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A dieci anni dal G8 di Genova, a un mese dai referendum, a una settimana dagli scontri con i No Tav in Val di Susa.

Questa intervista con Vittorio Agnoletto è apparsa oggi 10 luglio su 3Dnews, inserto culturale della domenica del quotidiano Terra.

Vittorio Agnoletto, all’epoca dei fatti portavoce del Genoa social forum, e Lorenzo Guadagnucci, giornalista che si trovava nella scuola Diaz al momento del sanguinoso blitz della polizia, hanno scritto un libro sulle tragiche giornate del luglio 2001 a Genova, dove il movimento “no global” si era dato appuntamento per protestare contro il G8. Il libro si intitola “L’eclissi della democrazia” ed è edito da Feltrinelli.

Agnoletto, sono passati dieci anni dai fatti del G8 di Genova ed ecco puntuale un libro su quegli episodi. Non c’è il rischio che tutto sappia un poco di commemorazione?

No. Perché non è un libro rivolto al passato. Ma al futuro. Raccontiamo non solo quello che successe davvero a Genova, dalla morte di Carlo Giuliani a piazza Alimonda, all’assalto alla scuola Diaz, alla “macelleria messicana” così come fu definito da un funzionario di polizia quello che successe nella caserma Bolzaneto. Ma soprattutto, raccontiamo come si è tentato in tutti i modi di nascondere la verità, di bloccare i processi, di ostacolare il lavoro dei magistrati.

Con il dovuto rispetto, Agnoletto mi lasci dire che non è una novità che in Italia la verità sui fatti politici si perda nel “Porto delle nebbie”. Fin dai tempi di piazza Fontana….

Sì, ma qui c’è un fatto inedito. I magistrati di Genova non solo sono riusciti a non far fallire le inchieste, ma addirittura per la prima volta nella storia repubblicana le inchieste della magistratura hanno portato alla condanna in secondo grado di decine di agenti, funzionari e dirigenti delle forze dell’ordine, inclusi i massimi vertici della polizia di stato e dei servizi segreti. Un esito giudiziario clamoroso, senza precedenti.

Giustizia è stata fatta?

No. Tutti i condannati, anche se svergognati da ricostruzioni dei fatti rigorose, sono rimasti al loro posto, con l’avallo dell’intero arco politico parlamentare.

Non si è mai voluta istituire la commissione parlamentare di inchiesta sui fatti di Genova. Quando lei dice “l’intero arco politico parlamentare” dice che anche i partiti di centrosinistra non hanno voluto che si andasse fino in fondo.

E’ vero. Quando Prodi tornò a Palazzo Chigi,la commissione parlamentare rimase lettera morta.

Rimane comunque il fatto che la feroce repressione annichilì il movimento No Global. Aldilà delle sia pur gravissime violazioni della legalità, possiamo dire che, parafrasando il titolo del libro, l’eclissi della democrazia ha funzionato?

Il movimento seppe resistere ancora qualche mese, fino alla grande manifestazione di Firenze contro la guerra. Poi, è vero: il tessuto sociale si sfilacciò, molte delle componenti del movimento tornarono nei loro territori, nelle loro realtà.

Fenomeno che in Italia abbiamo già vissuto nei decenni passati. Una parte entra nella spirale repressione – lotta alla repressione; le altre componenti si disperdono nelle rispettive realtà. Ciò che però è insopportabile in questa coazione a ripetere è il ruolo della sinistra parlamentare.

Beh, bisogna essere consapevoli che, per esempio al Pd il movimento No Global non è mai piaciuto. La critica puntuale contro il neoliberismo è una contraddizione che il Pd fatica molto a risolvere anche oggigiorno, nonostante che alla crisi energetica e a quella ambientale si sia aggiunto lo tsunami della crisi finanziaria che ben presto è sfociata nella gravissima crisi economica che attualmente sta sconvolgendo tutto il mondo occidentale.

Poi però succede che quel movimento che ha prodotto un nuova visione del mondo sembra oggi aver germogliato: l’idea della difesa dei beni comuni ha prodotto recentemente lo straordinario risultato della schiacciante vittoria dei Sì ai referendum dello scorso giugno.

Sì. Fu a Porto Alegre che, per esempio affrontammo il tema dei beni comuni. Esso è diventato programma di governo in alcuni paesi dell’America latina, ma ha lavorato, lavorato molto fino a diventare un tema importante anche nel Vecchio Continente, anche in Italia. Credo che anche il movimento No Tav abbia qualcosa che fa pensare che il filo intessuto dal movimento No Global non si sia mai del tutto spezzato.

In Val di Susa sembra però che la luna di miele tra l’opposizione parlamentare e i movimenti sia finito. Insomma, il vento sta cambiando, ma non a tutti fa piacere.

Gli argomento dei No Tav sono chiari, sono ragionamenti maturi, concreti. Gli abitanti della Val di Susa sanno che chi difende il progetto non riesce a più a nascondere che gli unici beneficiari sarebbero solo i costruttori.

Come per il famoso ponte sullo Stretto di Messina o per l’ormai defunto piano di costruzione delle centrali nucleari in Italia.

Esatto. La gente non crede più alle favole. E credo neanche al tentativo di raccontarle meglio da parte di alcuni esponenti del centrosinistra. Comunque, leggere “L’eclissi della democrazia” è utile anche per capire come il governo intende muoversi, per esempio in Val di Susa.

Agnoletto, si riferisce alla improvvisa ricomparsa sulla scenadei famigerati Black Block?

In effetti questa ricomparsa mediatica dei black block è un segnale preciso: si vuole far credere che la questione è semplicemente di ordine pubblico, che il problema è la violenza politica di “frange estremiste”. Insomma, ancora lo stesso schema: deviare il dibattito dalla sostanza della protesta alle forme della protesta è un espediente che serve nascondere la vera natura dell’Alta Velocità in Val di Susa, che serve a ostacolare il dibattito tra gli abitanti su temi importanti, squisitamente politici, che pongono sul tappeto domande precise: che uso del territorio, che tipo infrastrutture, per quale tipo di produzione di merci da trasportare, che rapporto con le risorse energetiche, che dialettica con l’ambiente, che tipo di benessere, quale qualità dei consumi?

Se il movimento No Tav è ricco, mi pare che finora le risposte sono state molto povere e tanto rabbiose.

Il che non è un bel segnale. Si rischia di spianare la strada alla repressione. Come è successo a Genova nel 2001.
(Beh, buona giornata).

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Il caso Fiat: tutto, ma proprio tutto quello che non va dopo il referendum a Mirafiori.

La classe operaia deve tornare in Paradiso, di EUGENIO SCALFARI-la Repubblica.

ANZITUTTO l’aritmetica. A Mirafiori ha votato il 94 per cento dei dipendenti, 5.136, tra i quali 441 impiegati, capireparto e capisquadra. Le tute blu, cioè gli operai veri e propri, erano dunque 4.660 in cifra tonda. I “sì” all’accordo sono stati il 54 per cento e i “no” il 46 per cento.
Al netto del voto impiegatizio i “sì” hanno vinto per 9 voti, due dei quali contestati. Marchionne aveva dichiarato che per andare avanti doveva avere almeno il 51 per cento. Con il voto dei colletti bianchi lo ha avuto, ma senza quel voto no: ha avuto il 50 più nove voti (o sette), per arrivare al 51 gli mancano 41 voti.

Questa è l’aritmetica, che ovviamente non dice tutto ma dice già abbastanza. Dice cioè che la situazione di Mirafiori che esce da questa votazione sarà assai difficilmente governabile tenendo soprattutto presente che una parte notevole dei “sì” ha votato di assai malavoglia e molti l’hanno esplicitamente dichiarato.
Ed ora una prima domanda alla quale, oltre che Marchionne, dovrebbero rispondere i dirigenti Cisl, Uil e gli altri firmatari dell’accordo: è possibile che in queste condizioni il 49,91 per cento degli operai di Mirafiori sia privo di rappresentanza?

Sulla base di un referendum del 1995 infatti – ribadito nell’accordo Fiat-Cisl-Uil ed altri – la rappresentanza è riservata soltanto ai sindacati che hanno firmato l’accordo, ma i loro delegati non saranno eletti dai dipendenti, saranno “nominati”
dai sindacati firmatari.
Avete capito bene? Nominati. Esattamente come avviene per i deputati nominati dai partiti con la legge elettorale chiamata “porcellum”, porcheria dal suo autore, il leghista Calderoli, circondata ormai da una generale e bipartisan disistima.

La “porcheria” della rappresentanza a Mirafiori che esclude anziché includere, è in regola, lo ripeto, con quanto stabilito dalle intese sindacali vigenti, ma è clamorosamente contraria al buonsenso e al ruolo di una rappresentanza effettiva. Dequalifica metà dei dipendenti al ruolo di “anime morte” reso celebre da Gogol e prassi costante nelle campagne della Russia zarista fino alla rivoluzione del 1905. Si può adottare nella Fiat del 2011? Ancora qualche numero. I lavoratori di Mirafiori iscritti alla Fiom sono seicento; quelli non iscritti a nessun sindacato sono più di duemila.

Sommandoli insieme, i lavoratori che non avranno rappresentanza saranno a dir poco 2.600 su un totale di cinquemila. Se ne deduce sulla base dei numeri che la maggioranza largamente assoluta degli operai di Mirafiori non sarà rappresentata.
Bonanni e Angeletti ritengono che una situazione del genere sia accettabile da veri sindacalisti, senza degradarli oggettivamente a sindacalisti “gialli”?

* * *

Ho scritto ripetutamente (e ancora il due gennaio) che il problema sollevato da Marchionne non è peregrino e non riguarda soltanto la Fiat.
L’economia globale ha reso possibile la formidabile emersione economica di interi “continenti”: Cina, India, Indonesia, Brasile, Sudafrica. Erano paesi addormentati nella loro miseria che ora irrompono terremotando l’intero pianeta e provocando un trasferimento di benessere dal vecchio mondo opulento verso un mondo nuovo di imprenditori, finanzieri, consumatori e lavoratori.

Il caso Marchionne-Fiat ha messo l’economia italiana di fronte a questa realtà, ma in ordine di tempo è l’ultimo (per ora) non il primo; era stato preceduto da centinaia di altri analoghi casi riguardanti imprese di dimensioni medio-piccole messe fuori mercato dall’economia globale. Ne cito due tra le più note: Merloni e Omsa, ma l’elenco ne comprende (e ne comprenderà) moltissime altre. Il trasferimento di benessere dall’Occidente ricco ai paesi emergenti è un dato di fatto che nessuno potrà bloccare. Un altro dato di fatto riguarda gli assetti sociali e la loro auspicabile evoluzione nei paesi emergenti. Non c’è dubbio che col tempo i diritti dei lavoratori, le loro condizioni e i loro salari tenderanno ad allinearsi a quelli occidentali, ma questa evoluzione sociale richiederà un tempo molto più lungo dell’involuzione economica in atto nell’Occidente. È in corso nei paesi emergenti quello che l’economia classica definì il “risparmio forzato” e cioè l’accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.

Pensare quindi di livellare fin d’ora verso l’alto i diritti e le retribuzioni dei lavoratori di quei paesi è pura illusione. Avverrà viceversa (sta avvenendo) il contrario: sono le condizioni di lavoro in Occidente che scenderanno.
Un’alternativa c’è: il soccorso dello Stato alle aziende in difficoltà. E chiaro che imboccare questa strada porta verso un sistema di economia interamente sovvenzionata. È pensabile un’ipotesi di questo genere? Certamente no.
Allora qual è la strada da seguire? L’ipotesi Marchionne è correggibile senza imboccare quella della sovvenzione alle aziende come sistema?

* * *

Sì, l’ipotesi Marchionne è correggibile anzi, deve essere corretta al più presto perché, così come si è delineata a Pomigliano e a Mirafiori, non è accettabile. Non solo perché moralmente ingiusta ma perché non è funzionalmente percorribile. Ezio Mauro, nel suo articolo di venerdì scorso su questo stesso argomento, ha segnalato che – a detta dello stesso Marchionne – il costo del lavoro dell’automobile grava per il 7 per cento sul costo totale.
È evidente a tutti che non si risolve una crisi di queste proporzioni riducendo quel 7 per cento ed è altrettanto evidente che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di sapere come è composto il restante 93 per cento e quali misure vengono prese per ridurlo.

Abbiamo già documentato su queste pagine (Massimo Giannini di ieri) che i salari dei lavoratori dell’auto nelle nazioni europee nostre concorrenti sono nettamente maggiori dei nostri. Dunque c’è un difetto, se non altro conoscitivo, nello schema Marchionne e c’è un altro difetto, in questo caso compensativo, che va colmato. Si toglie benessere da un lato; che cosa si dà dall’altro? Il posto di lavoro, risponde la Fiat. Errore. Il posto di lavoro è un salario che compensa il lavoro. Qui c’è un contratto che incide sul benessere complessivo. Come viene compensato?

* * *

Se si cambia il rapporto tra aziende e lavoratori, tra imprese e sindacati, a causa d’una rivoluzione economica di dimensioni planetarie che incide sui rapporti sociali nei paesi opulenti, la conseguenza è che non si può scaricarne tutto il peso su uno solo dei fattori di produzione. Anche l’altro fattore deve entrare in gioco, deve impegnarsi nell’innovazione dei processi e dei prodotti, deve far aumentare la propria produttività e non solo quella proveniente dal lavoro. E così come l’imprenditore e il management controllano le frazioni di minuto del rendimento dei lavoratori, altrettanto concreto e puntuale deve essere il controllo dei rappresentanti dei lavoratori sugli investimenti innovativi dell’imprenditore. Tanto più se le retribuzioni e i premi del manager dipendono dai risultati.
Quali risultati? Gli incrementi del titolo in Borsa o l’attuazione di un piano industriale? I fattori in gioco non sono due ma tre: il lavoro, il management, gli azionisti. La sede è il consiglio di amministrazione.

Perciò i lavoratori debbono essere rappresentati nei consigli di amministrazione, soprattutto per le imprese quotate in Borsa o al di sopra di certi livelli di fatturato e di occupazione. E debbono essere rappresentati anche in appositi organi che vigilano sull’evoluzione della produttività e sulla sua distribuzione.
La soluzione adottata in proposito dalla Volkswagen è la più aderente a questo tipo di rapporti: una “governance” aziendale duale, con un consiglio di sorveglianza dove siedono anche i rappresentanti dei lavoratori e un consiglio di amministrazione che ne attua la strategia. Ma esiste ancora più pertinente, il caso Chrysler dove i lavoratori allo stato dei fatti sono proprietari dell’azienda.
Infine, poiché la perdita di benessere riguarda l’intera società nazionale e l’intero Occidente, mutamenti compensativi dovrebbero anche avvenire sul recupero di una concertazione tra parti sociali e governo, che fu instaurata da Amato e poi soprattutto da Ciampi nel 1992-93 e durò con indubbi risultati fino al 2001, poi fu smantellata e infine soppressa nell’era berlusconiana.

Quando si chiedono sacrifici ad una parte della società, essi vanno bilanciati con un accrescimento dei poteri di quella parte, altrimenti si provocano terremoti sociali di incalcolabili effetti.
A proposito del movimento studentesco si è detto e scritto che il conflitto va molto al di là della riforma Gelmini.
Il conflitto esterna un disagio profondo dei giovani che riguarda il loro futuro, il loro lavoro, la loro partecipazione alle decisioni che riguardano l’avvenire del Paese.

Credo che analogo sia il modo di sentire degli operai. Il conflitto con la Fiat è un aspetto del problema ma non è il problema. Gli operai sono ancora molti milioni ma nell’opinione generale sembrano inesistenti, non hanno più luoghi appropriati nei quali esprimersi e farsi sentire, i sindacati soffrono della stessa separatezza di cui soffrono i partiti.

I lavoratori, stabili o precari, dipendenti o autonomi, reclamano partecipazione e rappresentanza e questi loro diritti stanno scritti in Costituzione. Anzi, la loro formulazione sta addirittura nell’articolo numero 1 della nostra Carta fondamentale. Ecco perché penso che Marchionne sia stato involontariamente utile. Ha aiutato gli immemori a ricordarsi di quei diritti e alla necessità di attuarli. (….). (Beh, buona giornata).

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Contro la privatizzazione dell’acqua pubblica: “La consegna definitiva del controllo delle riserve idriche a soggetti privati multinazionali, voluta dal Decreto Ronchi costituisce la più significativa resa della sovranità politica a soggetti privati multinazionali avvenuta in Italia negli ultimi vent’anni.”

Acqua, in ballo c’è il futuro di tutti noi, di UGO MATTEI*-La Stampa
Caro Direttore,
in questi giorni il dibattito sulla privatizzazione dell’acqua, successivo all’approvazione del decreto Ronchi e alla decisione di sottoporlo a referendum ex art. 75 della Costituzione si sta arricchendo di importanti contributi. Alla vigilia della Giornata mondiale dell’acqua, il nostro Paese ha visto, sabato scorso, sfilare a Roma migliaia di persone che hanno protestato contro la nuova norma. Se è vero che invariabilmente gli ultimi referendum non hanno raggiunto il quorum del 50% dei partecipanti dimostrando stanchezza dell’elettorato per uno strumento di democrazia diretta che dovrebbe essere usato soltanto come extrema ratio, è altrettanto vero che questa volta la posta in gioco è altissima. Un dibattito serio su questo tema è dunque essenziale perché davvero ne va di mezzo il futuro di tutti noi.

Infatti, la consegna definitiva del controllo delle riserve idriche a soggetti privati multinazionali, voluta dal Decreto Ronchi costituisce la più significativa resa della sovranità politica a soggetti privati multinazionali avvenuta in Italia negli ultimi vent’anni. Ciò è avvenuto con un semplice voto di fiducia (senza dibattito parlamentare) proprio mentre in tutto il mondo si sta cercando di ripensare il modello di sviluppo fondato sulla privatizzazione e sull’egemonia delle compagnie multinazionali per smussarne quantomeno i lati speculativi più inaccettabili.

Per esempio, il Comune di Parigi, dopo venticinque anni in cui due multinazionali si spartivano il controllo del mercato idrico, è tornato ad un modello di gestione pubblicistica con immediata riduzione delle tariffe ed aumento degli investimenti. Infatti, abbiamo visto come la gestione «for profit» dei servizi idrici, come peraltro di tutti i servizi di pubblica utilità resi in regime di monopolio o di oligopolio (per esempio le Autostrade), comporti storicamente una riduzione degli investimenti ed un aumento dei prezzi.

Per far fronte a questo problema strutturale occorre perciò escogitare buoni strumenti non profit (su cui la cultura giuridica sta lavorando), i soli che consentono il prevalere di una logica ecologica di lungo periodo piuttosto che di quella economica di brevissimo periodo dettata dai valori delle azioni sui mercati finanziari.

La progressiva scarsità dell’acqua sta creando in tutto il mondo una corsa delle multinazionali al controllo di ogni risorsa idrica, perché si tratta di controllare una potenziale fonte di profitto ingentissima creato da un bisogno ineludibile, quello di bere ed irrigare. Senza acqua la vita è semplicemente impossibile e ci sarà quindi sempre domanda di oro blu. Ma questa risorsa soddisfa un diritto fondamentale dell’uomo ed è troppo importante per essere gestita con a mente il solo profitto.

Il decreto Ronchi obbliga alla privatizzazione del servizio idrico costringendo ogni ente, (pubblico o privato che sia) che attualmente in modo diverso da territorio a territorio sta gestendo l’acqua a trasferire il controllo a società private entro fine 2011. Questa scelta politica, provocando la simultanea offerta sul mercato di tutte le quote di gestione, avrà come effetto naturale la svendita del servizio creando le condizioni per un ennesimo regalo dal pubblico al privato.

È singolare come il decreto sia stato voluto da una maggioranza in cui una componente assai forte fa del federalismo e dell’autonomia dei territori una propria bandiera. Esso concretizza in realtà una mossa di centralizzazione nella gestione dell’acqua irragionevole, autoritaria ed estremamente pericolosa per la stessa sopravvivenza. Molti amministratori locali, costretti a svendere strutture e tecnologie create negli anni sulla base della fiscalità generale, se ne stanno accorgendo. La speranza è che il dibattito referendario possa far capire questa drammatica realtà anche a quei cittadini che vogliono essere padroni a casa propria.

*Professore di Diritto civile all’Università di Torino
(Beh, buona giornata).

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