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Contro il terrorismo, Stato di polizia o Stato sociale?

I COSTI ECONOMICI DEL TERRORISMO

di José de Sousa , Daniel Mirza e Thierry Verdier da lavoce.info

Negli ultimi anni il terrorismo internazionale ha cambiato luoghi e motivazioni. Mira a colpire l’Occidente, ma gli attacchi dei fondamentalisti avvengono principalmente nei paesi in via di sviluppo con il risultato di peggiorare le condizioni economiche proprio di queste regioni. Una maggiore cooperazione internazionale è necessaria, ma non basta. Occorre adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale degli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di prospettive economiche.

Non passa giorno che non si abbia notizia di qualche attentato o di minacce da parte dei terroristi contro gli occidentali  (giornalisti, diplomatici o turisti), oppure contro i simboli e gli alleati dell’Occidente. Gli attentati di Bombay non costituiscono un’eccezione: si è trattato di attacchi concentrati contro i siti più occidentalizzati della città. Anche se, alla fin fine, la maggior parte delle vittime non è occidentale, gli attacchi erano principalmente indirizzati contro i cittadini dei paesi più ricchi. Uno dei principali moventi dei terroristi è quello di minare gli interessi dell’Occidente. Quali sono realmente le conseguenze economiche di tali attentati?
Il fenomeno non è nuovo. In base alle statistiche disponibili, si direbbe anzi che – da 40 anni a questa parte – è una costante: gli Occidentali sono il principale bersaglio dei terroristi transnazionali. Sono cambiati però i luoghi e le motivazioni. Da una quindicina d’anni avvengono principalmente nei paesi del Sud. Negli anni ’70, infatti, gran parte degli atti terroristici proveniva da gruppi separatisti o estremisti europei. A partire dagli anni ’80 invece è apparso il terrorismo religioso fondamentalista, con lo spostamento del centro di gravità del fenomeno verso i paesi del Sud.

PAESI PIU’ POVERI DOPPIAMENTE VITTIME

Gli attentati di New York (2001) Madrid (2003) e Londra (2005), anche se spettacolari, sono eccezioni. Non sono affatto rappresentativi dei circa 400 attentati transnazionali, perpetrati ogni anno nel mondo. Gli studi sull’argomento dimostrano che, a parte gli attentati compiuti nei periodi bellici come quelli che oggigiorno colpiscono l’Iraq, tre quarti degli attentati avviene nei paesi in via di sviluppo. Se le vittime di tali atti sono quasi sempre cittadini dei paesi più avanzati, le conseguenze economiche, però, si ripercuotono proprio sui paesi in via di sviluppo.
Gli Stati Uniti sono stati pesantemente colpiti dai fatti dell’11 settembre, ma la ripercussione sulla loro economia è stata solo transitoria. Solo se gli attentati colpissero ripetutamente uno stesso luogo, si registrerebbe un effetto duraturo. Secondo alcuni studi, il reddito globale dei paesi baschi sarebbe stato più elevato di almeno il 10% se, durante gli anni ’70 e ’80, l’ETA non avesse compiuto numerosi attentati.
I continui atti terroristici che avvengono in alcuni paesi in via di sviluppo, come Colombia e Pakistan, colpiscono duramente il loro commercio estero, frenando le transazioni di beni e servizi, sia a livello nazionale che internazionale. L’Occidente è, infatti, il loro principale mercato d’esportazione e gli attentati hanno effetti non trascurabili. Ad esempio, in Colombia, l’aumento dell’1% degli incidenti, che colpiscono spesso interessi americani, provoca la diminuzione dell’1% delle esportazioni verso gli Stati Uniti. Senza contare che la maggior parte dei turisti proviene dall’Occidente e che gli attentati perpetrati contro bersagli occidentali diminuiscono considerevolmente le attrattive del paese in seno al quale essi avvengono, perché creano un forte senso di insicurezza.
Le misure di sicurezza messe in atto dai governi occidentali per far fronte al terrorismo non fanno che rinforzare questi effetti nefasti. Rendono, infatti, più difficile il movimento di beni e persone, soprattutto alle frontiere. Ad esempio, a causa degli attentati compiuti in Grecia contro bersagli americani, i fuoriusciti greci ancor oggi possono godere solo di un visto turistico per recarsi negli Stati Uniti.
E infine, a coronamento di tutto ciò, esistono anche gli effetti indiretti sui paesi confinanti con quelli da cui provengono i terroristi. Negli ultimi due decenni, infatti, molte organizzazioni terroriste hanno ampliato la loro rete di contatti. Per esempio Al Qaeda si è recentemente radicata nell’Africa del Nord. Di conseguenza i paesi occidentali devono estendere e in un certo senso “globalizzare” le loro misure di sicurezza, se vogliono impedire la diffusione di tali organizzazioni. In un lavoro recentemente pubblicato mettiamo in evidenza questo processo di contagio: gli attentati avvenuti in un determinato paese possono ripercuotersi sugli scambi dell’Occidente con quei paesi, che simpatizzano culturalmente, geograficamente o religiosamente con le organizzazioni terroristiche.
I paesi del Sud sembrano essere entrati in un circolo vizioso. Demoltiplicando l’impatto negativo del terrorismo, le politiche di sicurezza generano il calo delle attività economiche nei paesi del Sud, che – a sua volta – genera un terreno fertile perché attecchisca il terrorismo. E così la protezione della vita al Nord peggiora sensibilmente le condizioni di vita al Sud.

POSSIBILI SOLUZIONI

Che fare per rompere questo circolo vizioso? Le misure di sicurezza unilateralmente decise dai paesi del Nord sembrano solo spostare il problema, non risolverlo. E’ invece urgente instaurare una cooperazione internazionale mirata a ridurre il verificarsi di attentati nei paesi del Sud e del Nord. A breve termine, sarebbe auspicabile trasmettere ai paesi del Sud le tecnologie di prevenzione più progredite, onde ridurre il verificarsi di tali eventi. A lungo termine, bisognerebbe elaborare una politica più volontaristica, al fine di estirpare le radici del terrorismo. Parimenti occorrerebbe aiutare i paesi in via di sviluppo ad adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale di quegli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come ad esempio i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di qualsivoglia prospettiva economica. Per conseguire tutto ciò è indispensabile che i contribuenti del Nord capiscano che la loro sicurezza dipende anche dal miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni del Sud. (Beh, buona giornata)

(traduzione dal francese di Daniela Crocco)

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Barak Obama:”Gli Stati Uniti saranno contro la tortura e rispetteranno la convenzione di Ginevra”.

Riprogongo “Torturare è giusto, torturare è possibile”, pubblicato su “Beh, buona giornata” il 22 agosto 2006. E’ bene ricordare che durante l’Amministrazione Bush c’è stata una rincorsa a giustificare guerre, torture e  violazioni delle norme internazionali a tutela dei diritti civili. Anche in Italia giornalisti e intellettuali di destra hanno fatto la loro parte, scrivendo pagine a sostegno della guerra di civiltà con ogni mezzo, compresa la tortura. I tempi cambiano, ma quelle ferite all’intelligenza rimangono. Non bisogna dimenticarle. Con l’augurio che gli intellettuali italiani embedded al bushismo da neo-cons diventino neo-scons(olati) nel nuovo corso inaugurato da Barak Obama. Chi criticava l’Amministrazione Bush era tacciato di anti-americanismo.  La domanda è: adesso che Obama ha detto” gli Stati Uniti saranno contro la tortura e rispetteranno la Convenzione di Ginevra”, chi è anti-americano?

Torturare è giusto, torturare è possibile.

Per sostenere il ripugnante principio secondo la quale ci vuole un “compromesso tra lo stato di diritto e la sicurezza nazionale”, qualche giorno fa sul Corriere della Sera, nei giorni immediatamente successivi all’allarme antiterrorismo lanciato negli aeroporti inglesi, Angelo Panebianco ha scritto:“Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l’Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell’undici settembre, con migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani, di un jhadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente.”

Panebianco si è poi chiesto:”Chi se la sentirebbe in Europa di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.”
A proposito di tortura e di giustificazione politico-giuridica della tortura, esemplare il caso di Craig Murray, che è stato recentemente intervistato per RaiNews24 da Mario Sanna e Maurizio Torrealta.

Craig Murray è stato ambasciatore britannico in Uzbekistan. Nel periodo cha va dall’agosto del 2002 all’ottobre del 2004 ha scoperto la tortura dei servizi segreti uzbeki sui prigionieri politici e ha denunciato l’uso che delle informazioni estorte, spesso inattendibili, facevano la Cia e il ‘Foreign Office’ inglese.

Craig Murray è stato ascoltato dalla Commissione d’inchiesta dell’Europarlamento sui voli e i sequestri della Cia in Europa alla fine di aprile. Murray è stato ambasciatore britannico in Uzbekistan dal 2002 al 2004. Cosa ha dichiarato Murray alla Commissione? Ha detto che i servizi segreti americani e britannici hanno utilizzato testimonianze di detenuti ottenute mediante tortura e non ha escluso che i servizi segreti di molti paesi europei fossero informati di quanto facessero i loro colleghi in Uzbekistan.

L’ambasciatore ha parlato di “cooperazione” tra i servizi nazionali quando si è avuto a che fare con detenuti sospettati di terrorismo in Uzbekistan. L’alto funzionario si è detto certo del fatto che i servizi uzbeki torturassero i detenuti e che la CIA e l’MI6 britannico ottenessero le informazioni sebbene non partecipassero agli “interrogatori”.

Murray ha raccontato d’aver posto il problema al ministro degli esteri britannico, Jack Straw, il quale concluse, dopo un incontro con il capo dei servizi MI6, che ricevere informazioni ottenute sotto tortura non avrebbe contravvenuto alla Convenzione ONU contro la tortura. A proposito di una domanda posta dal relatore della commissione, Claudio Fava, l’ambasciatore Murray ha affermato di non avere informazioni sulla condivisione delle informazioni tra la CIA e i servizi segreti di Paesi occidentali: “Tuttavia – ha aggiunto – la Germania aveva particolari e stretti legami con i servizi di sicurezza uzbeki e credo che lo scambio di informazioni sia avvenuto”.

Murray ha raccolto le testimonianze di intere famiglie, rivoltesi a lui per assistere i loro congiunti ’scomparsi’ e sequestrati dai servizi segreti uzbeki. Ha condotto un’indagine e ritiene che oltre 7000 persone, oppositori del regime uzbeko guidato da Islam Karimov, siano state sequestrate e torturate per ordine del governo. Secondo Murray questa azione di feroce repressione interna è stata anche finalizzata alla raccolta di informazioni da parte della Cia.

Secondo la testimonianza di Murray, i prigionieri sotto tortura erano costretti a confessare di tutto: che erano membri di al Qaeda; che avevano contatti con l’Afghanistan e con lo stesso Bin Laden; che andavano in Afghanistan per incontrarlo o che conoscevano persone implicate in questo. Inoltre, chi era torturato era disposto ad ammettere che un gruppo uzbeko di opposizione fosse collegato ad al Qaeda e addirittura confessavano che persone che loro nemmeno conoscevano erano attivisti di Bin Laden.

Ecco un brano dell’intervista di Mario Sanna e Maurizio Torrealta per RaiNews24.

Craig Murray ha voluto raccogliere una dettagliata documentazione sulle violazioni dei diritti umani in tutto il mondo in suo sito e lo sta facendo anche in polemica con il sistema dei media. Come ha reagito la stampa inglese tradizionale davanti alla sua vicenda e alle sue denunce.

I media britannici hanno difficoltà a affrontare a viso aperto questo punto. Nessuno ha mai domandato in modo diretto: “Voi usate materiale di ‘intelligence’ ottenuto con la tortura?” , oppure: “Ma voi non istigate di fatto regimi come quello uzbeko, saudita, algerino? Non incoraggiate questi regimi alla tortura?”. Nessun giornalista ha posto mai queste domande difficili e così il ‘Foregn Office’ è stato in grado di manipolare l’opinione pubblica su questo punto.

Dopo l’11 settembre l’intero sistema dei media in Gran Bretagna è stato dominato dal timore di non mostrare immagini e a non porre sul tappeto questioni che fossero considerate poco patriottiche. Il direttore della BBC e’ stato mandato via perché aveva detto che in Iraq non c’erano armi di distruzione di massa. Ora sappiamo che ciò che diceva la BBC era vero, che non c’erano armi i distruzione di massa in Iraq, ma le due persone ai vertici della BBC sono state mandate via per aver detto una cosa del genere, quindi e’ comprensibile che i giornalisti non si sentano pronti a scavare in profondità su questo argomento nel Regno Unito.

La sua deposizione davanti alla commissione d’inchiesta che indaga sui voli Cia, non è passata inosservata, anzi, ha destato grande sensazione tra gli europarlamentari. Di tutta questa vicenda drammatiche che lei ha vissuto, che ci ha raccontato, qual è stato l’aspetto che più l’ha ferita?

La cosa peggiore per me è stata la scoperta che altri funzionari pubblici, persone che conoscevo da 20 anni erano al corrente di questa situazione. Sono rimasto sbalordito quando ho scoperto che Michael Wood che e’ una brava persona, un uomo che conoscevo da molto tempo trovava una giustificazione legale al modo in ui si poteva eludere il divieto giuridico contro la tortura

A questo punto inizi a pensare: “Perché le persone non si assumono la responsabilità morale delle loro azioni?”.

Se qualcuno riesce a trovare una giustificazione legale alla tortura, allora e’ facile capire come un funzionario pubblico in Germania possa avere ricevuto ordini di andare ad Auschwitz con i carri bestiame e dire: “io sto facendo solo il mio lavoro, sono solo un funzionario pubblico”.

L’articolo di Panebianco, accanto, fatte le debite proporzioni a quelli di Magdi Allam e di Giuliano Ferrara, per non parlare di quelli dell’agente Betulla, e di tutta la macchina propagandistica a favore della guerra di civiltà hanno segnato in questi anni il punto di non ritorno tra lo stato di diritto e la logica della guerra infinita al terrorismo. La testimonianza di Craig Murray è un balsamo per la coscienza critica di ciascuno di noi. Per questa azione in difesa dei diritti umani, Murray è stato costretto ad abbandonare la diplomazia. Beh, buona giornata.

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Piccoli record crescono: ieri il numero delle visite in questo sito è stato 794. Beh, buona giornata.

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Crisi:”La differenza di priorità fra Obama e Sarkozy promette scintille nel breve termine ma nulla toglie al fatto che strategicamente abbiano bisogno l’uno dell’altro.”

Due visioni della ripresa
 
di MAURIZIO MOLINARI da lastampa.it
Barack Obama espone da Fairfax, Virginia, il progetto di «ricostruire» l’economia nazionale e Nicolas Sarkozy da Parigi ribatte che l’America non è più l’unico leader del mondo e dovrà scendere a patti per realizzare il «nuovo capitalismo». Il dialogo a distanza fra il presidente eletto degli Stati Uniti e l’inquilino dell’Eliseo inaugura il confronto globale su che cosa bisogna costruire sulle ceneri del 2008 che, secondo quanto afferma uno studio degli economisti del «Council on Foreign Relations» di New York, «sarà ricordato come l’anno in cui il sistema finanziario moderno è crollato».

I due leader partono da bisogni differenti. Per Obama la priorità è scongiurare la depressione nazionale facendo leva su energie alternative, grandi opere, riforma sanitaria, tagli fiscali e sviluppo di Internet al fine di «trasformare l’America indirizzando la ricchezza verso la classe media», come suggerisce il rapporto «Progressive Growth» firmato dal co-presidente del team di transizione John Podesta.

Per Sarkozy invece la priorità è disegnare un nuovo sistema economico internazionale che metta al riparo l’Europa da nuovi terremoti.

Un sistema che getti le basi di una nuova stabilità e soprattutto impedisca il ripetersi di quanto avvenuto, creando regole finanziarie ed equilibri monetari nei quali «non sarà più un solo Paese e prevalere», come avvenuto nel caso degli Stati Uniti dopo gli accordi conclusi a Bretton Woods nel luglio del 1944.

La differenza di priorità fra Obama e Sarkozy promette scintille nel breve termine ma nulla toglie al fatto che strategicamente abbiano bisogno l’uno dell’altro. Lo stimolo economico che Barack chiede al Congresso di Washington, e che potrebbe sfondare il tetto di 1 trilione di dollari, avrà effetti assai parziali se non coinciderà con il varo di misure simili da parte degli altri Paesi più industrializzati, i cui investimenti e acquisti sono indispensabili alla crescita americana. Basti pensare che il rapporto Onu «World Economic Situation and Prospects 2009» suggerisce che l’aumento medio della spesa dei Paesi ricchi dovrà essere fra l’1,5 e il 2 per cento dei rispettivi Pil per tentare di archiviare la crisi di liquidità.

Sarkozy non può immaginare di scrivere le regole del «nuovo capitalismo», a partire dal summit del G20 in programma ad inizio aprile a Londra, senza raggiungere una solida intesa con Barack, che non solo sarà presto alla guida della nazione comunque più ricca del Pianeta ma è anche portatore di un progetto ambizioso di rivoluzione energetica destinato ad avere ripercussioni sulle bollette che si pagano a Marsiglia come a Genova. Senza contare i rischi inflazionistici e valutari per l’Europa connessi alla montagna di dollari che la Federal Reserve si appresta a stampare per riportare in fretta sufficiente denaro da spendere nelle tasche degli americani. Da qui la possibilità che Obama e Sarkozy abbiano iniziato, partendo da opposti estremi, a delineare il confronto che può portare a fare del 2009 l’anno-laboratorio del nuovo sistema economico. È una partita nella quale ogni potenza industriale è chiamata a fare la propria parte, mettendo sul piatto le idee che ha, e per l’Italia ieri è stato il ministro Giulio Tremonti a ipotizzare da Parigi «standard legali» per i sistemi finanziari del G8 come anche una moratoria lunga mezzo secolo per i prodotti tossici che impediscono ai mercati di risollevarsi.

Resta da vedere quale ruolo sceglieranno di giocare nella partita dei nuovi equilibri i giganti di Russia, Cina, India, Brasile e Messico come anche potenze regionali inquiete come Iran, Venezuela, Arabia Saudita e Indonesia. La sfida più difficile, per Obama come per Sarkozy, sarà trovare convergenze con questi nuovi attori che in comune hanno una forte aggressività. Lo dimostrano il monito di Pechino a Washington sulla possibilità di non acquistare più debito federale e la disinvoltura con cui Mosca gioca la carta delle forniture di gas contro l’Europa. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro

Alitalia: cosa sta succedendo oggi a Fiumicino.

ROMA (Reuters) – Alcune decine di rappresentati della sigla sindacale SdL Intercategoriale hanno occupato oggi gli uffici dove si svolgono le assunzioni del personale di Alitalia, all’aeroporto romano di Fiumicino, e hanno annunciato per martedì 13 gennaio, data in cui è previsto l’avvio delle attività della nuova compagnia, una manifestazione di protesta.

Lo riferisce in una nota la stessa sigla sindacale precisando che l’occupazione degli uffici è contro “la vergognosa politica delle assunzioni (della compagnia aerea) suggerita da alcune sigle sindacali”.

Contemporaneamente, secondo quanto riferito da un funzionario del sindacato, il segretario nazionale di SdL Trasporto aereo, Paolo Maras, si è incatenato in segno di protesta davanti al centro equipaggi dello scalo della capitale.

Il sindacato chiede che vengano riconsiderati sia il numero degli organici, “largamente insufficienti”, sia i criteri “che devono essere equi, ragionevoli e trasparenti” e sollecita l'”immediata applicazione in Alitalia-Cai di tutti gli strumenti per aumentare l’occupazione”.

Ieri — in una giornata in cui le proteste di alcuni dipendenti di Alitalia hanno provocato la cancellazione di 135 voli da e per l’aeroporto di Fiumicino e altri disagi ai passeggeri — SdL ha annunciato uno sciopero di quattro ore del personale Alitalia-Cai per il 19 gennaio, dalle 10 alle 14. (Beh, buona giornata).

 

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L’Obama-pensiero contro la crisi.

Obama: “Il mio attacco a più punte
contro il tracollo dell’America”

di JOHN HARDWOOD

Alla vigilia del suo discorso sull’economia, il presidente eletto degli Stati Uniti ha rilasciato un’intervista a John Hardwood per il New York Times e la CNBC. Ecco il testo integrale, da repubblica.it 

Pare che il suo pacchetto di incentivi all’economia si aggiri intorno ai 775 miliardi di dollari.
“È così”.
Il rischio è fare troppo poco… Perché dunque fermarsi a una cifra come 775 miliardi di dollari? Perché non arrivare a quell’1,2 trilioni di dollari che gli economisti hanno raccomandato? Forse perché crede che una cifra così sia troppo politicamente carica di significato? O pensa che spendere di più sarebbe più un finanziamento più che un incentivo? O crede di aver individuato la cifra esatta che serve?
“Penso che sia importante tener presente che ogni economista, conservatore o liberal che sia, a questo punto concorda sul fatto che dobbiamo predisporre un piano di recupero sostanziale, che ci aiuti a ridare slancio alla nostra economia, che sul breve periodo ci costerà caro, ma sarebbe estremamente più costoso veder l’economia avvitarsi su se stessa a vuoto come sta accadendo adesso.

“Abbiamo sentito parlare di fasce che vanno da 800 a 1,3 trilioni di dollari e il nostro approccio, considerato il processo legislativo nel quale ci troviamo è che se iniziamo dal basso, possiamo vedere come si evolvono le cose. Ci preoccupa…”.

Sicuramente (il pacchetto) aumenterà….
“Beh, ancora non lo sappiamo. Ma ciò che ci sta davvero a cuore è essere sicuri che i soldi siano spesi con saggezza, che ci sia controllo, trasparenza. Useremo questo denaro per alimentare temporaneamente l’economia, per creare o salvare tre milioni di posti di lavoro, ma anche per qualche anticipo per cose che avremmo già dovuto fare nel corso dei decenni passati che possono contribuire a creare un’economia statunitense più competitiva.


“Le faccio qualche esempio: accertarsi che raddoppiamo le energie alternative, creare edifici e sistemi di trasporto molto più efficienti dal punto di vista energetico, ridurre i costi dell’assistenza sanitaria utilizzando le tecnologie dell’informazione sanitaria, costruire scuole e classi all’altezza di quelle del resto del mondo, così che tutti i nostri bambini ne possano trarre giovamento e possano essere competitivi nell’economia globale.

“Vogliamo essere sicuri che il denaro che spendiamo sia, prima di tutto, utilizzato per creare posti di lavoro, stabilizzare l’economia, ma anche usato con prudenza, così che quando usciremo da questa fase difficile nella quale ci troviamo, vedremo un’economia più solida, migliore, più efficiente”.

Si sono fatti molti paralleli tra lei e John F. Kennedy, che ha anch’egli fatto la storia: era giovane, di una famiglia attraente e nella sua amministrazione si era circondato di cervelloni usciti da Harvard. Ma negli anni Sessanta abbiamo imparato che i migliori e i più intelligenti non sempre prevedevano correttamente le cose.
“Si deve stare attenti ai laureati di Harvard… ti sorprendono sempre!”.

Quanta fiducia ha che il suo piano funzioni davvero? Come eviterà il rischio di essere troppo fiducioso nelle sue possibilità?
“L’approccio che abbiamo scelto è quello di non limitarci a parlare con i soliti sospetti, ma di parlare con persone che di norma non sono d’accordo con me. Se l’ex consigliere economico di Ronald Reagan o l’ex consigliere economico di John McCain o l’ex consigliere economico di George Bush ti danno il medesimo consiglio di quello che i consiglieri di Bill Clinton o di Jimmy Carter ti stanno dando, allora puoi essere pressoché sicuro che in tutto lo spettro politico vi è del consenso.

“Certo, tutto ciò non avverrà nell’arco di una sola notte. La situazione è complessa e sappiamo che, indipendentemente da quanto riusciremo a fare dal punto degli investimenti e della ripresa, dovremo nondimeno fare molte altre cose per essere sicuri che l’economia sia in forma migliore. Una delle cose più importanti che dovremo fare è riformare il modo col quale funzionano i nostri sistemi finanziari. Dobbiamo far sì che il flusso del credito ricominci. Questo significa ripristinare la fiducia, ripristinare le aperture nel sistema. Significa che il nostro contesto normativo deve essere riformato profondamente…

“C’è un pacchetto consistente di riforme che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi renderò noto. Significa che dobbiamo occuparci molto più seriamente della crisi immobiliare che c’è al momento e stabilizzarla. Significa che dovremo pensare a quale approccio avere nei confronti della responsabilità fiscale. Ecco perché ho annunciato che nominerò un funzionario capo addetto alla performance, incaricato di attuare l’impegno che ho sottoscritto in campagna elettorale di andare a fondo nel budget federale, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e determinare quali programmi funzionano e quali programmi non funzionano, eliminando di conseguenza quelli che non funzionano e facendo sì che quelli che funzionano funzionino ancora meglio.

“Si tratta dunque di un attacco a più punte nei confronti di questo enorme tracollo al quale stiamo assistendo al momento. L’obiettivo a lungo termine è essere certi che salveremo e proteggeremo i posti di lavoro, e che le imprese e le famiglie americane siano in grado di beneficiare del flusso del credito nuovamente. Non voglio aumentare le dimensioni del governo a lungo termine: preferirei che fosse il settore privato a fare tutto ciò per conto suo. Ma credo che ci sia un consenso pressoché unanime tra le persone, anche quelle che non sono andate ad Harvard, e che è necessario varare iniziative coraggiose adesso per essere sicuri che facciamo il possibile per evitare che accada il peggio”.

 
Non ha preoccupazioni su questa eccessiva fiducia?
“No, anzi, mi sento schiacciato dalle sfide che ci stanno di fronte. Ma ho fiducia in una cosa: sono un buon ascoltatore, sono bravo a sintetizzare i consigli provenienti da prospettive e ottiche diverse e prenderò le migliori decisioni possibili pensando proprio a che cosa andrà bene per i comuni americani”.

Il presidente Bush ha dovuto per parecchi anni rispondere alle domande sulla sua strategia di disimpegno dall’Iraq. La stessa domanda vale per gli attacchi su più fronti ai quali lei accennava. Pertanto le chiedo: qual è la sua strategia di uscita dalla crisi dell’auto, delle assicurazioni, del settore finanziario? Come decide quando è tempo di smettere di concentrarsi sul breve periodo? Come deciderà che i suoi programmi hanno dato buoni frutti e che è giunto il momento di concentrarsi sulla responsabilità fiscale a lungo termine?

“Deve essere chiaro che non agiremo in fasi successive, ma agiremo su binari paralleli. Pertanto prepareò un budget che sottoporrò al Congresso a febbraio e quel budget conterrà proiezioni a medio termine, a lungo termine come pure a breve termine”.

“Non aspetteremo che passino due anni per iniziare a preoccuparci di quello che dobbiamo fare per il deficit. Vogliamo vedere tutte le cose che possiamo fare durante il mio mandato iniziare a influire riducendo il deficit. In sostanza, io credo che quando si vedrà che il settore privato riprenderà a erogare prestiti, quando il flusso del credito arriverà alle famiglie e alle aziende, quando si potranno acquistare automobili a rate, quando si potrà essere in grado di onorare le rate del mutuo, quando il mercato del lavoro si sarà stabilizzato allora piano piano ci tireremo indietro. Ed è per questo che è estremamente importante per noi monitorare i progressi con grande attenzione.

“Cerchiamo però di capire che le migliori previsioni che abbiamo al momento sono che malgrado tutti gli sforzi più grossi che possiamo fare ancora adesso abbiamo davanti la prospettiva di una disoccupazione considerevole. Non sarà pari a un numero a due cifre come accadrebbe se non facessimo assolutamente nulla… ma potrebbe occorrere buona parte del prossimo anno prima di vedere l’economia riprendere a funzionare come dovrebbe”.

Ci sarà una crescita nella seconda metà del 2009 secondo lei?
“Non ho una sfera di cristallo… ma sono fiducioso in una cosa: se non facessimo niente, le cose peggiorerebbero, e di molto. Con il piano che abbiamo predisposto, le cose andranno in ogni caso meglio di come sarebbero andate altrimenti. Sono fiducioso che potremo creare o salvare tre milioni di posti di lavoro.
Ne abbiamo già persi almeno due milioni. Alla fine di questa settimana potremo leggere un rapporto sui posti di lavoro, dal quale probabilmente emergerà che ne abbiamo persi quanto meno un altro mezzo milione. Se iniziamo a vedere che l’anno prossimo si perderanno tre, quattro, cinque milioni in più di posti di lavoro, allora possiamo stare certi che si tratta di una crisi come non ne abbiamo mai viste e dovremo intervenire e stroncare questo processo sul nascere”.

Parliamo di tasse: quando ci siamo incontrati a giugno lei mi disse che avrebbe potuto posporre alcuni aumenti di tasse che lei ha proposto per far fronte all’attuale situazione economica. Sappiamo che nel suo programma si parla all’incirca di tagli alle tasse pari a 300 miliardi di dollari, ma le chiedo: è pronto adesso a dirci che non procederà alla revoca immediata degli sgravi fiscali apportati dal presidente Bush ai contribuenti che guadagnano più di 250.000 dollari e lasciare la situazione così come è fino al 2010?

 

“Non posso in questo momento qui con lei prendere un impegno così importante e in modo così rapido, John, ma le ripeto che mi preoccupa meno se ciò accade quest’anno o l’anno prossimo. La cosa che più mi preme è riportare parità e equità nel sistema contributivo.

“Ecco perché abbiamo presentato precisi sgravi fiscali nell’ambito del pacchetto delle nostre proposte. Il 95 per cento delle famiglie che lavorano avranno uno sgravio fiscale. Vogliamo anche studiare altri modi con i quali far sì da rimettere quei soldi in tasca velocemente alle famiglie senza dover attendere la prossima dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo, perché altrimenti non si avrà quel genere di effetto incentivo che invece occorre.

“Ma vogliamo altresì essere sicuri che teniamo bene sotto controllo il deficit. Per persone come lei e come me, che guadagnano più di 200-250.000 dollari l’anno, i tagli alle tasse voluti da Bush non erano necessari…. non sono tuttora necessari e pertanto faremo sì che non continuino a essere parte del nostro codice tributario ancora a lungo”.

Non so che cosa intenda lei con i termini importanti e rapido, ma mi sembra che lei non procederà a modificare le cose quest’anno.
“Non ho ancora preso una decisione finale in proposito. Oltretutto ciò rientra tra le cose sulle quali dovremo consultarci con il Congresso”.

In tema di politiche bipartisan: mi sembra che almeno per un momento il dialogo tra i due partiti sia diverso. Quando conta per lei il dialogo bipartisan? È pronto ad accettare idee dalla controparte, anche se non pensa che quelle siano le idee migliori?

“Vede, io la penso in questi termini: la cosa più importante è che cosa serve a ottenere il risultato voluto. Questa è l’ottica dalla quale io considero ogni cosa. È creare tre milioni di posti di lavoro o salvare tre milioni di posti di lavoro? Ci stiamo preparando? Stiamo gettando le fondamenta della nostra indipendenza energetica? Stiamo riducendo le spese della nostra assistenza sanitaria, che sono di importanza cruciale per affrontare il nostro deficit sul lungo periodo? Stiamo creando un sistema scolastico di prima classe? Queste sono le mie priorità assolute.

“Quindi: io non reputo affatto che il partito democratico abbia il monopolio delle buone idee. I repubblicani hanno molto da offrire. Ciò che farò sarà ascoltare e imparare dai miei colleghi repubblicani. Ogniqualvolta saranno in grado di dimostrazione e addurre valide motivazioni a favore di qualcosa che sarà proficuo per il popolo americano, solo perché non ci hanno pensato prima i democratici ma lo promuovono i repubblicani non per questo ignorerò i loro suggerimenti.

“Ci saranno occasioni, naturalmente, nelle quali saremo in disaccordo. E se qualcuno mi presenta un progetto al quale è legato ideologicamente, ma non è in grado di persuadermi che sarà effettivamente buono e positivo per l’economia, allora non se ne farà nulla. Ci saranno anche altre occasioni nelle quali dovremo combattere. Ma dal mio punto di vista io non sono alla ricerca di battaglie: a me interessa quanta più cooperazione possibile. Sono aperto a qualsiasi idea che mi sarà presentata”.

Prevede che la quota di sgravi fiscali del suo piano aumenterà dopo le consultazioni con i repubblicani al Congresso, nel momento in cui lei cercherà di ottenere maggiore supporto per il suo programma?
“L’atteggiamento che intendo avere nei confronti degli sgravi fiscali è il medesimo che intendo applicare al pacchetto degli investimenti. Ovvero: si tratta di denaro speso bene? Questi sono soldi dei contribuenti, che vanno ad aumentare il deficit sul breve periodo. Se non saremo in grado di giustificarli, allora non si spenderanno decine o centinaia di miliardi di dollari soltanto per fare felice qualcuno. E la stessa regola l’applicherò anche a tutto il resto”.

Si concorda pressoché unanimemente che il settore immobiliare è alla radice del problema economico che oggi ci assilla. Pensa che la priorità più assoluta ora sia di far ripartire il settore immobiliare, forse tramite crediti fiscali, o di limitare i pignoramenti?

“Quando si parla di mercato immobiliare, il Consiglio della Federal Reserve ha fatto quello che poteva per abbassare i tassi, quanto più era possibile. Quindi abbiamo visto qualche attività sui rifinanziamenti. Questo non risolve certamente il problema del calo del valore degli immobili.

“Penso che la cosa più importante sia, in tema di calo del valore degli immobili, evitare ulteriori pignoramenti. Ecco perché penso che quanti tra noi stanno ancora pagando un mutuo…. sì, insomma si sente talvolta qualcuno nel Paese che dice: ‘Bene, io sono stato responsabile, perché dovrei dare aiuto a chi forse ha sottoscritto un mutuo che non poteva permettersi?’.

“Questa domanda ci riporta a un adagio secondo il quale se la casa del tuo vicino sta bruciando, la tua prima preoccupazione deve essere quella di spegnere le fiamme, anche se il tuo vicino ha agito irresponsabilmente. Penso che questo è vero anche per i pignoramenti. Dobbiamo evitare questo continuo deterioramento del mercato immobiliare. E ciò inizia proprio con i pignoramenti. Questo non significa che non possiamo anche fornire assistenza, magari non sarà tutta sotto forma di assistenza ai mutui.

“Una delle cose che reputo molto importante nel nostro piano di reinvestimento è fornire gli incentivi per coibentare le case di tutto il Paese. Si tratta di un tipo di investimento a lungo termine che può tagliare drasticamente le bollette energetiche del Paese, aumentare la nostra indipendenza energetica, ridurre i gas serra globali. Quindi, come vede, ci sono alcune aree nelle quali possiamo fare progressi, fornendo sollievo alle famiglie, aiutando i proprietari di casa.

“Ma occuparci della crisi dei pignoramenti dei beni ipotecati è qualcosa che dobbiamo assolutamente fare. Prevedo di rendere noti i miei piani su come evitare i pignoramenti dopo essermi consultato con Barney Frank e Chris Dodd, che hanno fatto un ottimo lavoro da questo punto di vista, in un periodo imprecisato entro il prossimo mese o i prossimi due”.

Nell’ambito della seconda parte del suo pacchetto di interventi di salvataggio finanziari?
“Nell’ambito del nostro attacco a più punte alla crisi”.

Si è molto parlato di Larry Summers, l’ex segretario del Tesoro che dirige la sua commissione economica nazionale e si ipotizza che lei lo sceglierà per sostituire Ben Bernanke come presidente della Federal Reserve, quando il suo mandato scadrà nel 2010. È questa la sua intenzione o lei intende rinnovare la nomina ancora a Ben Bernanke?
” Larry Summers non ha ancora ottenuto questo posto… Io ho fatto il suo nome ma non è ancora iniziata la nostra amministrazione. Penso che sia del tutto prematuro per me fare congetture e speculare sulle nomine di qui a due anni, nel momento in cui ancora non ho la mia squadra pronta”.

Mi permetta una domanda sugli enti di controllo. Ci troviamo oggi in un edificio che un tempo ospitava la Sec. Quanto grosso è l’intervento di riforma dell’apparato normative finanziario che lei propone e appoggia? Quando lo varerà? Pensa che vi sia la necessità di creare un apparato normativo globale? Ad aprile dovrà prendere parte al G-20 a Londra…

“Per quando dovrò prendere parte al G-20 credo che di sicuro avrò presentato il nostro approccio alle normative finanziarie. Penso che una certa coordinazione internazionale ci voglia. Ma al momento noi dobbiamo occuparci della nostra. Wall Street non ha funzionato come doveva, e il nostro sistema normativo di controllo non ha funzionano come si supponeva dovesse fare. Quindi si impone un intervento drastico e sostanziale.

“Dovremo occuparci di farlo applicare meglio, di avere migliori controlli, migliore chiarezza, migliore trasparenza. Dovremo controllare questo insieme di sigle di agenzie varie e escogitare come farle funzionare più efficacemente. Dobbiamo smettere di spezzettare le varie funzioni in modo tale che il capitale sotto una forma è trattato in un modo e il capitale sotto un’altra forma è trattato in un altro, perché in questi tempi di mercati finanziari globali, sono tutti fungibili .

“Ci sono rischi sistemici in agguato, sia sotto forma di derivati, sia di assicurazioni sia di depositi bancari tradizionali. Quindi dobbiamo aggiornare il nostro intero sistema per rispondere alle esigenze del XXI secolo. Questo è un compito sul quale il mio team sta già lavorando e credo che avremo, in tempi abbastanza brevi, un pacchetto da presentare al popolo americano al quale ho lavorato insieme a Barney Frank e Chris Dodd”.

Dick Parsons sarà il suo prossimo segretario del Commercio?
“Non ho ancora preso una decisione finale su chi sceglierò per essere il prossimo segretario del Commercio. Quando lo saprò, te lo farò sapere, John”.

Ma Parsons è un candidato?
“Non farò commenti in proposito. Dick Parsons è una persona in gamba ed è anche mio amico”.

E’ fiducioso di avere ormai alle spalle questo breve periodo di controversia sulla scelta di Lon Panetta come capo della Cia? Quanto crede che sarà difficile per lei cercare di tradurre in pratica il suo impegno a porre fine al concetto che gli Stati Uniti ammettono la tortura?
“Prima di tutto io non ho fatto alcuna dichiarazione ufficiale su Leon Panetta. Quando lo farò sarà perché avrò qualcosa di più da dire in proposito. Posso soltanto dire che Leon Panetta è un funzionario pubblico eccezionale, che ha un’integrità impeccabile. È una persona che ha lavorato ai più alti livelli per la sicurezza nazionale e se dovessi sceglierlo penso che svolgerebbe meravigliosamente il suo lavoro.

“C’è una questione più ampia di cui occuparsi, però. Come ricominciamo, come rietichettiamo le nostre operazioni di intelligence? Nella Cia, nel nostro Dipartimento dell’Intelligence Nazionale ci sono persone straordinarie che hanno fatto un lavoro incredibile e voglio che abbiano tutto ciò di cui necessitano per poter lavorare in modo efficiente. Voglio anche essere sicuro che tutte queste persone che lavorano così duramente per fornire le migliori intelligence all’apparato della nostra sicurezza nazionale, che operano nel segreto e conformemente alle politiche scelte, non si trovino sotto i riflettori e accusati, o finiscano col portare il peso delle conseguenze di quello che facciamo se non dovessimo vivere all’altezza dei nostri ideali e dei nostri valori più alti”.

Prevede che sarà difficile cambiare queste cose?
“Sì”.

Ci vorrebbe qualcosa di preciso che stabilisse che cosa esattamente è etichettabile come tortura, non crede?
“Mi permetta di farle un esempio. Io credo che ci siano alcune cose che non sono difficili. Noi ottemperiamo alle Convenzioni di Ginevra: questo non dovrebbe essere difficile. Noi abbiamo contribuito a redigerle. Le abbiamo sostenute e ci sono servite bene.

“Penso che chiuderò Guantanamo. Come lo faremo non è facile a dirsi, perché ci saranno persone che sono state recluse lì, e molte di loro di fatto potrebbero essere molto pericolose. Dovremmo averle processate , prima di ogni altra cosa, ma adesso a causa delle circostanze nelle quali ci siamo trovati per svariati anni, è molto più difficile perché alcune delle prove contro di loro possono essere alterate dalle modalità con le quali sono state ottenute. Quindi dovremo procedere a una revisione molto attenta di come procedere.

“Tuttavia il mio impegno è questo: nessuna tortura, adesione totale alla legalità, adesione totale alla nostra Costituzione, adesione totale alle Convenzioni di Ginevra. Queste cose sono state messe a punto non soltanto per farci sentire bene, ma sono state concepite per essere sicuri che continueremo a comunicare che noi abbiamo una solida morale, che l’America vive secondo standard più elevati. Questo nel lungo periodo ci porterà sicuramente benefici, e ci renderà più sicuri”.

Lei ha spesso instaurato confronti…. O meglio, le sfide alle quali lei deve far fronte hanno fatto sì che si instaurassero paragoni anche con Franklin Roosevelt…
“Esatto”.

… con i tempi della peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Quando Franklin Delano Roosevelt fece il suo discorso inaugurale egli disse al popolo americano: “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”.
“Esatto”.

Quando il 20 gennaio lei farà il suo discorso inaugurale crede che dovrà ricoprire questo medesimo ruolo? Rassicurare il popolo americano? Come bilancerà questo messaggio con la necessità di trasmettere l’urgenza di ciò che si dovrà fare?
“È interessante…. Come può immaginare di recente ho letto vari discorsi inaugurali. Se si legge il primo discorso di Franklin Delano Roosevelt l’unica frase che ci si ricorda è quella, “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”, ma di fatto il grosso del suo discorso si incentrava sulla necessità di agire e agire subito. Poi Roosevelt spiegava, credo, la natura della crisi, sia nel suo discorso inaugurale, sia nelle sue famose chiacchierate accanto al caminetto, tanto quanto chiunque altro.

“Questo è un consiglio che ho ricevuto da un ex presidente, che mi ha detto: “Barack, parte del tuo successo e di come stai agendo bene al momento è che tu non parli con mezzi termini con il popolo americano, tu dici le cose come stanno, spiegando ciò che sta accadendo e come sta accadendo”. Io ho fiducia nel popolo americano: se gli si parla chiaramente, se ci si spiega chiaramente, dicendo testualmente “Questa è la nostra sfida, siamo arrivati a questo punto perché abbiamo fatto questo, e questa è la direzione che secondo me dobbiamo imboccare”, allora io sono assolutamente fiducioso che il popolo americano sarà all’altezza della sfida. Quindi il mio compito, sia nel discorso inaugurale, sia nei mesi che seguiranno, sarà semplicemente quello di spiegare quanto più onestamente e sinceramente possibile quali sono le circostanze, quali sono le idee migliori che abbiamo per far fronte a queste sfide. Se ci riuscirò sono sicuro che saremo uniti per risolvere questi problemi”.

Girano un sacco di voci nella cultura americana contemporanea. Si discute della sinistra, della destra, in televisione, continuamente, e anche del sistema finanziario. Per lei è importante o è più importante astrarsi da tutto ciò e decidere ancora prima che non avranno peso?
“Io credo che sia importante non vivere in una bolla. Quindi bisogna essere aperti alle informazioni che arrivano da fuori, in particolare le critiche. Io leggo di rado la stampa, ma spesso leggo la “cattiva” stampa, non perché sia d’accordo con quella, ma perché voglio capire in quali aree sto agendo male e dove posso migliorare”.

Finora non ci sono stati articoli cattivi su di lei…
“Sono sicuro che arriveranno… per quanto riguarda i mercati, però, la situazione è leggermente diversa. Per il momento, considerata la sua vulnerabilità, dovrò prestare attenzione all’aspetto psicologico del mercato, perché parte di ciò a cui stiamo assistendo nasce da una perdita di fiducia sia nel mercato sia nel governo che ripristina tale fiducia.

“Pertanto ripristinare la fiducia è una prima cosa estremamente importante. Quello che farò sarà essere sicuro di comunicare a scadenze regolari con gli attori più importanti del mercato e di spiegare loro con esattezza quali sono i nostri piani chiedendo loro di mettere a disposizione i loro suggerimenti migliori. Nel complesso, comunque, una delle cose dell’essere presidente che mi sono abbastanza chiare è che dovrò guardare oltre l’orizzonte. Non posso guardare i titoli dei notiziari di oggi perché se lo facessi allora probabilmente non prenderei le decisioni sulla base di ciò che è meglio per il Paese. Sprecherei molto tempo a preoccuparmi della politica di tutti i giorni, giorno dopo giorno, e questo è qualcosa che devo cercare di evitare”.

Visto che parliamo di come evitare i problemi legati al fatto di vivere in una bolla, ha ancora in tasca uno di questi? (Estrae dalla tasca un BlackBerry).
“In realtà l’ho messo da parte per questa intervista, ma mi porto ancora dietro il mio BlackBerry. Dovranno strapparmelo dalle mani!”.

Riuscirà ad accettare questa idea anacronistica, forse, di un presidente che non può utilizzare i mezzi più moderni?
“Ecco quello che sono giunto a capire: credo che riuscirò ad avere accesso a un computer, da qualche parte. Non sarà proprio nello Studio Ovale! La seconda cosa che spero è di vedere se in qualche modo riusciranno a consentirmi di continuare ad avere accesso al mio BlackBerry. So che…”

In questo momento lei ha ancora il BlackBerry?
“In questo momento ancora sì. Ma devo aggiungere che crea preoccupazione non soltanto ai Servizi Segreti, ma anche agli avvocati. Come sa, questa città pullula di avvocati. Non so se se ne è accorto…”.

Sì!
“E tutti questi avvocati hanno un sacco di opinioni diverse. Quindi, sto ancora lottando… ma senta, forse è la cosa più difficile dell’essere presidente: come rimanere in contatto con il flusso della vita quotidiana? Sa quando eravamo in vacanza alle Hawaii mi sono sentito molto scoraggiato dall’essere tenuto d’occhio costantemente dalle guardie del corpo. Anche solo andare a prendere una granita è stata un’impresa…”

E le hanno detto di non andarsene in giro senza maglietta?
” Quello l’ho imparato sin dal primo giorno, ma credo che… ”

E’ stato imbarazzante per lei? Se ne è preoccupato? Ci sono stati molti commenti su questo.
“Lo so, è stato sciocco, ma si sa, in questo lavoro ci sono molti aspetti sciocchi”.

Ha ricevuto bei complimenti, però.
“Mia moglie ha ridacchiato quando sono arrossito. In ogni caso… di che cosa stavamo parlando? Siamo usciti fuori argomento, John…”

Stava dicendo che pare proprio che dovrà lottare per tenersi il suo BlackBerry…
“Non so se la spunterò, ma mi sto battendo ancora… Ma il punto è un altro… Immagino che non è solo il flusso di informazioni. Voglio dire, potrò sempre chiedere a qualcuno di stamparmi le notizie di agenzia e potrò leggere i giornali. Quello che mi sta a cuore è avere meccanismi con i quali interagire con le persone che sono fuori dalla Casa Bianca in modo significativo.

“Dovrò cercare ogni opportunità possibile per farlo…. modi che non sono complicati, che non sono controllati, in cui la gente non cerchi solo di farti i complimenti o di alzarsi in piedi quando entro in una stanza, modi di stare con i piedi per terra. Se riuscirò a gestire questa cosa nei prossimi quattro anni, credo che mi aiuterà a servire il popolo americano meglio, perché sarò in grado di sentire quello che dice, la voce di tutti. Non dovranno tacere per il fatto che io sono alla Casa Bianca”.

Un’ultima domanda: la Florida domanica gioca in Ocklaohoma in quella che da tutti è considerata la partita determinante del campionato nazionale. Lei ha parlato della necessità di un playoff nel football universitario. Pensa che l’Utah, che ha terminato il campionato senza essere sconfitta dalla squadra dell’Alabama che ha sconfitto tutti, abbia buoni motivi per dichiararsi campione di questo campionato nazionale?
“Penso che l’Utah abbia ottimi motivi. Penso che gli USC, che hanno un grande Rose Bowl, hanno battuto di brutto Penn State. Hanno ottimi motivi per dichiararsi vincitori. Florida e Ocklahoma, penso l’abbiano entrambi. Il Texas a questo punto deve sentirsi un po’… come dire … ‘Beh, ci siamo comportati bene anche noi’. Insomma, io credo che il sistema dei playoff nel football sia utile… Ne ho parlato e ne parlo già da un pezzo e credo che se chiede a chi se ne intende di sport ed è un tifoso ne troverà molti d’accordo con me. Ma io posso scegliere e decidere in quali battaglie lanciarmi: credo che probabilmente mi concentrerò a creare tre milioni di posti di lavoro in più!”.  (Beh, buona giornata).

Copyright New York Times News Service/CNBC – Traduzione di Anna Bissanti

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Attualità Media e tecnologia

Una brutta notizia.

da zeusnews.com

L’Unione Europea ha autorizzato le forze di polizia a compiere perquisizioni a distanza sui Pc dei cittadini.

Il Consiglio dei Ministri Europeo ha dato l’assenso e subito Inghilterra e Germania si sono mosse per adeguarsi con gioia al nuovo corso: nell’Unione Europea è ora possibilie l’hacking di Stato.

Le forze di polizia degli Stati membri non hanno più bisogno di un mandato e di essere in possesso di prove per perquisire da remoto i computer dei cittadini: ora hanno ufficialmente il permesso di avviare una “sorveglianza intrusiva della proprietà privata” in maniera del tutto autonoma e anonima.

I gruppi in difesa dei diritti umani, Liberty in testa, stanno insorgendo. Shami Chakrabarti, membro di Liberty, sostiene che “Non è diverso dall’irrompere a casa di qualcuno, analizzare i suoi documenti e sequestrare l’hard disk”. Solo che in questo modo il sospettato (se ancora così lo si può definire) non ne ha nemmeno coscienza.

Ovviamente, intromettersi nel computer di qualcuno è un’attività che richiede la compromissione del sistema che opera su quel determinato Pc: assisteremo forse all’invio di mail che contengono virus da parte delle forza dell’ordine? E i produttori di antivirus e software per la sicurezza come si porranno in questa situazione?

Nonostante il Ministero dell’Interno inglese si sia subito attivato per sminuire la portata di questo provvedimento ma senza negare le conseguenze paventate, non solo la privacy dei cittadini viene messa a rischio (qualcuno potrebbe anche dire “Ma tanto io non ho nulla da nascondere”) ma la sicurezza stessa dei loro computer.

Senza contare, poi, le sempre presenti possibilità di abuso di un potere esercitabile senza bisogno dell’autorizzazione di alcuno.

Tratto da: ZEUS News – www.zeusnews.com

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

Guerra da orbi nella Striscia di Gaza.

di VITTORIO ZUCCONI da repubblica.it

Il 31 dicembre scorso, la Corte Suprema dello Stato di Israele, non il governo di Teheran o i Fratelli Mussulmani, ha ordinato al governo di permettere l’accesso ai giornalisti internazionali nella striscia di Gaza per osservare gli effetti dei bombardamenti e seguire le operazioni dell’esercito.

Fino a questo momento – siamo alla mattina di mercoledì 7 gennaio – risulta che la stampa internazionale resti bloccata all’interno della linea di frontiera, dettaglio che non viene mai ben chiarito dai giornalisti nei loro servizi.

In compenso, la stampa estera è condotta diligentemente da ufficiali e portavoce di Tzahal, l’esercito d’Israele, a visitare tutti i luoghi dove sia caduto uno razzo di Hamas.

La giustificazione del rifiuto dei generali di obbedire all’ordine della loro Corte Suprema è che la presenza dei giornalisti complica il “lavoro” delle truppe e crea agitazione e confusione nell’opinione pubblica interna e internazionale.

Curiosa e controproducente giustificazione, questa. Il risultato pratico è che le immagini che comunque arrivano da Gaza sono sempre e soltanto filmate da operatori di Hamas o comunque palestinesi, dunque sospettabili di strumentalizzazioni propagandistiche, come sempre e come in tutte le guerre.

Per paura dei giornalisti, le forze israeliane lasciano ai propri nemici il monopolio delle immagini che illuminano d’orrore i nostri televisori. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Alitalia: vi ricordate “Oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri(*)”?

ALITALIA: PARADOSSI TRA LE NUVOLE

di Andrea Boitani da lavoce.info (segnalato da hans suter).

Diventa operativa il 13 gennaio la nuova Alitalia. Non siamo alla conclusione dell’estenuante telenovela perché rimangono le polemiche intorno al partner straniero e al destino di Malpensa. Gli errori, la cattiva gestione e le indebite intrusioni della politica sono l’esempio di una pessima conduzione di crisi d’impresa. Ne pagano il prezzo altissimo i cittadini italiani, sia come contribuenti sia come utenti del servizio aereo. Esce sconfitta l’autonomia dell’autorità Antitrust.

Dopo oltre un anno, fiumi di parole, estenuanti trattative, offerte vincolanti, veti sindacali, penultimatum di ogni genere, proclami politici, vessilli nazionali sventolati e poi cautamente riposti, cordate di capitani coraggiosi a lungo invano invocate, sollecitate e poi robustamente aiutate, scioperi veri e scioperi bianchi, una catastrofica caduta dei passeggeri, la nuova Alitalia dovrebbe diventare operativa il 13 gennaio, con un partner straniero che dovrebbe essere Air France, salvo sorprese dell’ultimo minuto. Sarà una compagnia piccola: inizialmente opererà 670 voli a settimana contro i 1050 operati nel 2008 dalla somma della vecchia Alitalia e di Air One (una riduzione del 36%).

PICCOLA, POTENTE, COSTOSA (PER I CITTADINI)

Alitalia piccola, ma con maggior potere sulla rotta Milano-Roma, che verrà presidiata con 290 voli settimanali, di cui 255 su Linate (il 38% di tutti i voli della nuova compagnia). L’Antitrust – il cui potere d’intervento nella vicenda era stato sostanzialmente ridotto per decreto governativo – ha assunto un atteggiamento così minimalista da rasentare il ridicolo. Il prevedibile incremento delle tariffe sulla Milano Linate – Roma ha subito spinto Trenitalia ad aumentare sostanziosamente le tariffe ferroviarie sulla stessa tratta, approfittando dell’inaugurazione dell’alta velocità tra Milano e Bologna.
Si può obiettare che, una volta definita l’alleanza con Air France, i clienti della nuova Alitalia potranno beneficiare della vastissima offerta di uno dei maggiori network mondiali (Skyteam). Ma va pur detto che se si fosse accettata l’offerta di Air France-Klm del marzo scorso, il beneficio del network internazionale sarebbe stato identico, mentre Air One sarebbe rimasta indipendente o sarebbe stata acquisita da Lufthansa (della cui “galassia”, Star Alliance, faceva già parte), con il conseguente beneficio della maggior concorrenza. Per non parlare dei maggiori costi sociali (maggiori esuberi) e per lo Stato (quindi per tutti i cittadini) che ha prodotto la decisione di ammainare la bandiera a gennaio 2009 invece che nell’aprile 2008 (1). Vale solo la pena di ricordare che gli stimati (complessivi) 4 miliardi di euro equivalgono a 333.333 sussidi di disoccupazione da 1000 euro al mese per un anno.

MALPENSA E FIUMICINO: IL DERBY CHE NON C’È

Salta agli occhi che, nonostante l’impegno di tanti “nordisti”, la nuova compagnia avrà come (semi) hub Roma Fiumicino: le destinazioni intercontinentali da Malpensa saranno solo 3 contro le 13 da Fiumicino. Ancora di più salta agli occhi che – nonostante la privatizzazione totale di Alitalia – molti politici continuino a pensare che sia la politica a dover decidere le alleanze della compagnia, in funzione delle esigenze del territorio. Non è possibile dire, a priori, se la scelta di Air France si rivelerà migliore della scelta di Lufthansa. Dipende anche dalle concrete offerte finanziarie che le due compagnie avranno fatto (si sa che Air France ha offerto 300 milioni per il 25% della nuova Alitalia). Ma è certo che la scelta deve essere compiuta dagli azionisti della nuova Alitalia, valutando solo ciò che è bene per la compagnia. Resta da notare il singolare argomento di alcuni vocali paladini del fronte del Nord, secondo i quali se l’alleato sarà Air France, allora bisognerà procedere rapidamente alla revisione degli accordi bilaterali per consentire a compagnie diverse da Alitalia di volare da Malpensa sulle rotte intercontinentali non liberalizzate (cioè tutte, salvo quelle verso gli Usa). La liberalizzazione dei voli andrebbe fatta se l’alleato sarà Air France che favorisce Fiumicino, ma non andrebbe fatta se verrà scelta Lufthansa, che favorirebbe Malpensa! In realtà, la revisione dei bilaterali va fatta comunque, perché una maggiore concorrenza nei servizi aerei intercontinentali è un vero interesse nazionale e garantisce lo sviluppo di Malpensa (così come di altri aeroporti italiani, al Sud per esempio), indipendentemente dal fatto che Cai “sposi” una francese o una tedesca. Ma non risulta che il governo italiano si sia mosso o si stia muovendo in questa direzione, che certo non fa piacere agli azionisti di Cai. L’impresa, infatti, vuole riservarsi la possibilità di riattivare le rotte ora dismesse senza ritrovarsi tra i piedi scomodi concorrenti. Dato che la revisione dei bilaterali non si fa in un giorno, sarebbe il caso di darsi da fare subito, a prescindere dalle decisioni della nuova Alitalia. È troppo chiedere autonomia dell’impresa dalla politica e autonomia della politica dalle imprese?

IL PREZZO DI AIR ONE

Infine, la questione della valutazione di Air One da parte di Cai. Si tratta di 790 milioni, 300 in contanti e 490 per i debiti di Air One, contro i 1052 pagati per Alitalia, al netto dei debiti di quest’ultima (che sono rimasti in capo alla “bad company”). Ma Air One ha un fatturato che è un quinto (20%) di quello di Alitalia. Quindi, considerando soltanto i 300 milioni “freschi”, sembra che pagare Air One oltre il 28% di quanto si è pagata Alitalia, accollandosi anche i debiti, sia un bel pagare: in totale Cai sborsa per Air One il 75% di quanto ha sborsato per Alitalia. Rocco Sabelli (l’aamministratore delegato di Cai) aveva giustificato la supervalutazione con le “sinergie derivanti dal mettere insieme due reti sovrapposte, che stimiamo 150-200 milioni all’anno per alcuni anni”(2). Qualcuno ha però osservato: “ma è chiaro che su Colaninno e sulla valutazione finanziaria (a meno Toto non avrebbe venduto) ha pesato il pressing di Intesa San Paolo, decisa a rientrare dai crediti vantati verso Air One, che stavano diventando un problema per la banca guidata da Corrado Passera” (3). Sarebbe interessante sapere se le cose stiano proprio così o se Carlo Toto abbia soltanto potuto esigere un premio per le “sinergie” e – verrebbe da aggiungere – per il monopolio sulla Milano-Roma che l’acquisizione di Air One ha consentito alla nuova Alitalia di riconquistare. (Beh, buona giornata).

(1) Si vedano i sintetici conti presentati da Tito Boeri su Repubblica del 2 gennaio 2009.
(2) Dichiarazione riportata da Gianni Dragoni su Il Sole 24 Ore del 13 dicembre 2008.
(3) Marco Alfieri su Il Sole 24 Ore del 30 dicembre 2008.

(*) “Alitalia: oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri” è stato pubblicato su “Beh, buona giornata “il 1.11.08, nelle categorie Attalità, Finanza e Economia, Lavoro.

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Ancora grazie ai lettori di “Pubblicità ingannevole? No, ingannata.”

Il 5 gennaio ho scritto:

“Pubblicità ingannevole? No, ingannata”, apparso su questo sito il 3 gennaio è stato pubblicato da: ilmessaggero.it; ilmattino.it; google news; megachip.info; viaparaocchi.splinder,com; informazione.it; natasha.it; ilretegiornale.it; raulken.it; edit.splinder.com; spinder.com; oracamminiamoeretti.com; wikio.it; cronachemaceratesi.it; socialprosumer.splinder.com.; oltre che da marcoferri.blog.espresso.repubblica.it. Questa non è pubblicità ingannevole.

Oggi devo aggiungere:

gazzettino.it; expobg.it; braccianoonline,com; science.am; mallabruzzo.it; medical-malpractrice.it; newmedia.it; italy-altop.com; mutuiaconfronto.com; tomolo.it; idir.it; notiziario.net z-chat.info; guazzabuglio.net; massimobinelli.it; cinquelire.info; vivavocetruria.it; inerba.org; inerba.org; laparoscopic.it; immobiliarebello.it; noutopy.org; palmadimontechiaro.com; comune.comunnuovo.bg.it; acitrezzaonline.it.

Non aggiungerò ancora che questa non è pubblicità ingannevole. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

Perché e come è nata l’Operazione Piombo Fuso/2. (Fine).

Seconda parte di L’invasione di Gaza: La “Operazione Piombo Fuso” è parte di un più vasto programma militare e d’intelligence israeliano – 6/01/09 da megachip.info
   
di Michel ChossudovskyGlobal Research

Continuità: da Sharon a Olmert
È importante concentrare l’attenzione su vari eventi chiave che hanno portato fino agli eccidi di Gaza sotto la “Operazione Piombo Fuso”:

1. L’assassinio nel novembre 2004 di Yasser Arafat. Questo assassinio è stato nel tavolo dei progetti dal 1996 nell’ambito della “Operazione Campi di Spine”. Secondo un documento dell’ottobre 2000 «preparato dai servizi di sicurezza, su richiesta dell’allora Primo Ministro Ehud Barak, si sosteneva che “Arafat, la persona, è una grave minaccia alla sicurezza dello Stato [di Israele] e il danno che risulterà dalla sua scomparsa è minore del danno causato dalla sua esistenza.» (Tanya Reinhart, Evil Unleashed, Israel’s move to destroy the Palestinian Authority is a calculated plan, long in the making, Global Research, dicembre 2001. Dettagli del documento furono pubblicati su Ma’ariv, 6 luglio 2001.).
L’assassinio di Arafat fu ordinato nel 2003 dal gabinetto di governo israeliano. Venne approvato dagli USA che posero il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che condannava la decisione del 2003 del governo israeliano. In reazione agli aumentati attacchi palestinesi, nel 2003 il ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz dichiarò una “guerra totale” ai militanti cui giurò che erano “marchiati a morte”
«A metà settembre il governo israeliano approvò un provvedimento per sbarazzarsi di Arafat. Il consiglio di gabinetto per gli affari di sicurezza politica la definì “una decisione volta rimuovere Arafat in quanto ostacolo alla pace.” Mofaz minacciò: “sceglieremo il modo e il tempo giusti per uccidere Arafat.” Il ministro palestinese Saeb Erekat disse alla CNN che riteneva che Arafat sarebbe stato il prossimo obiettivo. La CNN chiese al portavoce di Sharon, Ra’anan Gissan se il voto significasse l’espulsione di Arafat. Gissan chiarì: “Non significa questo. Il consiglio di gabinetto ha deciso oggi di rimuovere questo ostacolo. Il tempo, il metodo, i modi con cui ciò avrà luogo saranno decisi in separata sede, e i servizi di sicurezza sorveglieranno la situazione e faranno le raccomandazioni sull’azione più appropriata.» (Si veda Trish Shuh, “Road Map for a Decease Plan”, www.mehrnews.com, 9 novembre 2005.
L’assassinio di Arafat era parte del Piano Dagan del 2001. Con ogni probabilità, fu portato avanti dall’intelligence israeliana. Era intesa a distruggere l’Autorità Palestinese, fomentare divisioni all’interno di al-Fatah così come tra al-Fatah e Hamas. Mahmud Abbas è un quisling palestinese. Venne installato come leader di al-Fatah, con l’approvazione di Israele e degli Stati Uniti, che finanziano le forze paramilitari e di sicurezza dell’Autorità Palestinese.

2. La rimozione, in base agli ordini del Primo Ministro Ariel Sharon nel 2005, di tutte le colonie ebraiche a Gaza. Una popolazione ebraica di 7mila persone venne ridislocata.
«“È mia intenzione [Sharon] portare avanti un’evacuazione – scusate, una ridislocazione – degli insediamenti che ci causano problemi e dei luoghi non in grado di durare fino a diventare un insediamento finale, come gli insediamenti di Gaza… sto lavorando nel presupposto che in futuro non ci saranno ebrei a Gaza” ha detto Sharon »(CBC, March 2004)
La questione delle colonie di Gaza fu presentata come parte della “road map verso la pace” sponsorizzata da Washington. Celebrata dai palestinesi come una “vittoria”, questa misura non era diretta contro i coloni ebrei. Era piuttosto il contrario: faceva parte  della operazione coperta complessiva, che consisteva nel trasformare Gaza in un campo di concentramento. Finché i coloni ebrei vivevano dentro Gaza, l’obiettivo di sostenere un vasto territorio-prigione sigillato non poteva essere conseguito. La realizzazione concreta della “Operazione Piombo Fuso” imponeva “niente ebrei a Gaza”.

3. La costruzione del famigerato Muro dell’Apartheid fu decisa all’inizio del governo Sharon,
4. La fase successiva fu la vittoria elettorale di Hamas nel gennaio 2006. Senza Arafat, gli architetti dell’intelligence militare israeliana sapevano che al-Fatah sotto Mahmud Abbas avrebbe perso le elezioni. Questo faceva parte dello scenario, già previsto e analizzato ben prima.
Essendo in capo ad Hamas la responsabilità dell’autorità palestinese, e nell’usare il pretesto che Hamas è un’organizzazione terroristica, Israele avrebbe intrapreso il processo di “cantonalizzazione” come formulato nel Piano Dagan. Al-Fatah sotto la guida di Mahmud Abbas sarebbe rimasta formalmente responsabile della Cisgiordania. Il governo regolarmente eletto di Hamas sarebbe stato confinato nella Striscia di Gaza.

L’attacco di terra
Il 3 gennaio, i carri armati e la fanteria sono entrati a Gaza in un’offensiva totale sul terreno:
«L’operazione di terra è stata preceduta da varie ore di fuoco pesante di artiglieria dopo il buio, che ha mandato i bersagli in fiamme sviluppatesi nel cielo notturno. Il fuoco delle mitragliatrici ha crepitato quando i traccianti hanno illuminato l’oscurità e lo scoppio di centinaia di proiettili di artiglieria ha lanciato scie di fuoco» (AP, 3 gennaio 2009).
Fonti israeliane hanno sottolineato un lungo decorso per l’operazione militare. Essa «non sarà facile e non sarà breve», ha affermato il ministro della Difesa Ehud Barak in un discorso alla TV.
Israele non sta mirando a obbligare Hamas a “cooperare”. Ciò cui assistiamo è la messa in pratica del “Piano Dagan” così come formulato inizialmente nel 2001, giacché si appellava a:
«un’invasione del territorio a controllo palestinese da parte di circa 30mila soldati israeliani, con la ben definita missione di distruggere l’infrastruttura della leadership palestinese e di requisire gli armamenti attualmente posseduti dalle varie forze palestinesi, ed espellendo o uccidendo la sua leadership militare.» (Ellis Shulman, op. cit., grassetto aggiunto, ndr)
La questione più generale è se Israele d’intesa con Washington abbia l’intenzione di scatenare una guerra più ampia
L’espulsione di massa potrebbe avvenire in qualche fase finale dell’invasione di terra, se fossero gli israeliani ad aprire i confini di Gaza per consentire un esodo della popolazione. Fu da parte di Sharon il riferimento all’espulsione come «una soluzione in stile 1948». Per Sharon «è solo necessario trovare un altro Stato per i palestinesi: “la Giordania è Palestina”, era una frase che fu Sharon a coniare» (Tanya Reinhart, op. cit.) (Beh, buona giornata).

Link all’originale: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11606.
Traduzione di Pino Cabras – Megachip

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Attualità Popoli e politiche

Perché e come è nata l’Operazione Piombo Fuso/1. (Continua).

L’invasione di Gaza: La “Operazione Piombo Fuso” è parte di un più vasto programma militare e d’intelligence israeliano – 6/01/09 da megachip.info

di Michel ChossudovskyGlobal Research

I bombardamenti aerei e l’invasione terrestre di Gaza ora in corso da parte delle forze di terra israeliane devono essere analizzati all’interno di un contesto storico. L’operazione “Piombo Fuso” è un’impresa attentamente pianificata, a sua volta parte di un più vasto programma militare e d’intelligence israeliano formulato per la prima volta dal governo del primo ministro Ariel Sharon nel 2001:
«Fonti negli ambienti della Difesa hanno riferito che il Ministro Ehud Barak ha istruito le Forze di Difesa di Israele (IDF) affinché si preparassero per l’operazione oltre sei mesi fa, già al momento in cui Israele stava iniziando a negoziare un accordo di cessate il fuoco con Hamas.» (Barak Ravid, Operation “Cast Lead”: Israeli Air Force strike followed months of planning, «Haaretz», 27 dicembre 2008)

È stata Israele a violare la tregua il giorno delle elezioni presidenziali USA, il 4 novembre:
«Israele ha usato questa distrazione per interrompere il cessate il fuoco con Hamas attraverso un bombardamento della Striscia di Gaza. Israele ha asserito che questa violazione del cessate il fuoco mirava a impedire ad Hamas di scavare dei tunnel all’interno del territorio israeliano.
Proprio il giorno dopo, Israele ha lanciato un terrificante assedio di Gaza, tagliando cibo, carburante, forniture sanitarie e altri beni di necessità nel tentativo di “soggiogare” i palestinesi nel mentre che si impegnava in incursioni armate.
Come risposta, Hamas e altri a Gaza iniziarono di nuovo a sparare verso Israele dei razzi rudimentali, artigianali e fondamentalmente imprecisi. Nel corso degli ultimi sette anni, questi razzi hanno causato la morte di 17 israeliani. Nello stesso lasso di tempo, gli assalti israeliani in stile blitzkrieg hanno ucciso migliaia di palestinesi, sollevando proteste in tutto il mondo ma cadendo davanti alle orecchie sorde dell’ONU.» (Shamus Cooke, The Massacre in Palestine and the Threat of a Wider War, «Global Research», dicembre 2008)

Un disastro umanitario pianificato
L’8 dicembre, il numero due del Dipartimento di Stato USA, John Negroponte, era a Tel Aviv per discussioni con le controparti israeliane, compreso il direttore del Mossad, Meir Dagan.
La “Operazione Piombo Fuso” è stata iniziata due giorni dopo Natale. È stata abbinata a una campagna internazionale di Public Relations minuziosamente pianificata sotto gli auspici della ministra degli esteri israeliana.
I bersagli militari di Hamas non sono il principale obiettivo. L’Operazione “Piombo Fuso è intesa, in modo abbastanza deliberato, a causare vittime civili.
Ciò con cui abbiamo a che fare è un “disastro umanitario pianificato” a Gaza in un’area urbana densamente popolata (vedi la mappa sotto indicata)
L’obiettivo di lungo periodo di questo piano, così come formulato dai decisori politici israeliani, è l’espulsione dei palestinesi dalle terre palestinesi.
«Terrorizzare la popolazione civile, assicurando la massima distruzione della proprietà e delle risorse culturali… La vita quotidiana dei palestinesi deve essere resa insostenibile. Devono essere segregati in città e borghi, impediti dall’esercitare una vita economica normale, tagliati fuori da luoghi di lavoro, scuole e ospedali. Ciò incoraggerà l’emigrazione e indebolirà la resistenza nei confronti di future espulsioni.» (Ur Shlonsky, citato da Ghali Hassan, Gaza: The World’s Largest Prison, Global Research, 2005)

“Operazione Vendetta Giustificata”
È stato raggiunto un punto di svolta. L’operazione “Piombo Fuso” è parte di una più vasta operazione militare e d’intelligence iniziata agli esordi del governo di Ariel Sharon nel 2001. Fu sotto la “Operazione Vendetta Giustificata” di Sharon che i caccia F-16 furono inizialmente usati per bombardare le città palestinesi.
La “Operazione Vendetta Giustificata” fu presentata nel luglio 2001 al governo israeliano di Ariel Sharon dal capo di stato maggiore dell’IDF Shaul Mofaz, con il titolo “La distruzione dell’Autorità Palestinese e il disarmo di tutte le forze armate”.
«Un piano d’emergenza, dal nome in codice ‘Operazione Vendetta Giustificata’, è stato redatto lo scorso giugno (2001) per rioccupare tutta la Cisgiordania e possibilmente la Striscia di Gaza al costo probabile di “centinaia” di vittime israeliane.» («Washington Times», 19 marzo 2002).
Stando a quanto ha riferito «Jane’s Foreign Report» (12 luglio 2001) l’esercito israeliano sotto Sharon aveva aggiornato i suoi piani per un «assalto su vasta scala volto ad abbattere l’autorità palestinese, esiliare il leader Yasser Arafat e uccidere o imprigionare il suo esercito».

“Giustificazione per lo spargimento di sangue”
La “Giustificazione per lo spargimento di sangue” era una componente essenziale del programma militare e d’intelligence. L’uccisione di civili palestinesi veniva giustificata su “basi umanitarie.” Le operazioni militari israeliane erano accuratamente sincronizzate in modo da coincidere con gli attentati suicidi:
«L’assalto sarebbe stato lanciato, a discrezione del governo, dopo un grosso attacco suicida con bombe che avesse causato un gran numero di morti e feriti, citando lo spargimento di sangue come giustificazione.» (Tanya Reinhart, Evil Unleashed, Israel’s move to destroy the Palestinian Authority is a calculated plan, long in the making, Global Research, dicembre 2001, grassetto aggiunto, ndr)

Il piano Dagan
La “Operazione Vendetta Giustificata” ha avuto anche il nome di “Piano Dagan”, in riferimento al generale (ora in congedo) Meir Dagan, che attualmente guida il Mossad, l’agenzia d’intelligence di Israele.
Il Generale della Riserva Meir Dagan era il consigliere di sicurezza nazionale di Sharon durante la campagna elettorale del 2000. Il piano appariva essere stato redatto prima dell’elezione di Sharon alla carica di Primo Ministro nel febbraio 2001. «A quanto riferisce Alex Fishman su “Yediot Aharonot”, il Piano Dagan consisteva nel distruggere l’autorità palestinese e nel mettere Yasser Arafat ‘fuori gioco’.» (Ellis Shulman, “Operation Justified Vengeance”: a Secret Plan to Destroy the Palestinian Authority, marzo 2001):
«In base a quanto è esposto dal “Foreign Report [Jane]” e rivelato a livello locale dal “Maariv”, il piano d’invasione di Israele – che si riferisce sia stato denominato Vendetta Giustificata – verrebbe lanciato immediatamente a ridosso del prossimo attentato suicida con molte vittime, durerebbe almeno un mese e si prevede che causerebbe la morte di centinaia di israeliani e migliaia di palestinesi.» (ibid., grassetto aggiunto, ndr)
Il ‘Piano Dagan’ prevedeva la cosiddetta “cantonalizzazione” dei territori palestinesi attraverso la quale Cisgiordania e Gaza sarebbero stati totalmente separati l’una dall’altra, con “governi” separati in ciascun territorio. In base a questo scenario, già previsto nel 2001, Israele avrebbe:
«“negoziato separatamente con le forze palestinesi che sono dominanti in ciascun territorio: forze palestinesi responsabili per la sicurezza, l’intelligence, e anche per il Tanzim (al-Fatah).” Il piano somiglia perciò all’idea di “cantonalizzazione” dei territori palestinesi, scaturita da vari ministeri.»
Sylvain Cypel, The infamous ‘Dagan Plan’ Sharon’s plan for getting rid of Arafat, «Le Monde», 17 dicembre 2001).
Il Piano Dagan ha stabilito una continuità nei programmi d’azione militare e d’intelligence. In attesa delle elezioni del 2000, a Meir Dagan fu assegnato un ruolo chiave. «Diventò l’intermediario di Sharon per i temi della sicurezza con gli inviati speciali del presidente Bush, Zinni e Mitchell.» Successivamente fu nominato direttore del Mossad dal Primo Ministro Ariel Sharon nell’agosto 2002. Nel periodo post-Sharon è rimasto capo del Mossad. È stato riconfermato nella sua posizione di direttore dell’intelligence dal Primo Ministro Ehud Olmert nel giugno 2008.
A Meir Dagan, in armonia con le controparti USA, hanno fato capo varie operazioni militari e d’intelligence. Senza menzionare il fatto che Meir Dagan, da giovane colonnello aveva lavorato a stretto contatto con l’allora ministro della difesa Ariel Sharon nelle incursioni a danno degli insediamenti palestinesi a Beirut nel 1982. L’invasione di terra di Gaza nel 2009, sotto molti punti di vista, ricalca da vicino l’operazione militare del 1982 condotta da Sharon e Dagan.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Operazione Piombo Fuso:”L´intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni è stato rimosso dall’agenda a tempo indeterminato.”

Perché la guerra di Gaza è una tragedia domestica

di Lucio Caracciolo da repubblica.it
La questione demografica. L’assenza di un campo palestinese unitario. La Palestina non è più una priorità. Per Israele è una questione interna. Le mini-galassie palestinesi. Tutti troppo deboli per accettare un compromesso.
Ci sono problemi che si possono risolvere e problemi insolubili. Da tempo gli apparati di sicurezza israeliani, più influenti dei governi anche perché più stabili, hanno deciso che la questione palestinese appartiene alla seconda categoria. Non ha soluzione. Quindi a rigore non è un problema. È una crisi permanente da gestire perché non diventi troppo acuta. Talvolta con terapie d´urto, come oggi a Gaza.

Per capire la guerra in corso, conviene inquadrarla sullo sfondo dell´opzione strategica perseguita da Israele a partire dal fallimento del vertice di Camp David e dei colloqui di Taba sullo “status finale”, nel 2000-2001. Da allora, l´establishment di sicurezza israeliano, appoggiato dalla Casa Bianca, ha affrontato il problema/non problema palestinese a partire da tre postulati.

Primo: nel giro di pochi anni fra Mediterraneo e Giordano gli arabi saranno maggioranza. Ciò minaccia il carattere ebraico dello Stato di Israele, che non è negoziabile. Dunque o creiamo uno staterello palestinese a fianco del nostro, incapace di minacciarci, oppure dobbiamo tenere i palestinesi sotto controllo con la forza. E possibilmente divisi. La prima ipotesi resta il mantra della diplomazia ufficiale, la seconda corrisponde alle iniziative sul terreno, dall´espansione degli insediamenti alla caccia al terrorista nelle strade di Gaza City.

Di fatto, come oltre quattro anni fa spiegava il braccio destro di Sharon, Dov Weisglass, «l´intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni, è stato rimosso dall´agenda a tempo indeterminato». Olmert non ha deviato dall´approccio del suo predecessore. La conferenza di Annapolis è stata una mascherata, cui ha partecipato più o meno consapevolmente lo stesso Abu Mazen, simbolo dell´impotenza palestinese.

Secondo: non esiste un campo palestinese unitario, né Israele ha interesse a che si formi, nella prospettiva demografica sopra evocata. Coerentemente, negli ultimi anni i governi israeliani hanno prima trattato Arafat come un leader inaffidabile, poi concesso una patente di affidabilità al suo pallido successore, sapendo che comunque Abu Mazen non dispone dell´autorità sufficiente a riunire i palestinesi. Quanto a Hamas, è solo una banda di terroristi che vogliono distruggere Israele. Risultato: anche se volesse promuovere uno Stato palestinese, lo Stato ebraico non potrebbe. Perché la fazione palestinese disponibile a battezzarne uno purchessia è troppo debole per controllarlo, mentre l´altra vorrebbe un solo Stato, ma arabo e non ebraico.

Terzo: in ogni caso i palestinesi non sono una priorità. Per il resto del mondo (arabi e islamici compresi), ma soprattutto per Israele. Non è certo Hamas che può distruggere lo Stato ebraico. La minaccia strategica è l´Iran. Non solo in quanto deciso a dotarsi di un arsenale atomico capace di rivaleggiare con quello (mai dichiarato) di Gerusalemme, ma anche in quanto potenza nemica capace di utilizzare i terroristi arabi e islamici per tenere Israele sotto schiaffo. Hizbullah, ma anche Hamas. Sicché oggi la battaglia di Gaza è sotto questo profilo uno scontro indiretto fra Gerusalemme e Teheran.

Si può respingere in tutto o in parte tale analisi. Ma possiede una sua logica. I palestinesi non hanno saputo opporvi una visione coerente e unitaria. Giacché ormai le loro organizzazioni principali, Hamas inclusa, sono delle mini-galassie in cui interessi particolari (spesso criminali), piccoli clan e bande di disperati si contendono le scarse risorse disponibili. Strette nella morsa israeliana. Mentre attori esterni, arabi (sauditi in testa) e islamici (vedi Teheran) usano i palestinesi per fini propri, spesso contrastanti.

La deriva dal nazionalismo all´islamismo che segna l´ultima fase di Arafat e l´ascesa di Hamas esprime la crisi dell´identità palestinese così come era stata reinventata dall´Olp a partire dagli anni Sessanta. E rafforza a Gerusalemme coloro che considerano vano inventare una nazione che non c´è. Figuriamoci affidarle uno Stato. Nessuno sembra in grado di riunificare le fazioni e i territori palestinesi. Né pare che la progressione dei coloni ebraici in Cisgiordania – che ruota sull´asse Gerusalemme-Ma´ale Adumim, destinato a bisecare i “bantustan” residui – possa essere arrestata.

Vista da Israele la guerra di Gaza non è dunque una crisi internazionale ma una partita domestica. Nel breve, per l´ovvio tentativo di Kadima e dei laburisti di sottrarre voti alla destra di Netanyahu alle elezioni del 10 febbraio. In prospettiva, per riaffermare che la questione palestinese appartiene alla sfera della sicurezza interna e basta. In questo senso Piombo Fuso è più un´operazione di polizia con mezzi militari che una vera e propria guerra.

Non a caso gli israeliani osservano con preoccupazione le
reazioni dei “loro” palestinesi, ossia degli arabi che abitano nello spazio dello Stato ebraico, pur non essendovi davvero integrati. I quali peraltro restano allo stesso tempo refrattari a soggiacere a un´autorità palestinese, viste le performance di Fatah a Ramallah e di Hamas a Gaza. Per Gerusalemme, la saldatura fra le proteste nelle sacche arabe di Israele e quelle nei Territori va evitata ad ogni costo.

Anche fra i palestinesi la battaglia di Gaza ha connotati interni. Hamas provoca gli israeliani non perché pensi di batterli, ma per consolidare la sua fama di unica struttura combattente della resistenza palestinese, inconciliabile con il “Quisling” Abu Mazen. Il quale tifa nemmeno troppo segretamente per Israele, dato che da solo non potrebbe mai sbarazzarsi di Hamas (ma è piuttosto ottimistico pensare che ci riesca Olmert). Solo una prolungata guerra di logoramento a Gaza può riavvicinare, almeno provvisoriamente, le fazioni palestinesi in lotta. In nome dell´odio per gli israeliani.

La tragedia è che nessuna delle parti in causa, nemmeno la più potente (Israele), può raggiungere i suoi obiettivi strategici. E nessuna è abbastanza forte e sicura di sé per accettare un compromesso con le altre. La guerra continua. E non finirà con la fine di Piombo Fuso. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Società e costume

Piombo fuso, la trottola che allieta i bimbi israeliani nei festeggiamenti di Hanukkah e terrorizza i bimbi palestinesi nella Striscia di Gaza.

Piombo fuso

di ALBERTO PICCININI da il manifesto.

In molti hanno ricordato che il termine «Operazione Piombo Fuso», usato per indicare i bombardamenti su Gaza, deriva da una filastrocca scritta dal poeta Hayyim Nahamat Bialik in onore dei festeggiamenti di Hanukkah. La «trottola di piombo fuso» cui si fa riferimento è un gioco popolare tra i bambini, il dreidel. Sulle quattro facce della trottola, a forma di parallepido, stanno le lettere «nun», «gimel», «hei», «shin», acronimo per «un grande miracolo è successo laggiù».
Ecco la traduzione della filastrocca:
«Mio padre ha acceso candele per me/ risplendeva come una torcia la candela Shamash (*)/ in onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Il maestro mi ha comprato una trottola di piombo fuso, il migliore che si trovi/ In onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Mia madre ha fatto una torta/ calda e dolce, tutta coperta di zucchero/ in onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Lo zio ha un regalo per me/ un vecchio penny tutto per me/ In onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto».
(*)La «candela Shamash» è la candela centrale del candelabro a nove braccia, che si usa per accendere le altre.
Beh, buona giornata.
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Attualità Popoli e politiche

Piombo fuso, fermate la trottola nella Striscia di Gaza.

 
Tregua, subito.

di ABRAHAM B. YEHOSHUA da lastampa.it

Se abbiamo a cuore la nostra sopravvivenza futura non dobbiamo dimenticare una cosa fondamentale mentre è in corso l’operazione «Piombo fuso», così chiamata a citazione di una canzoncina di Hannukah che racconta di una piccola trottola.

Quella trottola, uno dei simboli della festività, è ricavata dal piombo fuso.
Gaza non è il Vietnam, né l’Iraq, né l’Afghanistan, e non è nemmeno il Libano. È una regione che fa parte della patria comune a noi e ai palestinesi. Una patria che noi chiamiamo Israele e loro Palestina.

A Gaza vivono un milione e mezzo di persone, membri di un popolo che conta un altro milione e trecentomila componenti in Israele e più di due milioni in Cisgiordania. Gli uomini e le donne di Gaza sono innanzi tutto nostri vicini e vivranno spalla a spalla con noi per sempre, anche se separati da una frontiera. Le nostre case e le nostre città sono a pochi chilometri di distanza dalle loro, i nostri campi lambiscono i loro. Gli uomini di Gaza, attivisti o poliziotti di Hamas che osserviamo attraverso binocoli militari, erano in passato attivisti o poliziotti di Al Fatah, nati a Gaza o giunti lì come profughi durante la guerra del 1948, o in altre guerre. Nel corso degli anni sono stati muratori nei nostri cantieri edili, lavapiatti in ristoranti dove abbiamo cenato, negozianti presso i quali abbiamo acquistato merci, operai nelle serre di Gush Katif, o altrove. Sono nostri vicini e lo saranno in futuro e questo ci impone di considerare con molta attenzione quale tipo di guerra combattiamo contro di loro, il suo carattere, la sua durata, la portata della sua violenza.

Noi israeliani non abbiamo nessuna possibilità di estirpare il governo di Hamas a Gaza, come non avevamo nessuna possibilità di estirpare l’Olp dal popolo palestinese. Sharon e Begin arrivarono fino a Beirut, pagando un prezzo terribile e sanguinoso, per ottenere questo risultato. E che accadde? Sia Sharon sia Netanyahu sedettero a un tavolo con Arafat e i suoi rappresentanti per tentare di negoziare un accordo. E ora il vice del defunto leader palestinese, Abu Mazen, è ospite fisso e gradito presso di noi.

Dobbiamo rendercene conto: gli arabi non sono creature metafisiche ma esseri umani, e gli esseri umani sono soggetti a cambiamenti. Anche noi cambiamo le nostre posizioni, mitighiamo le nostre opinioni, ci apriamo a nuove idee. Faremmo bene a levarci di testa al più presto l’illusione di poter annientare Hamas, di poterlo sradicare dalla Striscia di Gaza. Dobbiamo invece lavorare con cautela e buon senso per raggiungere un accordo ragionevole e dettagliato, una tregua rapida in vista di un cambiamento di Hamas. È possibile, è attuabile.

È accaduto più volte nel corso della storia. Ma anche se cominceremo fin da oggi a lavorare a una tregua ci aspettano ancora giorni di guerra, di lanci di razzi. Almeno, però, avremo la consapevolezza di non combattere per un obiettivo irrealizzabile che porterà altro sangue e devastazione. Sangue e devastazione che peseranno sulla memoria collettiva dei figli dei nostri vicini i quali resteranno all’infinito tali, anche se la trottola continuerà a girare. (Beh, buona giornata).
(Traduzione di A. Shomroni)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse.”

 
La carta della fiducia
LUCA RICOLFI da lastampa.it
Se ripensiamo alle notizie economiche delle ultime settimane c’è da restare sconcertati. La maggior parte dei mezzi di informazione ha prima annunciato un crollo dei consumi (-20% a Natale) e un aumento della povertà (il 15% della famiglie «non ha i soldi per mangiare»), per poi accorgersi che i consumi erano sostanzialmente stabili e le notizie sulla crescita della povertà erano un po’ vecchiotte, visto che risalivano al biennio 2006-2007, ossia alla scorsa legislatura. Prima l’idea sconsolata del Natale povero, poi le immagini delle fiumane di gente in coda per le strade davanti ai negozi, pronta a spendere centinaia di euro a testa in saldi.

Ma non si tratta solo di dati detti e contraddetti. Quando non è il dato ad essere controverso, è la sua interpretazione che diventa ballerina. Nei giorni scorsi abbiamo appreso che il deficit dello Stato nel 2008, il cosiddetto fabbisogno, è risultato di quasi 8 miliardi superiore al previsto. Per alcuni è l’ennesima conferma che Tremonti sa solo sfasciare i conti pubblici, per altri è segno che il governo ha già fatto quello che l’opposizione da tempo gli chiede di fare, ossia allargare i cordoni della borsa per combattere la crisi.

Questa altalena di fatti e contro-fatti, interpretazioni e contro-interpretazioni, rende estremamente difficile orientarsi per capire quel che realmente sta succedendo nel nostro Paese. A mio parere, in questo momento, l’errore di prospettiva più grande che stiamo commettendo è quello di proiettare le nostre paure per eventuali guai futuri sulla realtà, più modesta e meno allarmante, dei segnali che attualmente ci stanno arrivando. Il fatto che nei prossimi mesi possa esserci qualche nuovo crack (come Lehman Brothers), o una crisi di panico dei risparmiatori, o una guerra nucleare fra Israele e Iran, non autorizza a pensare che già ci siamo dentro, né a ignorare i segnali positivi che continuano ad affiancare quelli negativi.

I segnali negativi sono ben noti e ribaditi ad ogni piè sospinto: aumento dei disoccupati e delle ore di cassa integrazione, difficoltà di accesso al credito, crollo della borsa, caduta della produzione industriale e più in generale dell’attività economica. A questi segnali, tuttavia, si affiancano anche parecchi segnali di segno opposto, che tendiamo a ignorare ma su cui sarebbe invece opportuno riflettere.

Primo, e più importante: negli ultimi 6 mesi, soprattutto grazie alla diminuzione dei prezzi (confermata giusto ieri dall’Istat), il numero di famiglie che non riescono a quadrare il bilancio si è ridotto di circa il 30% (indagini Isae di luglio-dicembre 2008), riportandosi al livello del 2006, ossia dell’anno migliore dai tempi dell’introduzione dell’euro (2002). Secondo: finora, le domande per la social card sono poco più di 1/3 del previsto, un fatto che è difficile spiegare solo con i ritardi delle istituzioni e la «vergogna» dei potenziali beneficiari. Terzo: nel corso del 2008 i bandi di gara per le grandi opere hanno avuto un incremento record, pari al 26,9% (dati Crem diffusi pochi giorni fa). Quarto: nonostante la crisi, fra il 2007 e il 2008 l’occupazione dipendente è aumentata di oltre 300 mila unità (ultima indagine Istat, 18 dicembre). Quinto: benzina, gasolio, energia elettrica, mutui, case stanno diminuendo di prezzo. Sesto: a dicembre, per la prima volta da 9 mesi, l’indice Pmi del settore manifatturiero, che misura le aspettative dei responsabili acquisti delle imprese, è salito anziché continuare la sua corsa verso il basso.

Bastano questi segnali a convertire il nostro pessimismo in ottimismo? No, e non solo perché in qualsiasi momento lo tsunami può piombarci addosso dall’esterno, ma perché vi sono rischi strettamente interni che, al momento, paiono sottovalutati dal governo. Il primo, ben noto, è il rischio di un aumento della disoccupazione dovuto al licenziamento di operai e impiegati non tutelati dalla legislazione e dai sindacati: non solo lavoratori atipici, ma anche semplicemente dipendenti in imprese medie e piccole. Il secondo rischio, assai meno noto, è che il rallentamento dell’attività economica costringa a chiudere centinaia di migliaia di artigiani e di piccole imprese, oltre alle più di 200 mila che hanno già chiuso nell’ultimo anno e di cui nessuno parla. Il terzo rischio, forse il più importante, è che anche chi non perderà il posto ma semplicemente teme di perderlo, sia indotto a comportamenti di consumo e di investimento eccessivamente prudenti, contribuendo così, senza volerlo, ad aggravare la recessione in corso. È paradossale, ma dal punto di vista macroeconomico, ovvero del sostegno della domanda, è più importante tranquillizzare i 20 milioni di occupati che si salveranno, che aiutare 1 milione di occupati che il posto lo perderanno davvero.

È dunque su questo versante, quello delle garanzie a chi rischia di perdere il lavoro, che i nostri governanti – ma anche un’opposizione costruttiva – hanno una grande responsabilità. I provvedimenti finora varati, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali, vanno senz’altro nella direzione giusta, ma sono largamente insufficienti se il loro scopo non è semplicemente di tappare qualche falla futura, ma di creare fin da ora un clima di serenità e di fiducia generalizzato. Se si vuole che i comportamenti economici tendano a normalizzarsi, non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse, ma occorre dare un chiaro segnale di attenzione nei confronti di chi teme di perdere il lavoro, sia esso lavoratore atipico o normale, dipendente o indipendente. E l’unico segnale che può funzionare, lo sappiamo tutti, è che gli ammortizzatori sociali diventino automatici, permanenti e universali. Non a caso, nel giro di pochi mesi, il lavoro è divenuto di gran lunga la preoccupazione centrale degli italiani (vedi l’ultimo sondaggio pubblicato da Mannheimer sul Corriere della Sera).

Certo, un’operazione del genere avrà un costo elevato, né potrà essere condotta in pochi mesi o senza fare qualche sacrificio su altri versanti. Ma sono certo che, se il punto di arrivo sarà chiaro, per governo e opposizione sarà più facile trovare un ragionevole accordo, e a quel punto la fiducia, premessa cruciale della ripresa economica, lentamente ma inesorabilmente tornerà a scorrere nelle vene della società italiana. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Panebianco di ieri, ovvero la denuncia di Richard Falk.

di Richard Falk* – «The Nation»

Gli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza rappresentano delle gravi e massicce violazioni del diritto internazionale umanitario definito dalle Convenzioni di Ginevra, sia in relazione agli obblighi di una Potenza Occupante, sia ai requisiti del diritto bellico.
Tali violazioni implicano:

• Punizione collettiva: l’intera popolazione composta da un milione e mezzo di persone che vivono nell’affollata Striscia di Gaza viene punita per le azioni di pochi militanti.

• Civili come obiettivo: gli attacchi aerei sono stati rivolti verso aree civili in una delle porzioni di terra più affollate del mondo, certamente la più popolata del Medio Oriente.

• Reazione militare sproporzionata: Gli attacchi aerei non hanno soltanto distrutto ogni ufficio di polizia e di sicurezza del governo eletto di Gaza, ma hanno ucciso e ferito centinaia di civili; è stato riferito che almeno uno dei bombardamenti ha colpito gruppi di studenti in attesa di mezzi di trasporto da casa all’università.

Le precedenti azioni israeliane, in particolare la completa sigillatura della Striscia di Gaza in entrata e in uscita, hanno portato a una grave scarsità di medicine e carburante (così come di cibo), fino a causare l’impossibilità per le ambulanze di soccorrere i feriti, l’incapacità degli ospedali di fornire adeguatamente le medicine o le necessarie attrezzature per i pazienti, e l’impossibilità per i medici e gli altri operatori sanitari sotto assedio di Gaza ad assistere sufficientemente le vittime.

Certamente gli attacchi con razzi contro obiettivi civili in Israele sono illegali. Ma tale illegalità non fa sorgere in capo a Israele, né in veste di Potenza Occupante né di Stato sovrano, alcun diritto a violare il diritto internazionale umanitario o commettere crimini di guerra o crimini contro l’umanità nella sua reazione. Prendo atto che la progressione di attacchi militari di Israele non ha reso i civili israeliani più sicuri; al contrario, l’unico israeliano ucciso oggi dopo la recrudescenza della violenza israeliana è il primo da oltre un anno.

Israele ha altresì ignorato le recenti iniziative diplomatiche di Hamas miranti a ristabilire la tregua o il cessate il fuoco a partire dal suo termine del 26 dicembre

Gli attacchi aerei di oggi, con i catastrofici costi umani che hanno causato, sfidano quei paesi che sono stati e restano complici, sia direttamente sia indirettamente, nei confronti delle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Tale complicità comprende quei paesi che notoriamente forniscono l’equipaggiamento militare, tra cui aerei di guerra e missili usati in questi attacchi illegali, così come quei paesi che hanno sostenuto e partecipato nell’assedio di Gaza che di per se stesso ha causato una catastrofe umanitaria.

Ricordo a tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite che l’Onu continua a essere vincolata a un indipendente obbligo di proteggere qualsiasi popolazione civile che si trovi a fronteggiare massicce violazioni del diritto internazionale umanitario, a prescindere da quale paese sia responsabile di tali violazioni. Faccio appello a tutti gli Stati Membri, nonché a tutti i funzionari e a ogni organo rilevante del sistema Onu, affinché si muovano sulla base dell’emergenza non solo per condannare le serie violazioni israeliane, ma per sviluppare nuove misure volte a fornire una reale protezione del popolo palestinese. (Beh, buona giornata).

* Richard Falk, professore emerito di diritto e pratica internazionale alla Princeton University, è relatore speciale dell’Onu sui diritti umani nei territori palestinesi occupati e fa parte del comitato editoriale di «The Nation».

Fonte: http://www.thenation.com/doc/20090112/falk?rel=hp_currently
[29 dicembre 2008]

Traduzione di Pino Cabras- megachip.info

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Panebianco di ieri, ovvero l’espulsione da Israele di Richard Falk.

La mia espulsione da Israeledi Richard Falk – da comedonchisciotte.org

 

Quando sono arrivato in Israele come rappresentante delle Nazioni Unite sapevo che vi potevano essere dei problemi all’aeroporto. E c’erano. Il 14 Dicembre sono arrivato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per svolgere il mio incarico di relatore speciale per le Nazioni Unite sui territori palestinesi.

Stavo conducendo una missione che aveva lo scopo di visitare la Cisgiordania e Gaza per preparare un rapporto sull’osservanza da parte di Israele dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Erano stati fissati degli incontri al ritmo di uno l’ora durante i sei giorni previsti, a cominciare da quello, il giorno seguente, con Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese.

Sapevo che vi potevano essere dei problemi all’aeroporto. Israele si era fortemente opposta al mio incarico alcuni mesi prima e il suo ministro degli esteri aveva rilasciato una dichiarazione secondo cui avrebbe proibito il mio ingresso se fossi venuto in Israele nel mio ruolo di rappresentante dell’Onu.

Allo stesso tempo, non avrei fatto il lungo viaggio dalla California, dove vivo, se non fossi stato ragionevolmente ottimista sulle mie possibilità di riuscire a entrare. Israele era stata informata che avrei guidato la missione e avrei fornito una copia del mio itinerario, e aveva rilasciato i visti alle due persone che mi assistevano: un addetto alla sicurezza e un assistente, che lavorano entrambi nell’ufficio dell’alto commissario per i diritti umani a Ginevra.

Per evitare un incidente all’aeroporto, Israele avrebbe potuto o rifiutarsi di accettare i visti o comunicare alle Nazioni Unite che non mi avrebbero permesso di entrare, ma non è stata presa nessuna delle due misure. Sembra che Israele abbia voluto impartire a me, e in modo assai più significativo alle Nazioni Unite, una lezione: non vi sarà nessuna collaborazione con coloro che esprimono forti critiche sulla politica di occupazione israeliana.

Dopo che mi è stato negato l’ingresso, sono stato tenuto in custodia cautelare insieme a circa altre 20 persone con problemi d’ingresso. Da questo momento, sono stato trattato non come un rappresentante delle Nazioni Unite, ma come una sorta di minaccia per la sicurezza, sottoposto ad una perquisizione corporale minuziosa e alla più puntigliosa ispezione dei bagagli che abbia mai visto.

Sono stato separato dai miei due colleghi delle Nazioni Unite, a cui è stato permesso di entrare in Israele, e condotto nell’edificio di detenzione dell’aeroporto, distante circa un miglio. Mi è stato chiesto di mettere tutti i miei bagagli, insieme al cellulare, in una stanza e sono stato portato in un piccolo locale chiuso a chiave che puzzava di urina e di sudiciume. Conteneva altri cinque detenuti e costituiva uno sgradito invito alla claustrofobia. Ho passato le successive 15 ore rinchiuso in questo modo, il che è equivalso ad un corso intensivo sulle miserie della vita carceraria, inclusi lenzuola sporche, cibo immangiabile e luci che passavano dal bagliore all’oscurità, controllate dall’ufficio di guardia.

Naturalmente, la mia delusione e la mia dura reclusione sono cose insignificanti, non meritevoli di notizia per sé stesse, date le serie privazioni sopportate da milioni di persone in tutto il mondo. La loro importanza è soprattutto simbolica. Sono una persona che non ha fatto nulla di sbagliato, se non esprimere la propria forte disapprovazione per la politica di uno stato sovrano. Soprattutto, l’ovvia intenzione era di umiliare me come rappresentante dell’Onu, e di mandare perciò un messaggio di sfida alle Nazioni Unite.

Israele mi ha sempre accusato di essere prevenuto e di aver fatto accuse incendiarie sull’occupazione dei territori palestinesi. Nego di essere stato prevenuto ma insisto invece che ho cercato di essere obbiettivo nel valutare i fatti e la legislazione di pertinenza. Il carattere dell’occupazione è di dare adito ad aspre critiche sull’atteggiamento israeliano, specialmente sul rigido blocco imposto a Gaza, che ha come conseguenza la punizione collettiva di un milione e mezzo di abitanti. Prendendo di mira l’osservatore, invece di quello che viene osservato, Israele gioca una partita scaltra. Distoglie l’attenzione dalle realtà dell’occupazione, praticando in modo efficace una politica di diversione. Il blocco di Gaza non assolve nessuna funzione legittima da parte di Israele. Si dice che sia stato imposto come rappresaglia per alcuni razzi di Hamas e della Jihad islamica che sono stati lanciati oltreconfine sulla città israeliana di Sderot. L’illegalità di lanciare questi razzi è indiscutibile, ma non giustifica in alcun modo l’indiscriminata rappresaglia israeliana contro l’intera popolazione di Gaza.
Lo scopo dei miei rapporti è di documentare a nome delle Nazioni Unite l’urgenza della situazione a Gaza e altrove, nella Palestina occupata. Questo lavoro è di particolare importanza ora che vi sono segnali di una rinnovata escalation di violenza e persino di una minacciata rioccupazione da parte di Israele.

Prima che una tale catastrofe accada, è importante rendere la situazione il più trasparente possibile, e questo è quello che avevo sperato di fare esercitando il mio compito. Nonostante l’ingresso negato, il mio sforzo sarà di continuare a utilizzare tutti i mezzi disponibili per documentare la realtà dell’occupazione israeliana nel modo più veritiero possibile. (Beh, buona giornata).

Richard Falk è professore di diritto internazionale alla Università di Princeton e relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi.

Titolo originale: “My Expulsion from Israel “

Fonte: http://www.guardian.co.uk

Traduzione da andreacarancini.blogspot.com

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Attualità Popoli e politiche

Panebianco di ieri, ovvero guarda mamma quanto sono neo-cons.

Ieri, sul Corriere delle Sera è apparso un editoriale di Angelo Panebianco che spara alzo zero contro l’Onu, in particolare contro Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell’Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite,  che, a suo dire, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell’Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Ecco le tesi di Panebianco, neo-cons made in Italy. N.B.: Panebianco scrive che Richard Falk è persona sgradita in Israele, ma dimentica di dire che Falk è ebreo.

 

Gli infortuni dell’Onu.

di Angelo Panebianco da corriere.it

 

C’è una differenza fra la guerra del Libano del 2006 e l’attuale conflitto a Gaza. Questa volta, sono molti di più i governi disposti a riconoscere le ragioni di Tel Aviv. Per conseguenza, anche l’opinione pubblica internazionale, e occidentale in particolare, non si è compattamente e pregiudizialmente schierata contro Israele. I regimi arabi moderati, che temono più di ogni altra cosa le aspirazioni egemoniche dell’Iran (alleato e protettore di Hamas) mantengono, nonostante l’opposizione delle piazze, un atteggiamento prudente. La fazione palestinese moderata di Abu Mazen (sanguinosamente cacciata da Gaza, nel 2007, dai miliziani di Hamas) considera Hamas l’unica responsabile dell’attacco israeliano. Anche in Europa il vento è in parte cambiato.

I governi tedesco, italiano e dei Paesi dell’Europa orientale hanno preso chiare posizioni a favore del diritto di Israele a difendersi dai missili di Hamas. E i l Presidente Sarkozy, nonostante la tradizione francese (poco sensibile alle ragioni di Israele), sarà obbligato, nel suo prossimo tentativo di mediazione, a tenerne conto. Comincia a farsi strada la consapevolezza che fra le molte asimmetrie del conflitto c’è anche quella rappresentata dal diverso valore attribuito dai contendenti alla vita umana. Per gli uomini di Hamas, come per Hezbollah in Libano, la vita (anche quella degli appartenenti al proprio popolo) vale talmente poco che essi non hanno alcun problema a usare i civili, compresi i bambini e le donne, come scudi umani. Per gli israeliani, le cose stanno differentemente. Cercano di limitare il più possibile le ingiurie alla popolazione civile anche se, naturalmente, la natura del conflitto esclude che essa non sia coinvolta. L’attacco dell’esercito, appena iniziato, volto a bloccare definitivamente Hamas, è stato a lungo ritardato. Tra le ragioni del ritardo c’era anche il timore per l’alto costo in vite di civili che l’attacco potrebbe comportare.

Insomma, di fronte alla complessità del problema e alla diffusa consapevolezza che non si può negare a uno Stato il diritto di difendersi da un’organizzazione di fanatici votati alla distruzione di quello stesso Stato, c’è questa volta, in giro, meno voglia di dare addosso pregiudizialmente a Israele. Ma con un’eccezione di assoluto rilievo: le Nazioni Unite. Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell’Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell’Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Le sue tesi «sull’aggressione israeliana » a Gaza sono esattamente le stesse di Hamas. Il caso di Richard Falk è interessante perché ci aiuta a capire come vengano trattati i «diritti umani» alle Nazioni Unite. Ebreo americano, già professore di diritto internazionale a Princeton, Falk è quello che in America si definisce un radical. E dei più accesi. Fra le sue molte imprese si possono ricordare il suo giudizio entusiasta sull’Iran di Khomeini (un «modello per i Paesi in via di sviluppo», lo definì arditamente nel 1979) e i suoi dubbi, alla Michael Moore, sulla «verità ufficiale» americana sull’11 settembre. Nel 2007 paragonò la politica israeliana verso i palestinesi a quella della Germania nazista nei confronti degli ebrei. È persona non grata in Israele.

La nomina di Falk (con il voto contrario degli Stati Uniti), nel marzo 2008, a rappresentante per i territori palestinesi del Consiglio per i diritti umani, un organismo dominato da Paesi islamici e africani, ebbe un solo scopo: quello di predisporre un corpo contundente da usare contro Israele. È un altro clamoroso infortunio dell’Onu. Dopo quello che, alcuni anni fa, portò la Libia, nella generale incredulità, alla presidenza della Commissione per i diritti umani (poi abolita). Se l’Onu si occupasse seriamente di diritti umani dovrebbe mettere sotto accusa un bel po’ dei propri Stati membri, ossia tutti gli Stati autoritari o totalitari (dalla Cina a quasi tutti i regimi del mondo musulmano). Ma non può farlo. In compenso, i diritti umani vengono spesso usati come proiettili per colpire le democrazie occidentali e Israele. Anche se creare una «Lega delle democrazie» è risultato fino ad oggi impossibile, un maggiore coordinamento fra i Paesi democratici in sede di Nazioni Unite sarebbe quanto meno auspicabile. Al fine di imporre a certi suoi organismi comportamenti più decorosi. Nonostante il credito di cui l’Onu continua a godere, è un fatto che, nelle crisi internazionali, sanno spesso muoversi con maggiore credibilità, pur con le loro magagne e imperfezioni, i governi delle democrazie. Per lo meno, devono rispondere del proprio agire alle loro opinioni pubbliche e hanno comunque (non c’è Guantanamo che tenga) carte più in regola degli altri anche in materia di diritti umani. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Grazie ai lettori di “Pubblicità ingannevole? No, ingannata”.

“Pubblicità ingannevole? No, ingannata”, apparso su questo sito il 3 gennaio è stato pubblicato da: ilmessaggero.it; ilmattino.it; google news; megachip.info; viaparaocchi.splinder,com; informazione.it; natasha.it; ilretegiornale.it; raulken.it; edit.splinder.com; spinder.com; oracamminiamoeretti.com; wikio.it; cronachemaceratesi.it; socialprosumer.splinder.com.; oltre che da marcoferri.blog.espresso.repubblica.it.  Questa non è pubblicità ingannevole. Beh, buona giornata.

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