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“La grande bellezza” di Sorrentino, oppure “La migliore offerta” di Tornatore? La parola a Giuseppe Di Giacomo, il filosofo che giudica i film.

Alla luce delle polemiche per la vittoria dell’Oscar di Sorrentino
Giuseppe Di Giacomo rilegge il film di Tornatore, La migliore offerta
Alla ricerca dell’arte perduta
Il vecchio uomo e il nano nascosto sotto la sua scacchiera

di Riccardo Tavani

L’umana commedia del cinema italiano è stata recentemente attraversata da due opere che se ne distaccano, sia nello stile e nella forma che nei contenuti simbolici sedimentati al loro interno. Sono La grande bellezza di Paolo Sorrentino e La migliore offerta di Giuseppe Tornatore. Entrambi pongono le tre dimensioni della bellezza, dell’arte e della inevitabile riflessione umana su esse, all’incrocio con quella quarta dimensione universale che è il tempo.

Del primo film abbiamo già parlato e qui scritto con il professor Giuseppe Di Giacomo, che nel suo insegnamento filosofico dalla cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma non trascura mai un riferimento ai film recenti o passati che ha visto nel tempo e che torna a svolgere per i suoi studenti e uditori, perfettamente avvolti e conservati, nella bobina cinematografica della sua memoria.

Il film di Sorrentino ha suscitato, soprattutto in Italia e in particolare dopo l’assegnazione dell’Oscar, un vero e proprio sabba di polemiche, che ha imperversato e danzato dalle pagine dei grandi giornali agli angoli più nascosti del web. È proprio il carico ridondante di dialoghi e simboli proposti, a fronte di fragilità e inconcludenza narrativa, o vuotezza esistenziale, che sarebbe rimproverato dalla nostra patria a questa sua figlia in veste di pellicola.

Le cose, invece, per il professor Di Giacomo, non stanno così, perché è proprio delle vere opere d’arte il movimento che ci trae dai selciati caoticamente affollati del presente a una costellazione allegorica, figurativa, o – seguendo Kant – a “una rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto senza…. che nessun linguaggio possa completamente raggiungere totalmente e rendere intelligibile”. Che alcuni autori italiani – aldilà di circostanziate e specifiche critiche sempre legittime – cerchino di rompere la prevalente uniformità triviale del nostro attuale tessuto cinematografico, è da incoraggiare e sostenere, anche con occasioni di confronti e incontri, non da demolire preventivamente. Questo, indipendentemente da prestigiosi premi, riconoscimenti o meno che un film può ricevere: il suo valore estetico e critico è in altro.

Così, alla distanza ormai di un anno e mezzo dalla sua uscita, ci troviamo con Di Giacomo a riconsiderare anche l’ultimo film di Tornatore, La migliore offerta, che ha avuto appena sei stranazionali Nastri D’Argento, sei David di Donatello, a fronte di un solo riconoscimento europeo (l’Efa), andato, però, a Ennio Morione per la sua colonna sonora. Né il tempo trascorso, né i mancati riconoscimenti internazionali scalfiscono per Di Giacomo il valore di questo film, che sprigiona la sua forza d’immagine proprio in ciò che il suo maestro Emilio Garroni ha chiamato uno sguardo attraverso.

Uno sguardo sulla bellezza, sull’esistenza, sull’arte, attraverso quel mezzo massimamente trasparente, eppure ontologicamente denso, impenetrabile che è il tempo. Per il filosofo dell’arte non si può prescindere dalle grandi lezioni che hanno illuminato il Novecento e che ancora oggi ci raggiungono con i loro bagliori. Prima fra tutte quella di Marcel Proust che reca il tema del tempo nel titolo e in ogni riga della sua immane Recherche letteraria. Ricorda anzi Di Giacomo che le parole ultime, estreme, a chiusura dell’intera opera, sono proprio “ – nel Tempo”. Tutto il romanzo di Proust è un tentativo di riscattare il passato, le possibilità in esso insite che ci sono sfuggite, attraverso la capacità dell’arte di renderle visibili, rammemorabili sotto la luce improvvisa di un nuovo sguardo, per fissarle nell’eternità dell’opera letteraria, eppure – proprio nel fare e per fare questo – l’artista non può che restare nel tempo, avvinto in esso e perciò da esso vinto.

Nel film di Tornatore – e questo è sfuggito ai più –, già il nome del protagonista ha incapsulato in sé il tema del tempo: Old-man, l’uomo vecchio. Vecchio – spiega Di Giacomo – nel senso che il raffinatissimo e coltissimo battitore d’asta londinese Virgil Oldman, egli stesso, nella sua persona, nel suo stile, nella sua impermeabilità ai fatti della vita quotidiana, fino ad interporre tra sé e gli oggetti fisici del mondo sempre la pelle di un paio di inseparabili guanti neri, è una personificazione vivente dell’aspirazione all’eternità dell’arte. Uomo Vecchio, in quanto la modernità del Novecento nel suo insieme, non solo Proust, conduce al tramonto di tale aspirazione dell’arte.

La bellezza, soprattutto, per Virgil deve conservare questa purezza incontaminata, ab-soluta, ovvero completamente sciolta dal divenire temporale e accidentale del mondo. Virgil Oldman è il castello, la fortezza estrema, perfetta di questo ideale d’assolutezza. Non ha amori terreni, ma centinaia di quadri raffiguranti ogni aspetto e forma della suprema bellezza del volto femminile. Dipinti che ha accumulato e serrato in un’ampia camera blindata, un’abissale galleria segreta; quadri resi inaccessibili a ogni altro occhio umano che non sia il suo, sottratti, anche con la truffa, l’inganno a chi non li meritava, perché li avrebbe solo esposti alla sventatezza della finitezza umana. È in questa Cappella Sistina delle più vertiginose fattezze di volti, sguardi, capelli, spalle femminili nella storia della pittura che egli respira, vive autenticamente e ha eletto l’occulto scopo di tutta la sua vita. Oldman gioca abilmente, elegantemente ogni mossa della sua vita, della sua professione su una scacchiera a un angolo della quale ha eretto un arrocco perfetto e impenetrabile a ogni attacco.

Eppure anche Oldman vive nell’ingranaggio del tempo, non vi si può sottrarre, soprattutto ora che la sua mirabile e invidiata carriera pubblica ha toccato l’apice e si sta concludendo. L’arte dell’ingranaggio – dice Di Giacomo – reca insita in sé anche quella dell’illusione dell’inganno. Nel film Oldman si imbatte continuamente in pezzi, ruote dentate, molle di un automa, che con l’aiuto di Robert, un giovane di sua fiducia, cerca di rimettere insieme. Questo automa è realmente esistito ed è stato costruito nel ‘700 dal celebre inventore francese Jacques de Vaucanson, il quale incantava letteralmente la sua epoca con simili meccanismi e che ha anche una singolare somiglianza con l’attore Geoffrey Rush che nel film interpreta il personaggio di Oldman. Robert svela a Virgil che l’apparato meccanico mostra uno spazio vuoto in basso, il quale doveva celare un piedistallo cavo, sotto il quale si accucciava un nano che faceva rimbombare la sua voce dentro l’automa con un insuperabile effetto di meraviglia per chi lo vedeva muoversi.

Il richiamo alle prime righe delle Tesi di Filosofia della Storia di Walter Benjamin è per Di Giacomo naturale e immediato. “Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola [su cui poggia una scacchiera] fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili un burattino”. Anche nel film di Tornatore appare una nana, imbattibile nel ricordare ogni evento, con la massima precisione di calcolo numerico nel suo verificarsi e ripetersi nel tempo. Questo personaggio è il vero segreto custode della grande villa-scacchiera, apparentemente trasparente, nella quale Oldman viene trascinato a giocare la sua ultima ambiziosa partita prima del ritiro nel segreto museo d’arte che ha eretto nel corso del tempo. (Solo di sfuggita Di Giacomo richiama come anche ne La grande bellezza Sorrentino affidi al personaggio della nana direttrice del giornale il compito di dire sempre la verità a Jep Gambardella).

Su questa scacchiera truccata ora Oldman si trova a giocare con una bellezza nascosta, velata dalla porta di una stanza sempre chiusa, che è essa stessa un pregiato pezzo d’arte. La bellezza si manifesta sempre attraverso il velo; è inseparabile da questo – dice ancora Benjamin nel suo saggio sulle Affinità elettive di Goethe. Il cinema anche, attraverso lo schermo, costituisce un velo della bellezza e insieme l’ingranaggio dell’illusione trasparente, l’attrazione erotica inesorabile del mistero per la desiderante mente umana. Dietro il velo, che è il segreto di una bellezza che si lascia solo intravedere, pulsa quello stupore filosofico, quell’aura baluginante della natura, dell’esistenza, che l’arte cerca di fissare su una pagina o sulla tela, come un bagliore dell’eternità che può riscattare la nostra caducità, ma che resta, invece, sempre irraggiungibile, ineffabile.

Una scena de "La migliore offerta" di Giuseppe Tornatore
Una scena de “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore
Su questa scacchiera il precedente inattaccabile arrocco di Oldman risulta scardinato e ogni sua altra ingenua difesa sbaragliata. Ne Il settimo sigillo di Bergman, la partita a scacchi di Block con la morte è a viso aperto ed è il nobile cavaliere ad usare un trucco per lasciarsi battere. Là sono in gioco il dubbio e la fede; qui il paradiso e gli inferi. Il paradiso di un riscatto che prima l’arte suprema sembrava garantire e gli inferi di un divenire senza scopo, né senso, irredimibile da un’arte, perché essa stessa esposta al fallimento, all’oblio dalla rapida mutevolezza delle mode e dei mercati.

Oldman, nota Di Giacomo, assurge al ruolo di Pigmalione nei confronti della giovane Claire, trasfigurata in Galatea, ma come nel Capolavoro sconosciuto di Balzac, ricopre di talmente tanti strati erotici la sua opera da non distinguerne più la figura, il vero volto, il sentimento reale. Solo un dettaglio resta ormai visibile: un piede mirabilmente dipinto nel racconto di Balzac, un sospiro d’amore di Claire al culmine dell’eros e il suo ricordo di un caffè di Praga, dal nome, ancora una volta, esplicitamente evocativo del tempo, Night and Day.

Ora, però – come suggerisce la stessa etimologia greca di pygmalion –, è Oldman il nano nelle mani del grande automa che pezzo dopo pezzo ha contribuito a costruire contro lui stesso, e niente come la sparizione dell’intera sua sublime sacrestia pittorica è, per il professor Di Giacomo, la perdita stessa della bellezza, dell’illusione di eternità che le opere hanno preziosamente inseguito ma perduto contro il tempo, soprattutto quello del presente, nel quale è l’arte stessa ad essersi frantumata, dispersa in tanti pezzi di un ingranaggio museale e mercantile smembrato, che non ha e non vuole avere più alcun senso. Il vortice di follia nel quale Oldman, il vecchio uomo precipita è il dissolvimento stesso del principio di ragione, spirito e forma che prima orientava le opere artistiche e la loro percezione nel gusto del pubblico.

In quel ristorante di Praga, nel quale Virgil Oldman nel finale si reca, invece che da quattro vertiginose pareti di immortali volti femminili, è circondato da una volta di sferruzzanti orologi di ogni tipo appesi attorno a lui. È il tunnel del tempo che lo avvolge da ogni lato e celebra la sua vittoria. Le sfere sublimi del paradiso d’arte cui aspirava sono vinte da quelle meccaniche delle pendole; la gloria e la luce dell’eterno sono oscurate non dal fragoroso suono di campane, ma traforate dall’infinitesimale, incessante ticchettio della contingenza mondana, con l’invisibile roditore del tempo celato al suo interno. La sua resa è muta, attonita ma non disperata. Il tempo, infatti, non riesce a divorare tutto: le possibilità che non si sono realizzate rimangono intatte su un piano logico e ontologico. Proprio l’arte – attraverso quelle che per Joyce sono le epifanie improvvise e per Proust la memoria involontaria – è capace di mostrarcele come sospese fuori del tempo e dello spazio.

Quel ristorante esiste davvero: il ricordo confidatogli da Claire nell’alcova d’amore non faceva parte dell’inganno, del furto brutale, perché lei non aveva alcun bisogno di raccontarlo. Forse, allora, anche quel sospiro d’amore dal sen fuggito era autentico: “Qualsiasi cosa dovesse accaderci sappi che io ti amo”. Nell’ingranaggio illusionistico dell’arte, del cinema forse qualcosa di vero si deposita, resta e si ripresenta come una possibilità non ancora attuata, come una stella, una speranza nel cielo della notte. Alla domanda del cameriere che lo serve al tavolo e gli domanda se è solo il vecchio Virgil risponde: “No, aspetto una persona”.

Così a Oldman non resta immergersi nella corrente del tempo che lo trascina e attendere che il suo messaggio nella bottiglia sia trovato e letto da altri uomini, “ poiché essi – dicono le righe estreme de Il tempo ritrovato di Proust – toccano simultaneamente, giganti immersi negli anni, età così lontane l’una dall’altra, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi, – nel Tempo”. (Beh, buona giornata).

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Il bello de “La grande bellezza”? Ce lo spiega il filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Paolo Sorrentino
La grande bellezza*

di Riccardo Tavani

Vediamo il film al Cinema Barberini di Roma e andiamo poi a mangiare un piatto di spaghetti a pochi passi da Via Veneto. Gli domando se il raffronto, tanto insistito dalla stampa, tra la Dolce Vita di Fellini e la Grande bellezza di Sorrentino abbia una sua ragione. Il professore Giuseppe Di Giacomo, ordinario della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma, versandomi del rosso, risponde che indubbiamente l’influenza gravitazionale del pianeta Fellini non ha potuto fare a meno di attraversare l’atmosfera di questo distante corpo astrale. Non c’è solo un certo sapore degli scorci e delle riprese, le feste, le suore, i prelati, quanto la mancanza di un vero centro o soggetto narrativo.

La frammentarietà di situazioni diverse, montate insieme, che diventa allegoria, refrattaria a qualsiasi tentativo di unificazione simbolica, secondo quanto indicato da Walter Benjamin nella sua opera filosofica sul dramma barocco del 1928. Il raffronto, in realtà, andrebbe, per Di Giacomo, completamente rovesciato. Il cielo astrale sopra Via Veneto nel 1960 era completamente diverso da quello di oggi. Tutto ciò che nella Dolce Vita e nella realtà della città è all’aperto, pubblico, esplodente sulle strade, nelle periferie mistiche quanto nei caffé del centro, nei locali affollati, nelle auto e nelle situazioni decappottate pronte a scoprirsi per l’assalto delle paparazzate e dei giornali, nella Grande bellezza è invece privato, chiuso, implodente verso un’intimità che non ha neanche più un nome se non quello di vuoto. Persino il fracasso triviale, la cafonalità delle feste avviene in locations prese in affitto, su terrazze e in ville, separate, delimitate innanzitutto da un’aura d’ombra stagnante, prima che da mura e recinti. La Via Veneto di Fellini è pulsante, ricorda Di Giacomo; quella di Sorrentino deserta, spettrale: qualche sparuto puttaniere giapponese, una solitaria, anoressica ragazza con al guinzaglio un’enorme arma da difesa in forma di molosso napoletano e squallidi nigth club con ventenni polacche che non sono certo lì per il vecchio, glorioso spogliarello.

Soprattutto nell’opera felliniana la bellezza di Roma non ha bisogno di essere messa a tema. Essa è parte integrante dell’apertura della città verso il futuro. La sceneggiatura di Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (con la collaborazione anche se non accreditata di Pasolini) respira pienamente di questa apertura, si sedimenta sul nitrato d’argento della pellicola, impastandosi invisibilmente al vagare dei movimenti di macchina e delle immagini tessute da Fellini.

Nel film di Sorrentino non si dà futuro, ma neanche più passato. I marmi porosi e le antiche mura screpolate della città vengono avanti galleggiando nelle inquadrature, come sulla superficie di un tempo lacustre immobile. Lo stesso protagonista, Jep Gambardella, non ha un passato, a parte qualche affiorante sprazzo di memoria per Elisa De Santis, la bellezza della quale s’innamora un’estate sugli scogli assolati di un’isola, ma che non si lascia poi baciare al chiaro di luna da lui. In questo, Jep è uno di quei tipici personaggi di Kafka che non hanno nessuna vera identità al di fuori del presente che stanno vivendo, senza alcun vero senso e scopo. Egli si commuove intensamente di fronte all’opera di un artista che ha allineato una sterminata sequenza di fotografie che lo ritraggono per ogni giorno della sua vita, sedimentando una percettibile scia della memoria.

Il riferimenti letterari nel film sono costanti e percorrono tutta la pellicola: dall’esergo iniziale su un brano di Celine, passando per Flaubert, Dostoevskij e Proust. Non sono solo mere citazione, nota Di Giacomo, ma vere e proprie – direbbe un pittore – campiture di significato. In ciò il professore scorge un conflitto tra regia e sceneggiatura. C’è un’eccedenza nella scrittura dei dialoghi e della voce fuori campo che i movimenti macchina e le immagini non riescono a rendere a un pari livello di senso. La stessa cosa, mi dice il professore, e in modo anche più accentuato, è successo per il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. L’intervento poetico di Peter Handke sul copione, espressamente richiesto dal regista, crea poi una diacronia, una sfasatura tra testo e immagine che si incapsula quasi fin dentro ogni singolo fotogramma, venendo a configurarsi come un limite dell’opera. In una delle scene iniziali, ad esempio, Di Giacomo vede un esplicito richiamo a una famosa pagina della Recherche proustiana, relativa proprio al tema della bellezza. È quella che descrive la morte dello scrittore malato Bergotte davanti al quadro La veduta di Delft di Veermer. La bellezza che una piccola ala gialla su un muro conferiva all’opera eccedeva la fragile possibilità umana di contenerla. Nel film, un turista giapponese, contemplando e fotografando Roma dal Gianicolo, collassa improvvisamente sul selciato e muore. La sequenza, però, è realizzata in maniera piana, con la macchina frontale al soggetto e uno stacco di montaggio, senza alcun movimento che conferisca alla scena una densità pari a quella del momento esistenziale in atto.

Consumati con gusto gli spaghetti, passiamo a sorseggiare riflessivamente del whisky. Il vuoto di ispirazione letteraria di Gambardella, ritorna Di Giacomo, si lega non tanto a quello del vuoto lasciato dalla scomparsa della bellezza, quanto a quello di una sua contemplazione in uno stadio ancora meramente estetico, secondo la nota tripartizione di Kierkegaard, che si articola anche in quello etico e religioso. Jep cita e vuole fare propria l’aspirazione di Flaubert a “scrivere un libro su nulla”, nel quale la bêtise, la stupidaggine, la balordaggine degli eventi umani, della storia, della noia e coazione a ripetere, ammutoliscano, indietreggino e lascino di nuovo campo alla vera bellezza, la quale dovrebbe interamente riconquistare a sé il mondo e la letteratura.

Il mondo, però, con il suo dolore e la sua miseria lacera continuamente il velo della bellezza per offuscarne la trama. L’entrata in scena del personaggio di Suor Maria, la cosiddetta Santa, rappresenta l’irruzione di una visione della bellezza che ci propone incessantemente l’opera di Dostoevskij. La pia donna mangia solo radici e vive ventidue ore al giorno con i poveri. Lei si sottrae alla richiesta di un’intervista fatta da Jep sulla sua opera di carità, perché: “La miseria non si racconta – si vive”. La sofferenza non può diventare un fatto estetico, ma si può soltanto condividerla. Sì, la bellezza salverà il mondo, ma essa non è quella di Nastas’ja Filippovna, oggetto di contemplazione, desiderio e contesa, ma quella di chi si prende personalmente carico del dolore dell’uomo, per alleviarlo, ascendendo uno ad uno, in ginocchio, i gradini della sua passione, del suo pathos, ovvero del suo parteciparlo. Sono qui le vere radici che trattengono l’uomo alla terra e impediscono il suo vagare ad ogni soffio.

La decisione di Romano di abbandonare definitivamente la città e di tornarsene deluso in provincia è un altro rovesciamento del vitellonismo felliniano, ma soprattutto, per Di Giacomo, è esattamente la situazione descritta da Flaubert ne L’educazione sentimentale. Gli accadimenti storico-esistenziali sconfiggono i due protagonisti del romanzo e li costringono a tornarsene dove sono nati.

Gambardella, però, nonostante lo vediamo nelle scene finali costeggiare su una nave le sponde natie, non se ne va e decide di iniziare finalmente il suo nuovo libro, proprio come Marcel alla fine de La Ricerca del tempo perduto. Il suo romanzo non sarà più su quell’apparato di spettacolo umano che egli stesso ha finora messo in scena e dominato, fallendo l’appuntamento della sua esistenza con il senso e la letteratura. Jep, a differenza di Proust, sa che in questo mondo non c’è più niente da ricercare, più niente da raccontare, eppure, ugualmente, si deve continuare a scrivere. L’umano – dice amara la sua voce fuori campo – si dà solo tra un frammento e l’altro della bellezza che scompare nell’attimo stesso in cui appare. Il resto è finzione, trucco, trenini sulle terrazze della Roma-cafona-bene che ballando e bla-bla-blando non portano mai da nessuna parte. La materia grafica della sue parole sulla pagina scritta sarà il nulla, il suo sguardo silenzio sullo schermo sgualcito della vita, sul velo d’ombra – soffice di morte – delle antiche mura, sulla pellicola corrosa che avvolge la dissacrata grande bellezza della città.

Ha smesso di piovere e i platani di Via Veneto sono scossi da folate di vento fresco che hanno già asciugato l’asfalto della strada. Un uomo si ferma un istante accanto a noi per accendersi una sigaretta. Indossa una giacca di lino rosso con un fazzoletto candido nel taschino, pantaloni bianchi e scarpe Duilio bicolore. Sentiamo lo scatto del suo accendino d’oro che subito si chiude sull’occhiello di brace e il filo di fumo che vorticando sale verso il residuo di nubi in cielo. Garbatamente ci fa un cenno di saluto e prosegue. Viene voglia di fumare anche a noi, ma ci salutiamo, dandoci soltanto appuntamento alla prossima – pellicola del filosofo. (Beh, buona giornata.)

*Questo articolo risale ai giorni in cui il film uscì per la prima volta nelle sale e fu accolto piuttosto freddamente dalla critica. Oggi risulta di prepotente attualità, dopo l’Oscar come miglior film straniero.

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Roma alla ricerca della sua “grande bellezza” perduta.

Lo schermo cinematografico come velo della bellezza e sedimento della memoria. Un flaneur dell’apparenza sul filo narrativo-filosofico di Proust e Benjamin.

Un punto di vista filosofico su "La grande bellezza" di Sorrentino.
Un punto di vista filosofico su “La grande bellezza” di Sorrentino.
Una scena di "La grande bellezza":
Una scena di “La grande bellezza”:

di Riccardo Tavani

Nel suo saggio sulle Affinità Elettive di Goethe, Walter Benjamin scrive che la bellezza è inseparabile dall’apparenza. Il termine apparenza va qui inteso nel suo senso etimologico e filosofico più profondamente originario, ossia del rendersi manifesto, del presentarsi di qualcosa allo sguardo. L’apparenza è così una sorta di velo che si offre come mezzo diafano sul quale la bellezza si proietta, rendendosi così visibile, ma che allo stesso tempo la cela, per custodirne il segreto inespresso e mai del tutto esprimibile. In questo senso niente come la pellicola e lo schermo cinematografico si offrono in tutta la storia dell’Occidente come quel velo primordiale che manifesta e cela al tempo stesso la bellezza nella sua vibrazione più intensa e struggente. Ciò vale anche per il film di Paolo Sorrentino, ma certamente non solo perché il tema della Grande bellezza è già inciso nel titolo.

Questa pellicola, però, è segnata anche da un significato oggi più in uso dell’apparire, ovvero quello del voler sembrare, dare l’impressione, prevalentemente, se non completamente, volgarmente ingannevole, falsa. Fin dalle prime scene si mostra il tema della bellezza di Roma, città eterna, accanto alla triviale apparenza umana. Vorremo anche notare che il titolo del romanzo giovanile scritto da Jep Gambardella, il protagonista della vicenda, è L’apparato umano. Il sostantivo apparato non ha una radice etimologica lontana da quella di apparenza, tanto che originariamente apparato è l’insieme di addobbi, ornamenti, paramenti che servono a fare da involucro e sfondo alle feste – sacrali o profane che siano – e agli spettacoli in genere. In termini propriamente sceno-tecnici l’Apparato è il complesso delle scene, dei vestiari, delle comparse, con il quale si rappresenta un’opera o un ballo a teatro: la mise-en-scène dei Francesi.

Siamo proprio al centro della scena di questo film: l’ammasso rutilante, ributtante, ridicolo e pietoso insieme, di personaggi e comparse che ruota attorno al raffinato napoletano, trapiantato Roma, Jep Gambardella, magistralmente interpretato da Toni Servillo. Re delle feste e delle prestigiose terrazze romane, Jep percorre le vie e le situazioni notturne della città come quel flaneur baudeleriano, descritto proprio da Walter Benjamin nei suoi Passagen su Parigi.

Lo spirito di Jep non è però tanto quello di chi deambula attentamente distratto per le strade e le ombre della città, lasciandosi assorbire dai sui fracassi e dai suoi silenzi. No, l’animo di Jep è quello di un flaneur completamente disincantato, ironicamente agrodolce e feroce. Beve un certo numero cocktail fino all’alba, ma non tanti da stordirsi del tutto e perdere la coscienza critica. Lui solca il suo film, come Marcel Proust attraversa la sterminata tessitura della sua Recherche, descrivendo luoghi, volti, modi, mode, smorfie, linguaggi, flatulenze, singhiozzi e sberleffi. E la pellicola è contrappuntata da alcune peculiari citazioni proustiane.

“Jep, perché non hai più scritto nessun romanzo celebrity pokies, eri davvero bravo?”, gli domandano continuamente. Lui, che ora fa il giornalista per una raffinata rivista culturale, una volta, all’improvviso, risponde: “Io cercavo la bellezza”. La bellezza non c’è più, muore attorno a lui. Il suo amico, aspirante scrittore, Romano non riesce ad afferrarla, né quella fisica di una donna che gli piace, o di Roma che parimenti lo respinge, né nei suoi tentativi di scrittura per il teatro. Ramona, che Jep incontra in un nigth di Via Veneto, è l’emblema della bellezza che gli si spegne tra le braccia, senza neanche poter fare più l’amore.

La bellezza, per lui ora sessantacinquenne, è rimasta Elisa, quella lontana ragazza, innamorata di lui, ma che poi lo ha lasciato, con la quale si scambiavano sguardi intensamente perduti sugli scogli di Capri. Lei, una volta, gli si svela, nella luce sul mare da cui sorge Venere e, come una vera dea, senza mai dirgli neanche una parola. Gli mostra la sua nudità, si toglie la camicetta, il velo della bellezza, poi fa un passo indietro sullo scoglio e sparisce, ovvero, senza una ragione, un perché non appare mai più nella sua vita. Ora la notizia della sua morte lo precipita di nuovo nell’enigma, nel segreto di quel remoto ricordo, del suo amore, custoditi, come per l’Ottilia delle Affinità Elettive, in un diario per sempre muto.

“Solo il ricordo dà all’amore la sua anima”, scrive Benjamin. La bellezza – per parafrasare una celebre espressione del suo amico Theodor Adorno sulla forma artistica– è memoria sedimentata. Il soffitto della camera da letto diventa per lui lo schermo cinematografico, dalla cui impercettibile increspatura riaffiorano le immagini silenziose del mare e della sua giovane, inafferrabile dea.

Schermo, velo, pellicola, sedimento: non è solo una delle tante, possibili storie del presente che si mette nella forma d’arte peculiare del cinema per raccontare e veicolare un senso. È anche il cinema che assume le sembianze di un racconto d’oggi per parlare di sé, dell’apparenza, del trucco, del non senso che gli sono propri. Il vero cinema, parlando della vita, è sempre anche una metafora velata di se stesso. E il film di Sorrentino riesce bene a ri-velare questo suo imprescindibile aspetto.

Sotto le stelle di Caracalla, Jep, come il Gattopardo nel film di Visconti, sente che l’ombra tra le antiche rovine è soffice di morte. Vorrebbe sparire, come in un trucco tipico del cinema, tra quelle mura, pregne del bello in ogni loro sacro, corroso poro. La stella della sera, però, ci dice sempre Benjamin, è anche quella della speranza, di una pur fragile possibilità di riscatto, di una debole forza messianica, che offriamo al passato e a chi in esso è rimasto ammutolito.

Così, proprio come il Marcel della Ricerca del tempo perduto, Jep termina il filo narrativo dei suoi smarriti passagen attraverso l’eterna, grande bellezza di Roma, affermando che ora può cominciare a scrivere il suo romanzo. Romanzo che, esattamente come in Proust, altro non è che quello appena finito di scorrere sotto i nostri occhi di lettori o di spettatori.
(Beh, buona giornata).

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