondanza frugale e una nuova forma di felicità, è necessario decostruire l’ideologia della felicità quantificata della modernità; in altre parole, per decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite, dobbiamo capire come si è radicato.

Quando, alla vigilia della Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è un’idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un benessere materiale e individuale, anticamera del PIL pro capite degli economisti.

Effettivamente, in questo senso, si tratta proprio di un’idea nuova che emerge un po’ ovunque in Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia. La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati Uniti d’America, paese in cui si realizza l’ideale dell’Illuminismo su un terreno ritenuto vergine, proclama come obiettivo: «La vita, la libertà e la ricerca della felicità».

Nel passaggio dalla felicità al PIL pro capite si verifica una tripla riduzione supplementare: la felicità terrestre è assimilata al benessere materiale, con la materia concepita nel senso fisico del termine; il benessere materiale è ricondotto al «ben avere» statistico, vale a dire alla quantità di beni e servizi commerciali e affini, prodotti e consumati; la stima della somma dei beni e dei servizi è calcolata al lordo, ossia senza tenere conto della perdita del patrimonio naturale e artificiale necessaria alla sua produzione.

Il primo punto è formulato nel dibattito fra Robert Malthus e Jean Baptiste Say. Malthus comincia col comunicarci la propria perplessità: «Se la pena che ci si dà per cantare una canzone è un lavoro produttivo, perché gli sforzi che si fanno per rendere divertente e istruttiva una conversazione e che sicuramente offrono un risultato ben più interessante, dovrebbero essere esclusi dal novero delle produzioni attuali? Perché non vi si dovrebbero comprendere gli sforzi che dobbiamo fare per moderare le nostre passioni e per diventare obbedienti a tutte le leggi divine e umane che sono, senza possibilità di smentita, i beni più preziosi? Perché, in sostanza, dovremmo escludere un’azione qualsiasi il cui fine sia quello di ottenere il piacere o di evitare il dolore, sia del momento che nel futuro?».

Materiali e immateriali

Certo, ma è Malthus stesso poi a osservare che questa soluzione porterebbe direttamente all’autodistruzione dell’economia come campo specifico. «È vero che in tal modo potrebbero esservi comprese tutte le attività della specie umana in tutti i momenti della vita», nota giustamente. Infine, aderisce al punto di vista riduttivo di Say: «Se poi, insieme a Say», scrive Malthus «desideriamo fare dell’economia politica una scienza positiva, fondata sull’esperienza e capace di dare risultati precisi, dobbiamo essere particolarmente precisi nella definizione del termine principale di cui essa di serve (cioè, la ricchezza) e comprendervi solamente quegli oggetti il cui aumento o diminuzione siano tali da potere essere valutati; e la linea più ovvia e utile da tracciare è quella che separa gli oggetti materiali da quelli immateriali».

In accordo con Jean-Baptiste Say, che definisce così la felicità del consumo, non molto tempo fa Jan Tinbergen proponeva di ribattezzare il PNL semplicemente FNL (felicità nazionale lorda). In realtà, questa pretesa arrogante dell’economista olandese è solo un ritorno alle fonti. Se la felicità si materializza in benessere, versione eufemizzata del «ben avere», qualsiasi tentativo di trovare altri indicatori di ricchezza e di felicità sarebbe vano. Il PIL è la felicità quantificata.

È facile condannare questa pretesa di equiparare felicità e PIL pro capite, dimostrando che il prodotto interno o nazionale misura solo la «ricchezza» commerciale. In effetti, dal PIL sono escluse le transazioni fuori mercato (lavori domestici, volontariato, lavoro in nero), mentre invece le spese di «riparazione» sono contate in positivo e i danni generati (esternalità negative) non vengono dedotti, neppure la perdita del patrimonio naturale. Si dice ancora che il PIL misura gli outputs o la produzione, non gli outcomes o i risultati.

È appropriato ricordare il bellissimo discorso di Robert Kennedy (scritto probabilmente da John Kenneth Galbraith) pronunciato qualche giorno prima del suo assassinio. «Il nostro PIL (…) include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade. Include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa della natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. In compenso, il pil non conteggia la salute dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione, l’allegria dei loro giochi, la bellezza della nostra poesia o la saldezza dei nostri matrimoni. Non prende in considerazione il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra saggezza. Misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».

La società economica della crescita e del benessere non realizza l’obiettivo proclamato dalla modernità, cioè: la felicità più grande per il maggior numero di persone. Lo constatiamo chiaramente. «Nel XIX secolo, nota Jacques Ellul, la felicità è legata essenzialmente al benessere, ottenuto grazie a mezzi meccanici, industriali, e grazie alla produzione. (…) Una tale immagine della felicità ci ha condotti alla società del consumo. Adesso che sappiamo per esperienza che il consumo non fa la felicità, conosciamo una crisi di valori». Il fatto è che nella riduzione economicista , come osserva Arnaud Berthoud, «tutto ciò che fa la gioia di vivere insieme e tutti i piaceri dello spettacolo sociale dove ognuno si mostra agli altri in tutti i luoghi del mondo – mercati, laboratori, scuole, amministrazioni, vie o piazze pubbliche, vita domestica, luoghi di svago… sono rimossi dalla sfera economica e collocati nella sfera della morale, della psicologia o della politica. La sola felicità che ci si aspetta ancora dal consumo è separata dalla felicità degli altri e dalla gioia comune». (…)

Il progetto di una «economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da un gruppo di economisti italiani (rappresentato principalmente da Stefano Zamagni, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti) si ricollega alla tradizione aristotelica e trae origine da una critica dell’individualismo. La costruzione di una tale economia resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della scuola napoletana del XVIII secolo che il trionfo dell’economia politica scozzese ha respinto. La felicità terrestre, in attesa della beatitudine promessa ai giusti nell’aldilà, generata da un governo retto (buon governo) che persegue la ricerca del bene comune era, in effetti, l’oggetto di riflessione degli Illuministi napoletani. Integrando il mercato, la concorrenza e la ricerca da parte del soggetto commerciale di un proprio interesse personale, essi non ripudiavano l’eredità del tomismo. Questi teorici dell’economia civile sono perfettamente coscienti del «paradosso della felicità» riscoperto dall’economista americano Richard Easterlin. «È legge dell’universo – scriveva Genovesi – che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Ci sono voluti due secoli di distruzione frenetica del pianeta grazie al «buon governo» della mano invisibile e dell’interesse individuale eretto a divinità per riscoprire queste verità elementari. (…)

Merci fittizie

Come aveva visto bene Baudrillard a suo tempo, «una delle contraddizioni della crescita è che produce beni e bisogni allo stesso tempo, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzata, che, dice, «definisce la società di crescita come l’opposto di una società di abbondanza».

La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società di abbondanza sulla base di quello che Ivan Illich chiamava la «sussistenza moderna». Vale a dire, «il modo di vita in un’economia postindustriale all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la propria dipendenza nei confronti del mercato, e l’hanno fatto proteggendo – con mezzi politici – un’infrastruttura in cui tecniche e strumenti servono, essenzialmente, a creare valori di uso non quantificato e non quantificabile dai fabbricanti professionali di bisogni». Si tratta di uscire dall’immaginario dello sviluppo e della crescita, e di re-incastonare il dominio dell’economia nel sociale attraverso una Aufhebung (toglimento/superamento).

Tuttavia, uscire dall’immaginario economico implica rotture molto concrete. Sarà necessario fissare regole che inquadrino e limitino l’esplosione dell’avidità degli agenti (ricerca del profitto, del sempre più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazione della dimensione delle imprese e così via. E in primo luogo la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie che sono il lavoro, la terra e la moneta. Si sa che Karl Polanyi vedeva nella trasformazione forzata di questi pilastri della vita sociale in merci il momento fondante del mercato autoregolatore. Il loro ritiro dal mercato mondializzato segnerebbe il punto di partenza di una reincorporazione/reinnesto dell’economia nel sociale. Parallelamente a una lotta contro lo spirito del capitalismo, sarà opportuno dunque favorire le imprese miste in cui lo spirito del dono e la ricerca della giustizia mitighino l’asprezza del mercato. Certo, per partire dallo stato attuale e raggiungere «l’abbondanza frugale», la transizione implica nuove regole e ibridazioni e in questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell’economia solidale fino alle esortazioni alla semplicità volontaria, possono ricevere l’appoggio incondizionato dei partigiani della decrescita. Se il rigore teorico (l’etica della convinzione di Max Weber) esclude i compromessi del pensiero, il realismo politico (l’etica della responsabilità) presuppone il compromesso per l’azione. La concezione dell’utopia concreta della costruzione di una società di decrescita è rivoluzionaria, ma il programma di transizione per giungervi è necessariamente riformista. Molte proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono dunque felicemente trovare posto all’interno del programma.

Lo spirito del dono

Un elemento importante per uscire dalle aporie del superamento della modernità è la convivialità. Oltre ad affrontare il riciclaggio dei rifiuti materiali, la decrescita si deve interessare alla riabilitazione degli emarginati. Se lo scarto migliore è quello che non è prodotto, l’emarginato migliore è quello che la società non genera. Una società decente o conviviale non produce esclusi. La convivialità, il cui termine Ivan Illich prende in prestito dal grande gastronomo francese del XVIII secolo Brillat Savarin (Le fisiologia del gusto. Meditazioni di gastronomia trascendentale), mira appunto a ritessere il legame sociale smagliato dall’«orrore economico» (Rimbaud). La convivialità reintroduce lo spirito del dono nel commercio sociale accanto alla legge della giungla e riprende così la philia (amicizia) aristotelica, ricordando al contempo lo spirito dell’agape cristiana.

Questa preoccupazione si ricollega appieno all’intuizione di Marcel Mauss che nel suo articolo del 1924, Apprezzamento sociologico del bolscevismo, sostiene, «a rischio di apparire antiquato» di dover tornare «ai vecchi concetti greci e latini di caritas (che oggi traduciamo così male con carità), di philia, di koinomia, di questa “amicizia” necessaria, di questa “comunità” che sono l’essenza delicata della città».

È importante anche scongiurare la rivalità mimetica e l’invidia distruttrice che minacciano ogni società democratica. Lo spirito del dono, fondamentale per la costruzione di una società di decrescita, è presente in ognuna delle R che formano il cerchio virtuoso proposto per dare vita all’utopia concreta della società autonoma. Soprattutto nella prima R, rivalutare, poiché indica la sostituzione dei valori della società commerciale (la concorrenza esacerbata, il ciascuno per sé, l’accumulo senza limiti) e della mentalità predatrice nei rapporti con la natura, con i valori di altruismo, di reciprocità e di rispetto dell’ambiente.

Il mito dell’inferno dalle lunghe forchette con cui si apre la seconda parte del libro La scommessa della decrescita è esplicito: l’abbondanza abbinata al ciascuno per sé produce miseria, mentre la spartizione, pur nella frugalità, genera soddisfazione in tutti, perfino gioia di vivere. La seconda R, riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di ripensare la ricchezza e la povertà. La «vera» ricchezza è fatta di beni relazionali, quelli fondati appunto sulla reciprocità e la non rivalità, il sapere, l’amore, l’amicizia. Al contrario, la miseria è soprattutto psichica e deriva dall’abbandono nella «folla solitaria», con cui la modernità ha sostituito la comunità solidale. (…)

È imperativo ridurre il peso del nostro modo di vita sulla biosfera, ridurre l’impronta ecologica i cui eccessi si traducono in prestiti richiesti alle generazioni future e all’insieme del cosmo, ma anche al Sud del mondo. Abbiamo dunque l’obbligo di dare in cambio ciò che si trova al centro della maggior parte delle altre R: ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ridistribuire rimanda all’etica della spartizione, ridurre (la propria impronta ecologica) al rifiuto della predazione e dell’accaparramento, riutilizzare, al rispetto per il dono ricevuto e riciclare, alla necessità di restituire alla natura e a Gaia ciò che è stato preso in prestito da loro. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia

Aspettando la manovra finanziaria del governo Berlusconi, quello che non metteva le mani nelle tasche degli italiani.

L’Italia sale al quinto posto nella classifica europea: lo scorso anno il peso del fisco sul pil è stato del 43,2%, in aumento rispetto al 2008. Debito pubblico è sempre il più alto d’Europa: nel 2009, in rapporto al prodotto interno lordo, è aumentato di quasi 10 punti rispetto all’anno precedente. Lo dice l’Istat. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

Ripresa economica in Italia? Non ci siamo.

I dati dell’Istituto per l’anno passato, quello della recessione, fissano il Pil a -4,9%. Si tratta del dato peggiore dal 1971 (da quando è iniziata la serie storica). In particolare è stato il Pil del quarto trimestre, sceso dello 0,2% rispetto ai tre mesi precedenti, a cogliere di sorpresa il mercato. Gli analisti contattati dall’agenzia Bloomberg avevano stimato una crescita dello 0,1%. Su base tendenziale il Pil del quarto trimestre è diminuito del 2,8%.

La diminuzione congiunturale del Pil è il risultato di una riduzione del valore aggiunto dell’industria, di una sostanziale stazionarietà del valore aggiunto dei servizi e di un aumento del valore aggiunto dell’agricoltura.

Confrontando con gli altri Paesi del G7, nel quarto trimestre il Pil è aumentato in termini congiunturali dell’1,4% negli Stati Uniti e dello 0,1% nel Regno Unito. In termini tendenziali, il Pil è aumentato dello 0,1% negli Stati Uniti ed è diminuito del 3,2% nel Regno Unito.

Incoraggianti invece i dati del Bollettino statistico della Banca d’Italia sul debito pubblico italiano, che nel dicembre 2009 si è attestato a 1.761,191 miliardi di euro, rispetto ai 1.784,168 miliardi segnati a novembre.

Ma non quelli sulle entrate: nel 2009 le entrate tributarie si sono attestate a quota 401,677 miliardi di euro, in calo del 2,5% rispetto ai 412,318 miliardi di euro del 2008. Tuttavia a dicembre le entrate tributarie sono tornate a crescere, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, dopo tre mesi di cali consecutivi, sempre in rapporto al mese corrispondente del 2008.

Nell’ultimo mese dell’anno le entrate si sono attestate infatti a quota 71,363 miliardi di euro, in crescita dell’1,4% rispetto ai 70,362 miliardi di dicembre 2008. Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia Media e tecnologia Natura Popoli e politiche Salute e benessere

Basta col Pil, bisogna creare un nuovo sistema di misurazione della ricchezza, magari improntato sulla sostenibilità.

da greenreport.it.

Che cosa conta nella vita? Qual è la ricchezza e come la si misura? Sono domande cui cerca di rispondere Patrick Viveret, filosofo e consigliere referente della Corte dei Conti, incaricato nell’ agosto 2000 da Guy Hascoët, sottosegretario di stato per l’economia solidale del governo francese, di scrivere un “Rapporto sui nuovi fattori di ricchezza”.

“Ripensare la ricchezza. Dalla tirannia del Pil alle nuove forme di economia sociale” è appunto il rapporto di Viveret volto a ripensare ciò che nella vita umana rappresenta un valore e a proporre, sulla base di nuovi criteri, un nuovo sistema di contabilità nazionale, non esclusivamente appiattito su valori numerici, come il Pil (prodotto interno lordo), ma soprattutto basato su valori qualitativi ed esistenziali. (Le intenzioni di fondo che portarono alla commissione del lavoro infatti erano quelle di sottrarsi progressivamente alla “dittatura del Pil”, considerato ormai da molti “un termometro che rende malati”).
Il rapporto di Viveret si sviluppa in due fasi. Mentre la prima fase è di tipo “esplorativo” mirata ad aprire il dibattito – si compone di due grossi capitoli e di una conclusione programmatica – ed è focalizzata sui problemi e sulle incongruenze della contabilità nazionale lorda basata prevalentemente sul Pil; la seconda – che consta di tre capitoli e di una breve conclusione – è una vera e propria sintesi delle discussioni di un anno intorno al tema affrontato dove, fra l’altro, l’autore, stimola, comunque, a continuare nella riflessione.

Il prodotto interno lordo e la sua evoluzione, il “tasso di crescita”, è diventato un vero “indicatore sociale” nelle società occidentali ossessionate dalla misurazione monetaria, viene di continuo evocato, ma molto spesso senza mai precisare le sue condizioni di costruzione, i suoi paradossi e i suoi limiti. Viene, però, considerato positivo, anche se ignora l’insieme delle ricchezze non monetarie e anche quando contabilizza in maniera positiva il numero di distruzioni ambientali, insoddisfazioni personali, malattie. Perché comunque sia, i disastri ambientali e umani generano flussi monetari per le riparazioni, gli indennizzi o le sostituzioni.

Del resto il Pil misura sola le transazioni monetarie senza distinguere fra quelle positive o quelle negative e trascura tutte quelle a titolo gratuito o comunque non quantificabili monetarmene (come ad esempio il volontariato di qualsiasi genere).

Ma, in ogni caso il calo o il rialzo del Pil dai governi viene interpretato come il declino o la ripresa del Paese. Senza interrogarsi se davvero l’aumento del Pil fa la ricchezza della popolazione di un Paese e se davvero il Pil è lo strumento adeguato per misurarla.
Il Pil è indifferente al concetto di benessere dell’essere umano ossia alla soddisfazione di bisogni fondamentali come il cibo, la casa, una buona salute, relazioni solide e la possibilità di realizzare il potenziale di ogni singolo individuo. Però, gran parte dei governi e anche dei consumatori-individui, credono che al crescere dei consumi corrisponda un miglioramento del benessere.

Ma non è esattamente così perché la società occidentale dei consumi che poggia fondamentalmente su tre pilastri come la pubblicità, il credito e l’ obsolescenta programmata crea anche disagi e infelicità. La tesi secondo cui più si consuma più siamo felici si rivela errata, perché il livello di soddisfazione di vita a un certo punto non tende ad aumentare all’aumento del reddito mentre il numero percentuale di depressi, bulimici e anoressici aumenta.

E allora come fare? Creare un nuovo sistema, magari improntato sulla sostenibilità. Per Viverent l’obiettivo da raggiungere è una nuova responsabilità ecologica e sociale, mediante un nuovo approccio alla ricchezza e uno Stato ecologicamente e socialmente responsabile. Infatti, ogni indicatore di ricchezza è una “scelta sociale e politica”.

Ma accanto a un nuovo paradigma, occorre anche una strategia “ambiziosa”, che tenga conto del fatto che ci sono valori umani che non si possono contabilizzare, ma che sono evidenti ed importanti per la società. Cambiare paradigma significa anche non continuare a ruotare intorno al concetto che «solo» l’impresa sia unica produttrice di ricchezza. Altrimenti, le teorie sul capitale sociale, naturale ed umano non avrebbero ragione di esistere.

Occorre evitare poi il rischio di «mercantilizzare» ancor più la visione sociale e la stessa vita umana. E questo in un certo senso è direttamente legato ad una nuova concezione della moneta, che da pacificatrice e mediatrice degli scambi, è diventata strumento di violenza e di dominazione economica, politica e sociale. Ecco perché – come sostiene Viverent – pronosticare «una riabilitazione della nozione del bene comune o dell’ interesse generale» non può essere considerata un’illusione, ma una necessità, un percorso che confluisca in giuste prospettive di sviluppo umano, di una nuova politica (nazionale, europea e internazionale), di un nuovo modo di intendere i rapporti umani tra uomo ed uomo e tra uomo e ambiente.

E dobbiamo fare in modo che i principi di cooperazione e di solidarietà siano determinanti nella sfera economica, sociale, pubblica e culturale e che dalla logica dei «vincenti/perdenti» si passi alla logica «cooperanti/guadagnanti».
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Il capolinea del governo Berlusconi.

(fonte: blitzquotidiano.it)
A Berlusconi non far sapere…ma la crisi bussa tre volte in un giorno solo. Alla porta del suo governo ma, quel che più importa, anche alla porta di casa nostra. Come il premier, anche ciascuno di noi preferisce tenerla fuori dell’uscio, ignorare i rintocchi, aspettare che si stufi e si stanchi di importunarci. Però la crisi non se ne va, anzi bussa, tre volte in un giorno.

La prima volta suona per chi i soldi li ha: 102 miliardi di quotazioni azionarie come si dice “in fumo” in un giorno. Miliardi che un giorno vanno e un giorno vengono, non è il caso di farne un dramma. E poi riguarda appunto chi ha azioni e chi ce l’ha più tra la gente normale? Solo i matti.

Se non fosse che le Borse sentono odore di bruciato. Dopo settimane e mesi di risalita perché annusavano la fatidica uscita dalla crisi, adesso sono giorni che si vende, si vende. Si vende perché non si crede che molte aziende, quelle che fabbricano cose e non finanza ce la facciano ad arrivare a fine anno. A leggere tra le righe delle cronache dei giornali si vede che molte chiusure per ferie quest’anno rischiano di essere chiusure e basta. Storie di piccole aziende, comunque la prima bussata è per investitori e azionisti, il più di noi può non sentirla.

La seconda bussata riguarda chi lavora a stipendio e a salario. Un po’ di più, parecchia più gente. La seconda bussata dice che in Europa la disoccupazione è arrivata al 9,5 per cento. Altissima. Traduzione: chi ha un lavoro rischia di perderlo, chi non ce l’ha un lavoro è quasi sicuro che non lo trova. Almeno fino al 2010, arrivarci al 2010.

La terza bussata è per i nostri figli e nipoti: il deficit dello Stato italiano nei primi tre mesi dell’anno ha viaggiato a quota 9,3 per cento della ricchezza prodotta. Una volta il tre per cento era il limite, il 4 segnale d’allarme. Ora quel nove e passa dice che lo Stato si indebita sempre più e pagheranno i figli e i nipoti nei prossimi anni e decenni. Tasse? Non ce ne sarà bisogno: sarà una tassa chiamata inflazione ad asciugare l’alluvione del debito.

Tre colpi alla porta in un solo giorno, uno per chi i soldi li ha, uno per chi vive di lavoro, l’altro per il futuro delle famiglie. Meglio non sentirli, accendiamo la tv. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

L’Ocse dice che il teorema Tremonti è sbagliato. Con buona pace del governo Berlusconi.

L’Ocse: per l’Italia “lunga recessione”, di Galapagos-Il Manifesto

Il giudizio dell’Ocse è da brivido: “L’Italia ha di fronte una profonda e prolungata recessione”. E facendo seguire i numeri alle parole, l’organizzazione parigina – nell’ultimo rapporto dedicato all’Italia – sostiene che quest’anno il Pil crollerà del 5,3% e il tasso di disoccupazione potrebbe salire al 10%. Cifre che peggiorano le previsioni formulate il 31 marzo quando l’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico – di cui sono soci i 30 paesi più industrializzati del mondo – indicò per l’Italia una caduta del Pil del 4,3% e una disoccupazione intorno al 9,2%. Commenta l’Ocse: quello che “ha colpito della recessione italiana è la sua ampiezza”.

Che quasi sicuramente deriva dalla scarsa domanda interna e dalla eccessiva dipendenza della domanda globale in forte caduta come conseguenza della crisi.
Ugualmente negativo il giudizio sull’andamento dei conti pubblici: il deficit pubblico (rispetto al Pil) per quest’anno è prospettato al 6%, accompagnato da una crescita del debito “oltre il 115%”, “vicino al 120% entro la fine” dell’anno prossimo. Un po’ meno pessimista, invece, l’Ocse è sull’andamento del Pil nel 2010: c’è una piccola inversione rispetto alla previsione di fine marzo. Ora per il prossimo anno è prevista una crescita dello 0,4%, invece di una caduta dello 0,4%. Negli ani successivi, invece, “grazie alla relativa solidità dei bilanci delle famiglie e delle imprese, la ripresa potrebbe essere più robusta che altrove”.

Altri dati negativi rigurdano i consumi: nel 2009 accuseranno un calo del 2,4% per restare poi fermi nel 2010. Gli investimenti fissi a fine 2009 crolleranno del 16% (-20,2% per macchinari ed equipaggiamenti) per tornare a crescere di appena l’1,3% nel 2010. Particolarmente negativo anche l’andamento del commercio estero: le esportazioni scenderanno del 21,5% (-0,7% nel 2010) e le importazioni del 20,2% (-0,2% nel 2010).

A fronte di questa situazione, il governo come si comporta? “Il debito italiano è troppo alto per permettere al governo di fare di più” per sostenere la domanda interna, scrive l’Ocse, apprezzando la cautela delle autorità. Ulteriore problema legato al debito pubblico: “Circa 300 miliardi di euro del debito maturano nel 2009″ e dovranno essere rinnovati. E un ammontare simile è previsto per il 2010. Inoltre, il deficit di bilancio necessiterà di nuovi prestiti per 80 miliardi di euro”.

Per l’Ocse il governo nel varare le misure anticrisi ha avuto a disposizione un “limitato spazio di manovra” nel quale si è mosso abbastanza bene. Per il futuro, tuttavia, l’Organizzazione sostiene che “nel lungo periodo la performance economica può essere migliorata con riforme macroeconomiche e strutturali”. E ritiene utili le iniziative che vanno a sostegno dei nuovi disoccupati che mettono in luce “una certa debolezza nel sistema italiano di welfare”, molto sbilanciato nella spesa pensionistica. E sono proprio le pensioni e la sanità le due aree su cui l’intervento del governo è giudicato prioritario da parte dell’Ocse. Perplessità, invece, vengono rinnovate nei confronti delle misure di sostegno all’industria dell’auto, che “rischiano di falsare l’allocazione delle risorse”. Il settore auto – secondo gli esperti di Parigi – non riveste importanza sistemica e anche se le misure adottate hanno stimolato le vendite di auto a breve termine, è poco probabile che un tale sostegno costituisca il miglior utilizzo delle risorse pubbliche. Ma l’Ocse non dice che gli incentivi alla rottamazione in pratica si autofinanziano con le maggiori vendite. Senza contare che una caduta della produzione e delle immatricolazioni sarebbe costata moltissimo in termini di cassa integrazione e licenziamenti nell’indotto.

Per quanto riguarda il sistema bancario, si sottolinea che “le caratteristiche che hanno protetto le nostre banche sono le stesse che ora possono esporle alle conseguenze della recessione”. E avverte che “gli sforzi di ricapitalizzazione devono continuare, preferibilmente attraverso interventi privati, nazionali ed esteri, ma senza escludere il ricorso al capitale pubblico. Nel rapporto è anche scritto che l’esposizione delle banche italiane nell’Europa centrale e dell’Est supera i 140 miliardi di euro alla fine del 2008. L’esposizione italiana nei paesi in via di sviluppo, che includono quelli dell’Est Europa, nel 2007 “era inferiore a quella delle banche di Germania, Francia, Spagna e Olanda”. “In termine assoluti – si legge nel rapporto – le banche italiane sono più esposte verso Polonia, Croazia, Ungheria e Russia”. L’esposizione con la Polonia è di 35 miliardi di euro, quella con la Croazia di 22 miliardi, quella con l’Ungheria di 18 miliardi e quella con la Russia di 16 miliardi.

Non poteva, ovviamente, mancare la reiterazione della richiesta di rilancio delle liberalizzazioni, estendendo ad altri settori (come trasporti e servizi locali) quelle già compiute, per aumentare la concorrenza e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. L’Ocse fa un esercizio di quantificazione dei benefici delle liberalizzazioni: se l’Italia adeguasse la sua normativa nei settori non-manifatturieri alla “best practice” internazionale, ricaverebbe un aumento del 14,1% della produttività su 10 anni. Se si limitasse a raggiungere i livelli migliori della Ue il miglioramento sarebbe del 13,7%. Nella simulazione dell’Ocse, l’incremento deriverebbe da un +2,6% nel settore dell’elettricità e del gas, dal 4,9% nel retail e dal 7,4% nei servizi professionali. Sarebbero quindi “benefici elevati”, soprattutto nel caso dei servizi professionali, dove l’attuale contesto normativo è particolarmente “scadente se paragonato a quelli di altri paesi”.

Un capitolo è dedicato al federalismo fiscale, che “potrebbe essere difficile da perseguire”. “È importante che abbia un forte sostegno politico e regionale”. Secondo l’Ocse “una nuova tassa locale, in parte basata sul valore delle proprietà di case, sarebbe altamente desiderabile dal punto di vista del federalismo fiscale”. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia Lavoro

A Confindustria non piace più il governo Berlusconi.

Confindustria: pil 2009 a -4,9% ripresa “faticosa” nel 2010
Emma Marcegaglia: “Senza un cambiamento strutturale nessuna ripresa per 5 anni”
Confindustria: pil 2009 a -4,9% ripresa “faticosa” nel 2010-Repubblica

Nel 2009 il prodotto interno lordo in Italia si contrarrà del 4,9%. E’ la stima del centro studi di Confindustria che ha tagliato le precedenti previsioni che, a marzo, parlavano di un calo del 3,5%. Un quadro in cui l’occupazione continua a calare. L’economia dovrebbe tornare a crescere dello 0,7% nel 2010 ma la ripresa sarà “ripida” e l’Italia “vi si inerpicherà faticosamente”. Quanto al debito pubblico, crescerà dal 105,7% del pil nel 2008 al 114,7% nel 2009, fino a toccare nel 2010 il 117,5%. Sulla questione interviene anche il presidente Emma Marcegaglia: “Ci sono timidi segnali di ripresa, ma davanti abbiamo mesi molto difficili ed è assolutamente necessario varare le riforme strutturali altrimenti usciremo dalla crisi con un tasso di crescita molto basso e ci vorranno 5 anni per tornare ai livelli di prima”.

Il calo dei consumi. Nel 2009 i consumi si ridurranno dell’1,9%, accelerando il calo dello 0,9% che si è avuto nel 2008. Torneranno a crescere nel 2010 ( 0,7%) grazie a “una maggiore fiducia sostenuta dalla ripresa economica e a un reddito disponibile reale in aumento dell’1,2% dopo la riduzione dell’1,6% subita nel 2009”.

L’uscita dalla crisi. “Indicare ‘exit strategy’ dalla crisi con troppo anticipo – avverte Confindustria – rischia di ottenere l’effetto opposto a quello desiderato di stabilizzazione delle aspettative”.

Allarme occupazione. Nei due anni tra il primo trimestre del 2008 e il primo del 2010, la recessione causerà la perdita di circa un milione di unità di lavoro (tra posti di lavoro e cassa integrazione). Il Centro studi di Confindustria sottolinea che il tasso di disoccupazione arriverà quest’anno all’8,6% e nel 2010 al 9,3%, “livello che non veniva più toccato dal 2000”.

Le mancate riforme. Secondo Confindustria, “lo stato sociale è insostenibile”. Nel presentare i dati, il direttore del Centro studi, Luca Paolazzi, ha rimarcato che “le mancate riforme hanno costi enormi e al contempo offrono gigantesche opportunità: facendo leva su infrastrutture, istruzione, pubblica amministrazione e liberalizzazioni il pil italiano può guadagnare almeno il 30% nei prossimi 20 anni”.

Le “cura” Marcegaglia. Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ribadisce la necessità di agire subito per permettere al paese di tornare a crescere. Gli ambiti da riformare indicati dal numero uno di viale dell’Astronomia sono l’istruzione, le infrastrutture e la giustizia. Ma anche il sistema finanziario necessita di una rivoluzione, dando attuazione al Sace, il fondo di garanzia e la cassa depositi e prestiti, e spingendo sulle liberalizzazioni: “Ci sono ancora interi settori dove il mercato non ha spazio sufficiente e c’è tutt’ora una concorrenza sleale”

Le reazioni. Dure le critiche dell’opposizione. “Le stime di Confindustria smentiscono le bufale propinate dal governo Berlusconi e confermano ciò che il partito democratico ripete da mesi: sulla crisi l’esecutivo non ha mai avuto il polso della situazione”. Lo afferma Sergio D’Antoni, responsabile per il Mezzogiorno del Pd e vicepresidente della commissione Finanze della Camera. “Con l’alibi del debito pubblico, il ministro Giulio Tremonti non ha fatto assolutamente nulla per sciogliere i nodi strutturali che impediscono la ripresa del paese”. Interventi a sostegno delle zone deboli, infrastrutture, aiuti alle piccole e medie imprese, più tutela ai precari. Queste, per D’Antoni, “le priorità disattese dal governo”. (Beh, buona giornata).

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Ecco i dati che dimostrano che chi dice che stiamo uscendo dalla crisi non sa quello che dice.

Crolla il pil dei paesi della zona-euro. Secondo L’Eurostat si è avuta una diminuzione del 4,8% nel primo trimestre 2009 su base annua, mentre la diminuzione per i paesi dell’Unione Europea è stata del 4,5%. In Italia il calo è del 5,9%.

“Germania, la più colpita”. I dati del prodotto interno lordo nel primo trimestre 2009 rispetto agli ultimi tre del 2008 hanno segnato un calo del 2,5% nell’Eurozona. Per l’Italia la contrazione è del 2,4%.L’economia più colpita è stata quella tedesca, con la Germania che ha avuto un calo del 3,8%. Male anche Spagna (-1,9%) e la Francia (-1,2%).

Polonia in controtendenza. Tra i Paesi dell’est – la cosiddetta Nuova Europa – resiste alla recessione solo la Polonia, che segnala una crescita trimestrale dello 0,4% e annuale dell’1,9%. In Lituania il calo sul trimestre precedente è del 10,5%, in Lettonia dell’11,2%. Numeri negativi anche per Estonia, Romania, Slovaccia e Ungheria.

Consumi e investimenti. L’Eurostat spiega che le spese di consumo delle famiglie hanno visto, rispetto al trimestre precedente, un calo dello 0,5% nell’eurozona e dell’1,0% nell’intera Unione Europea. Gli investimenti hanno visto una contrazione del 4,2% nell’eurozona e del 4,4% nell’Ue-27. Le esportazioni sono calate rispettivamente dell’8,1% e del 7,8%. In calo anche le importazioni, rispettivamente del 7,2% e del 7,8%.

“Inflazione zero”. Intanto Eurolandia viaggia verso un periodo di inflazione zero e si avvia ad un nuovo periodo di riduzione della crescita. Secondo un membro del board della Banca Centrale europea, l’austriaco Ewald Nowotny, “nel 2009 ci sarà una drastica contrazione del pil, mentre nel 2010 avremo molto probabilmente una crescita zero”. Poi ha aggiunto: “Nei prossimi mesi avremo un periodo di inflazione negativa che non definiremo deflazione ma piuttosto processo di disinflazione”. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

Secondo Bankitalia Pil a-5%, disoccupazione a +10%. Questa è la crisi degli italiani, questo è il governo dell’Italia.

La terapia della verità di MASSIMO GIANNINI-Repubblica

SERVE l’asciutto neorealismo post-moderno di Mario Draghi, per rompere il finto orizzonte di cartapesta sul quale Silvio Berlusconi proietta il suo personale Truman Show, a beneficio di un “pubblico” che si vuole ormai trasformato in “popolo”. Dopo la Confindustria di Emma Marcegaglia, tocca ora al governatore della Banca d’Italia il compito di raccontare qualche amara verità a un’opinione pubblica sedata dal prozac della psico-politica governativa.

La prima verità è che l’Italia è un Paese in crisi profonda. Quest’anno il Pil crollerà del 5%. Solo nel semestre ottobre-marzo la caduta è stata pari al 7%. La famosa “ripresa”, sbandierata da Palazzo Grazioli, non esiste in nessun luogo. E persino i “recenti segnali di affievolimento” della recessione, secondo Draghi, esistono solo nei “sondaggi d’opinione”.

La seconda verità è che tanti, troppi italiani stanno male. Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% della Ue. La flessione della domanda e dei consumi nasce da un cedimento del reddito e dell’occupazione che si acuirà nei prossimi mesi. Due quinti delle imprese con oltre 20 addetti licenzieranno personale. Due milioni di lavoratori temporanei vedranno scadere il loro contratto entro la fine dell’anno.

La terza verità è che la “coperta” del nostro Welfare, con buona pace dei ministri Sacconi e Brunetta che la considerano la migliore del mondo, è corta e piena di buchi. Oltre 1 milione e mezzo di lavoratori, se licenziati, non hanno diritto ad alcun sostegno, e circa 800 mila lavoratori possono contare su un’indennità che non raggiunge i 500 euro al mese. Serve “una riforma organica e rigorosa” degli ammortizzatori sociali, e “una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti”. Non i pannicelli caldi della Cassa integrazione in deroga, o le pezze a colori dei fondi Fas.

La quarta verità è che anche la straordinaria virtù delle imprese del Quarto Capitalismo rischia di non reggere l’urto delle ristrutturazioni. Nelle prospettive sugli investimenti delle imprese manifatturiere permane “un forte pessimismo” per tutto il 2009. E tra le 500 mila piccole aziende con meno di 20 addetti, che danno lavoro a oltre 2 milioni di persone, è spesso “a rischio la stessa sopravvivenza”. Purtroppo una Fiat che vince in America, o una Tod’s che sbarca in Fifth Avenue, non bastano a fare primavera.

La quinta verità è che una politica economica attendista e rinunciataria ci sta regalando un doppio maleficio: nessuna crescita dell’economia reale, ma nessun risanamento dei conti pubblici. Il governo fa poco per arginare la crisi, ma deficit, debito e spesa primaria corrente continuano a lievitare ugualmente a ritmi vertiginosi. Non è solo l’eredità immane del passato, ma è anche il paradosso italiano del presente. Per questo servono riforme strutturali immediate e “prospettiche”, che ci permettano di rafforzare le manovre anti-cicliche oggi in cambio di un sicuro risanamento di bilancio domani. Dalle pensioni alla pubblica amministrazione, dalla scuola alle infrastrutture. C’è l’imbarazzo della scelta, se solo il governo passasse dalla rappresentazione all’azione.

La sesta verità è che il sommerso, eterna risorsa dell’Italietta furba e irresponsbile, non ci tirerà mai più fuori dal gorgo. L’economia irregolare che pesa per il 15% della ricchezza nazionale è un’anomalia insopportabile anche per un Paese di poeti, di santi e di evasori come il nostro. L’occultamento di una parte così alta di basi imponibili accresce ulteriormente l’onere di chi è ligio al dovere, riduce la competitività delle imprese, accresce le iniquità e “disarticola il tessuto sociale”. E anche qui, il governo non fa quel che deve. Non è un caso che Draghi segnali il collasso delle entrate tributarie. Un gettito Iva che diminuisce dell’1,5%, anche quando i consumi crescono del 2,3%, vuol dire una cosa sola: l’area dell’evasione fiscale si sta allargando.

Sta tutto qui, nel divario tra verità e finzione, l’abisso analitico e “terapeutico” che separa il governo e il governatore. Per Berlusconi la crisi è un “dato psicologico”, virtuale e “percepito”. Per curarla, quindi, basta una tambureggiante psico-terapia collettiva, impartita attraverso il verbo suadente del premier o il titolo compiacente di un tg, per attivare nel cervello del cittadino- consumatore- imprenditore-risparmiatore le endorfine di un “positivismo ad ogni costo”.

Per Bankitalia (come già per Confindustria) la crisi è invece un “fatto economico”, reale e vissuto. Per curarla, dunque, servono riforme vere, qui ed ora, che incidano sull’esistenza quotidiana delle persone, delle famiglie, delle imprese. Usa lo straordinario consenso che hai per cambiare e modernizzare questo Paese, era stata la sfida lanciata al Cavaliere dalla Marcegaglia. Draghi, con parole più sfumate, dice esattamente la stessa cosa. È significativo che a convergere su questa “piattaforma” riformista, contrapposta al “format” populista, stavolta ci siano anche i sindacati.

Sarà anche vero – come sostiene Giulio Tremonti in un’irrituale intervista “a orologeria” uscita ieri sul Sole 24 Ore, guarda caso proprio nel giorno delle Considerazioni finali – che la Banca d’Italia è solo “un’autorità tecnica”, che la vera e unica “sovranità appartiene al popolo” e che “la responsabilità politica è del governo che ne risponde”. Ma resta il fatto che Berlusconi sembra essere rimasto il solo a non capire che il puro galleggiamento, per questo Paese, è inutile. Non ci sarà nessuna quiete, dopo la “tempesta perfetta” che ha travolto noi, e che prima o poi rischia di travolgere anche lui. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

Per fronteggiare la crisi il governo italiano ha investito solo 0,2 del Pil. Ecco perché siamo nei guai fino al collo.

Manovre anti-crisi Italia fanalino di coda di LUCA IEZZI

La reazione c’è stata, ma il fiume di denaro pubblico già versato difficilmente basterà e sulla sua efficacia si sbilancia solo il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Khan: “I pacchetti fiscali forniranno da 1 e 3 punti percentuali in più alla crescita quest’anno”. I suoi economisti sono più dubbiosi: i paesi del G20 hanno sì stanziato il 2% del loro Pil nei pacchetti anti-crisi ma lo sforzo “dovrà essere sostenuto, se non aumentato nel 2010”. E lo stesso Strauss-Khan ammonisce: “Con le politiche fiscali c’è un tempo per la semina e uno per la raccolta, e le politiche espansive di oggi devono andare per mano con politiche rigorose domani”.

Sull’individuazione di quel “domani” il dibattito è aperto: i deficit 2009 esploderanno. Nella Ue la Spagna ha approvato una manovra pari al 2,3% del Pil di quest’anno, la Germania 1,6%, l’Inghilterra 1,4%, difficilmente potranno replicare. L’entità della scommessa appare evidente se si mettono in fila le cifre assolute dei piani per lo più triennali gli Stati Uniti fornirà all’economia 787 miliardi di dollari (620 miliardi di euro) tra questo e l’anno prossimo, senza contare gli oltre 700 stanziati nel 2008 per sostenere il sistema finanziario.

L’Unione Europea si è mossa in ordine sparso e ogni governo ha guardato alle crisi più pesanti nel proprio cortile (le banche per il Regno Unito, l’industria automobilistica per la Germania, la disoccupazione in Spagna e il debito pubblico in Italia), variando così ripartizione e entità di ogni dei singoli pacchetti. Sommati arrivano a 350 miliardi di euro spalmati in più anni, in cui vanno considerati anche lo sforzo messo a carico sul bilancio comunitario: 30 miliardi per progetti comunitari e 50 a sostegno dei paesi dell’Est europa.

Non mancano però i punti comuni che li rendono in qualche modo confrontabili: negli aiuti alle famiglie lo sforzo maggiore lo ha fatto la Germania con 20 miliardi di mancate entrate per la riduzione delle aliquote fiscali, segue la Spagna con 14 miliardi. Nella riduzione del peso fiscale per le imprese e nel sostegno ai flussi di credito testa a testa tra Spagna e Francia (17 a 16 miliardi). Negli investimenti in infrastrutture stravince le Germania (25 miliardi).

Discorso a parte per l’Italia, secondo l’Fmi solo lo 0,2% del Pil – poco meno di 2,8 miliardi e un decimo della media mondiale – è utilizzabile come stimolo: qualche modifica in corsa alla Finanziaria e i due miliardi del dl anti-crisi che ha incentivato gli acquisti di auto moto ed elettrodomestici. Il governo dichiara invece un pacchetto da 40 miliardi di cui 16 nel 2009. La spiegazione di tale discrepanza sta nella relazione del ministero del Tesoro (Ruef): “Il governo è intervenuto soprattutto anticipando l’approvazione della manovra a giugno. A settembre quando la crisi finanziaria si è rivelata nella sua gravità, pur prevedendo interventi sostanziali non ha alterato gli effetti della manovra” che prevedeva il taglio della spesa pubblica di 59,4 miliardi in 3 anni. Una scelta mai rinnegata e che zavorrerà la ripresa nazionale. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

Il capo del governo dice che la crisi sta passando, la presidente di Confindustria dice che non è vero.

Marcegaglia spegne gli entusiasmi “Uscita da crisi? Lunga e dolorosa” Per gli industriali la crisi non può essere l’alibi per non fare riforme necessarie di ROBERTO MANIA-repubblica.it

La parola “depressione” per definire questa crisi economica, Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria non l’aveva ancora usata. Forse in Italia non l’aveva pronunciata ancora nessuno. Ma questo è l’umore degli industriali a quattro giorni dall’Assemblea generale della Confindustria. D’altra parte è ancora fresco di inchiostro l’ultimo crollo del Pil con il timbro dell’Istat: -5,9%, il peggiore dal 1980. “Siamo in una crisi molto profonda, inedita e senza paragoni”, ha detto ieri il presidente di Viale dell’Astronomia. E poi: “E’ la peggiore dalla depressione del 1929 a oggi”. Con una differenza fondamentale rispetto a quella degli anni Trenta: l’intervento sufficientemente tempestivo dei governi a chiudere le falle. Dunque “anche se il peggio è alle spalle – ha detto Marcegaglia – la nostra percezione è che la strada per l’uscita dalla crisi sarà lunga, complicata e dolorosa per arrivare di nuovo ad un livello accettabile”. Crisi a L, direbbero gli esperti: con un Pil destinato a essere per lungo tempo stabile, ma fiacco, dopo aver toccato il fondo. Proprio come durante la Grande Depressione.

Così dell’analisi tendenzialmente rassicurante della coppia Berlusconi-Tremonti la Confindustria condivide di certo solo un aspetto: che il peggio è alle spalle, probabilmente. Bisogna riconoscere che non è molto. E lo si vedrà giovedì all’Auditorium di Renzo Piano a Roma all’appuntamento annuale più importante degli industriali: Marcegaglia chiederà al governo di cambiare registro. Perché non è vero che una volta usciti dalla crisi saremo più forti. Anzi. Se un ragionevole uso della leva finanziaria ci ha salvaguardati dal tracollo andato in onda in altri paesi, dagli anglo-sassoni alla Spagna, e se l’imprenditoria diffusa è ancora un fattore di forza per la nostra economia, senza il “coraggio” delle riforme strutturali rischiamo di andare (o rimanere) in serie B. Non ci si può scordare – è la tesi degli industriali – che da anni – ben prima della crisi dei subprime – l’economia italiana cresceva a tassi inferiori a tutti i suoi concorrenti.

Riforme, allora, per ridurre il peso della spesa pubblica (già oltre il 50 per cento del nostro Pil), fluidificare i processi decisionali, ammodernare le istituzioni, chiudere la stagione dello statalismo municipale e far fare un passo indietro all’invadenza della politica. Insomma, previdenza e liberalizzazioni sono in cima alla lista confindustriale. Questo – secondo Marcegaglia – è il momento di sfidare l’impopolarità, l’ostracismo e i veti delle lobby. Anziché fissare costantemente l’asticella del termometro del consenso. “E’ il momento di fare”, dirà la Marcegaglia proprio a Berlusconi. Il che non vuol dire – spiegano a Viale dell’Astronomia gli uomini dello staff che stanno limando il discorso del presidente – una bocciatura dell’azione di governo: vuol dire che bisogna fare di più. Molto di più. Perché la crisi non deve rappresentare l’alibi dell’immobilismo sulle pensioni, sugli sprechi nella sanità (soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno), sulle carenze infrastrutturali, sulle politiche ambientali ed energetiche. Non sarà una bocciatura, ma nemmeno una promozione per il primo anno di legislatura del governo Pdl-Lega.

La Confindustria, insomma, si aspettava di più.
Intanto chiede alla pubblica amministrazione di pagare subito i crediti alle imprese (in particolare quelle di piccole dimensioni) che continuano ad avere difficoltà ad accedere ai finanziamenti bancari. All’appello – secondo le stime degli imprenditori – mancano dai 60 ai 70 miliardi, mentre Tremonti è disposto a non andare oltre 30 miliardi di euro. Perché con un Pil che non sale e una spesa che non scende anche il controllo del deficit è molto a rischio. E non basta l’ottimismo. (Beh,buona giornata).

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Brutte notizie per il governo Berlusconi che sperava la crisi passasse da sola.

Il Prodotto interno lordo dell’Italia è calato nei primi tre mesi dell’anno del 5,9% rispetto allo stesso trimestre del 2008. Il calo rispetto al trimestre precedente è del 2,4%. Lo rileva l’Istat, che precisa che dati tanto negativi non si registravano dal 1980, cioè dall’inizio della serie storica. Peraltro, quattro trimestri consecutivi di calo non si vedevano dal 1992-1993, quando i cali furono sei, ma di minori entità.

Sulla base degli attuali dati, è del 4,6% il calo della crescita già acquisito per il 2009. In pratica, spiega l’Istat, anche se i prossimi trimestri vedranno una variazione nulla, si registrerà un calo del Pil pari al 4,6%. Un dato peggiore di quello previsto dalle ultime stime del governo, inserite nella Relazione Unificata sull’Economia e Finanza (Ruef): – 4,2%. Beh, buona giornata.

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La crisi economica dilaga in tutta Europa.

Il 2009 resterà un anno particolarmente buio per l’economia europea, e i barlumi della ripresa saranno visibili solo il prossimo anno. E’ uno scenario 2009 a tinte fosche quello contenuto nelle previsioni di primavera che la Commissione europea pubblicherà lunedì, con il pil dei Paesi membri ancora in picchiata e le stime su deficit e debito in preoccupante salita.

Un andamento che d’altra parte aveva già prefigurato alcuni giorni fa lo stesso commissario Ue agli Affari economici, Joaquin Almunia, lasciando intravedere un quadro di recessione profonda: «Nelle nuove previsioni ci aspettiamo una sostanziale revisione al ribasso delle ultime stime dello scorso 19 gennaio, già tutte sotto il segno meno».

Nuovo taglio della crescita in arrivo, dunque, per Eurolandia e gli Stati membri, Italia inclusa. Il pil 2009 della zona euro, stimato al -1,9% a gennaio, rischia di crollare fino al -4% avvicinandosi alle ultime previsioni dell’Ocse, -4,1%, e del Fondo monetario Internazionale, -4,2%. Timida risalita nel 2010: 0,4% secondo le previsioni Ue di gennaio, stessa stima delle ultime previsioni Fmi, mentre per l’Ocse la crescita 2010 dell’eurozona non andrà oltre lo 0,3%. (Beh, buona giornata).

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Toh, il ministro Tremonti si è accorto che l’Italia è nella crisi fino al collo.

(da sole24ore.com)

Anno nero per l’economia italiana nel 2009. Il Pil è previsto in calo del -4,2%, ben oltre le ultime previsioni e in linea con il recente Word Economic Outlook del Fondo monetario internazionale.

È quanto stima il Tesoro nella Relazione unificata sulla finanza pubblica. Timidi segnali di ripresa solo l’anno prossimo, quando la crescita del Prodotto interno lordo tornerà positiva a +0,3%. «Nel 2009 – si legge nel documento – il Pil è stimato contrarsi del 4,2%, 2,2 punti percentuali in meno rispetto alla stima indicata nell’Aggiornamento del programma di stabilità dello scorso febbraio (-2%). Il profilo trimestrale prospetta una modesta ripresa a partire dal secondo trimestre del prossimo anno. Nel periodo 2010-2011 il Pil è proiettato crescere dello 0,7%».

Secondo la relazione del Tesoro è destinato a salire, come previsto, anche il debito pubblico: si attesterà quest’anno al 114,3% del Pil, per poi salire ancora al 117,1% l’anno prossimo e a 118,3% nel 2011. Il Tesoro ha rivisto quindi le stime in aumento: secondo le previsione contenute nell’Aggiornamento del Patto di stabilità interno, pubblicate a febbraio, il debito/Pil era visto quest’anno al 110,5%, l’anno prossimo a 112% e nel 2011 a 111,6 per cento.

In aumento, ovviamente, anche il rapporto deficit/Pil. Nel 2009, secondo le previsioni contenute nella Relazione unificata sulla finanza pubblica, il disavanzo si attesterà al 4,6% del Pil, superiore di 0,9 punti percentuali rispetto alla stima elaborata a febbraio nell’Aggiornamento del Patto di stabilità interno (3,7%). Il livello di indebitamento nel 2010 si attesterà sullo stesso livello del 2009, per iniziare a scendere a partire dal 2011, anno in cui dovrebbe collocarsi al 4,3 per cento.

Le prospettive economiche globali, si legge nel documento, «si sono deteriorate negli ultimi mesi», ma allo stesso tempo «sono aumentati gli sforzi tanto dei governi nazionali quanto degli organismi e delle sedi sovranazionali». Ora, quindi, «si guarda con qualche speranza alla possibilità di rallentamento dell’attuale fase di crisi». Il rallentamento della crisi – spiega ancora il ministero – «dipende da fattori numerosi e variabili: dal ristabilimento di un’adeguata crescita a livello mondiale alla conservazione del commercio mondiale; dal miglioramento della situazione occupazione fino a una nuova spinta verso il progresso sociale». (Beh, buona giornale).

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democrazia Popoli e politiche

L’Italia s’è berlusconizzata.

Berlusconi & The Economist/ Di nuovo sotto tiro:”Ha Berlusconizzato l’Italia e resterà al potere indefinitamente” dablitzquotidiano.it

Il settimanale The Economist torna all’attacco del presidente del consiglio Silvio Berlusconi con un lungo articolo intitolato ”La Berlusconizzazione dell’Italia”. L’articolo è corredato da una caricatura di Berlusconi raffigurato come un giocatore del Milan con lo stivale italiano al posto della gamba destra.

”La maggior parte degli italiani sembra perdonargli, o per lo meno non andare oltre, le sue innumerevoli gaffe, sia quelle fatte nel corso di talk show televisivi, sia quelle consumate nel corso di summit internazionali”.

Il settimanale britannico quindi non molla e torna alla carica contro il premier italiano a poche settimane dalla vittoria legale nella causa per la copertina intitolata “Perché Berlusconi non è adatto a governare l’Italia”, che – nel 2001 – aveva spinto Berlusconi a presentare un ricorso per diffamazione presso il Tribunale di Milano.

Questa volta The Economist tenta di spiegare come Silvio Berlusconi avrebbe ulteriormente consolidato il suo potere personale.

“The Economist” esamina il paradosso di un primo ministro che rimane ‘’significativamente più popolare della maggior parte degli altri leader europei, anche quando il Fondo monetario internazionale prevede che il Pil italiano crollerà quest’anno del 4,4%, mostrando un calo maggiore di quello di Gran Bretagna, Francia o Spagna”.

E la spiegazione fornita dal settimanale britannico fa leva su argomenti di ordine demografico, puntando sulla constatazione che ”ogni italiano sotto l’età dei trent’anni ha raggiunto la maturità politica sotto l’influenza dell’impero mediatico della famiglia Berlusconi”.

”Quindici anni fa – osserva l’Economist – un ‘azzurro’ rappresentava l’Italia nelle competizioni sportive internazionali e un ‘moderato’ era un centrista”. ”Oggi – continua il settimanale – un azzurro è qualcuno che rappresenta Berlusconi in Parlamento, un moderato o qualcuno che vota per lui”.

The Economist rileva poi la forza dell’impatto della ”berlusconizzazione” sull’Italia: ”un impatto tale da infondere nella maggior parte della società italiana la convinzione che l’attuale primo ministro resterà al potere indefinitamente”. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
The Economist

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Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

Secondo Fmi l’Italia è nei guai fino al collo. Con buona pace del populismo di Berlusconi e i trucchetti contabili del rag.Tremonti.

Notizie pessime per l’Italia. Nel nostro Paese, dopo un 2009 di profonda recessione, non ci sarà crescita positiva nemmeno nel 2010 con un fortissimo appesantimento dei conti pubblici e del debito.

Secondo il Fondo Monetario internazionale (Fmi) di Washington quest’anno l’Italia registrerà un calo del Pil del 4,4%, che sarà seguito da un altro calo, dello 0,4%, nel 2010. Le stime sono sostanzialmente in linea con quelle stilate alla fine di marzo dall’Ocse (pari rispettivamente a -4,3% e a -0,4%) ma decisamente più pessimistiche di quelle presentate dal governo in occasione dell’aggiornamento del programma di stabilità (-2% e +0,3%).

In Italia il deficit di quest’anno salirà a livelli molto superiori rispetto a quelli richiesti dal trattato di Maastrich (5,4%) per poi salire ancora al 5,9% l’anno prossimo. Importanti anche le ricadute sul debito pubblico che, in rapporto al Pil, cresce dal 105,8% del 2008 al 115,3% per poi salire ancora al 121,1% nel 2010 e al 129,4% nel 2014.

Per il nostro Paese gli spazi per politiche di stimolo dell’economia proprio alla luce del suo elevato debito pubblico sono “quasi inesistenti”. Notizie nere anche per il lavoro con un forte aumento del tasso di disoccupazione che dal 6,8% della forza lavoro del 2008 salirà quest’anno all’8,9% per passare al 10,5% nel 2010. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

Correva l’anno -2,6 per cento.

Bankitalia prevede nel 2009 il Pil a -2,6%. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro Sport

Lo show biz-zarro dei Mondiali.

“La situazione italiana – ha detto il commissario europeo agli Affari finanziari Joaquin Almunia – sembra stia volgendo al meglio e speriamo che la vittoria dell’Italia darà una spinta alla crescita economica e renderà ancora più raggiungibile l’obiettivo di riportare il deficit sotto il 3% entro il 2007”.

Per l’Italia vincere la coppa dei Mondiali non è stata solo la conferma del valore sportivo e neppure una riscossa morale rispetto allo scandalo tutto nazionale di Calciopoli. Vincere potrebbe significare addirittura dare uno slancio alla crescita economica del Paese.

Anche se, secondo il rapporto dello Svimez, riguardo al 2005, la situazione è piuttosto grave. E i dati parlano chiaro: nello scorso anno il Sud è peggiorato rispetto al 2004 in Pil e occupazione, crescendo per il secondo anno consecutivo meno del Centro-nord. Il pil per abitante è rimasto a 16.272 euro, pari al 60,3% del Centro-nord (26.985 euro). La riduzione dell’occupazione si è ripercossa negativamente sui redditi da lavoro e quindi sulla spesa per consumi delle famiglie meridionali (-0,3%); il calo si è fatto particolarmente sentire nei beni primari : i consumi non durevoli si sono ridotti per la prima volta dopo molti anni. Il quadro mantiene tinte fosche anche per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, che nel 2005 rappresentano in Italia appena l’ 1,2% del Pil, contro valori medi nell’Ue del 5%.

Sempre secondo l’indagine della Svimez, l’associazione “vittoria ai mondiali-ripresa economica”, sembra prendere sempre più piede. Per il sottosegretario all’Economia Mario Lettieri, lo “spot” dato dal successo mondiale, varrebbe oltre mezzo punto di Pil: “Potremmo certamente dire che vale più di un mezzo punto di prodotto interno lordo, anche se – ha commentato – non possiamo fare una previsione precisa perché sarebbe imprudente”.

Mentre per Lorenzo Bini Smaghi, membro del consiglio esecutivo della banca centrale europea, sostiene dice “La vittoria ai mondiali di calcio sul Pil? Non bisogna darci troppa importanza, credo che l’Italia avesse bisogno di questo indipendentemente dalla situazione economica”.
Il dibattito è aperto. Esponenti di governo ed economisti discutono su un possibile miglioramento del Pil derivante dalla vittoria mondiale a Berlino. Il ragionamento è semplice: la vittoria mondiale infonde ottimismo nella società, i consumi hanno una spinta e quindi l’economia riparte. La domanda è: riparte per dove? Beh, buona giornata.

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