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Popoli e politiche

“Si è messo a gridare che le scelte si equivalevano, io partigiano e lui repubblichino. Tutti e due cambattevamo per gli ideali. Gli ho detto: puoi girarla come vuoi, tanto la ragione resta ragione e il torto resta torto e la storia non la raccontano i vincitori ma semplicemente chi ha buona memoria”.

Quando una scelta non vale l’altra
pagine della guerra di Liberazione
Mario Dal Pra e la disputa sull’8 settembre e i militari italiani

di MATTEO TONELLI da repubblica.it
“Si è messo a gridare che le scelte si equivalevano, io partigiano e lui repubblichino. Tutti e due cambattevamo per gli ideali. Gli ho detto: puoi girarla come vuoi, tanto la ragione resta ragione e il torto resta torto e la storia non la raccontano i vincitori ma semplicemente chi ha buona memoria”. Basterebbe questo per dare il senso di “I nostri occhi sporchi di terra” di Dario Buzzolan (Baldini e Castoldi. 303 pagine. euro 17,50). Un romanzo che parla di uomini che hanno saputo scegliere, di prezzi da pagare. E di valori che non scoloriscono con il tempo.

La guerra è appena finita. E’ il 1954, l’Italia è libera ma la scia di sangue non si arresta. Quarant’anni dopo, una figlia vede sparire suo padre Davide. Si pensa a un suicidio ma non è così. La ricerca svela una storia fatta di rancori. Di storie private che si intrecciano con quelle pubbliche. Davide è accusato di aver ucciso un repubblichino dopo la fine della guerra, per pura vendetta personale. Torna la guerra partigiana, l’odio, la morte, la delusione nel vedere, a fine guerra, che chi massacrava e torturava veniva amnistiato. E più tardi avvertire sulla pelle quel senso di messa in discussione delle scelte “obbligate” fatte quarant’anni prima. Eppoi l’amore per una donna che tiene insieme la storia. Parte così il percorso della ragazza che oscilla tra il presente e il passato. Alla fine troverà il padre. E anche la risposta alla domanda se può esistere un mondo migliore.

Sabbia negli ingranaggi. Piccoli gesti anonimi ma decisivi. Perché la guerra di Liberazione si è combattuta anche così. Non solo imbracciando un mitra ma anche minando, dall’interno, l’ingranaggio degli occupanti. Dagli archivi di Oreste Lisandri, Cristiano Armati ha tratto “Il libretto rosso dei partigiani” (Purple Press. 119 pagine. euro 9,9). Un invito al sabotaggio e alla resistenza passiva diffuso a Roma. Minuziose istruzioni, celate dalla copertina dell’orario dei treni, per operai, ingegneri, agricoltori, meccanici. Qualche esempio: “Se cade una bomba vicino alla fabbrica approfittatene per rompere le macchine”; “sbagliate la velocità delle macchine, non mettete olio lubrificante”, “fate saltare le turbine aumentando il flusso d’aria nel condensatore”. Ed ancora i trasporti. Ferrovie in primis: “Uno dei mezzi migliori per frenare lo sforzo di guerra tedesco consiste nell’applicare alla lettera i regolamenti. Limitare la velocità, andare al passo”. Pagine che indicano minuziosamente una strada. Che per essere percorsa aveva bisogno quello che nessuno manuale avrebbe mai potuto dare: il coraggio.

Era il 1974 quando Mario Dal Pra, filosofo, dirigente del Partito d’Azione e membro del Comitato di Liberazione Nazionale, vide pubblicato “La guerra partigiana in Italia. Settembre 1943-Maggio 1944 (Giunti, pagine 336, euro 14,50,). Un libro che somma memorie e testimonianze raccolte dopo le elezioni del 1948. Mettendo una dietro l’altra le relazioni dei partigiani combattenti consegnate al Cnl. Un’opera che non piacque a Raffarele Cadorna, comandante in capo del Corpo volontari della libertà, indispettito per come Del Pra aveva accusato di disfattismo le alte gerachie dell’esercito. Ed è questo il senso delle note polemiche che Cadorna aggiunge di suo pugno al libro. Che in una frase di Dal Pra, scolpisce il senso stesso della guerra di Liberazione. Quell’unione di forze diverse, sia quelle antifasciste “già selezionate durante la lotta nascosta contro il fascismo prima e dopo il 25 luglio”, sia le altre “non coincidenti con quelle antifasciste”. Dall’unione di questi sforzi “nacque la guerra partigiana in Italia”. E questa fu la sua grandezza. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Ma Onna merita le celebrazioni “elettoralistiche” del 25 Aprile?

A Onna, l’11 giugno 1944, si scatenò la furia tedesca. In una casa, poi fatta crollare, vennero fucilate 17 persone. Altre dieci abitazioni vennero distrutte
di Giustino Parisse da repubblica.it

Nel giugno del 2004, in occasione dei 60 anni dalla strage nazista di Onna, la Pro loco organizzò una serie di iniziative commemorative. Furono invitate tutte le autorità istituzionali. Alla fine gli onnesi dovettero «accontentarsi» di un assessore comunale che in fretta e furia aveva preparato un discorso pieno delle solite vuote e retoriche parole. Oggi il mondo politico ha scelto Onna per ricordare la Liberazione e gli eventi tragici che la precedettero.
Sono serviti altri 40 morti, causati stavolta dal terremoto, per commemorare degnamente i 17 morti di 65 anni fa.

Con amarezza: meglio tardi che mai.
Per raccontare la strage nazista di Onna bisogna avere un quadro essenziale della situazione in Abruzzo fra la fine del 1943 e il 13 giugno del 1944 quando all’Aquila arrivarono le truppe alleate.
Nel settembre del 1943 i tedeschi con un blitz militare da terra e dall’aria liberarono Benito Mussolini prigioniero del Re e del governo Badoglio nell’albergo di Campo Imperatore sul Gran Sasso.

Gli storici oggi ci raccontano che non ci fu grande opposizione da parte di chi doveva vigilare sul prigioniero.
L’esercito tedesco, preso atto dell’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati, invase la penisola.
Proprio in Abruzzo fu creata la cosiddetta linea Gustav sulla quale si combattè nell’inverno del 1943 e nella primavera del 1944.

Onna fu individuata dall’esercito tedesco come sede di una compagnia di sussistenza.
Nel palazzo Pica Alfieri (oggi distrutto dal terremoto) furono realizzati i forni dove veniva cotto il pane da inviare al fronte, nella zona di Castel di Sangro.
Tutti i testimoni raccontano come la convivenza fra i tedeschi e la popolazione onnese fosse stata per circa 8 mesi tutto sommato buona, priva di episodi violenti.
Quando, dopo la battaglia di Cassino (ricordata anche per il bombardamento da parte alleata della storica Abbazia) la linea Gustav fu sfondata, l’esercito tedesco iniziò la ritirata verso nord.

I testimoni ricordano che da fine maggio a Onna ogni giorno si fermavano decine di soldati della Wermacht per rifocillarsi e poi riprendere di notte la marcia.
Nel corso della ritirata spesso venivano requisiti animali, cavalli in particolare, per il trasporto di armi e masserizie. Il mattino di venerdì due giugno 1944 due soldati tedeschi requisirono i cavalli di Silvio Papola che erano al pascolo nella zona di Masergi, guardati a vista dal figlio Mario Papola (morto tre giorni fa per le conseguenze del terremoto).

Mario saltò su una bicicletta e corse ad avvertire il padre che era in paese insieme alla figlia Cristina, che all’epoca aveva 17 anni.
Fu proprio Cristina, ricordata come ragazza dalla forte personalità, a convincere il genitore e il fratello a recarsi a palazzo Pica Alfieri, dove i cavalli erano stati portati, per farseli riconsegnare.

I tedeschi intanto avevano requisito altri cavalli fra cui quelli di un giovane onnese.
Anche lui corse a palazzo Pica Alfieri per riavere indietro i suoi animali.
Arrivò prima della famiglia Papola, ebbe una discussione con un militare tedesco, ci fu uno scontro fisico e nel parapiglia partì anche un colpo di pistola.
Non ci furono né morti e né feriti, ma i tedeschi misero in giro la voce che un loro militare era deceduto. Scattò dunque, immediata, la vendetta.
Il giovane si era dato alla fuga ed era sparito nelle campagne (più tardi si recherà con i partigiani sul Gran Sasso).
I militari se la presero allora con la famiglia Papola.
Silvio e Mario si infilarono in una stalla e per poco non furono colpiti da una raffica di mitra.

Cristina fu catturata, spinta e malmenata lungo le strade del paese con l’obiettivo di farle dire il nome di quel giovane che aveva osato ribellarsi al sopruso.
Cristina non parlò e, mentre faceva notte, fu raggiunta da due colpi di pistola al petto. Crollò senza vita al Pinnerone, all’incrocio fra via dei Martiri (allora via del Fiume) e via dei Calzolai dove oggi il terremoto ha cancellato tutto.

La ragazza di 17 anni fu la prima vittima di quei giorni di follia. Ma la sete di sangue evidentemente non era stata soddisfatta.
Nove giorni più tardi i tedeschi, che il 7 giugno avevano dato fuoco al paese di Filetto e ucciso 17 persone, pianificarono la strage di Onna.

L’operazione fu con molta probabilità condotta dagli uomini della 114 divisione cacciatori comandata dal generale Hans Boelsen.
L’obiettivo strategico era quello indicato dal generale Kesserling, comandante supremo dell’esercito tedesco in Italia, in una direttiva del 7 aprile 1944 con la quale si invitavano i sottoposti a usare il pugno di ferro contro le popolazioni civili che si dimostravano ostili o che aiutavano i partigiani in montagna fornendo loro viveri e materiali.
Secondo la logica nazista gli onnesi erano colpevoli sia perché uno di loro si era ribellato (la vicenda dei cavalli) e sia perché da Onna partivano aiuti a quelli che loro definivano ribelli.
Intorno alle 17 di una domenica calda ma piovosa Onna fu circondata. Venti uomini furono catturati e portati in una zona all’ingresso del paese (dove oggi ci sono le macerie della scuola elementare).
Il prezzo della loro liberazione doveva essere la consegna di quel giovane ribelle.

Ma in realtà la richiesta era solo una scusa. La strage ci sarebbe stata comunque. Le donne del paese per salvare i loro uomini condussero dai tedeschi la madre e la sorella del «ricercato».
Anche loro furono unite al gruppo delle persone da fucilare. L’esecuzione avvenne nell’abitazione di Biagio Ludovici. La casa fu fatta crollare con le mine.
Altre dieci abitazioni, individuate grazie alla complicità di esponenti del fascismo locale, furono distrutte.

I tedeschi lasciarono a Onna vittime e macerie.
Ci sono voluti 65 anni per ricostruire.
Il 6 aprile la violenza del terremoto ha distrutto di nuovo tutto.
I tedeschi sono tornati: questa volta per aiutare.
Ecco i nomi dei 17 martiri di Onna uccisi l’11 giugno 1944: Alfredo Paolucci (25 anni); Antonio Evangelista (18 anni); Ermenegildo Di Vincenzo (38 anni); Domenico Paolucci (31 anni); Giuseppe Marzolo (29 anni); Mario Marzolo (24 anni); Osvaldo Paolucci (21 anni); Zaccaria Colaianni (38 anni); Gaudenzio Tarquini (19 anni); Renato De Felice (44 anni); Pio Pezzopane (17 anni); Igino Pezzopane (16 anni), Cristina Papola (17 anni); Bartolina De Paulis (53 anni); Rosmunda Ludovici (25 anni), Luigino Ciocca (15 anni), Pasquale Pezzopane (18 anni). (Beh, buona giornata).

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Attualità

La Resistenza non La Russa.

“I partigiani rossi meritano rispetto, ma non possono essere celebrati come portatori di libertà”. Il Ministro dell’Interno dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità

La memoria a 335°.

di Massimiliano Smeriglio da massimilianosmeriglio.info

Sotto un cielo severo si è consumato il dolore più grande. Sgomenti, i familiari e i compagni delle Ardeatine, hanno assistito alla rappresentazione più dura della sconfitta. Tina singhiozzava ben oltre il suo austero senso del pudore, Carlo si è accasciato al suolo, i brividi, le punture di spillo ripetute sei volte sul ricordo della strage dei Di Consiglio. Chiusa dentro un recinto la comunità di dolore invecchiata e stanca ha assistito alla commemorazione istituzionale presenziata da Fini, La Russa e il sindaco Alemanno. Una distanza siderale tra le ragioni, le paure, i tormenti e le ambizioni dei 335 e l’omaggio formale e militare dei rappresentanti dello Stato e della città.

Ancora più palese la contraddizione tra il ricordo senza pace e la militarizzazione della memoria. Questa odiosa invasione del campo civile da parte militare valeva ieri e vale oggi.

Ma oggi il colpo allo stomaco arriva dalla nostra inadeguatezza, dalla nostra superficialità, il colpo che fa male, che riga il volto di lacrime lente, arriva dall’incapacità tutta nostra di non essere riusciti a mettere in salvo la memoria più preziosa, di non essere stati capaci di preservare con cura e determinazione la storia dei padri. Abbiamo consegnato il nostro onore ai nemici di un tempo, gli abbiamo consegnato le nostre storie, il coraggio e le parole e siamo qui a pregare affinché ne facciano buon uso.

La sinistra si ritrova sgomenta e muta sul prato delle Ardeatine. Plurale, divisa, distorta e malconcia si specchia nel suo fallimento nel luogo più sacro, nel posto dell’anima, principio e fine di ogni liberazione.

Provo dolore ma anche vergogna, provo disgusto per le modalità sguaiate con cui spesso abbiamo calpestato le memorie più care, magari in nome dell’innovazione o dell’identità.

Che vergogna compagni, appesi al buonsenso del Presidente della Camera e all’onore delle armi che non si nega agli sconfitti.

Il 24 marzo è inciso nella mia memoria famigliare e in quella politica, ho imparato a camminare, a correre, ad odiare e ad avere paura frequentando con mia nonna le cave, ho visto piangere e lottare i famigliari delle vittime che hanno resistito alle provocazioni, alle leggende metropolitane, alle contrapposizioni, alla fuga di Kappler e all’oblio della memoria.

Il 24 marzo 2009 è per me, per noi, il giorno più triste, abbiamo giocato a palla con la giara dei mali, contribuendo alla diffusioni dei suoi umori più neri senza nemmeno sentire il dovere di mostrare le stigmate della responsabilità. Che brutta sinistra, la storia consegna il conto a noi che non eravamo pronti neanche a far di conto con la cronaca.

Ieri, 23 marzo, c’era il sole e il cielo si è colorato di tanti palloncini con i nomi dei martiri grazie alla volontà di insegnanti e ragazzi di una comunità resistente come quella del municipio XI e del suo Presidente.

Ieri Sara, 7 anni a giugno, mi ha insegnato che la memoria può avere un colore diverso dal rosso, può avere la dignità di una rosa bianca, gomitolo di essenzialità, appoggiata con cura accanto alla foto di Enrico Mancini, partigiano dal volto gentile, sangue del nostro sangue. Mi ha spiegato che bianco è meglio del rosso e che una carezza capace di accompagnare la foto è meglio di un saluto militare e di un pugno chiuso. Ho fatto fatica ma ho deciso di farmi guidare da mia figlia, ha il cuore più grande del mio e nutre il suo ricordo per il gusto di farlo senza concedere nulla al nemico, neanche il suo odio. E forse proprio per questo il suo viaggio sarà più fortunato del nostro. (Beh, buona giornata).

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