Categorie
Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Italia 2014, la guerra civile tra i poveri.

Cronaca in diretta di un testimone della sparatoria e dei fatti avvenuti il 13-14 luglio a Castel Volturno

di Gian-Luca S. Castaldi-3dnews.it

A Castel Volturno, nel quartiere di Pescopagano, la sera del 13 luglio 2014 (ore 20:00) due ragazzi originari della Costa d’Avorio sono stati feriti con un’arma da fuoco, a seguito di una lite con due italiani. I nomi dei due ragazzi sono YUSSIF BAMBA (35 anni) e NICOLAS GYAN (37 anni). La ragione della lite è stata molto superficiale. Yussif stava trasportando una bombola di gas ed è stato fermato da due italiani, Pasquale Cipriano (padre) e Cesare Cipriano (figlio), proprietari di un’agenzia di vigilanza privata. Questa agenzia, tra l’altro, non è neanche registrata: legalmente non esiste. I due sono scesi dalla macchina ed hanno cominciato a minacciare Yussif chiedendo dove avesse preso quella bombola. Infatti i due Cipriano, oltre a gestire un controllo privato ed abusivo della zona, vendono bombole del gas, e pensavano che il ragazzo avesse rubato la bombola, dato che non l’aveva comprata da loro. Il ragazzo ha insistito a ripetere che la bombola non l’aveva rubata a loro, ma che era sua, e allora Cesare Cipriano (figlio) lo ha aggredito. Nicolas, connazionale di Yussif, è intervenuto per aiutare l’amico, finché i due aggressori non sono scappati con la macchina. Una volta che la macchina si è allontanata, Nicolas ha chiesto a Yussif cosa fosse successo, e mentre quest’ultimo raccontava, la macchina è tornata. Dentro c’era solo Cesare Cipriano, che ha aperto il fuoco ed ha sparato ad entrambi ferendoli alle gambe.

Sul luogo, a quasi trecento metri, c’eravamo noi come Caritas Caserta. Infatti, io e Osman (mediatore culturale della Caritas) eravamo lì per le attività del Progetto Presidio di Caritas Italiana. Entrambi siamo intervenuti in tempo, l’ambulanza è giunta in pochi minuti. Tuttavia è stata questione di pochi minuti anche prima che si creasse un buon numero di immigrati africani che si è messo prima ad urlare e poi a gettare l’immondizia che stava ai bordi delle strade per creare la prima barricata. C’erano frigoriferi dismessi e mobili rotti, e quindi è stato veramente un attimo. La sede dell’agenzia di vigilanza privata, infatti, si trova a meno di 200 metri dal luogo dove è avvenuto il tutto: gli immigrati volevano impedire l’arrivo delle forze dell’ordine per poter correre all’agenzia e farsi vendetta da soli. Dopo altri pochi minuti, la seconda barricata è stata tirata su proprio oltre la sede dell’agenzia privata, chiudendo la strada da entrambi i lati.

L’arrivo dei carabinieri è stato, mi suole dirlo, tanto lento quanto inutile. Avevano paura ad avvicinarsi e non riuscivano a comunicare con nessuno. Io e Osman abbiamo cominciato a mediare, calmando i migranti. Alla fine siamo riusciti ad ottenere che una delle due barricare si aprisse per far passare le ambulanze e i carabinieri. Una volta portati via i ragazzi feriti, tuttavia, il clima si è fatto sempre più caldo, e il numero dei migranti scesi in piazza era aumentato notevolmente, saranno stati già un 150. Abbiamo continuato a mediare, spiegando ai migranti che dovevano calmarsi e lasciare che i carabinieri arrestassero i due italiani. Ma non ci siamo riusciti, perché ormai i migranti avevano deciso di bruciare le macchine dell’agenzia e l’ufficio.

Pochi minuti dopo la macchina che si trovava di fronte all’ufficio era già in fiamme, e poi i migranti hanno cominciato a sfondare la saracinesca e la porta di entrata dello stabile. Sono entrati ed hanno dato fuoco a tutto. Il problema si è aggravato quando ci siamo accorti che al piano di sopra c’erano delle persone, tra cui una ragazzina, e che nel cortile di dietro, tutto in fiamme, macchine, un furgone e soprattutto molte bombole del gas. Io e Osman ci siamo messi ad allontanare i migranti, per evitare la tragedia e lasciare che chi fosse al piano di sopra potesse scappare. Ci siamo riusciti, anche se nel trascinare fuori i migranti inferociti, uno non mi ha riconosciuto e mi ha prima colpito alla testa da dietro facendomi cadere a terra e poi preso a calci mentre tentavo di rialzarmi. Osman, nel frattempo aveva chiamato di nuovo l’ambulanza, perché un ragazzo era rimasto ferito e perdeva molto sangue. Non è riuscito a convincere i migranti a fare aprire di nuovo la barricata, e quindi ha trascinato il ragazzo ferito fino all’altra parte, in modo che l’ambulanza potesse portarlo via. L’esplosione del gas è avvenuta, per fortuna, che eravamo riusciti a far uscire ed allontanare tutti.

Mentre tutto questo avveniva, è arrivata anche la Squadra Mobile della Polizia. Io e Osman cercavamo di mediare e di mantenere calmi gli animi, per evitare che il tutto degenerasse ulteriormente. Tuttavia tra di loro non trovavo nessuno con cui interloquire autorevolmente e quindi ho provveduto a chiamare il dott. Vola Mario, della Squadra Mobile. Lui ci conosce da anni ed è il nostro punto di riferimento per la lotta allo sfruttamento lavorativo. Mi ha assicurato che avrebbe informato l’ispettore capo addetto della mia presenza e che mi avrebbe fatto trovare. Così è avvenuto. Dopo pochi minuti mi ha telefonato l’ispettore capo Alessandro Tocco, chiedendomi della situazione e suggerimenti sul da farsi. Mi disse che stava mandando qualche decina di agenti, in tenuta anti-sommossa, e allora io l’ho sconsigliato. Gli ho detto che sarebbe stato l’inizio della fine, che uno spiegamento di forze avrebbe solo fatto peggiorare ulteriormente la situazione, aumentando sia il numero dei migranti che la loro rabbia. Gli ho detto apertamente: meglio lasciare che bruci una casa che rischiare una città intera in fiamme. Mi ha dato ascolto e non ha mandato gli agenti che aveva preparato. Come avevo previsto, infatti, bruciata la casa e fatto esplodere il tutto, la rabbia ha cominciato a scemare, e la mediazione è diventata più facile, anche perché alcuni migranti si erano resi conto che se non li avessimo fatti uscire in tempo l’esplosione avrebbe certamente ferito molti di loro se non peggio. Insomma, ora ci ascoltavano un po’ di più.

Nel frattempo ci ha richiamati l’ispettore capo Tocco e ci ha riferito che Pasquale e Cesare Cipriano erano stati entrambi arrestati ed ora si trovavano in Questura a Caserta. Io ed Osman abbiamo subito comunicato la notizia ai migranti, sapendo che questo avrebbe aiutato ulteriormente a calmare gli animi. Nell’occasione, ho ringraziato l’ispettore di aver seguito il mio consiglio e di non aver inviato gli agenti anti-sommossa: la situazione si stava scemando, come gli avevo garantito che sarebbe successo sin dall’inizio. Nel giro di un paio d’ore siamo poi riusciti a disperdere i migranti, che però minacciavano rappresaglie per il giorno successivo.

A questo punto, la prima cosa che io ed Osman abbiamo fatto è stato avvertire un po’ tutte le realtà associative che lavorano sul territorio: il centro sociale “Ex-Canapificio”, Emergency, R.E.S. ed altri. Infatti, siccome il tutto è avvenuto in una domenica sera, nessuno era in giro, e il risultato è stato che io ed Osman ci eravamo trovati completamente soli a gestire una situazione al limite della follia. In secondo luogo, abbiamo subito convocato alcuni dei leader del Movimento dei Migranti e Rifugiato, che è molto forte ed organizzato sul territorio, chiedendogli una buona presenza per il servizio d’ordine il giorno successivo. Infine, l’ispettore capo Tocco ci aveva chiesto di non lasciare Castel Volturno ma di rimanere in giro, assicurandoci la presenza di volanti il giorno successivo, e dunque io ed Osman abbiamo passato la notte a convincere i migranti a non fare follie il giorno successivo,a calmare gli animi e a rassicurare.

La mattina del 14 luglio, alle 8 del mattino, la situazione era calma. Il Movimento dei Migranti e Rifugiati si era ben organizzato ed era presente in un buon numero per garantire supporto logistico e servizio d’ordine. Quindi, io e uno dei loro leader, Doe Prosper, ci siamo recati al pronto soccorso di Castel Volturno per assicurarci sullo stato di salute dei due ragazzi feriti. Entrambi stavano abbastanza bene. Avevano estratto le pallottole e non vi erano complicazioni cliniche. E’ stato parlando con loro che abbiamo capito bene la dinamica della lite e tutto il resto. Siamo dunque tornati nel quartiere di Pescopagano, dove ci aspettava già l’ispettore capo Tocco. La situazione era tranquilla, e dunque ci ha chiesto di accompagnarlo al pronto soccorso per prendere la deposizione dei ragazzi e tradurre. Così abbiamo fatto.

Tornati nuovamente a Pescopagano, ci siamo accorti che erano arrivati un buon numero di giornalisti. Ci siamo attivati a spiegare la situazione e a evitare nuovi allarmismi sul territorio. Tuttavia, l’arrivo dei giornalisti ha infastidito la popolazione locale italiana, che si è radunata in un centinaio di manifestanti che hanno bloccato la Domiziana. Volevano che i giornalisti prendessero anche la loro versione. E la retorica è sempre quella: non ce la fanno più, troppi stranieri, lo stato non c’è eccetera eccetera…

Questa manifestazione d’italiani residenti, tuttavia, è stata una provocazione per la popolazione straniera, che ha cominciato di nuovo a scaldarsi. Alcuni migranti hanno rialzato una barricata, a cui gli italiani hanno risposto con un’altra barricata. La strada principale di Pescopagano, la vena che divide la città in due e l’attraversa da un capo all’altro era divisa in due, barricata degli italiani e barricata degli africani. Forze dell’ordine nel mezzo. La tensione era altissima. Tra gli italiani si cominciava a dire che bisognava iniziare da noi, da quelli delle associazioni, della Caritas, da quelli che “difendono i negri” eccetera eccetera. Quindi abbiamo deciso di esporci un po’ di meno, e di levarci i gilet con i loghi del Progetto Presidio – Caritas Italiana, ed hanno fatto lo stesso anche quelli di Emergency ed altre associazioni.

Per fortuna siamo riusciti a fare in modo che i migranti non aumentassero troppo di numero e a quindi a calmarli. Ci sono volute ore, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Dopotutto, a differenza della sera prima, eravamo molti di più a controllare la situazione e a mediare.

Nel frattempo, l’ispettore capo Tocco mi ha confermato che solo il figlio, Cesare Cipriano, era tornato indietro con la macchina a sparare. Lo ha confermato anche Yussif in ospedale. E quindi il padre, Pasquale Cipriano, pregiudicato, che era stato arrestato in questa occasione per concorso in tentato omicidio, verrà rilasciato al più presto. Io ho comunque fatto notare che quasi tre mesi fa accompagnammo un altro immigrato ghanese, Martin Kwadwo, a denunciare un aggressione d’arma da fuoco. Anche a lui spararono alla gamba. In quella occasione, dopo l’aggressione, gli stessi padre e figlio Cipriano andarono da un altro immigrato, Hassan, a minacciarlo dicendoli letteralmente che dovevano stare tutti attenti, perché se no sarebbero finiti tutti come quel ragazzo “a cui è stato sparato”. Nella denuncia noi avevamo specificato tutto. Non so se questo avrà un ruolo nelle indagini e nel processo che ne seguirà. Oggi è il 15 luglio. Non so cosa può succedere, ma spero che il picco di tensione sia ormai passato. (Beh, buona giornata).

Ancora scontri a Castel Volturno tra migranti africani, braccianti stagionali e cittadini italiani che mal sopportano la loro presenza in città.
Ancora scontri a Castel Volturno tra migranti africani, braccianti stagionali e cittadini italiani che mal sopportano la loro presenza in città.

Share
Categorie
Attualità Lavoro Leggi e diritto

Le indagini della polizia confermano: a Rosarno la rivolta degli immigrati fu provocata dallo schiavismo dei “caporali”.

Rosarno, immigrati sfruttati: caporali arrestati, 10 milioni di beni sequestrati
Extracomunitari costretti a lavorare anche 14 ore, chi si ribellava subiva ritorsioni e minacce-ilmessaggero.it

Lo sfruttamento e le condizioni inique in cui erano costretti a lavorare fu alla base della rivolta degli immigrati avvenuta nei mesi scorsi a Rosarno. È quanto emerso dalle indagini che hanno portato stamani ad una operazione della squadra mobile, dei carabinieri e dei finanzieri contro il fenomeno del caporalato con il sequestro di venti aziende e duecento terreni, per un valore complessivo di circa 10 milioni di euro, contestualmente all’esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare nei confronti di 31 persone.

Immigrati sfruttati. Gli investigatori hanno accertato che alla base delle proteste e degli episodi di violenza vi erano le condizioni di assoluta subordinazione in cui versavano gli immigrati finiti nelle mani di persone che li costringevano a lavorare in condizioni inique. Gli immigrati, inoltre, avrebbero subito anche ripetute minacce. I lavoratori extracomunitari erano costretti, infatti, a lavorare mediamente dalle 12 alle 14 ore al giorno ricevendo un compenso di una decina di euro al giorno.

Gli extracomunitari che si ribellavano subivano ritorsioni e minacce. La rivolta di Rosarno, infatti, fu determinata proprio dal ferimento a colpi d’arma da fuoco di due lavoratori extracomunitari. Nel corso delle indagini gli investigatori hanno compiuto accertamenti patrimoniali nei confronti degli indagati ed hanno potuto ricostruire la quantità di beni mobili ed immobili ritenuti frutto di illecito arricchimento e, soprattutto, funzionale alla realizzazione delle condizioni di impiego di manodopera in nero. Sono state scoperte anche numerose presunte truffe compiute nei confronti degli enti previdenziali.

Gli arrestati. Nove persone sono state arrestate e portate in carcere, ventuno sono detenute ai domiciliari ed una è stata sottoposta all’obbligo di dimora. Tra le persone destinatarie dell’ordinanza di custodia cautelare ci sono anche alcuni extracomunitari. Tre di questi sono stati rintracciati ed arrestati nelle province di Caserta, Catania e Siracusa dove si erano trasferiti dopo la rivolta avvenuta a Rosarno. Le indagini, coordinate dalla Procura di Palmi, hanno portato alla luce un sistema di caporalato collocamento illegale di manodopera clandestina destinata ai lavori in agricoltura. Identificate anche le aziende agricole che utilizzavano la manodopera straniera sottopagandola.

Sacconi: caporalato odioso, contrasto è priorità. contrasto Il caporalato rappresenta una odiosa forma di sfruttamento del lavoro. L’attività di contrasto, che è da realizzare in collaborazione tra le diverse forse in campo, è una delle priorità dell’azione di Governo: è la posizione del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi che plaude alle iniziative di contrasto al lavoro nero e del caporalato.

Epifani: rafforzata scelta 1 maggio lì. «I fatti di oggi confermano la preoccupazione che c’era e che dà forza alla scelta di festeggiare lì il primo maggio». Lo ha detto il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, ricordando che «Rosarno è un luogo simbolo che dimostra come dove non c’è legalità non c’è rispetto per il lavoro. La nostra decisione è stata presa proprio per affermare il principio di rispetto per chi lavora spesso in condizioni di schiavitù». (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

L’ONU critica le politiche sulla sicurezza del governo italiano: se i nodi non vengono al pettine, il pettine va ai nodi.

L’Alto commissario per i diritti umani Navi Pillay a Roma per una visita di due giorni Audizione in Senato. Domani visiterà due campi nomadi. “I migranti non siano denigrati e attaccati” (fonte:repubblica.it)
Per l’Alto commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay è sbagliato utilizzare i militari per pattugliare le città, istituire le ronde e perseguire i clandestini. Dure critiche al pacchetto sicurezza sono state fatte stamane nel corso di un’audizione presso la commissione diritti umani del Senato dall’alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay.

L’Alto commissario Onu si è detta “preoccupata” per alcune norme del “pacchetto sicurezza” adottato in Italia. “Continuo ad essere preoccupata quando il pacchetto sicurezza rende lo status di clandestinità un’aggravante per chi commette un crimine comune”, ha detto la Pillay che ha invitato i politici ad assicurarsi che i “migranti non siano discriminati, denigrati e attaccati”.

L’Alto commissario per i diritti umani ha parlato anche degli ultimi episodi di violenza nel Sud Italia contro i migranti invitando le “autorità italiane” ad assicurare “urgentemente alla giustizia” i responsabili di tali violenze e ad assumere tutte le misure necessarie per “evitare che questi incidenti si ripetano”.

Oggi Pillay incontra il ministro dell’Interno Roberto Maroni e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. Domani, inoltre, l’Alto commissario farà visita a due campi nomadi ed al Centro di identificazione ed espulsione per immigrati alla periferia di Roma. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità democrazia Popoli e politiche Pubblicità e mass media Società e costume

Ecco come la Destra in Italia ha avvelenato i cuori e inquinato le coscienze dei giovani. Pessimo il futuro che ci attende.

(da repubblica.it)
Quasi la metà dei giovani italiani è razzista, diffidente nei confronti degli stranieri mentre solo il 40 per cento si dichiara “aperto” alle novità e alle nuove etnie che popolano il nostro Paese. E’ lo sconfortante ritratto offerto dall’indagine “Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti” da cui emerge che il razzismo è un fenomeno tutt’altro che sradicato tra i ragazzi. Presentato oggi alla Camera, alla presenza del presidente, Gianfranco Fini, lo studio è promosso dalla Conferenza delle assemblee delle Regioni nell’ambito delle iniziative dell’Osservatorio della Camera sui fenomeni di xenofobia e razzismo, ed è stato realizzato da Swg su duemila giovani.

Chiusure e fobie. L’area tendenzialmente fobica e xenofoba è del 45,8 per cento, con diverse sfumature al suo interno. Lo studio indica tre agglomerati. Il primo è quello dei Romeno-rom-albanese fobici, pari al 15,3 per cento del totale degli interpellati, e manifesta la propria intolleranza soprattutto verso questi popoli. E’ l’unico gruppo la cui maggioranza (56 per cento) è costituita da donne. Il secondo riunisce soggetti con comportamenti improntati al razzismo. E’ il più esiguo, perché rappresenta il 10,7 per cento dei giovani, ma il più estremo, perché in sostanza rifiuta e manifesta fastidio per tutti, tranne europei e italiani. Ci sono poi gli xenofobi per elezione (20 per cento): non esprime forme di odio violente, quel che conta è che le altre etnie se ne stiano lontane, possibilmente fuori dall’Italia.

Aperture e tolleranze. La fetta di quanti hanno invece un atteggiamento aperto è del 39,6 per cento. All’interno si riconoscono gli
inclusivi (19,4 per cento) con un’apertura totale e serena (55,3 per cento); i tolleranti (14,7 per cento), un po’ più freddi rispetto ai precedenti e gli aperturisti tiepidi (5,5 per cento), ossia giovani decisamente antirazzisti, ma con forme più caute e trattenute, minore interazione con le altre etnie e un riconoscimento più ridotto dell’amore omosessuale. Al centro lo studio posiziona i mixofobici (14,5 per cento), giovani che non sono del tutto proiettati verso la chiusura, ma neppure verso il suo opposto e che vivono un sentimento di fastidio verso ciò che li allontana dalla loro identità.

Rom, sinti e romeni i meno graditi. I giovani italiani tra i 18 e i 29 anni giudicano ‘simpatici’ gli europei in genere con un voto pari a 8,2 su una scala da 1 a 10, gli italiani del Sud (7,8) e gli americani (7,7), mentre ritengono antipatici e da tenere a distanza soprattutto Rom e Sinti (4,1), romeni (5,0) e albanesi (5,2). Attraverso un’indagine è stato chiesto ai giovani di rispondere come si sarebbero comportati in determinate situazioni. Ecco le risposte.

Scegliere con chi andare a cena. I giovani hanno messo in testa le persone disagiate economicamente, giudicano “accettabile” una cena con un ebreo, un omosessuale o con un extra-comunitario. Accettato, ma con freddezza un musulmano. Impensabile pasteggiare con un tossicodipendente o un rom.

Il vicino di casa. Verrebbero accettati tranquillamente omosessuali, ebrei e poveri. No invece a zingari e a chi utilizza sostanze stupefacenti e zingari.

Se un figlio si fidanza. I giovani italiani riterrebbero accettabile avere un figlio che ha un partner o una partner di religione ebraica, ma anche qualcuno con evidenti disagi economici. Meglio comunque se a ritrovarsi in questa situazione è il maschio: per la figlia femmina, infatti, c’è qualche resistenza in più. Scarso entusiasmo se la coppia si formasse con un o una extra-comunitaria o con una persona musulmana. Assai più difficile convivere con l’omosessualità di un figlio. Ma l’incubo peggiore è la possibilità che uno dei propri figli faccia coppia con un tossicodipendente o un rom, situazione considerata inaccettabile.

Identikit del giovane razzista. Il profilo più estremo del razzismo tra i giovani, così come emerge dall’indagine presentata alla Camera, descrive una persona che ostenta superiorità e persistente bisogno di potenza. Ha atteggiamenti apertamente omofobici, spinte antisemitiche, convinzione dell’inferiorità delle donne. E non accetta nessuna razza o etnia diversa dalla propria. Un profilo che riguarda il 10,7 per cento dei giovani, ma estremamente preoccupante. L’indagine definisce questa tipologia come quella dei soggetti “improntati al razzismo”.

Un clan che si espande online. Questo clan, rileva la ricerca, si distingue non solo per l’intensità estremizzata delle proprie posizioni, ma anche per la sua capacità di produrre un vero e proprio modo di essere nella società, per la sua tendenza a essere una comunità, per quanto chiusa e ristretta. Si tratta di un agglomerato che sviluppa un forte senso di appartenenza, che ha trovato nella rete il proprio ambito di espressione e riconoscimento, e il proprio megafono. Questo clan ha, anche se per ora non in modo uniforme e unificato, una propria strategia di “espansione”, per creare nuovi fan, per sviluppare e far crescere i propri adepti, di ingrossare le proprie fila.

Su Facebook oltre mille gruppi xenofobi. Dalla ricerca emerge inoltre che sono oltre un migliaio i gruppi razzisti e xenofobi che si trovano su Facebook. “Nel nostro studio sul razzismo e i giovani – ha spiegato il direttore di Swg, Enzo Risso, – abbiamo condotto un’indagine su Facebook, una sorta di censimento sui gruppi xenofobi, effettuato tra ottobre e novembre. Ne abbiamo contato un centinaio anti musulmani, 350 anti immigrati alcuni con punte di 7 mila iscritti, 400 anti terroni e napoletani e 300 anti zingari, anche qui con fino a 7mila iscritti”. Risso ha spiegato che questa parte dell’indagine “non può essere considerata un censimento vero e proprio perché quella di internet è una realtà che varia continuamente, ma ha un valore indicativo”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Spartacus 2010: a Rosarno la rivolta dei nuovi schiavi.

(fonte:repubblica.it)

ROSARNO (REGGIO CALABRIA) – Alta tensione stamane a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dopo i disordini di ieri quando gli immigrati hanno dato vita ad una guerriglia urbana dopo che due di loro sono stati feriti da sconosciuti con alcuni colpi di carabina ad aria compressa. Migliaia di extracomunitari si sono radunati per le strade e nella piazza del comune. Un abitante ha sparato in aria. Un gruppo di immigrati è venuto a contatto con un centinaio di abitanti. E’ di 34 feriti il bilancio dei disordini scoppiati ieri. Arrestati sette extracomunitari. La Cgil: nel 2007, in tutta la Calabria, a fronte dei 6.400 autorizzati, si stima vi siano stati circa 20 mila lavoratori stranieri stagionali impiegati nel settore agricolo.

Maroni: “Troppa tolleranza”
“In tutti questi anni è stata tollerata, senza fare nulla di efficace, una immigrazione clandestina che ha alimentato da una parte la criminalità e dall’altra ha generato situazioni di forte degrado, come quella di Rosarno”. Lo ha detto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ai microfoni de “La Telefonata”, su Canale 5, rispondendo a una domanda di Maurizio Belpietro sui disordini avvenuti ieri nella cittadina calabrese. “Stiamo intervenendo – ha sottolineato il ministro -, intanto ponendo fine all’immigrazione clandestina, agli sbarchi che hanno alimentato il degrado, e a poco a poco porteremo le situazioni alla normalità, questo è il nostro impegno”.

H.9.00. Situazione a Rosarno sempre più preoccupante
I negozi e le scuole sono rimasti chiusi. Per questa mattina è stata organizzata una manifestazione di protesta degli immigrati della Piana di Gioia Tauro (sono circa in 15mila gli immigrati presenti in questo territorio) che ieri sera hanno dato vita ad una guerriglia urbana dopo che due di loro sono stati feriti da sconosciuti con alcuni colpi di carabina ad aria compressa.

H.9.30. A Rosarno in corso concentramento
Al momento sarebbero circa duemila gli immigrati, secondo la polizia, radunati davanti al comune. Gli immigrati stanno scandendo slogan di protesta e hanno chiesto che una loro delegazione incontri il commissario prefettizio del Comune, Francesco Bagnato. La tensione è alta, danneggiate le vetrine di alcuni negozi e qualche cassonetto è stato rovesciato. Un gruppo di abitanti di Rosarno ha raggiunto la zona antistante il Municipio, c’è preoccupazione e malumore.

H.9.45. In arrivo gruppi di extracomunitari dall’hinterland
Non si conoscono ancora le intenzioni dei manifestanti, né quanti se ne stanno raccogliendo nelle strade di Rosarno. Da ieri hanno chiesto di parlare con il commissario prefettizio Domenico Bagnato (che regge il Comune) per esporre le loro problematiche. Fonti investigative fanno sapere che circa duecento immigrati hanno attuato due blocchi stradali, uno a nord e uno a sud dell’abitato di Rosarno, sulla statale 18, impedendo alle auto di transitare.

H.10.00. Panico in città
Gli immigrati stanno protestando, anche con spranghe, bastoni e oggetti contundenti. Molti sono ubriachi e stanno seminando il panico in città: una donna a bordo di una Grande Punto è stata aggredita e salvata grazie a polizia e carabinieri che in massa tentano di arginare le proteste.

H.10.45. Spari da un balcone
Un cittadino ha sparato due colpi di fucile in aria a scopo intimidatorio per disperdere un gruppo di immigrati che si era concentrato davanti la sua abitazione. L’uomo ha esploso i colpi dopo essere salito sulla terrazza della casa. Gli immigrati successivamente sono entrati nell’abitazione dove c’erano la moglie e i due figli dell’uomo, dove però si sono limitati ad urlare e protestare e si sono poi allontanati.

H.10.50. Scontri con gli abitanti
Un gruppo di immigrati è venuto a contatto con un centinaio di abitanti di Rosarno. La situazione al momento, anche se molto incandescente, è tenuta sotto controllo dalle forze di polizia.

H.10.55. Tensione fra gli abitanti e le forze dell’ordine
Momenti di tensione tra un gruppo di abitanti di Rosarno e le forze dell’ordine dopo che un giovane era stato fermato perché stava litigando con un immigrato che stava partecipando alla protesta davanti al Municipio. Gli animi si sono calmati dopo che il giovane, che era stato bloccato, di fronte alle proteste degli abitanti, è stato rilasciato. La situazione, comunque, resta assai tesa.

H.11.02. La diocesi: “La ‘ndrangheta sfrutta gli immigrati”
“Il problema degli immigrati va riallacciato a quello della ‘ndrangheta. C’è uno sfruttamento pilotato da parte della criminalità e questo a causa dell’assenza dello Stato, che deve tornare a intervenire”. Così Don Pino Demasi vicario generale della diocesi di Oppido-Palmi e referente di ‘Libera’in Calabria.

H.11.10. Terminata la protesta davanti al comune
E’ terminata la protesta degli immigrati davanti al comune di Rosarno, ora si stanno dirigendo verso il centro della città. Intanto una delegazione di immigrati ha incontrato il commissario prefettizio, Francesco Bagnato, a cui ha chiesto una maggiore vigilanza e l’arresto degli aggressori che ieri hanno scatenato la feroce protesta. Lo stesso commissario prefettizio ha assicurato un suo intervento e una maggiore vigilanza da parte delle forze dell’ordine della struttura che ospita gli immigrati.

H.11.15. Il commissario prefettizio incontra i cittadini
Una delegazione di cittadini di Rosarno sta incontrando il commissario prefettizio del comune per chiedere l’immediato allontanamento degli immigrati presenti nella cittadina della Piana di Gioia Tauro. La tensione tra gli abitanti di Rosarno continua a salire, mentre gli immigrati in corteo si stanno dirigendo, attraversando il centro del paese, verso le loro abituali dimore.

H.11.18. Il commissario prefettizio: “Proteggeremo gli immigrati”
“La situazione è grave, è pesante. Ho parlato con i migranti e ho detto loro che faremo tutto il possibile per proteggerli. Ma ho anche specificato che non devono confondere l’attacco da parte di singoli con l’atteggiamento di tutta la cittadinanza”. Lo ha detto ai microfoni di CNRmedia Domenico Bagnato, commissario prefettizio a Rosarno.

H.11.20. L’ex assessore: “Inaccettabile quello che sta accadendo”
“Quello che sta succedendo è intollerabile e la cittadinanza non lo accetta più”. Lo ha detto l’ex assessore alla Protezione civile del comune di Rosarno, Domenico Ventre, sciolto nel gennaio del 2008 per infiltrazioni mafiose. “Gli immigrati che vivono nel nostro comune – ha aggiunto Ventre – sono continuamente assistiti e aiutati e la loro reazione di fronte all’episodio isolato che è successo ieri è assolutamente sproporzionata. Non possiamo accettare che queste persone devastino il nostro paese suscitando una situazione di paura tra gli abitanti”.

H.11.27. Aggredita troupe del Tg2
Durante gli scontri a Rosarno è stata aggredita una troupe del Tg2 e il giornalista Francesco Vitale: un gruppo di immigrati alla vista della telecamera ha lanciato sassi contro il giornalista e il suo operatore. La troupe e lo stesso cronista hanno già ripreso il loro lavoro.

H.11.34. Monsignor Marchetto: “Si torni alla ragionevolezza”
“Un uomo di Chiesa non può fare altro che chiedere che termini la violenza e si torni alla ragionevolezza e, pur nel ritorno all’ordine, si cerchi di andare al fondo dei problemi e di capire le ragioni degli uni e degli altri. E’ necessario il dialogo, anche se questa può sembrare inflazionata, ma è l’unica strada per cercare la soluzione a problemi difficili in un contesto di crisi che tutti conosciamo”. E’ quanto ha detto monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per i Migranti e gli Itineranti.

H.11.38. Livia Turco (Pd): “Combattere criminalità che sfrutta immigrati”
“E’ necessario impedire la guerra tra immigrati sfruttati e cittadini onesti. Il ministro Maroni anziché ripetere il copione della propaganda faccia qualcosa per combattere la criminalità che sfrutta gli immigrati e continua a tenere in ostaggio parte del territorio calabrese”. Lo afferma Livia Turco, capogruppo del Pd nella commissione Affari sociali della Camera.

H.11.42. Cgil: in Calabria circa 20 mila lavoratori stranieri stagionali
Nel 2007, in tutta la Calabria, a fronte dei 6.400 autorizzati, si stima vi siano stati circa 20 mila lavoratori stranieri stagionali impiegati nel settore agricolo. Queste le ultime cifre sul fenomeno dell’immigrazione e della stagionalità nel settore primario nella regione, rese note dalla Cgil, che proprio a Rosarno ha svolto la prima conferenza regionale sui migranti nelle scorse settimane.

H.11.48. Il parroco: “Immigrati vivono in gironi danteschi”
“Bisogna tornare alla ragione e mettere da parte le esasperazioni da una parte e dall’altra”. Lo ha detto don Carmelo Ascone, conosciuto come don Memè, parroco da 25 anni di Rosarno, e profondo conoscitore della realtà del paese. “I luoghi in cui vivono gli immigrati – ha aggiunto don Memè – sono dei veri e propri gironi danteschi. Queste persone vivono in condizioni disumane e disperate”. Secondo don Memè “gli abitanti protestano giustamente, ma l’esasperazione e la rabbia non possono trasformarsi in intolleranza”.

H.11.50. Negli scontri ferite 34 persone
E’ di 34 feriti il bilancio dei disordini scoppiati ieri a Rosarno. Secondo i dati diffusi dalla Polizia di Stato, sono ricorsi alle cure dei medici degli ospedali della zona due cittadini extracomunitari, 14 cittadini italiani, dieci poliziotti e otto carabinieri. Gli uomini del Commissariato di Gioia Tauro hanno arrestato sette extracomunitari per violenza e resistenza a pubblico ufficiale, devastazione e danneggiamento.

H.11.54. L’Immigrato: “Contro di noi continue violenze”
“Abbiamo bisogno di protezione perché contro di noi ci sono continue violenze che sono frutto di razzismo”. Lo dice ai giornalisti Sidiki, un immigrato africano di 25 anni, che viene a Rosarno di frequente per lavorare nei campi. “Subiamo continuamente – ha aggiunto Sidiki – atti di intolleranza, ma noi siamo lavoratori onesti che vengono qui solo per guadagnarsi il pane e non diamo fastidio a nessuno. Piuttosto, sono intollerabili le condizioni in cui ci fanno vivere perché avremmo bisogno di più igiene e dignità”.

H.12.00. Scontri tra gli abitanti e le forze dell’ordine
Ci sono stati scontri tra un gruppo di abitanti di Rosarno e alcuni carabinieri e poliziotti. L’episodio si è verificato mentre gli immigrati facevano rientro nei centri di ricovero in cui sono ospitati. Alcune persone di Rosarno hanno tentato di raggiungere un gruppo di immigrati, ma sono stati bloccati dalle forze dell’ordine. La reazione degli abitanti è stata immediata con grida e insulti verso le forze dell’ordine. “Dovete picchiare loro – ha detto un giovane – e non noi, perché sono loro i veri criminali”.

H.12.08. Su Facebook gruppo ‘Gli africani salveranno Rosarno’
E’ da alcuni mesi attivo su Facebook un gruppo intitolato ‘Gli africani salveranno Rosarno’. Al momento vi aderiscono 1500 persone. Scopo del gruppo è quello di una sorta di osservatorio invernale sulla raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro, mantenere alta l’attenzione, contrastare ogni forma di razzismo, informare correttamente, sfatare i luoghi comuni sul fenomeno dell’immigrazione, promuovere percorsi di integrazione.

H.12.10. Investigatori: nessun coinvolgimento della criminalità organizzata
Allo stato attuale delle indagini non risulta un coinvolgimento della criminalità organizzata nel ferimento di alcuni extracomunitari con un fucile ad aria compressa, l’atto che ha scatenato la guerriglia urbana di Rosarno: è questa, finora, l’opinione concorde degli investigatori di carabinieri e polizia che si stanno occupando del caso.

H.12.11. Il commissario prefettizio invita gli immigrati alla calma
“Vi invito alla calma e vi assicuro che avrete adeguata protezione”. E’ quanto ha detto il commissario prefettizio del Comune di Rosarno, Francesco Bagnato, alla delegazione di immigrati che ha attuato stamattina la protesta davanti al Comune. “Vi garantiremo – ha aggiunto Bagnato – presidi di sorveglianza davanti ai centri di ricovero. Cercheremo, inoltre, di migliorare le condizioni igieniche in cui vivete, dandovi nuovi container per dormire e bagni chimici”.

H.12.20. Feriti al pronto soccorso
Cinque persone, fra ieri sera e stamattina, sono finite al pronto soccorso dell’ospedale di Polistena per ferite riportate durante gli scontri a Rosarno. Si tratta di due extracomunitari e tre persone di Rosarno e alcuni paesi vicini. L’ultimo, un uomo di Giffone, è arrivato questa mattina riferendo di essere stato aggredito. Nelle stesse condizioni anche un altro ragazzo del posto. Tra i feriti due extracomunitari, colpiti da pallini di carabina. Sempre ieri sera una donna ultraquarantenne di Rosarno è stata medicata al pronto soccorso per ferite lievi.

H.12.27. Msf: “Immigrati in condizioni degradanti”
Gli immigrati nella Piana di Gioia Tauro vivono in “condizioni degradanti; condizioni che hanno un serio impatto sulla loro salute”. Lo afferma Loris De Filippi, coordinatore dei progetti di Medici senza frontiere Italia. L’organizzazione lavora da tempo sul posto gestendo le attività di assistenza sanitaria attraverso una clinica mobile.

H.12.30. Bersani: “Maroni fa lo scaricabarile”
“Mi dispiace molto che il ministro dell’Interno non abbia perso l’occasione, anche questa volta, di fare lo scaricabarile sulla famosa immigrazione clandestina”. Pier Luigi Bersani, questa mattina a Reggio Calabria per portare la solidarietà al Procuratore generale della Corte d’Appello, rispondendo ai giornalisti sulla rivolta degli immigrati di Rosarno, sottolinea la gravità della situazione: “Prima bisogna fare in modo di riportare la calma, poi andare alla radice di una situazione fatta sicuramente di mafia, sfruttamento, xenofobia e razzismo”.

H.12.40. A Rosarno scene da guerriglia urbana
E’ un paesaggio in cui sono evidenti i segni della guerriglia urbana e dei danneggiamenti compiuti quello che si presenta lungo la strada che dal centro di Rosarno conduce al centro ricovero ospitato nell’ex Esac. Secondo quanto hanno riferito alcuni abitanti, gli immigrati stamattina, mentre si recavano nel centro del paese, si sono abbandonati ad atti di vandalismo danneggiando tutto ciò che trovavano lungo la loro strada. Ci sono alcune auto distrutte da incendi, cassonetti ribaltati, rifiuti bruciati sparsi lungo la strada. Alcune persone hanno riferito che un gruppo di immigrati ha lanciato pietre contro la loro abitazione provocando danni.

H.12.42. Cei: “Disagio degli immigrati dovuto allo sfruttamento”
“La violenza non va mai giustificata. Anche chi pensa di aver ragione e poi utilizza la violenza sbaglia in quanto la violenza non è mai uno strumento per dimostrare le proprie ragioni. Attraverso la violenza si fa torto alle proprie ragioni”, e tuttavia “il disagio degli immigrati è dovuto alle situazioni di sfruttamento cui vengono costretti a causa del quale fanno una vita invivibile”. E’ quanto afferma al Sir, l’agenzia stampa della Cei, don Ennio Stamile, direttore regionale della Caritas Calabria.

H.12.52. Task force del ministero dell’Interno
Dopo i fatti di Rosarno è stata costituita una task force del ministero dell’Interno, di quello del Welfare e della Regione Calabria. E’ stato deciso al termine di una riunione convocata al Viminale dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

H.13.03. Le proposte dei funzionari di polizia
”Individuazione degli xenofobi; espulsione dei rivoltosi e tutti i clandestini; premio a chi denuncia lo sfruttamento del lavoro irregolare; perseguire gli imprenditori disonesti; e sostenere gli enti locali che mettono in atto interventi di inclusione sociale”. E’ quanto propone il segretario nazionale dell’Associazione funzionari di polizia, Enzo Letizia.

H13.08. Loiero: “Risposta degli immigrati inaccettabile”
“La provocazione c’è stata ma la risposta degli immigrati è inaccettabile”. Lo ha detto il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero. “E’ il frutto – spiega Loiero – di un clima di intolleranza xenofoba e mafiosa che non riguarda ovviamente la popolazione di Rosarno, giustamente allarmata per la situazione di tensione che si è determinata con la rivolta degli extracomunitari sfruttati, derisi, insultati e ora, due di loro, feriti con un’arma ad aria compressa”.

H.13.10. Occupata dai cittadini la sede del comune
Un centinaio di cittadini di Rosarno hanno occupato la sede del comune e chiedono al commissario prefettizio Francesco Bagnato lo sgombero degli extracomunitari dalla città.

H.13.11. Blocco stradale dei cittadini
Un gruppo di abitanti di Rosarno sta attuando un blocco stradale lungo il tratto della Statale 18 che attraversa il centro abitato. “Basta con gli immigrati – ha detto uno dei manifestanti – perché siamo stanchi di questa situazione. Devono andarsene via”.

H.13.12. Cri in preallarme
La Croce Rossa Italiana è in stato di preallarme per i fatti di Rosarno. Un delegato dell’ organizzazione di volontariato è ora presente in Prefettura nella città dove da ieri sono in corso proteste dei migranti. La Cri ha dato la propria disponibilità per intervenire, se necessario, con strutture e personale per assistere i migranti e la popolazione locale.

H.13.13. FareFuturo: “In italia c’è la schiavitù”
“Bando ai buonismi e alle cose non dette: in Italia esiste la schiavitù. E più precisamente a Rosarno, cittadina di quindicimila abitanti nella piana di Gioia Tauro” dove cinquemila extracomunitari raccolgono agrumi e pomodori, svolgendo un “lavoro massacrante che gli italiani non vogliono più fare. Poco male, se non fosse che le condizioni di lavoro e di vita di questa gente sono ben al di là del limite accettabile in un paese civile”. Lo si legge su ‘Ffwebmagazine’, il periodico on line della Fondazione FareFuturo presieduta da Gianfranco Fini.

H. 13.14. La Russa: “Troppa tolleranza”
“Troppa tolleranza verso i clandestini” – ha detto il ministro della Difesa, Ignazio La Russa – lo Stato ha il dovere di fare rispettare le leggi, di fare rispettare le regole. Non può esserci tolleranza, specie per chi usa la violenza in maniera così evidente, per il solo fatto che è un immigrato. Anzi – ha aggiunto – credo che il degrado sia proprio derivato dalla troppa tolleranza nei confronti dell’immigrazione clandestina di questi ultimi anni”.

H.13.15. Fermato il cittadino che ha sparato dal balcone
E’ stato identificato e si trova negli uffici del comando dei Carabinieri il cittadino che questa mattina ha sparato in aria a Rosarno mentre era in corso la protesta degli immigrati. Gli investigatori stanno facendo accertamenti sull’uomo e verificando se aveva l’autorizzazione per la detenzione dell’arma e se abbia dei precedenti penali. Intanto, a Rosarno, la situazione al momento sembra tranquilla.

H.13.16. Fondazione Migrantes: “Segnale preoccupante”
Le violenze a Rosarno rappresentano “il secondo segnale preoccupante di un territorio che reagisce al mondo dello sfruttamento, dopo qello sul Litorale Domizio in Campania”. Lo sottolinea il direttore della Fondazione Migrantes, don Giancarlo Perego, per il quale “ancora una volta è emersa una forte carenza della presenza della realtà sociale a tutela dei diritti dei lavoratori”.

H.13.44. L’Unhcr: “Impedire la caccia all’immigrato”
L’Unhcr – L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – lancia l’allarme: “è assolutamente necessario impedire la caccia all’immigrato”. Lo ha detto la portavoce Laura Boldrini che, insieme a Paolo Artini, responsabile della protezione internazionale, si sta recando a Rosarno. “Siamo molto preoccupati per la situazione a Rosarno – ha aggiunto – e per la tensione che ancora oggi si avverte in città”.

H.13.54. Contromanifestazione: “Gli immigrati devono andarsene”
A palazzo del Municipio a breve si terrà una contromanifestazione, questa volta organizzata dai cittadini rosarnesi. Ad incitare la popolazione alla mobilitazione, è un giornalista pubblicista, Marcello Marzialetti, che si presenta come corrispondente di un quotidiano locale e ai cronisti dice: “Gli immigrati devono andarsene da Rosarno”. L’uomo sta percorrendo le vie del centro con un’auto dotata di megafoni invitando tutti i cittadini a concentrarsi nella piazza del Municipio.

H.14.03. Il commissario prefettizio: “Ferimento immigrati non è razzismo”
“Il ferimento accaduto ieri di due immigrati non è riconducibile a razzismo”. Lo ha detto il commissario prefettizio del Comune di Rosarno, Domenico Bagnato. “Si è trattato in realtà – ha aggiunto – di un atto provocatorio e delinquenziale da parte di alcune persone”.

H.14.20. Aggredita troupe della Vita in diretta
Una troupe della Vita in diretta, il programma di Raiuno condotto da Lamberto Sposini, è stata aggredita questa mattina a Rosarno. Lo rende noto la redazione. Il giornalista Giacinto Pinto stava seguendo gli scontri tra extracomunitari e giovani del paese in una delle strade centrali di Rosarno – spiega la redazione della Vita in diretta – quando è stato avvicinato da un gruppo di giovani locali che hanno iniziato a inveire e hanno afferrato gettato in terra la telecamera. Gli aggressori gridavano di non “filmare loro, ma gli extracomunitari che sono la causa di tutto”. Un giovane ha spinto a terra l’operatore, Antonio Umbrello, e lo ha aggredito. Alcuni cittadini sono intervenuti e hanno aiutato i due a mettersi in salvo.

H.14.25. I gesuiti: “Affrontare il problema degli stagionali”
“La speranza è che questa volta si vada oltre l’increscioso episodio e le istituzioni affrontino il complesso problema dei lavoratori stagionali nel sud dell’Italia: immigrati che vivono in condizioni estreme, sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli e senza rispetto dei loro diritti”. Padre Giovanni La Manna, responsabile del Centro Astalli, l’organismo dei gesuiti che promuove l’accoglienza dei rifugiati.

H.14.29. Il commissario prefettizio: “Strane concomitanze”
“Appare strano che due immigrati siano stati feriti ieri in concomitanza con la riunione a Reggio Calabria del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica”. A dirlo è stato il commissario prefettizio del Comune di Rosarno, Domenico Bagnato. In ambienti investigativi non si esclude che si sia voluto spostare l’attenzione mediatica dalla riunione del Comitato a Reggio a Rosarno, con gli incidenti che hanno fatto seguito al ferimento dei due immigrati.

H.14.37. I cittadini continuano a bloccare la Statale 18
Non c’è stato il preannunciato incontro tra il commissario prefettizio del Comune di Rosarno, Domenico Bagnato, e la delegazione degli abitanti che stanno attuando il blocco stradale lungo la Statale 18. Secondo quanto ha riferito lo stesso commissario, la delegazione ha rinunciato decidendo di mantenere, almeno per il momento, il blocco stradale.

H.14.53. Una trentina di persone al pronto soccorso
Circa una trentina di persone sono finite al pronto soccorso dell’ospedale di Gioia Tauro in seguito agli scontri di ieri sera a Rosarno. La maggior parte dei feriti sono poliziotti e carabinieri. Fra i pazienti ci sono anche 3 o 4 extracomunitari e, in particolare, l’immigrato ferito con un’arma da fuoco per il quale sembra sia scaturita la protesta. Si tratta di un uomo di 36 anni: è arrivato sanguinante in pronto soccorso alle 15.20 di ieri ed è stato trasportato nel reparto di chirurgia dove è tuttora ricoverato.

H.15.00. Prefetto riunisce il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza
E’ iniziata da alcuni minuti a Rosarno la riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica convocata dal prefetto, Luigi Varratta, per esaminare la situazione nel paese a causa delle proteste degli abitanti dopo gli atti di vandalismo compiuti dagli immigrati.

H.15.09. Manifestanti impediscono al commissario di parlare
Resta alta la tensione davanti alla sede del municipio di Rosarno dove oltre un centinaio di cittadini stazionano da stamani dopo gli incidenti provocati da un gruppo di extracomunitari. Il commissario prefettizio, Domenico Bagnato, ha tentato di parlare davanti al municipio con i manifestanti, spiegando loro che da qui a breve si terrà una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza. I presenti, però, hanno coperto con le loro urla la voce del prefetto che, quindi, dopo poche battute, ha rinunciato a tenere il suo discorso.

H.15.12. Il prefetto giunto a Rosarno
Il prefetto di Reggio Calabria, Luigi Varratta, è giunto a Rosarno dove presiederà la riunione del Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico. “Bisogna dare risposte e conferme – ha detto il prefetto – ma soprattutto sicurezza agli abitanti di Rosarno che hanno tutto il diritto di vivere una vita e dignitosa e tranquilla, ma dall’altro lato dobbiamo dare assistenza e assicurazione anche agli extracomunitari regolari. Per quelli clandestini prenderemo altri provvedimenti”.

H.15.16. Bilancio degli scontri
Sono quattro in tutto i feriti dopo gli scontri avvenuti tra le forze dell’ordine e i manifestanti dopo la rivolta degli extracomunitari di questa mattina a Rosarno. Tutti i feriti sono stati medicati e poi dimessi.

H.15.18 Commissario: nella zona ci sono 1.500 extracomunitari
Complessivamente sono 1.500 Gli extracomunitari sparsi sul territorio di Rosarno, Rizziconi e Gioia Tauro. Lo ha riferito il commissario prefettizio, Domenico Bagnato.

H. 15.53 Loiero: “Lo Stato non si è fatto carico della Calabria
“E’ lo Stato che si fa carico dei richiedenti asilo, di quelli che entrano clandestinamente in Italia. Lo Stato non si è fatto carico della Calabria”. Lo ha detto a Sky Tg24 il presidente della regione Calabria, Agazio Loiero. “Con il ministero degli Interni si era stabilito che avrebbero mandato dei fondi per questo problema di Rosarno, di cui poi non si fece più nulla”. “Ho sempre difeso gli immigrati – ha aggiunto – ma creare lo scontro è sbagliato”.

H. 15.54 Irregolari in nero: in Calabria sono 8 mila
Gli immigrati regolari in Calabria sono circa 45 mila, ma si stima che altri 8 mila vivano e lavorino nella regione in modo clandestino. Lo ha reso noto Benedetto Di Iacovo, presidente della Commissione regionale della Calabria per l’emersione del lavoro non regolare. Di Iacovo, anticipando i dati del sesto rapporto sull’economia sommersa in Calabria, sottolinea che il 53% dei lavoratori irregolari nella regione (170 mila nel complesso) opera nel settore agricolo. Di questi, il 40% circa riguarda gli immigrati, sia regolari che clandestini.

H. 16.02 Mantovano: “In tutta la Calabria, la priorità è la lotta alla ‘ndrangheta
“Come avvenne un anno fa a Caserta per la camorra, oggi a Rosarno e in tutta la Calabria, la priorità è la lotta alla ‘ndrangheta, non la caccia all’immigrato”. Il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, ha commentato così ai microfoni di Sky Tg24 la rivolta degli extracomunitari nella cittadina calabrese. “E’ una questione complicata – ha spiegato – perché si intrecciano questioni che riguardano l’ordine pubblico, lo sfruttamento in nero di lavoratori extracomunitari e, più in generale, la vivibilità di una delle zone più difficile del nostro Paese”.

H.16.05 Carfagna: “Denunciare lo sfruttamento per evitare che si creino dei ghetti”
“Per evitare che si creino ghetti è fondamentale riportare la legalità, quindi che tutti denuncino chi sfrutta il lavoro dei clandestini”. Così il ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, ha commentato i gravi fatti di Rosarno. “Siamo dalla parte di coloro che fanno fino in fondo il loro dovere di cittadini, denunciando lo sfruttamento della manodopera straniera”, ha aggiunto il ministro.

H. 16.20 Bilancio dei fermi: 6 persone arrestate e tre denunciati
Il bilancio degli scontri è di otto arresti, di cui sette cittadini extracomunitari accusati di devastazione, rissa e violenza a pubblico ufficiale. L’unico italiano arrestato è un 37enne del luogo che questa mattina, mentre con il proprio escavatore stava spostando i cassonetti dal centro della strada, alla vista di un gruppo di extracomunitari ha tentato di investirli, ferendone uno. L’accusa per lui è di tentato omicidio.

H.16.52 Il prefetto: “Tra i feriti 14 immigrati e 18 agenti delle forze di polizia”
Sono 14 gli immigrati feriti negli incidenti accaduti a Rosarno tra ieri sera e stamattina. Lo ha reso noto il prefetto di Reggio Calabria, Luigi Varratta. Il Prefetto ha anche reso noto che, a causa degli incidenti, ci sono stati 18 feriti tra le forze di polizia impegnate nei servizi di ordine pubblico.

H. 17.07 Appello del prefetto al “buon senso” dei cittadini di Rosarno
Il prefetto Luigi Varratta ha rivolto un appello ai cittadini di Rosarno affinché in queste ore prevalga il buon senso. “Mi affido al buon senso dei cittadini di Rosarno”, ha detto il prefetto durante l’incontro con i giornalisti e le associazioni del luogo. Il prefetto ha chiesto ai cittadini di “avere pazienza e tolleranza, pur rispettando e comprendendo il loro disagio e la loro rabbia”. Varratta ha poi aggiunto: “Prenderemo sicuramente delle decisioni, ma queste devono essere prese con calma e soprattutto saggezza per evitare ulteriori tensioni in un territorio che combatte contro questo fenomeno ormai da anni”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

Per respingere i respingimenti.

“Si avvisa che quest’anno Gesù Bambino resterà senza regali: i Magi non arriveranno perché sono stati respinti alla frontiera insieme agli altri immigrati”. C’è scritto questo su un cartello posto all’interno del presepe della Cattedrale di Agrigento alla vigilia dell’Epifania. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Popoli e politiche

Quando erano gli emigrati italiani a crepare e a essere buttati a mare.

Quando i migranti eravamo noi: “I nostri morti gettati nell’oceano”di GIULIA VOLA-Repubblica.

Loro muoiono nel Mediterraneo. Quando gli emigrati eravamo noi, morivamo nell’Atlantico. “Buttarono nell’Oceano donne, un bambino e molti vecchi, in tutto quasi venti persone. Così raccontava mio padre”. Maria Dominga Ferrero vive in provincia di Cordoba, in Argentina, nella casa che suo padre comprò quando, nel 1888, arrivò alla “Merica” a bordo del ‘Matteo Bruzzo’. Una casa con i muri bianchi, la cucina grande, le stanze ariose e l’orto nel retro. “In barca gli dicevano ‘coma esto, gringo de mierda’, mangia questo. Era pane e vermi. Vide morire di fame una donna incinta. Ma cosa poteva fare?”.

Maria parla un po’ in piemontese e un po’ in castigliano, mentre gira la minestra di verdure che bolle sul fuoco. “La solfa era la stessa. La differenza era che se sopportavi il male potevi fare suerte, fortuna. Non come capita agli immigrati che oggi vanno in Italia. A l’è vera? Non è vero?”. La domanda rimane sospesa, Maria apre i cassetti, cerca ricordi. “Mio padre – dice – all’inizio vendeva la verdura che coltivava ma nessuno capiva la sua lingua. Così vendeva tutto a 5 centesimi”.

Loro, i sopravvissuti di oggi, vengono rinchiusi nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. Noi finivamo negli Alberghi degli immigrati gestiti dallo Stato o nei Conventilli in mano ai privati. Felicia Cardano è molto anziana, ma ricorda bene i racconti di famiglia: “Mio padre arrivò a Buenos Aires nel 1889 a bordo del ‘Frisca’. Durante il viaggio morirono il suo migliore amico e altre trenta persone. Lo misero all’Hotel della Rotonda, un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza. Si poteva rimanere al massimo cinque giorni, il tempo di trovare un lavoro in città o nei campi, dove era più facile”.

Scenari confermati da Luigi Barzini che così scriveva sul Corriere della Sera nel 1902: “L’Hotel degli emigranti (lo chiamano Hotel!) ha una forma strana, sembra un gasometro munito di finestre (…). L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d’umanità accatastata, di miseria (…). Più in alto, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi d’amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero guarda indietro!”.

Gli stessi graffiti ricoprono adesso le pareti dei Cie, memoria recente del transito dei migranti di oggi, stranieri di tutto il mondo, che lavorano nei cantieri, nei campi, nelle cucine dei ristoranti, nelle case, invadono i quartieri, contaminando le loro e le nostre abitudini. Noi, i “gringos” di allora, invadevamo “le passeggiate perché sono gratuite, le chiese perché credenti devoti e mansueti, gli ospedali, i teatri, gli asili, i circoli e i mercati”: così scriveva infastidito all’inizio del secolo il sociologo argentino Ramos Mejía.

Numeri alla mano, dal 1886 al 1889 gli emigrati partiti da Genova e sbarcati a Buenos Aires raddoppiarono da 43mila a 88mila. Nel 1897 nel porto argentino erano già sbarcati un milione di italiani. Nel 1895, su 660mila abitanti di Buenos Aires, 225mila erano dei nostri. In provincia di Cordoba i 4.600 del 1869 diventarono 240mila nel 1914. Muratori, fabbri, falegnami, calzolai, sarti, fornaciai, meccanici, vetrai, imbianchini, cuochi, domestici, gelatai e parrucchieri: non avevamo concorrenza.

“Si lavorava da matin a seira e la domenica si andava a messa ben vestiti – raccontano le sorelle Fusero, nipoti di Bartolomeo arrivato a Buenos Aires il 22 novembre 1905, a 22 anni – . I bambini mangiavano il gelato, le donne bevevano la limonata e gli uomini il vermouth. Si cantava Quel mazzolin di fiori, La Piemontesina e Ciao bela mora ciao, si giocava a bocce e si chiacchierava. La sera si mangiava la bagna càuda e prima di andare a dormire si pregava: il parroco dovette imparare il piemontese perché le donne, non riuscivano a confessarsi. Nduma bin! Eravamo messi bene! Siamo nati tutti nella stessa camera, all’ombra di un magnolia nata da un seme portato dall’Italia”.

Centoventi anni dopo, i nuovi migranti inseguono in Europa il posto migliore dove vivere. Poi chiamano a raccolta il coniuge, i figli, il fratello, l’amico. Nel frattempo mandano i soldi a casa. “Noi, poveri e affamati di allora, andavamo a fare l’America – racconta la nipote di Giuseppe Caffaratti, torinese arrivato in Argentina nel 1890 a 15 anni – perché peggio di com’era in Italia non si poteva: era uno sgiai, uno schifo”. “Emigravamo per mangè”, racconta Reinaldo Avila, nipote di Giuseppe partito da Caraglio, in provincia di Cuneo, nel 1883. “Mio nonno era un contadino ignorante, si è spaccato la schiena nei campi. Oggi qui tocca ai boliviani e in Italia agli africani. È la vita”.

Loro, i profughi di oggi, scappano dalle guerre moderne, dalla miseria dell’Africa, dell’Asia e dell’Est europeo. Noi, vittime di allora, fuggivamo dalla Grande Guerra. Racconta Margherita Lombardi, nipote di Clelia scappata da Alessandria: “Mia zia perse un figlio in battaglia nel 1916 e un altro nel viaggio sull’Oceano. Si salvò solo lei”. Si fuggiva dalle cartoline precetto, il terrore delle madri: “Meglio un figlio lontano ma vivo che vicino ma sotto terra, disse mia nonna a mio padre Fernando – racconta Gladis Fiacchini – . Siamo cugini di Renato Zero, ma abbiamo perso i contatti: mio padre non volle mai più ritornare indietro”.

Altri fuggivano dopo aver visto la morte in faccia. “Ci imbarcammo sulla ‘Filippa’ senza documenti e senza un soldo il giorno dopo che Miguel tornò dal campo di concentramento in Germania”, ricorda Letizia Garessio. Suo marito, Miguel Bautista Pistone, argentino nato da italiani emigrati in America a metà ‘800, era tornato in Italia dopo aver fatto fortuna e durante la guerra era finito in un campo di concentramento: “Miguel era pelle e ossa – dice Letizia – , che cosa potevano fargli? Chi gli avrebbe impedito di salvarsi?”. Gli dico che ora l’Italia respinge i profughi che vengono dal mare: “Meno male che siamo nati un secolo fa e che siamo scappati qui – commenta – . Miguel tornò in Italia solo una volta per vendere tutto e comprare una casa qui”.

“Mio padre scappò da Fossano e dalla guerra che gli aveva ucciso un fratello – racconta Antonio Caballero – , aveva 17 anni e fin dal primo giorno cominciò a dimenticare l’Italia. Non ho mai parlato con i miei parenti rimasti a casa. Non ho mai imparato l’italiano perché nessuno me l’ha mai insegnato. Nessuno di noi ha fatto fortuna, semplicemente siamo sopravvissuti”.

I migranti di oggi arrivano in Italia con il sogno di guadagnare per poter tornare in patria. Ma anche loro spesso finiscono per mettere radici. Come il nonno di Teresa Burdone, piemontese emigrato in Argentina alla fine dell’Ottocento: “Quasi tutti noi – dice Teresa – , figli o nipoti di italiani, abbiamo la doppia cittadinanza e un’altra vita da vivere, ma il cognome ci ricorda che siamo stranieri da sempre”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Leggi e diritto Popoli e politiche

Cosa succede quando lasciamo fare al Governo orribili leggi, come quella sull’immigrazione.

Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all’Italia di EZIO MAURO-la Repubblica.

Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell’ospedale “Cervello”. Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d’agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all’altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d’istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po’ di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d’acqua. La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l’unica donna sopravvissuta – con altri quattro giovani uomini – sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.

Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d’immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna – una vergogna della democrazia – darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l’asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire quell’Italia che cercavano, e incominciare a vivere.

Un’Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un’amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con “L’Aurora”. In più, a casa la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell’Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando la bocciano a scuola, l’undicesimo anno, e scatta l’arruolamento obbligatorio nell’esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?

Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d’acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l’Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio finale.

Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov’è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d’acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l’indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transfer, da qualche parte sicura.

Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo da parte il pane e nemmeno l’acqua dalle porzioni razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c’è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci, dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non riescono a trovare spazio, c’è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l’ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c’è l’Italia, Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero. Nient’altro.

“Adei”, madre, sto andando, pensa senza dormire. “Amlak”, dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c’è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d’uomini, ma non c’è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l’elica. Le donne si coprono la testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l’acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.

La notte fa più paura. Non c’è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.

All’inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l’ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: “Giù, giù, vai in mare, vai”. Ma il settimo giorno i problemi cambiano.

Muore Haddish, che ha vent’anni, ed è il prino. Continua a vomitare da ventiquattr’ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. “Mai”, acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete “mai” nella testa, c’è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. “E’ arrivato – dice all’alba Ghenè – noi siamo in viaggio e lui è arrivato”. I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia sottovoce.

Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: “Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera”. Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. “Meut”, la morte, comincia a dominare tutti i pensieri, riempie “semai”, il cielo, verrà dal mare, “bahari”. Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà.

Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l’acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l’ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l’idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.

Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c’è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l’unica protezione dal freddo, l’unico cuscino, la coperta, l’unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l’ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c’è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po’ nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.

L’acqua è un’ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t’importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l’incubo e comincia la realtà. Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d’uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi.

Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all’amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all’Italia, non sa dov’è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev’essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l’energia o la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott’acqua e sparire, ma vuoi che sia finita. Persa l’Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte, “Adei, Amlak, semai, bahari, meut”. Rivede suo padre accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all’improvviso, che c’è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione.

Dentro c’è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l’acqua l’anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti al sole. E’ un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve seguire.

Un giorno e una notte. Poi l’ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c’è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov’è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu.

Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d’acqua. Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l’altro naufrago ricoverato al “Cervello”, Hadengai, in camera non c’è, l’hanno chiamato per una radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra gonfie, con l’altra mano, dove c’è un anello giallo alto e sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all’Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l’ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po’ di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell’Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po’ più in là.

I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un’idea di che cosa sia davvero l’Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra l’ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c’è scritto “la vita è un bene prezioso”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Finanza - Economia Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

La strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa: le legge contro i clandestini sono un’arma di distruzione di massa, nella guerra tra poveri in Italia e contro i poveri del mondo.

Quei morti che gridano dal fondo del mare di EUGENIO SCALFARI
È SINGOLARE (non trovo altro aggettivo) il comportamento della stampa nazionale sulla strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa.
Il primo giorno, con notizie ancora incerte, tutti hanno aperto su quell’avvenimento: il numero delle vittime, la storia raccontata dai cinque sopravvissuti, i dubbi del ministro Maroni sulla loro attendibilità, le responsabilità della Marina maltese, i primi commenti ispirati al “chissenefrega” di Bossi e di Calderoli.

Ma dal secondo giorno in poi i nostri giornali hanno voltato la testa dall’altra parte. Le notizie nel frattempo sopraggiunte sono state date nelle pagine interne. Uno solo, il “Corriere della Sera”, ha tenuto ancora quella strage in testata di prima pagina ma senza alcun commento. Il notiziario all’interno tende a riposizionare i fatti entro lo schema della responsabilità maltese. Il resto è silenzio o quasi. Fa eccezione “Repubblica” ma il nostro, com’è noto, è un giornale sovversivo e deviazionista e quindi non può far testo.

Comincio da qui e non sembri una stravaganza. Comincio da qui perché la timidezza, la prudenza, il dire e non dire dei grandi giornali nazionali sono lo specchio d’una profonda indifferenza dello spirito pubblico, ormai ripiegato sul tirare a campare del giorno per giorno, senza memoria del passato né prospettiva di futuro, rintronato da televisioni che sfornano a getto continuo trasmissioni insensate e da giornali che debbono ogni giorno farsi perdonare peccati di coraggio talmente veniali che qualunque confessore li manderebbe assolti senza neppure imporre un “Pater noster” come penalità minimale.

Perfino il durissimo attacco della Chiesa e della stampa diocesana, che su altri temi avrebbe avuto ampia risonanza, è stato registrato per dovere d’ufficio. Bossi, che ha orecchie attentissime a queste questioni, si è addirittura permesso di mandare il Vaticano a quel paese, definendo insensate le parole dei vescovi sulla strage del mare e invitando il papa a prendere gli immigrati in casa sua perché “noi qui non li vogliamo”.
Alla vergogna c’è un limite. Noi l’abbiamo varcato da un pezzo nella generale apatia e afasia.

* * *

Ci sono varie responsabilità in quanto è accaduto nel barcone dei 78 eritrei, per venti giorni alla deriva in uno specchio di mare popolatissimo di motovedette, aerei, elicotteri, pescherecci delle più diverse nazionalità, italiani, maltesi, ciprioti, egiziani, tunisini e libici. Responsabilità specifiche e responsabilità più generali.

La prima responsabilità specifica riguarda il mancato avvistamento da parte della nostra Marina e della nostra Aviazione. Venti giorni, un barcone di quindici metri con 78 persone a bordo, sballottato dai venti tra Malta e Lampedusa, un braccio di mare poco più ampio di quello percorso da una normale regata di vela.
I ministri Maroni e La Russa dovrebbero fornire al Parlamento e alla pubblica opinione l’elenco dei voli e dei pattugliamenti da noi effettuati in quello spazio e in quei giorni. Il ministro dell’Interno finora si è limitato a chiedere un rapporto sull’accaduto al prefetto di Agrigento.

Che c’entra il prefetto di Agrigento? Il responsabile politico dei respingimenti in mare è il ministro dell’Interno che si vale della guardia costiera, delle capitanerie di porto e delle forze armate messe a disposizione dalla Difesa. Maroni e La Russa debbono rispondere, non il prefetto di Agrigento.

La seconda responsabilità specifica riguarda il pattugliamento italo-libico sulle coste della Libia. Sbandierato ai quattro venti come un grande successo diplomatico, viaggi del premier in Libia, abbracci e baci sulle guance tra Berlusconi e Gheddafi, promesse di denaro sonante e investimenti al dittatore-colonnello, viaggio del medesimo con relativa tenda a Villa Pamphili, scortesie a ripetizione, sempre del medesimo, nei confronti di quasi tutte le autorità istituzionali italiane; secondo viaggio del colonnello e seconda tenda al G8 dell’Aquila, dichiarazioni del ministro degli Esteri, Frattini, per sottolineare l’importanza dell’asse politico Roma-Tripoli.

Risultati zero. Riforma dei centri di accoglienza libici sotto controllo italiano, zero. Quei centri sono un inferno dove i migranti provenienti dall’Africa sahariana e dal Corno d’Africa sono ridotti per mesi in schiavitù e sottoposti alle più infami vessazioni fino a quando alcuni di loro vengono affidati ai mercanti del trasporto e imbarcati per il loro destino. Le vittime in fondo a quel tratto di Mediterraneo non si contano più.

In quei centri, tra l’altro, le autorità italiane dovrebbero individuare quegli immigranti che hanno titolo per essere trattati come rifugiati politici. Queste verifiche non sono avvenute. I migranti eritrei in particolare dovrebbero poter godere di uno “status” particolare come ex colonia italiana, ma nessuno se ne è occupato (e meno che mai, ovviamente, il prefetto di Agrigento).

In compenso le motovedette italiane dal primo giugno ad oggi hanno intercettato un elevato numero di barconi e li hanno respinti nel girone infernale dei centri di accoglienza libici, il che significa che le partenze dalla coste cirenaiche continuano ad avvenire in barba a tutti gli accordi.
Questo stato di cose è intollerabile. Frutto di una legge perversa e d’un reato di clandestinità che ha addirittura ispirato un gioco di società inventato dal figlio di Bossi e brevettato con il titolo “Rimbalza il clandestino”.
Mancano le parole per definire queste infamità.

* * *

Ma esistono altresì responsabilità generali, al di là del caso specifico. Le ha elencate con estrema chiarezza il proprietario di un peschereccio di Mazara del Vallo da noi intervistato ieri.
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l’autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall’intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell’Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare. La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabrodo.

* * *

Alcuni si domandano i motivi del silenzio di Berlusconi su questo delicatissimo tema. La ragione è chiara e l’ha fornita l’onorevole Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl insieme a La Russa e Bondi e quello che meglio di tutti conosce la natura del capo del governo essendo stato con lui e con Dell’Utri uno dei tre fondatori di Forza Italia nell’ormai lontano 1994.

Di che cosa vi stupite, ha scritto Verdini in una sua lettera al “Corriere della Sera” di pochi giorni fa ribattendo alcune domande di Sergio Romano nel suo fondo domenicale. Di che cosa vi stupite? Silvio Berlusconi, con almeno una parte di sé, è un leghista né più né meno di Bossi e quando nel ’93 decise di impegnarsi in politica pensò, prima di decidersi a fondare un nuovo partito, di guidare con Bossi la Lega. Poi scelse di fondare un partito nazionale del quale il nordismo leghista sarebbe stato il pilastro più rilevante.

Così Verdini, il quale in quella lettera rivendica il merito d’aver convinto il premier all’opportunità di dar vita a Forza Italia.
Non si poteva dir meglio. C’è da aggiungere che il peso della Lega è ultimamente aumentato in proporzione diretta alla minor forza politica del premier. La Lega ha oggi una forza di ricatto politico che prima non aveva e la sta esercitando in tutte le direzioni non senza alcuni contraccolpi sulle strutture e sulle alleanze all’interno del Pdl.

Uno dei temi di dibattito di queste ultime settimane è stato il collante che spiega nonostante tutto la persistenza del potere berlusconiano e la sua eventuale capacità di sopravvivere ad un possibile ritiro di Berlusconi dalla gestione diretta di quel potere. Tra le varie spiegazioni è mancata quella a mio avviso decisiva. Il collante del berlusconismo consiste nell’appello continuamente ripetuto e aggiornato agli istinti più scadenti che rappresentano una delle costanti della nostra storia di nazione senza Stato e di Stato senza nazione.

Una classe dirigente dovrebbe rappresentare ed evocare gli istinti più nobili di un popolo, educandolo con l’esempio, spronandolo ad una visione alta del bene comune. Un compito difficile che alcune figure della nostra storia esercitarono con passione, tenacia e abilità politica.
È più facile evocare gli “spiriti animali” e questo è avvenuto frequentemente nelle vicende del nostro paese a cominciare dal “O Franza o Spagna purché se magna” e alle sue più recenti e non meno abiette manifestazioni.

Giorni fa, rispondendo nel suo giornale alla lettera di un giovane leghista a disagio ma privo di alternative alla sua visione nordista, Galli Della Loggia spiegava al suo interlocutore quale fosse l’errore in cui era incappato: una falsa prospettiva storica, un falso revisionismo che ha messo in circolazione una falsa e deteriore immagine del nostro Risorgimento.
Ho riletto un paio di volte l’articolo di Della Loggia perché non credevo ai miei occhi. Il revisionismo da lui lamentato come deformazione della nostra storia unitaria è nato negli ultimi quindici anni proprio sulle pagine del suo giornale e lo stesso Della Loggia ne è stato uno dei più autorevoli esponenti.

Meglio tardi che mai. Purtroppo di vitelli grassi da sacrificare per il ritorno del figliol prodigo oggi c’è grande scarsità. Il solo vitello grasso in circolazione è lo scudo fiscale preparato da Tremonti, che però non riguarda la questione dell’Unità d’Italia e del revisionismo politico. Festeggia soltanto gli evasori fiscali. Anche questa è una (pessima) costante nella storia di questo paese. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Popoli e politiche

Roma capitale del razzismo. Complimenti al Sindaco.

di Beatrice Picchi-ilmessaggero.it
ROMA (24 maggio) – La signora coi capelli bianchi e due nipoti che giocano a calcio sulla terra di Villa Gordiani ha già trovato i colpevoli dell’aggressione dell’altra notte: «Dei cretini. E pure razzisti, chissà se a casa qualcuno gli ha mai spiegato che il futuro sarà vivere tutti insieme, e tutti di tante culture». L’odore di cipolla e zenzero si mescola a quello di pizza e di pane cotti al forno. C’è fila davanti a una gelateria a pochi metri del parco: un cono al limone sulla panchina di un sabato pomeriggio che sembra già estate, la città un po’ più silenziosa. La voce del bengalese Bachu arriva tra i palazzi di Roma, ma quasi nessuno sa del raid razzista avvenuto sotto le loro case al grido: «Andate via, bastardi». «E allora la festa non la fanno più?»,

No signora, il Capodanno bengalese sarà festeggiato proprio qui. Eppoi tante altre volte il parco ha ospitato i festeggiamenti della comunità, nemmeno un mese fa gli anziano del circolo bocciofilo ricorda di odore di fritto e musica tra quegli alberi. «E menomale, perché gli indiani, i bengalesi, insomma quelli asiatici sono tanti, è vero, ma sono pacifici». «Qui lavorano soprattutto nei negozi di frutta e verdura, ma anche piccoli negozi di alimentari pieni di spezie e di colori». «Sa cosa mi dice sempre mia nonna: una, due, dieci formiche non danno fastidio a nessuno, a quando ne arrivano a centinaia allora si prende l’insetticida… Io sono sposato da cinque anni con una polacca, abbiamo due figlie meravigliose, ma quando gli extracomunitari sono tanti l’integrazione si fa più difficile e le istituzioni dovrebbero aiutare tutti».

Sono circa ventimila i bengalesi che vivono e lavorano a Roma, per la maggior parte uomini, spesso le donne li raggiungono dopo qualche anno e qui cominciano a crescere figli e nipoti. Il corteo organizzato dalla comunità bengalese Dhuum attraversa piazza Agosta, via Sabaudia, via Alatri, via Olevano Romano. Lo striscione bianco scritto con lo spray rosso lavoratori italiani e immigrati uniti contro il razzismo apre il corteo e occupa tutto il marciapiede, i funzionari della polizia li seguono da lontano.

«Siamo stati costretti dal comune a organizzare la festa a villa Gordiani – urla al megafono Bachu – volevamo il parco di Centocelle. Ma la loro strategia è quella di metterci in un luogo vicino alle case per dare a voi residenti l’idea che noi immigrati siamo rumorosi e roviniamo il verde, ma noi siamo con voi, non siamo nemici. Vi invitiamo a partecipare alla nostra festa». Gli anziani si affacciano alle finestre e la festa comincia. Perché il Capodanno sarebbe dovuta iniziare oggi e proseguire per altri nove giorni, ma i gazebo sono già stati montati eppoi la carne, le verdure, e il riso è già tutto sui furgoni, «mica ci faremo fermare da quei razzisti», dice Bachu. «E’ tornato anche Monsi, uno dei ragazzi aggrediti, ha dormito qualche ora a casa, ma ora siamo di nuovo tutti insieme. La paura si combatte anche così».

Qualche brace accesa, lo striscione del corteo è steso sotto i platani, sui tavolini sono già serviti riso, limone e spezie, «ora così arriveranno anche quelli della Asl. Lo sa che abbiamo già subito undici processi per questo Capodanno? E non so quanti soldi spesi per pagare multe e bollette. Ma alle altre feste perché fila sempre tutto liscio? – racconta il leader dell’associazione Dhuumcat che è un fiume in piena – perché questa è l’ennesima aggressione e ora siamo pronti a difenderci da soli». Villa Gordiani è già piena, il raid sembra lontano, alcuni giovani continuano a distribuire i volantini che raccontano dell’aggressione, dei diritti dei lavoratori immigrati, del razzismo che cresce e fa paura. Un anziano del circolo bocciofilo si ferma davanti a un gazebo per comprare a un euro «questo strano cartoccio di carne e spezie. Però, è buono». (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Leggi e diritto Popoli e politiche

L’Unhcr non conta un fico secco? Adesso ci prova Maroni a metterci una pezza, mentre arriva una dura reazione dell’Unicef.

Sulla questione dei respingimenti dei clandestini, il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha detto che “la polemica è incomprensibile”. Maroni non ha fatto riferimento al botta e risposta fra l’alto commissariato per i rifugiati e il ministro della Difesa La Russa. Ha detto però che dal suo “punto di vista vorrei la polemica terminasse. Innalzare i toni potrebbe pregiudicare il buon lavoro che abbiamo fatto in questi dieci mesi”. Secondo il ministro, infatti, l’Unhcr potrebbe svolgere un ruolo importante in Libia, anzi “fondamentale”. “Rispetto le opinioni di tutti – ha aggiunto – ma non penso sia utile tenere i toni della polemica”.

Nel frattempo interviene un’altra agenzia dell’Onu: l’Unicef. L’aspetto generale della polemica – ovvero il rapporto tra il governo italiano e le agenzie della Nazioni Unite – è stato affrontato oggi da Vincenzo Spadafora, presidente di Unicef Italia: ”Delegittimare l’operato di organizzazioni delle Nazioni Unite che da sempre hanno il compito specifico di svolgere una azione di supporto ai governi ed alle popolazioni è un errore, un segnale che giudico pericoloso”, ha detto l’alto funzionario Onu. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Leggi e diritto Popoli e politiche

A proposito di rifugiati, sarebbe bene che il ministro della Difesa si rifugiasse in un doveroso silenzio. Sperando in nessun “respingimento”.

Non si placa la polemica suscitata dalle dichiarazioni di La Russa, ministro della Difesa, che aveva detto che l’Unhcr conta “un fico secco”. L’Alto commissario, che nei giorni della polemica si trovava in Pakistan per seguire la crisi dei rifugiati dello Swat, interviene al fianco del delegato italiano Laurens Jolles e la portavoce Laura Boldrini: “Gli attacchi immotivati e personali sono inaccettabili, non mutano e non muteranno l’impegno dell’Unhcr nel perseguire il suo mandato e la sua missione umanitaria – afferma Guterres”, venuto “a conoscenza dei commenti negativi e infondati che sono stati rivolti al mio Ufficio e a singoli funzionari da un esponente del governo italiano”.

E ribatte alle critiche mosse al suo organismo dal governo italiano confermando l’impegno dell’agenzia dell’Onu che “ha una responsabilità globale nella protezione dei diritti dei rifugiati”. “Continueremo a esercitare il nostro mandato in Europa – prosegue – così come lo facciamo in altre parti del mondo. Il mio ufficio è ben consapevole delle sfide che l’immigrazione irregolare pone all’Italia e ad altri Paesi europei. Continueremo a lavorare con i governi e con tutti gli altri partner per affrontare queste sfide in modo da garantire il pieno rispetto dei diritti dei rifugiati e di quanti hanno bisogno di protezione internazionale”.

L’Alto commissario ribadisce poi la sua “piena fiducia nel rappresentante in Italia, Laurens Jolles, e nella portavoce, Laura Boldrini nel portare avanti questo importante compito”.

A proposito di rigugiati, è il caso che il ministro della Difesa la smetta in penosi tentativi di autodifesa e si rifugi in un doveroso silenzio. Sperando in nessun “respingimento”. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Leggi e diritto Popoli e politiche

L’attacco di La Russa all’ Unhcr dell’Onu: il ministro degli Esteri cerca di metterci una pezza, ma inciampa su se stesso.

Le organizzazioni internazionali vanno sempre rispettate anche quando sbagliano, e nel giudicare il governo in questo caso sbagliano”. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Franco Frattini, a quanto si apprende da ambienti vicini al ministro, riferendosi alla polemica innescata dalle dichiarazioni del responsabile della Difesa, Ignazio La Russa, sull’Unhcr.

“Il rispetto delle regole è garanzia e tutela anche per tutti quegli immigrati regolari che hanno seguito le regole. La politica della sinistra sull’immigrazione e’ a scapito dell’identita’italiana ed europea. – ha aggiunto Frattini – Noto che siamo in piena campagna elettorale eppure si parla poco di Europa.

Il tema della sicurezza deve invece divenire un impegno europeo, non puo’ gravare solo sui paesi del mediterraneo”.

Il Ministro Frattini, evidentemente non si ricorda chi fosse il Commissario europeo alla Sicurezza , fino un hanno fa, quando è stato nominato agli Esteri. Glielo ricordiamo noi: era Franco Frattini, che è stato in carica circa quattro anni. Sarà mica per questo che ” in campagna elettorale si parla poco di Europa?” Beh, buona giornata.

Share
Categorie
democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

Mentre alle critiche dell’Onu sui respingimenti il governo risponde con un fascistissimo “me ne frego”, degli immigrati gli italiani se ne fregano davvero.

Immigrati urla e silenzi di BARBARA SPINELLI-La Stampa

Nel dichiarare guerra agli immigrati clandestini e alla tratta di esseri umani, il governo è sicuro di una cosa: dalla sua parte ha un gran numero di italiani, almeno due su tre. Ne è sicura la Lega, assai presente nel territorio. Ne è sicuro Berlusconi, che scruta in quotidiani sondaggi l’umore degli elettori. Non ci sono solo i sondaggi, d’altronde: indagini e libri (per esempio quello di Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Mulino 2008) confermano che la paura – in particolare la paura della crescente criminalità tra gli immigrati – è oggi un sentimento diffuso, che il politico non può ignorare. A questo sentimento possente tuttavia i governanti non solo si adeguano: lo dilatano, l’infiammano con informazioni monche, infine lo usano. È quello che Ilvo Diamanti chiama la metamorfosi della realtà in iperrealtà.

Negli ultimi vent’anni l’iperrealismo ha caratterizzato tre guerre, fondate tutte sulla paura: la guerra al terrorismo mondiale, alla droga e alla tratta di esseri umani. Le ultime due son condotte contro mafie internazionali e italiane (la tratta di migranti procura ormai più guadagni del commercio d’armi) i cui rapporti col terrorismo non sono da escludere. Sono lotte necessarie, ma non sempre il modo è adeguato: contro il terrorismo e i cartelli della droga, la guerra non ha avuto i risultati promessi.

George Lakoff, professore di linguistica, disse nel 2004 che la parola guerra – contro il terrore – era «usata non per ridurre la paura ma per crearla». La guerra alla tratta di uomini rischia insuccessi simili. Le tre guerre in corso sono spesso usate dal potere politico, che nutrendosene le rinfocola.

Roberto Saviano lo spiega da anni, con inchieste circostanziate: ci sono forme di lotta alla clandestinità votate alla sconfitta, perché trascurano la malavita italiana che di tale traffico vive. Ed è il silenzio di politici e dei giornali sulle nostre mafie a trasformare l’immigrato in falso bersaglio, oltre che in capro espiatorio. Lo scrittore lo ha ripetuto in occasione dei respingimenti in mare di fuggitivi. Le paure hanno motivo d’esistere, ma per combatterle occorrerebbe andare alle radici del male, denunciare i rapporti tra mafie straniere e italiane: le prime non esisterebbero senza le seconde, e comunque la malavita viaggia poco sui barconi. Saviano dice un’altra verità: se ci mettessimo a osservare le condotte dei migranti, la paura si complicherebbe, verrebbe controbilanciata da analisi e sentimenti diversi. Una paura che si complica è già meno infiammabile, strumentalizzabile.

Saviano elenca precise azioni di immigrati nel Sud Italia. Negli ultimi anni, alcune insurrezioni contro camorra e ’ndrangheta sono venute non dagli italiani, ormai rassegnati, ma da loro. È successo a Castelvolturno il 19 settembre 2008, dopo la strage di sei immigrati africani da parte della camorra. È successo a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dopo l’uccisione di lavoratori ivoriani uccisi perché ribelli alla ’ndrangheta, il 12 dicembre 2008. Ma esistono altri casi, memorabili. Il 28 agosto 2006, all’Argentario, una ragazza dell’Honduras, Iris Palacios Cruz, annega nel salvare una bambina italiana che custodiva. L’11 agosto 2007 un muratore bosniaco, Dragan Cigan, annega nel mare di Cortellazzo dopo aver salvato due bambini (i genitori dei bambini lasciano la spiaggia senza aspettare che il suo corpo sia ritrovato). Il 10 marzo 2008 una clandestina moldava, Victoria Gojan, salva la vita a un’anziana cui badava. Lunedì scorso, due anziani coniugi sono massacrati a martellate alla stazione di Palermo, nessun passante reagisce tranne due nigeriani, Kennedy Anetor e John Paul, che acciuffano il colpevole: erano giunti poche settimane fa con un barcone a Lampedusa. Può accadere che l’immigrato inoculi nella nostra cultura un’umanità e un senso di rivolta che negli italiani sono al momento attutiti (Saviano, la Repubblica 13 maggio 2009).

Questo significa che in ogni immigrato ci sono più anime: la peggiore e la migliore. Proprio come negli italiani: siamo ospitali e xenofobi, aperti al diverso e al tempo stesso ancestralmente chiusi. Sono anni che gli italiani ammirano simultaneamente persone diverse come Berlusconi e Ciampi. Oggi ammirano Napolitano; anche quando critica il «diffondersi di una retorica pubblica che non esita, anche in Italia, ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Son rari i popoli che hanno di se stessi un’opinione così beffarda come gli italiani, ma son rari anche i popoli che raccontano, su di sé, favole così imbellite e ignare della propria storia. L’uso che viene fatto della loro paura consolida queste favole. Nel nostro Dna c’è la cultura dell’inclusione, dicono i giornali; non c’è xenofobia né razzismo. Gli italiani non si credono capaci dei vizi che possiedono: il nemico è sempre fuori. Non vivono propriamente nella menzogna ma in una specie di bolla: in un’illusione che consola, tranquillizza, e non per forza nasce da mala fede. Nasce per celare insicurezze, debolezze. Nasce soprattutto perché il cittadino è molto male informato, e la mala informazione è una delle principali sciagure italiane. È vero, la criminalità tra gli immigrati cresce, ma cresce in un clima di legalità debole, di mafie dominanti, di degrado urbano. Un clima che esisteva prima che l’immigrazione s’estendesse, spiega Barbagli. Se la malavita italiana svanisse, quella dei clandestini diminuirebbe.

La menzogna viene piuttosto dai governanti, e in genere dalla classe dirigente: che non è fatta solo di politici ma di chiunque influenzi la popolazione, giornalisti in prima linea. Tutti hanno contribuito alla bolla d’illusioni, al sentire della gente di cui parla Bossi. Tutti son responsabili di una realtà davanti alla quale ora ci si inchina: che vien considerata irrefutabile, immutabile, come se essa non fosse fatta delle idee soggettive che vi abbiamo messo dentro, oltre che di oggettività. I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela. La realtà dei fatti è che ogni mafia, le nostre e le straniere, si ciba di morte, di illegalità, di clandestinità. La realtà è un’Italia multietnica da anni. Il pericolo non è solo l’iperrealtà: è la manipolazione e la mala informazione.

Per questo è un po’ incongruo accusare di snobismo o elitismo chi denuncia le attuali politiche anti-immigrazione. Quando si vive in una realtà manipolata, chi si oppone non dice semplicemente no: si esercita ed esercita a vedere i fatti da più lati, non solo da uno. Rifiuta di considerare, hegelianamente, che «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Che ciò che è popolare è giusto, e ciò che è impopolare ingiusto o cervellotico. Bucare la bolla vuol dire fare emergere il reale, cercare le verità cui gli italiani aspirano anche quando s’impaurano rintanandosi. Accettare le loro illusioni aiuta poco: esalta la loro parte rinunciataria, lusinga le loro risposte provvisorie, non li spinge a interrogarsi e interrogare.

Lo sguardo straniero sull’Italia è prezioso, in tempi di bolle: ogni articolo che viene da fuori erode la mala informazione. Non che gli altri europei siano migliori: nelle periferie francesi e inglesi l’esclusione è semmai più feroce. Ma ci sono parole che lo straniero dice con meno rassegnazione, meno cinismo. Ci sono domande e moniti che tengono svegli. Per esempio quando Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci chiede come mai accettiamo tante cose, dette da Berlusconi, manifestamente false. O quando Perry Anderson chiede come mai l’auto-ironia italiana non abbia prodotto una discussione sul passato vasta come in Germania (London Review of Books, 12-3-09). O quando l’Onu ci rammenta le leggi internazionali che stiamo violando. (beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

Il Parlamento italiano approva la peggiore legge sulla sicurezza dalla nascita della Repubblica, cioè dalla fine del Fascismo. Il modo peggiore per prepararsi al rinnovo del Parlamento europeo.

(fonte: repubblica.it)
Passano alla Camera dei Deputati le nuove norme su immigrazione, mafia e sicurezza urbana

L'Aula della Camera ha confermato la fiducia al governo, approvando i tre maxiemendamenti al disegno di legge in materia di sicurezza.
Arrivano poi le 'ronde' e il reato di immigrazione clandestina, passibile di multe da cinque a diecimila euro, con obbligo di denuncia da parte dei pubblici ufficiali, e passa da 60 a 180 giorni il periodo in cui un immigrato potrà essere trattenuto nei centri di identificazione ed espulsione. Costerà 200 euro chiedere la cittadinanza e da 80 a 200 euro il permesso di soggiorno. Una pena fino a tre anni di carcere è prevista per chi affitti case o locali ai clandestini e per insulti a pubblico ufficiale. Vengono inoltre ripristinati i poteri del procuratore nazionale antimafia e inasprito il '41-bis' sulla detenzione dei boss mafiosi.

Le critiche della Cei. Secondo il direttore dell'Ufficio per la pastorale degli immigrati della Cei, padre Gianromano Gnesotto, "di fatto il grande tema che viene tenuto sotto silenzio di questo ddl è proprio l'importante tema dell'integrazione, dell'inserimento nella società per ottenere il quale - dice - sono prioritarie le strategie della tutela dell'unità familiare, dei ricongiungimenti familiari, dei minori tutelati".

"Il grande tema - insiste Gnesotto - che viene messo a lato da questo provvedimento è quello dell'integrazione perché il pacchetto sicurezza non parla di questo e non avrà gli effetti propri di una società che vuole essere integrata".

L'esponente della Cei ha anche espresso "forte preoccupazione" in particolare per le misure che farebbero emergere, secondo alcune interpretazioni, la possibilità di "bambini invisibili" per le difficoltà poste al riconoscimento dei figli nati in Italia da madri clandestine senza passaporto. "Non è vero come si dice - afferma padre Gnesotto - che c'è un permesso automatico dato alla madre clandestina in attesa del figlio e poi per i primi sei mesi dalla nascita perché questo va richiesto e quindi si possono trovare bambini che vengono registrati da parte dell'ostetrica o dei servizi sociali ma è una modalità prevista per chi non vuole riconoscere il proprio figlio o intende abbandonarlo che non è il caso delle donne immigrate". Secondo il sacerdote "tutto questo porterà conseguenze veramente difficili, ma già il fatto stesso che la madre del bambino si trovi nella condizione di non poterlo registrare pone un problema forte".

Il ministro Maroni è soddisfatto. Intervenendo a una cerimonia per l'intitolazione della sede del ministero del Lavoro a Marco Biagi, il titolare del Viminale ha auspicato che le nuove norme sulla sicurezza "vengano approvate definitivamente dal Senato entro la fine di maggio". Poi, a proposito del "giallo" sul destino dei bimbi nati da clandestini, ha smentito su tutta la linea: "E' una notizia destituita di ogni fondamento - ha detto - è un'altra panzana inventata da non so chi".

Il capogruppo dell'Idv Massimo Donadi ha dichiarato che "non c'è un briciolo di sicurezza in questo testo, solo demagogia. Si finanziano le ronde, che sono l'anticamera della polizia di partito, e si tolgono soldi alle forze di polizia". Per il Pd, Marco Minniti ha parlato di "un sonno mostruoso della ragione", e di "una fiducia posta contro la libertà della stessa maggioranza".

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Il principio di respingimento di Maroni non trova alcun fondamento nel diritto nazionale, in quello europeo e in quello internazionale quando si tratta di persone che chiedono protezione.

di VITTORIO LONGHI-repubblica.it
La svolta nella gestione dell’immigrazione e degli arrivi via mare, secondo il ministro dell’Interno Maroni, starebbe in un nuovo modello, tutto italiano, fondato su quello che lui stesso ha definito “il principio del respingimento”. Ma, quando riguarda richiedenti asilo, non è ancora chiaro a quali leggi o convenzioni faccia riferimento.

Il testo unico
Forse si tratta del Testo unico sull’immigrazione del 1998, che all’articolo 10 parla espressamente del respingimento e recita: “La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti per l’ingresso nel territorio dello Stato”. Lo stesso articolo, però, dice anche che le norme “non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”. Perciò il Testo unico nazionale rimanda al principio universale del “non respingimento” dei richiedenti asilo, proprio l’opposto di quello invocato da Maroni e contemplato invece dal diritto europeo e internazionale.

Le convenzioni internazionali
A vietare tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo sono gli obblighi internazionali che nascono, nello specifico, dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967, dalla Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, dalla Convenzione Onu contro la tortura, dalla Convenzione europea sulla protezione dei diritti umani.
Il ministro leghista ha detto che “il respingimento alle frontiere è previsto dalle normative europee” senza precisare quali e senza considerare che tutto il sistema normativo europeo in materia d’asilo si basa sulla convenzione di Ginevra. Quindi, di nuovo, sul principio del non respingimento. Tra l’altro, la convenzione europea sui diritti umani vieta “la tortura, il trattamento disumano e degradante” e la Corte di Strasburgo per i diritti umani applica questo divieto anche nei contesti di respingimento ed espulsione. E neanche si può circoscrivere la questione alle acque di competenza. L’obbligo di non-respingimento non comporta alcuna limitazione geografica – secondo le convenzioni – e si applica a tutti gli agenti statali nell’esercizio delle loro funzioni all’interno o all’esterno del territorio nazionale.
A questo proposito, il diritto è ancora più preciso: nel caso di richiedenti asilo che affrontano un viaggio via mare, il non-respingimento si applica all’interno delle 12 miglia di acque territoriali, così come nelle acque contigue, in mare aperto e nelle acque costiere di paesi terzi. Praticamente senza limitazioni.

L’accordo con la Libia
Inoltre, il rinvio diretto di un rifugiato o di un richiedente asilo verso un paese nel quale teme di essere perseguitato non rappresenta l’unica forma di respingimento. Anche il rinvio indiretto verso un paese terzo – la Libia in questo caso – che potrebbe successivamente rimandare la persona verso il paese di temuta persecuzione, costituisce respingimento. Così facendo, entrambi i paesi sarebbero ritenuti responsabili, cioè sia la Libia che l’Italia. E non risulta che nell’accordo bilaterale con il governo libico l’Italia abbia preteso garanzie del rispetto dei diritti umani, compreso il diritto d’asilo, per le persone che vengono riportate a Tripoli in seguito al pattugliamento delle coste libiche.

Tutto questo dimostrerebbe che il principio di respingimento di Maroni non trova alcun fondamento nel diritto nazionale, in quello europeo e in quello internazionale quando si tratta di persone che chiedono protezione. Pertanto non potrebbe essere applicato per rimandare indietro quei migranti che arrivano via mare e che, nel 75 per cento dei casi, sono richiedenti asilo. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Leggi e diritto Popoli e politiche

In campagna elettorale, Berlusconi si adegua al linguaggio leghista e dice “no all’Italia multietnica”. Dopo tutto, un popolo spaventato si governa meglio.

Al mercato della paura
di ILVO DIAMANTI-la Repubblica

ORMAI è impossibile affrontare il tema della “sicurezza” nel dibattito pubblico, ridotto a materia di propaganda politica. Sui giornali e in Parlamento. Se ne parla per catturare il consenso dei cittadini, non per risolvere i problemi. Nel sostenerlo ci pare di scrivere lo stesso articolo. Un’altra volta. Eppure è difficile non tornare sull’argomento. Perché l’argomento ritorna, puntuale, al centro del dibattito politico. Come in questa fase, segnata dalle polemiche intorno al decreto sulla “sicurezza” (appunto). A proposito del quale Franceschini ha parlato di nuove “leggi razziali”. Anche se gli aspetti più critici della legge sono stati esclusi dal testo. Ci riferiamo alla possibilità, offerta ai medici e ai pubblici funzionari (i presidi, per esempio), di denunciare i clandestini.

Altre iniziative venate di razzismo invece, non riguardano il governo, ma singoli politici e amministratori locali. Come la proposta di segregare gli stranieri nei trasporti pubblici, a Milano. Assegnando loro posti e vagoni separati. Una provocazione, anche questa. Capace, però, di intercettare consensi, solo a evocarla. La Lega, su questa base, sta costruendo la sua campagna elettorale in vista delle prossime europee. Per conquistare consensi nel Nord, ma anche altrove. Presentandosi come il partito della sicurezza-bricolage, da perseguire in ogni modo.

Anche l’imbarcazione carica di immigrati respinta dalla nostra Marina e consegnata alla Libia rientra in questa strategia politica e mediatica. Serve, cioè, come “annuncio”. Esibisce la volontà determinata del governo, ma soprattutto del ministro dell’Interni e della Lega, di respingere l’invasione degli stranieri. Di rimandarli là dove sono partiti. Chissenefrega che fine faranno. Noi non possiamo accogliere i poveracci di tutto il mondo.

Gli alleati di centrodestra, in parte, approvano. In parte no. Comunque, non si possono dissociare, altrimenti la maggioranza si dissolve. E poi non vuole abbandonare l’argomento della paura dell’altro alla Lega. Così Berlusconi approva. Si adegua al linguaggio leghista e dice “no all’Italia multietnica”. In aperta polemica con la “sinistra, che ha aperto le porte a tutti”. (Anche se i flussi da quando è tornata al governo la destra sono raddoppiati). E la sinistra, chiamata in causa, si adegua: nel linguaggio e negli argomenti. Oppone alla retorica della cattiveria quella buonista (che, in assenza di alternative, preferisco). Denuncia il razzismo. Esorta all’integrazione. Senza, tuttavia, spiegare “come” realizzarla. Si appella all’indignazione della Chiesa (contro cui, peraltro, si indigna quando si occupa di etica). Così la “sicurezza” sfuma in una nebulosa che mixa immagini indistinte. Criminali piccoli e medi, immigrati, zingari, stranieri. Ridotti a slogan.

Un tema così importante (e critico) dovrebbe venire affrontato in modo co-operativo. Attraverso il confronto e la progettazione comune. Invece, è abbandonato al gioco delle parti. In balia degli interessi e degli imperativi immediati. La “fabbrica della sicurezza” (titolo di una bella ricerca curata da Fabrizio Battistelli e pubblicata da Franco Angeli), d’altronde, si scontra con il “mercato della paura”. Il quale non limita la sua offerta all’ambito politico-elettorale, ma presenta una gamma di prodotti ampia e differenziata (come suggerisce una riflessione di Gianluigi Storti).

a) La paura, insieme all’in-sicurezza: è un format di largo seguito, sui media. Nei notiziari di informazione, nei programmi di “vita vera e vissuta”, nelle trasmissioni di approfondimento. A ogni ora del giorno, in ogni canale, incontriamo uno stupro, un’aggressione, un omicidio, un delitto, una catastrofe. E poi fiction di genere, che primeggiano negli indici di ascolto. Sky ha dedicato due canali alle “scene del crimine”. 24 ore su 24 dedicate alla “paura”.
E’ significativa l’evoluzione (o forse la d-evoluzione) dei tipi sociali interpretati da Antonio Albanese. Attore e analista acuto del nostro tempo. Da Epifanio, il personaggio stralunato e naif (ricorda vagamente Prodi), proposto vent’anni fa, fino al “ministro della paura” (accanto al “sottosegretario all’angoscia”) esibito ai nostri giorni.

b) La paura alimenta la domanda di autodifesa delle famiglie (come ha rilevato il rapporto Demos-Unipolis sul sentimento di insicurezza), che trasformano le case in bunker. Con porte blindate, vetri antisfondamento, sistemi di allarme sempre più sofisticati. All’esterno: recinzioni e cani mostruosi. In tasca e nei cassetti: armi per difesa personale.

c) Disseminati ovunque sistemi di osservazione, occhi elettronici che ci guardano. A ogni angolo. In ogni luogo. Mentre si diffondono poliziotti e polizie, ronde e servizi d’ordine. La sicurezza: affidata sempre più al privato e sempre meno al pubblico.

d) Intorno alla paura e all’insicurezza si è formata una molteplicità di figure professionali. Psicologi, psicanalisti, analisti, psicoterapeuti. E sociologi, criminologi, assistenti sociali. Operano in istituzioni, associazioni, studi. Nel pubblico, nel privato e nel privato-sociale.

e) Infine, come dimenticare la miriade di prodotti chimici al servizio della nostra angoscia? Occupano interi scaffali sempre più ampi, dentro a farmacie sempre più ampie. Supermarket dove il padiglione dedicato alla paura, di mese in mese, allarga lo spazio e l’offerta.

Per questo è difficile sconfiggere la paura e fabbricare la sicurezza. Perché la sicurezza è un bene durevole, che richiede un impegno di lungo periodo e di lunga durata. L’insicurezza, la paura, no. Sono beni ad alta deperibilità. Più li consumi più cresce la domanda. Garantiscono alti guadagni in breve tempo. Per costruire la sicurezza occorrerebbe agire con una visione lunga. Disporre di valori forti. Servirebbero attori politici e sociali disposti a lavorare insieme. In nome del “bene comune”. Ispirati da una fede o almeno da un’ideologia provvidenziale. Pronti a investire sul futuro. Mentre ora domina il marketing. Trionfa il mercato della paura. Dove non esiste domani. È sempre oggi. È sempre campagna elettorale.
Che l’angoscia sia con noi. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità

Stupro della Caffarella: la polizia si dimenticò al bar un impermeabile sporco di sangue.

di Luca Lippera da ilmessaggero.it
ROMA (5 marzo) – «Vede? Sta ancora lì, appeso… E non ho mai capito perché la polizia non è più venuta a prenderlo. Eppure io gliel’ho detto che sta qui…». Tra le tante stranezze del caso della Caffarella, la più strana, ma davvero strana, è rimasta pietrificata nel “Simon Bar” di via Crivellucci 6. È l’impermeabile, sporco di sangue e di chissà cos’altro, in cui la vittima dello stupro di San Valentino fu avvolta la sera del 14 febbraio dalla titolare della tavola calda. Sulla fodera interna, ci sono, ben visibili, almeno quattro macchie che potrebbero rivelare, oltre ai liquidi organici della vittima, quelli degli assalitori tuttora sconosciuti. «La ragazzina tremava racconta Alessandra Bruni, 24 anni, contitolare del “Simon Bar” e aveva sangue lungo le gambe. Così la avvolsi nel mio trench. Quando arrivò la polizia, segnalai il fatto, ma l’abito, nella foga, è rimasto qui. Ora non so se chiamare qualcuno, perché non vorrei dare l’impressione di forzare la mano…».

Lo “spolverino”, beige scuro, un modellino tipo Sherlock Holmes, è tuttora appeso insieme ad altri soprabiti accanto all’ingresso della cucina del “Simon Bar”. Il locale, un posto carino e tranquillo, proprio davanti al Parco della Caffarella, è stato il primo approdo dei ragazzini dopo quello che vissero nella boscaglia. «Non mi azzardo neppure a toccarlo continua la Alessandra Bruni, un bel bambino di un anno in braccio, toscana d’origine, poi cresciuta a Milano Non vorrei “inquinare” una cosa che potrebbe tornare utile. Sono passati i giorni. Pensavo che prima o poi gli agenti della polizia sarebbero venuti a prenderlo. Ma non non s’è visto nessuno. Per carità: non voglio assolutamente permettermi di suggerire a chi indaga cosa va fatto. Però non so come comportarmi. Così l’ho lasciato lì. Se è un oggetto utile, prima o poi me lo chiederanno…».

Sentirle, certe parole, e vederlo lì l’impermeabile sporco di sangue fa davvero riflettere. Alexandru Isztoika, 19 anni, e Karol Racz, 36, i romeni, sono in Carcere a Regina Coeli accusati di una violenza che ha scosso nel profondo la città per la ferocia e l’età della vittima. Sul corpo della ragazzina seviziata nel giorno di San Valentino non ci sono tracce del loro Dna: perfino il liquido seminale non porta ai due immigrati. Ma sull’attaccapanni di un bar dell’Appio riposa, mentre la Procura e la Questura difendono l’inchiesta, un indumento che magari potrebbe aiutare le indagini in un senso o nell’altro. Sembra però che la cosa non interessi. «Non vorremmo aver rivelato un fatto inopportuno si preoccupa Roberto, 50 anni, contitolare del “Simon Bar” è solo che veramente, specie dopo le ultime notizie che si sono sentite, il Dna e tutte queste storie, non sappiamo cosa fare».

I titolari del bar la sera del 14 febbraio scorso se la ricordano bene. Un racconto, il loro, che apre altri scenari e ulteriori riflessioni. «Ero qui ricorda Roberto e il ragazzino ce l’ho ancora davanti agli occhi. Alessandra li aveva fatti sedere tutti e due. Lui stringeva la mano alla fidanzatina e diceva: “Erano un arabo e uno zingaro, un arabo e uno zingaro…”. L’ha ripetuto non so quante volte. Quella era, a caldo, la sua prima impressione, forse quella più netta. Quando mi hanno convocato in Questura, l’ho ripetuto agli agenti che mi hanno sentito: “Un arabo e uno zingaro”, lui diceva così. Tra l’altro, da quello che ho capito, il ragazzo ci aveva parlato e aveva avuto modo di rendersi conto di chi aveva di fronte. Ci raccontò, insieme alla ragazza, che uno dei violentatori, prima che la situazione precipitasse, si era avvicinato alla panchina chiedendogli una sigaretta. Dunque l’aveva visto in faccia e credo che ne avesse percepito l’accento. Non siamo certo noi a poterlo dire. Ma forse era un dettaglio importante…».
Forse. Come un impermeabilino sporco di sangue che evidentemente non merita attenzione. Tanto, prima del Dna, c’erano i romeni. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto

Stupro della Caffarella: “La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale.”

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.

Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo «disguido» delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.

Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative «audaci» da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.

La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come «chiariti»: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith. Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.

A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di «nera». Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di «soap» giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti.

Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso «transgender» che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.

Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!

Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come «materiale organico» e «Dna», nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.

Ora, di fronte alle smentite, si dice: «La politica ha messo fretta». Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.

Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo. (Beh, buona giornata).

Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità

Sicurezza: quer pasticciaccio brutto della Caffarella.

di Massimo Martinelli da ilmessaggero.it
ROMA (4 marzo) – L’indagine di polizia è come un mosaico: basta entrare in una qualsiasi Questura d’Italia, e lo dicono anche i muri: «Devi raccogliere elementi, frasi, sensazioni; mettere insieme facce, racconti, odori, oggetti. Alla fine, se hai lavorato bene, in fretta, con tempestività e fantasia, con equilibrio e buonsenso, quel mosaico assume un profilo umano».
Quello della persona da cercare. E’ andata esattamente così a Roma, dalla sera del 14 febbraio a quella del 18. Quattro giorni di facce. Su una di queste, la ragazza della Caffarella si è quasi accasciata: «E’ lui, mi ha rovinato la vita. Ti prego mamma, non farmelo vedere mai più». Sembrava fatta.

Ma l’indagine di polizia è anche amore per la verità. Occorrono certezze, riscontri da portare al pm. Soprattutto prove; e ne esistono di scientifiche, inoppugnabili, assolutamente attendibili. Alle quali si deve riconoscere il potere di cambiare una storia che sembrava già scritta.

In Questura lo sanno. L’esame del Dna scagiona in maniera definitiva i due romeni arrestati per lo stupro della Caffarella. E riduce ad un mucchietto di verbali inutili quella gran mole di elementi, frasi e sensazioni raccolte in quattro giorni di indagini senza sosta e senza sonno. «Ho dovuto costringere Vittorio Rizzi a dormire per qualche ora», disse il questore, Pietro Caruso, parlando del capo della Mobile. Ma poche ore, talvolta, possono cambiare un’indagine. E anche una storia professionale.

Perché a riguardarlo bene, il film della sera del 18 febbraio scorso, si scopre che l’unico cono d’ombra di questa indagine riguarda proprio la sessantina di minuti in cui Vittorio Rizzi non era in Questura, la notte del 18 febbraio. E’ il giorno in cui la ragazza ha riconosciuto il biondino in una fotografia scattata due settimane prima al campo nomadi di Torrevecchia: c’era stato lo stupro di Primavalle, il campo nomadi era stato sgomberato, la polizia aveva fotografato tutti quelli che ci abitavano. In Questura la ragazza della Caffarella aveva lavorato per ore con i disegnatori di identikit e ne era venuti fuori due: un biondo slavato, un castano con capelli lunghi. Le hanno fatto vedere dodici foto di biondi slavati somiglianti a quella ricostruzione e lei è quasi svenuta sulla faccia di Loyos Isztoika. Del castano nessuna traccia, nonostante le settecento foto tirate fuori dall’archivio.

Un’ora dopo, Loyos è in Questura. «Strafottente, irridente, quasi al limite della resistenza a pubblico ufficiale», ricorda un agente che lo accompagnava. Il biondino nega, dice che non c’entra, mai stato alla Caffarella. Ci sono anche gli agenti romeni, che avevano fornito indicazioni e supporto all’indagine. C’è fermento. I media assediano il palazzetto di via San Vitale. Attraverso i canali del Viminale la politica vuole risposte rassicuranti per la gente della Caffarella, per Roma. Comincia adesso il maledetto cono d’ombra di questa indagine: il biondino è in camera di sicurezza; si decide di interrogarlo con calma, il giorno dopo, perché la notte potrebbe ammorbidire quel carattere strafottente. Lo lasciano a colloquio con i poliziotti romeni, un’ora appena. Sessanta minuti che sembrano risolutivi, ma che poi si riveleranno avvelenati.

Dopo quattro giorni di caccia serrata, Vittorio Rizzi è appena arrivato a casa quando lo richiamano dalla Questura: Loyos Isztoika vuole parlare. Adesso. Chiamano anche Vincenzo Barba, il pm che segue l’indagine. E pure un tecnico video, perché l’interrogatorio possa essere ripreso. Il biondino canta che è una bellezza: «Fumo le Winston Light» e ci sono cicche del genere sul luogo dello stupro; «Abbiamo rubato i loro cellullari e ne abbiamo buttato uno nel parco, dopo aver estratto la scheda Sim»: ed ecco il telefonino della ragazza dietro una panchina, con la sim accanto. E poi il sangue: «Ne ho perso tanto» dice la vittima. E c’è un pantalone sporco di rosso nella tenda del biondino. Che indica pure il complice: Karol Racz, faccia da pugile. Lo pigliano a Livorno, non ha i capelli lunghi come l’identikit, ma nessuno ci bada; ed è alto un metro e mezzo e non parla italiano.

Due giorni dopo si replica in Procura. Ma il biondino ritratta: «Ho subito pressioni, mi hanno picchiato». Non sembravi picchiato la sera della confessione, gli dice il Pm. «Mi hanno strattonato», si corregge lui. Ma chi? La polizia italiana che si è precipitata a fare il Dna a caccia della prova regina? Difficile da credere: sapevano che la scienza e la genetica avrebbero smascherato qualsiasi trucco. Come avviene: niente Dna dei romeni sulle cicche del parco, niente impronte sui telefonini, niente sangue sui pantaloni. Resta quel cono d’ombra: i sessanta minuti che Loyos trascorse con gli agenti del suo Paese, mentre Rizzi era fuori dalla Questura e il pm Barba era a piazzale Clodio. E resta una frase, «mi hanno strattonato», che apre due ipotesi: o non si sono limitati a quello, oppure Loyos accusa a vanvera. In ogni caso, il Dna gli spalancherà le porte del carcere. (Beh, buona giornata).

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: