Categorie
Attualità

Sapienza e insipienza.

Scontri alla Sapienza.

Interrompere gli accordi militari stipulati dalla Sapienza con aziende belliche e università israeliane, finché Israele non cambierà politica in Palestina è sostenere l’opposizione politica interna contro il governo messianico, colonialista e guerrafondaio di Netanyahu.

C’è sapienza negli studenti della Sapienza, la rettrice Polimeni e il Senato accademico imparino da loro. Chiamare la polizia è insipienza.

Share
Categorie
Attualità

Quel gran vigliacco dell’algoritmo.

Passare una mattina infernale appresso alle bizze di una piattaforma digitale succede ormai a tutti.

Le amministrazioni pubbliche, gli enti, le società di servizi sono riusciti a capovolgere il paradigma della loro arroganza nei confronti degli utenti.

Non è più colpa loro se le regole sono farraginose, cavillose, punitive, inefficienti.

È diventata tutta colpa dell’utente che non ricorda l’ID, la pw, il codice utente, se non ha digitato il campo obbligatorio, quello con l’asterisco, se non ha ricevuto in tempo l’SMS col codice OTP e la pagina è scaduta e deve ricominciare tutto da capo.

Lo scopo del servizio, l’utilità della prestazione, la soluzione di un problema non hanno mai avuto alcuna importanza agli occhi del burocrate analogico di ieri come non ce l’hanno a quello digitale di oggi.

L’algoritmo è il nuovo stupido, ottuso, imbecille capoufficio.

“Io, Daniel Blake”, Ken Loach, 2016.

Quello di ieri lo potevi insolentire attraverso il cristallo dello sportello.

Oggi al massimo puoi irritarti con l’assistente virtuale, chiedergli di parlare con un umano, che dopo essere rimasto in linea per non perdere la “priorità acquisita”, risponderà dall’Albania, un attimo prima che cada la linea.

In “Io, Daniel Blake” (Gran Bretagna, 2016) Ken Loach ci spiegava che l’inefficienza, l’arroganza, la noncuranza degli enti pubblici non sono défaillance, ma una precisa strategia di gestione di respingimento delle istanze dell’utente. L’attacco frontale al Welfare.

Quella istanza di cui un cittadino avrebbe diritto, viene sistematicamente neutralizzata.

Il nuovo modo di esercitare il potere di negarlo, è il ricorso a un sotterfugio: è colpa tua che non sia stato in grado di rivendicarlo correttamente.

Non sono io che ti nego un diritto, sei tu che non sei capace di esercitarlo. Quindi, non lo meriti.

Te lo dice con il nuovo burocratese digitale proprio l’algoritmo, la spersonalizzazione del sempiterno “io so io e voi non sete ‘n cazzo“.

La “semplificazione amministrativa”, la “innovazione tecnologica”, o “la digitalizzazione dei servizi pubblici” impongono, senza appello, gli algoritmi, la continuazione delle angherie della burocrazia contro i cittadini con altri mezzi, più sofisticati.

Il potere è diventato vigliacco. Nega i diritti, ma non vuole sporcarsi le mani.

Il potere usa la transizione digitale, i governi sguinzagliano la tirannide degli algoritmi, i nuovi cani da guardia del capitalismo.

Share
Categorie
Attualità

Il grande inganno neo liberista.

“L’estensione con la quale le aziende riescono a sfruttare i lavoratori con redditi aleatori per generare forme di lavoro che impoveriscono, dipende quindi dalla forza delle leggi in vigore previste da ogni singolo Paese per la tutela del lavoro.

Come abbiamo visto, in linea generale i Paesi sono intervenuti nelle economie con una bassa domanda di manodopera per limitare tali protezioni.

In effetti, questo era l’obiettivo esplicito della stessa Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), tenace sostenitrice della flessibilità del lavoro come mezzo per abbassare le percentuali della disoccupazione.

Alla fine degli anni Ottanta, gli economisti dell’Ocse erano finalmente giunti a riconoscere che, in presenza di tassi più lenti di crescita economica, era improbabile che le aziende investissero a sufficienza per aumentare il capitale sociale in linea con quello che era richiesto per creare nuovi posti di lavoro ad alta produttività e ad alto reddito.

Parve dunque “ineluttabile” che una “crescita ragionevolmente rapida dell’occupazione richiedesse la creazione di molti posti di lavoro che usano una quantità inferiore alla media di capitale per sostenerli e per i quali – di conseguenza – il salario reale sostenibile fosse modesto in modo corrispondente”.” (da “Automazione: Disuguaglianze, occupazione, povertà e la fine del lavoro come lo conosciamo” di Aaron Benanav).

Share
Categorie
Attualità

Marx va a segno ancora.

“Non importa quanto pessime diventino le condizioni del mercato del lavoro: i lavoratori devono pur sempre cercare lavoro, perché hanno bisogno di guadagnare un reddito che consenta loro di vivere.

Ora che masse sempre più ampie di lavoratori si trovano senza risparmi, l’economia mondiale odierna comincia ad assomigliare maggiormente a quella che Marx analizzò alla metà del XIX secolo nel suo Capitale.

In un’economia stagnante, spiegò Marx, la porzione inattiva dell’“armata operaia attiva” del capitalismo, un “serbatoio inesauribile di forza lavoro disponibile”, tenderà a crescere.

“Reclutati tra i lavoratori in soprannumero nella grande industria e dall’agricoltura che è diventata ridondante” questa popolazione in soprannumero di operai viene a formare un “elemento della classe operaia che si riproduce e si perpetua” e che “in proporzione partecipa all’aumento complessivo della classe operaia in misura maggiore che non gli altri suoi elementi”.

Poiché il suo lavoro è “caratterizzato da massimo tempo di lavoro e minimo salario”, le sue condizioni di vita tendono a “scendere al di sotto del livello medio normale”.

L’espandersi di questa popolazione era, per Marx, “una legge generale dell’accumulazione capitalistica”.

Scritta oltre 150 anni fa, l’analisi di Marx torna a essere contemporanea. Nelle economie a crescita lenta degli ultimi decenni, le masse di coloro che hanno perso il lavoro sono state obbligate a unirsi a chi si affacciava per la prima volta al mercato del lavoro in mansioni di scarso livello, guadagnando salari inferiori al normale in condizioni di lavoro peggiori della media.

A differenza dell’epoca di Marx, questo fenomeno è mediato oggi dalle istituzioni del welfare state create nel Dopoguerra, che hanno continuato a plasmare gli esiti del mercato del lavoro anche quando con il passare del tempo quelle istituzioni si sono deteriorate.

Le differenze istituzionali tra i vari Paesi determinano il livello al quale le esperienze del precariato si diffondono tra la forza lavoro o restano concentrate all’interno di specifiche fasce della popolazione.” (da “Automazione: Disuguaglianze, occupazione, povertà e la fine del lavoro come lo conosciamo” di Aaron Benanav) 

Share
Categorie
Attualità

Il capitale distrugge il lavoro.

 “Nel 1970, il settore manifatturiero dava lavoro al 22 per cento sul totale dei lavoratori degli Stati Uniti, percentuale scesa ad appena l’8 per cento nel 2017.

Nello stesso periodo, le percentuali di occupazione nel manifatturiero sono scese dal 23 al 9 per cento in Francia e dal 30 per cento all’8 per cento nel Regno Unito.

Giappone, Germania e Italia hanno vissuto decrescite inferiori ma nondimeno sostanziali: in Giappone dal 25 al 15 per cento, in Germania dal 29 al 17 per cento, e in Italia dal 25 al 15 per cento.

In tutti i casi, le diminuzioni sono state associate alla fine con cali significativi nel numero complessivo delle persone occupate nel settore manifatturiero.

Negli Stati Uniti, in Germania, Italia e Giappone, il numero complessivo dei posti di lavoro nel manifatturiero è diminuito approssimativamente di un terzo rispetto ai picchi postbellici; in Francia è calato del 50 per cento e nel Regno Unito del 67 per cento.40 Di solito, si presume che la deindustrializzazione in questi Paesi ad alto reddito debba essere la conseguenza delle delocalizzazioni offshore degli stabilimenti di produzione.

Di sicuro, la delocalizzazione offshore ha contribuito alla deindustrializzazione negli Stati Uniti e nel Regno Unito, che vantano i più grandi deficit commerciali del mondo.

Eppure, in nessuno dei Paesi menzionati, compresi Stati Uniti e Regno Unito, la perdita dei posti di lavoro nel manifatturiero è stata associata a cali nei livelli assoluti di produzione del manifatturiero.

Al contrario: tra il 1970 e il 2017 il volume della produzione del manifatturiero, quantificata secondo il valore reale aggiunto, è più che raddoppiata in Stati Uniti, Francia, Germania, Giappone e Italia. Perfino il Regno Unito, il cui settore manifatturiero è stato il peggiore in assoluto in questo gruppo, nello stesso periodo ha assistito a un aumento del 25 per cento nel valore reale manifatturiero aggiunto.” (da “Automazione: Disuguaglianze, occupazione, povertà e la fine del lavoro come lo conosciamo” di Aaron Benanav) Inizia a leggere: https://amzn.eu/94mUgWY ———-

Share
Categorie
Attualità

“Manhattan non è un mondo, è una scenografia.” (“Il senso della natura”, Paolo Pecere, Sellerio.)

Share
Categorie
Attualità

Il ritorno alla storia moderna.

Perché è sempre più forte la sensazione di essere tornati alle Signorie, all’assolutismo, alle guerre di conquista, stragi di innocenti, crimini efferati magari commessi con l’impiego diffuso di mercenari?

La Battaglia di Lepanto (Andrea Vicentino,1603, olio su tela, Palazzo Ducale, Venezia). Il riferimento alla battaglia viene spesso citata nei talk show come esempio storico da seguire per sconfiggere i “nemici” dell’Occidente.

La storia moderna è quel periodo che va dalla fine del Medioevo, sino alla rivoluzione industriale.

Quel periodo che va dalla “scoperta” dell’America (che sarebbe ora di catalogare sotto il più appropriato titolo di “colonizzazione del continente americano”) alla presa della Bastiglia.

Insomma, dal 1492 al 1789, trecento anni che, dal punto di vista sociale, politico e geopolitico hanno disegnato i contorni del mondo, che poi è stato modellato dalla storia contemporanea.

Sappiamo che la storia dell’umanità non è una linea continua, ma un insieme di segmenti, che non sempre coincidono col disegno che si vorrebbe fosse realizzato.

La fine della globalizzazione unica, – provocata dalla paralisi economica e finanziaria prodotta dalla pandemia del Covid -, accanto al panico della perdita di dominio che gli establishment stanno accusando come trauma, danno vita alla volontà di scontro, affinché l’occidente torni a prevalere, sotto l’egida della potenza militare USA.

Come quando si scontravano Francia e Spagna, Inghilterra a Francia, Austria e Impero Ottomano, oggi la lotta sembra tornare per il controllo territoriale e la supremazia sui mari, più che sulla rilevanza delle quote di mercato.

Perché è forte la sensazione di essere tornati alle Signorie, all’assolutismo, alle guerre di conquista, magari con l’impero di mercenari?

Una possibile spiegazione la fornisce un piccolo e prezioso libro che contiene l’analisi elaborata da Jodi Dean, docente di Teoria politica a Geneva, nello stato di New York. Scrive la dottoressa Dean in “Capitalismo o neofeudalesimo?” (Mimnesis, 2024):

“Ho caratterizzato il neofeudalesimo ricorrendo a quattro elementi: la parcellizzazione della sovranità, nuovi padroni e servi; provincializzazione e ansia apocalittica.” (Cfr. pag. 90).

Per essere più chiari: “Oggi l’accumulazione non si realizza tanto attraverso la produzione di merci quanto attraverso l’affitto e la predazione: prendendo e non producendo […]

Il ‘signor un sacco di soldi’ di cui parlava Marx appare meno come una rappresentazione del capitalista e più come quella di un proprietario terriero o un finanziere, come quella di qualcuno che ottiene la sua quota”.

In “Il capitale è morto, il peggio deve ancora venire” (Produzioni Nero, 2021), MacKenzie Mark, scrittrice e studiosa di teoria del media, scrive:

“Capitalismo delle piattaforme, capitalismo della sorveglianza, postcapitalismo, capitalismo green: sono moltissime le definizioni attraverso le quali si è provato a definire o ispirare l’attuale governo economico del mondo, ma nessuna è stata in grado di restituire davvero la contemporaneità in cui viviamo”.

Sempre Jodi Dean (ibidem) scrive: “E che dire del fatto che nel XXI secolo la gran parte dei posti di lavoro si trova nel settore dei servizi, nel servaggio a larga scala in tutto il mondo?

Nei paesi ad alto reddito, il 70-80% dell’occupazione è nei servizi, e anche la maggior parte dei lavoratori in Iran, in Nigeria, in Turchia, nelle Filippine, in Messico, in Brasile e in Sudafrica è impiegato in questo settore […]

Sempre più persone, costrette a vendere la propria forza lavoro nella forma di servizi desinati a chi è in cerca di consegne, di autisti, addetti alle pulizie, trainer, assistenti sanitari a domicilio, babysitter, di guardie, coach e così via. […]

Con i progressi nella produzione che sembrano giunti a un vicolo cieco, il capitale è oggi tesaurizzato e brandito come un’arma di distruzione: i suoi detentori sono i nuovi signori, il resto di noi dipendenti, invece, è composta da servi e schiavi proletarizzati”. (Cfr. pagg. 43 e 44).

Questi ragionamenti, queste analisi hanno bisogno di venir meglio approfonditi, arricchiti, meglio articolati.

Tuttavia, è qui che possiamo trovare le ragioni del nuovo protagonismo della guerra, nei vari scenari in cui si è di manifestata.

Le teorie geopolitiche sono poco convincenti se non si analizza il nuovo corso del capitalismo globale e quindi le nuove ragioni delle strategie di esercizio della potenza militare come strumento di dominio politico e sociale.

Vale per l’Ucraina, per la Palestina, per l’Iran, per il braccio di ferro militare nel contesto indo pacifico tra USA e Cina.

Tanto che è difficile pensare che una nuova versione del pacifismo, che fu strumento di lotta politica durante la “Guerra Fredda”, possa oggi essere ancora efficace a contrastate il nuovo imperialismo, il nuovo colonialismo, il nuovo corso del capitalismo.

Share
Categorie
Attualità

I giorni dell’Iran.

Hanno lasciato che Israele bombardasse un edificio diplomatico iraniano a Damasco.

Hanno lasciato che l’Iran lanciasse duecento droni in territorio israeliano, aiutando la contraerea ad abbatterli.

Gli USA continuano a giocare il ruolo di potenza insostituibile e onnipresente nel Medio Oriente, senza la quale non si fanno le guerre, né le tregue.

Di pace manco a parlarne, finché gli USA non decideranno che Netanyahu e i suoi alleati di governo debbano lasciare la guida di Israele, dopo il fallimento del 7 ottobre, la catastrofe nella gestione degli ostaggi, la carneficina di Gaza, le continue provocazioni colonialiste in Cisgiordania.

I continui tentativi di allargare il conflitto, fino a coinvolgere direttamente l’Iran sono una precisa strategia di Netanyahu.

La domanda è: riuscirà Biden a fermare Netanyahu prima che questi metta in pratica i suoi propositi di vendetta dopo lo smacco subito da Teheran?

Share
Categorie
Attualità

Netanyahu ha bisogno di guerra.

“Nessuno ferma Netanyahu?
L’attacco israeliano all’ambasciata iraniana di Damasco del primo aprile doveva essere fermato: era un chiara provocazione alla guerra. Ancora una volta gli Usa hanno lasciato che si aprisse un altro conflitto.” (Alberto Negri).

Share
Categorie
Attualità

Siamo sicuri di essere smart?

“Avevamo il personal computer, anarco-individualista figlio degli anni Settanta, macchina che permetteva al suo proprietario un controllo pressoché completo.

Siamo ora quasi completamente passati allo smartphone, ovvero al discendente neoliberista del personal computer, un computer molto personale su cui, però, il proprietario ha un controllo limitato, anzi, un personal computer che silenziosamente controlla, sorveglia, spia, manipola il suo proprietario.

È inevitabile che le cose stiano così?” (da “Contro lo smartphone: Per una tecnologia più democratica (Saggi)” di Juan Carlos De Martin) Inizia a leggere: https://amzn.eu/gdq7KKW ————

Share
Categorie
Attualità

Mi sono ripreso il mio tempo.

Mi è stato chiesto di argomentare il perché lascio Facebook. Lo faccio con due libri, di cui pubblico le copertine.

Poi cito un film:

“La grande bellezza”. Dice

Jap Gambardella (Toni Servillo):

“La più consistente scoperta che ho fatto, pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni, è che non posso più perdere tempo per cose che non mi va di fare.”

E, infine, un piccolo ragionamento: ho avuto cura di codesto profilo, eliminando gli hater e i perditempo; ho avuto cura di stare sul pezzo dell’attualità; ho avuto cura di postare brani selezionati di narrativa italiana e straniera, saggistica, poesia, filosofia, economia politica, sociologia.

Ho preso sul serio i commenti, rispondendo sempre a tutti.

Ho anche cercato di alleggerire sempre con ironia, sarcasmo e arguzia.

Mi sono divertito. Ma ho dedicato a Fb 3, 4 a volte 6 ore al giorno. E questo è sbagliato: il tempo è prezioso. Mr. Mark Zuckerberg non può averlo gratis. E io questo tempo me lo riprendo.

Due libri per capire.
Share
Categorie
Attualità

Luciano Colavero e come come si scrive per il teatro.

Due riflessioni sulla composizione dell’azione.

Una di Jurij Alschitz, che tocca la questione dal punto di vista dell’attore:

«La creazione da parte dell’attore della propria composizione del ruolo è la strada verso l’indipendenza artistica, che fa dell’attore l’autore del proprio ruolo.

Il ruolo è li risultato dell’interpretazione artistica individuale data dall’attore alla parte e al personaggio creati dal drammaturgo. Il ruolo dunque, in un certo senso, è il racconto che fa l’attore della storia scritta dall’autore drammatico. [La] parte elaborata dall’autore, passa attraverso la sensibilità artistica dell’attore. Se la composizione delle scene, l’ordine degli atti, delle parole appartiene all’autore, la composizione delle immagini, dei sentimenti, dele associazioni appartiene all’attore che crea la composizione della vita spirituale del ruolo. Se il ruolo viene inteso in questo senso, l’attore non ha limiti nella creazione. La sua composizione del ruolo può quindi non coincidere con quella dell’autore, pur essendone strettamente correlata.

La domanda fondamentale che l’attore si deve porre è se questo divario non sia gratuito, se sia realmente necessario al fine di far comprendere meglio l’idea della parte e del personaggio. Il lavoro del drammaturgo, dell’attore e del regista è subordinato a un’unica idea artistica. La composizione rispecchia i gradini della spirale che porta verso l’idea.»

L’altra riflessione è di Eugenio Barba, che guarda alla composizione anche dal punto di vista del regista:

«[…] “comporre” (porre con) significa “montare”, mettere assieme, tessere azioni: creare il dramma […].

Se le azioni degli attori possono costituire qualcosa di analogo a strisce di pellicola che sono già il risultato di un montaggio, è possibile usare questo montaggio non come un risultato, ma come materiale per un montaggio ulteriore. È, in genere, il compito del regista, che può intrecciare le azioni di più attori in una successione per cui l’una sembra rispondere all’altra o in uno svolgimento simultaneo, in cui il senso dell’una e dell’altra deriva direttamente dal loro essere compresenti. […]

Nel montaggio del regista le azioni, per divenire drammatiche, debbono ricevere un’altra valenza che abbatte il significato e le motivazioni per cui le azioni erano state composte dagli attori.

È questa nuova valenza che fa andare le azioni al di là dell’atto che esse, di per sé, rappresentano. Se io cammino, cammino e basta. Se mi siedo, mi siedo e basta. Se mangio, non faccio che mangiare. Se fumo, non faccio che fumare. Sono atti che illustrano se stessi, che si esauriscono in sé.

Ciò che fa trascendere le azioni, e le spinge al di là del loro significato illustrativo, deriva dalla relazione per cui sono poste nel contesto di una situazione. Messe in relazione con qualcosa d’altro, diventano drammatiche. Drammatizzare un’azione significa introdurre un salto di tensione che la obbliga a svilupparsi verso significati differenti da quelli originari.

Il montaggio, insomma, è l’arte di porre le azioni in un contesto che le faccia deviare dal loro significato implicito.»

Due sguardi, diversi e complementari, che ci ricordano quanto la composizione sia uno strumento di lavoro fondamentale per essere attori e registi creativi e non meri interpreti di un progetto altrui.

Luciano Colavero, regista, drammaturgo e pedagogo teatrale.
Share
Categorie
Attualità

L’estremismo verbale dei bellicisti.

Si scrive Iran, si legge terrore. Si scrive Israele, si legge libertà”, al Foglio si credono di essere la gazzetta del Pentagono.

Share
Categorie
Attualità

L’inflazione è la pacchia dei banchieri.

Tutti si lamentano di quanto il costo del denaro pesi sui mutui. Meno uno: l’assemblea dei soci ha dato il via libera al maxi stipendio da 10 milioni di euro per Andrea Orcel, l’Amministratore delegato di UniCredit.

Share
Categorie
Attualità

Enough is enough.

Il 15 aprile 2024 alle 12:00 abbandonerò Facebook, Instagram e LinkedIn. Mi dedicherò a codesto blog e posterò su X.

Grazie a tutte e tutti per l’attenzione che mi avete fin qui voluto dedicare su quei social. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità

Che fine ha fatto la dizione corretta?

E la pubblicità si è contagiata, è diventata una malata terminale di strafalcioni sintattici e grammaticali.

È noto come in Italia la televisione abbia contribuito alla capillare diffusione della lingua italiana tra gli italiani. E anche tra gli stranieri residenti nelle nostre città, per non dire di alcune aree geografiche del Mediterraneo.

Per molti anni questo fatto ha creato negli addetti ai lavori la consapevolezza dell’importanza della corretta dizione delle parole che compongono le frasi.

Prima a teatro e alla radio, poi al cinema infine nella tv, generazioni di doppiatori, attori, giornalisti radiotelevisivi, speaker -ma anche autori, sceneggiatori dialogisti, e copywriter – si sono impegnati a fare della lingua italiana una veicolo di coesione linguistica del pubblico

Poi, ahinoi, la tv si è trasformata in qual troiaio del marketing, dandosi alla depravazione dei reality, ma anche del talk, in cui mezze figure straparlano, sbagliando gli accenti, i tempi verbali, oltre che le citazioni storiche o geografiche.

E la pubblicità si è contagiata, è diventata una malata terminale di strafalcioni sintattici e grammaticali.

Attualmente una fanciulla sussurra cose incomprensibili a proposito di una passata di pomodoro, per poi piazzare una bella z al posto della s nella parola sapore.

Per non dire delle e aperte che ormai dilagano, che fanno tanto nord Italia, quindi trend (con la é).

Poi la catastrofe. Una ex velina che viene fatta passare per una diva già è poco credibile quando ci dice qual è il suo “segret”.

Poteva essere credibile quando la testimonial di quell’acqua oligominerale era Cindy Crawford, la cui leggendaria bellezza sembrava resistere all’usura del tempo, proprio grazie a quell’acqua.

Quando l’ex velina ha preso il suo posto, bè, quel “my segret” ha assunto un che di poco elegante, improvvisato, un errore di strategia: prodotto e testimonial hanno smesso quella sinergia che faceva credere plausibile il connubio.

Non paghi, al marketing dell’azienda dell’acqua in questione, hanno definitivamente sbragato, quando in una delle ennesime versioni, fanno dire all’ex velina: “che buono é?!”.

È un’esclamazione in slang meneghino che credo si vergognano ormai di dire anche nei negozi del parrucchiere dell’interland.

Sarebbe facile sostenere che quella campagna pubblicitaria fa acqua. Il fatto è che fa pena, sta in piedi solo perché è spalmata a tutte le ore in tutti i canali, pubblici e privati.

Tanto per dimostrare che l’ossessiva ripetizione del messaggio è la prova provata del niente da dire di interessante per lo spettatore, il consumatore, e, – ciò che è alquanto sconcio-, neppure per chi paga il canone.

Ecco allora il punto: pronunciare male le parole, per cercare il consenso attraverso regionalismi è uno sforzo degno di miglior causa, che dovrebbe, invece, essere la ricerca di un’idea forte e credibile.

Facile da capire, facile come bere un bicchiere d’acqua fresca.

Share
Categorie
Attualità

Parla con me, non col tuo telefono.

 Odio quelli che in pubblico parlano al telefono in vivavoce, esattamente come quelli che guardano video ad alto volume senza curarsi di quanti stanno loro intorno.

Per tanto, se ricevo un messaggio vocale, mi tocca cercare in tasca le cuffiette, indossarne una per orecchio, e poi premere il triangolino per ascoltare ciò che avresti benissimo potuto telefonare o scrivere, attività che ti avrebbero almeno costretto a pensare prima di dire cose che nella maggior parte dei casi potevi esprimere meglio.

Perché io devo subire la perdita di tempo, nonché di considerazione, che tu hai voluto risparmiare?

Una cosa avevano di buono le chat, inducevano a scrivere, come fosse una lettera, con tanto di formule di cortesia e cenni di saluto.

Poi tutto è stato vanificato dalla maledetta fretta di aprire bocca. Così che i cosiddetti vocali non sono più messaggi, ma chiacchiericcio solipsista da remoto, non sono più scambio, ma imposizione unilaterale.

Perché è chiaro che tu non parli con me, ma col tuo telefono. Sei liberissimo di farlo, il telefono è tuo. Ma la domanda è: perché dovrei io parlare col tuo telefono?

Share
Categorie
Attualità

Non chiamatelo Me Too.

Premesso che ammiro le giovani donne che hanno avuto il coraggio di denunciare – sia pur in forma anonima e confidenziale – i soprusi a sfondo sessuale subiti da maschietti singoli o in branchi, rimane il problema che tutto quanto è avvenuto è ancora nella bolla del sentito dire.

È stato detto – correttamente – che in assenza di atti formali che avessero permesso all’autorità giudiziaria di entrare nel merito, non ci sono possibilità di andare oltre generiche dichiarazioni di scuse o tardivi lacunosi pentimenti, nonché aleatorie autosospensioni da associazioni di categoria.

Anche le denunce a mezzo stampa a un certo punto sono costrette a fermarsi, perché le illazioni devono lasciare il posto ai fatti, accertati e verificati. “Io so i nomi….ma non ho le prove”, ci ha insegnato una volta Pasolini.

Nel nostro ordinamento le responsabilità penali sono individuali, se non si individuano i responsabili non c’è storia da raccontare.

Anche le responsabilità “ambientali” si stanano solo a fronte dell’accertamento di precise circostanze, che vedano i responsabili essersi avvalsi di omertà o complicità.

C’è anche da dire che la distanza tra gli accadimenti emersi e il tempo trascorso prima che fossero resi noti è risultato oltre i limiti stabiliti per legge, e nessuno può immaginare che si apra un fascicolo a distanza di sei o sette anni per fattispecie penali che prevedono 12 mesi di tempo per la denuncia.

Il punto è che la semplice disapprovazione non risolve la questione, la quale tanto lentamente è venuta a galla, quanto velocemente si riassorbirà nel vortice degli accadimenti individuali e collettivi delle nostre esistenze.

La cosa peggiore, – che risulterebbe una ulteriore mancanza di rispetto nei confronti di chi è stata vittima delle molestie – è aver riaperto quelle ferite solo per farne oggetto di estemporanee attenzioni estive, vagamente scandalistiche, con cui indignarsi un po’, per poi passare ad altro gossip.

Vittime, carnefici e complici sono tutt’ora legati fra loro da un reticolo di omertà. Esattamente quel reticolo di ricatti morali e materiali che il “Me too”, quello esploso nel mondo del cinema è stato capace di scardinare.

Nel nostro caso, non c’è stato ancora nessun “anch’io”. Questo è il problema. E c’è da essere certi che in Italia la questione delle discriminazioni, delle disparità e delle molestie non riguardi solo e soltanto l’ambiente della pubblicità.

Share
Categorie
Attualità

FERMIAMOLI.

La classe dirigente della Ue ha condotto l’Europa al declino economico, democratico, politico e sociale.

Sperare che la guerra in Ucraina abbia la capacità di rilanciare l’Unione è una chimera sporca di fango e sangue, sa di polvere da sparo e di uranio.

La prospettiva che si prefigura è che la guerra duri ancora a lungo, arrivi fin dentro la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo e continui per tutto il 2024 fino alle elezioni Usa.

È pura follia genocida, è la disperazione politica di chi teme il crollo dell’egemonia occidentale nella globalizzazione dei mercati.

Ci stanno spingendo verso la catastrofe. La barbarie prodotta dalla crisi del capitalismo finanziario va fermata. Ora.
Pace, diritti, redistribuzione della ricchezza devono essere i ricostituenti delle democrazie europee.

Share
Categorie
Attualità

Il quadro politico.

In Italia, la sinistra perde le elezioni alle quali in effetti da qualche anno manco si presenta.

La destra, invece, tende a vincere le elezioni alle quali non si presentano gli elettori.

Il quadro politico è fissato così male, che la società non coincide più col sistema democratico, solo gli interessi forti, che hanno la loro rappresentanza lobbistica in Parlamento e nel governo, sono perfettamente a loro agio.

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: