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I furbetti del lay-out-tino.

La scorsa domenica, Eugenio Scalfari ha scritto che il problema del cinema italiano è la perdita di un linguaggio comune e condivisibile. L’affermazione ha la sua importanza, poiché cade durante il festival di Venezia. Ma il suo ragionamento è estendibile a altri settori della comunicazione, come si definiscono oggi tutte le discipline, i mestieri, le professioni che hanno a che fare col comunicare un idea, un pensiero, un punto di vista.

Non è una caso, che Eugenio Scalari citi il giornale di cui è stato il fondatore come un esempio di innovazione del linguaggio della carta stampata.

Le riflessioni di Scalfari hanno provocato un piccolo ragionamento sul linguaggio della pubblicità italiana. Il ragionamento è questo.

1) La pubblicità italiana è tra le più mediocri del mondo occidentale, dal punto di vista creativo: lo dicono tutti i più importanti appuntamenti di confronto tra le diverse culture della comunicazione commerciale;

2) la pubblicità italiana è tra le più eccellenti del mondo occidentale dal punto di vista economico, con particolare riferimento alla pubblicità televisiva: chi possiede un network televisivo fa e disfa a suo piacimento;

3) la pubblicità italiana è la più politica del mondo occidentale: il sistema televisivo, mezzo principe in Italia è regolato da alchimie di tipo politico, dunque anche l’accesso a budget di questa o quella azienda si muove rispetto a queste regole. Basti pensare all’equazione tra il maggiore partito rappresentato in Parlamento, sia pur attualmente all’opposizione e il maggiore network televisivo commerciale, attualmente maggioritario nella raccolta pubblicitaria;

4) la pubblicità italiana oggi non ha un linguaggio culturale, ma economicista, lobbysta, spartitorio, furbastro: basta leggere i comunicati stampa che si vantano di questa o quella acquisizione di budget pubblicitari, di cui sono pieni i news-magazine del settore, ogni giorno.

Non c’è un linguaggio unitario, condivisibile, formativo, innovatore della creatività italiana per il semplice motivo che le idee sono l’ultima ruota del carro, nella santa processione del business della pubblicità italiana.

A questo contribuiscono, in piena flagranza del reato di eccesso colposo di buona volontà molti creativi pubblicitari italiani. Tra loro c’è chi eccelle nel cinismo della loro mediocrità, professionale e culturale. Di quella umana, boh!

Sono coloro che furono allievi di grandi maestri dell’advertising italiano, ma che del loro maestro hanno creduto di imitare gli aspetti esteriori, non quelli intrinseci, che ne hanno fatto, giustamente, punti di riferimento professionali per più di una generazione di creativi. Anzi, candidandosi ad esserne epigoni, dicono in giro del loro disturbo psicanalitico: uccidi il padre è il loro leit-motive.

Ben presto dimentichi degli insegnamento più preziosi, tra cui l’onestà intellettuale che accompagna ogni minuto la creazione di una campagna pubblicitaria, per il semplice fatto che va sotto gli occhi di milioni di persone, i nostri furbetti del lay-out-ino inanellano sciocchezze: si vantano di una campagna scema e già vista, non distinguono il buono dal marcio, ascoltano il suono delle loro parolette e si credono di alta statura professionale, scambiando il sistema metrico decimale con lo spessore professionale.

Ai tempi dell’odiato Gavino Sanna, che li apostrofava con la dicitura “piscia-letto”, nascosti tra la piccola folla del popolo dei creativi fischiavano in platea i suoi successi.

Oggi che “il popolo dei creativi”, come Pirella definì la moltitudine di copy e art che negli Ottanta entrarono nel mondo della pubblicità italiana, attirati, appunto da quel linguaggio che oggi non sembra più esserci, ecco che i furbetti del lay-out-ino sono feroci come caporali napoleonici, al tempo di Sant’Elena.

I furbetti del lay-out-tino non rispettando i loro maestri, non rispettano il loro lavoro, quindi non sanno del rispetto verso i lettori, gli ascoltatori, i telespettatori.

In ultima analisi, essi non sanno nulla del rispetto che si deve al committente, alla disciplina umana e professionale che si deve a chi paga il conto della creatività. Li prendono in giro con la loro prosopopea e con l’altisonanza dei titoli sui biglietti da visita, magari, come bagarini, con la promessa di un posto comodo per godersi la partita.

I furbetti del lay-out-ino sono come cavallette che distruggono, per via della loro ingordigia, dell’ansia di fama, del loro ego, magari di un bonus di fine anno, che distruggono reputazioni delle persone prima e delle marche poi, con il sorriso ammiccante dalla fotina che per piaggeria campeggia sull’articoletto del giornaletto di settore.

Ignari, o forse cinicamente noncuranti, addirittura consapevoli, che tanto di questa o quella testata non gliene frega un bel niente, gli si può raccontare ogni fandonia, che tanto quelli la pubblicano, che se no, magari, gli togliamo l’abbonamento. E così si chiude il circolo vizioso della mancanza di rispetto del lavoro degli altri.

Lo sappiamo tutti che la fretta (di apparire) passa, ma la merda (di certi comportamenti) rimane. Ma a loro che gliene importa. Sono i furbetti del lay-out-ino. Beh, buona giornata.

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