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La pubblicità italiana, ovvero regressioni d’autunno.

“E mo’ vene Natale, non tengo denari, me leggo ‘o giurnale, e me vado a cuccà”, mitica canzoncina jazz di Renato Carosone del 1955 che, a saldi pari, calza a pennello alla comunicazione italiana, che si appresta a chiudere un altro anno terribile, smentendo, senza che nessuno abbia il coraggio di farne pubblica ammenda, la previsione di un pareggio, se non di un sia pur lieve incremento.

Siamo, invece, ancora nella melma, per non dire di peggio. E non si tratta di numeri, ma d’idee.

Succede, per esempio, che una nota e potente organizzazione nella grande distribuzione mette sui suoi scaffali un nuovo prodotto a marchio: un preservativo. Ma la campagna è moscia. E non vi sembri un volgare ossimoro.

Oppure che un grande editore italiano metta in distribuzione opzionale un prodotto multimediale su Giacomo Leopardi. La creatività radiofonica è niente meno che una serie di brani tratti al Cd, uno dei quali recita:
“Leopardi era un ragazzo allegro”. Peccato che l’agenzia non si chiami Monty Python.

Potremmo andare avanti in un lungo e noioso elenco.

D’altra parte, vanno in continuazione sul web ideuzze risibili, supportate da volonterosi copy e account che tentano di “virarli” attraverso i loro rispettivi profili sui social network.

Però si alzano peana alla comunicazione olistica. Dimenticando che è il marketing che

La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
deve essere olistico. La comunicazione o è settaria o non è.

Siamo in un’epoca di frantumazione. Si è frantumata la Repubblica, ormai ogni potere fa i casi suoi, spesso in contrasto gli uni con gli altri. Si è frantumato il sogno europeo, ormai divenuto il ricorrente incubo dell’austerity: il suo mantra è “ricordati che devi pagare le tasse”.

Si è frantumata la politica, che oltretutto sta frantumando anche la pazienza degli elettori: neanche la pubblicità degli Anni Ottanta sparava fandonie così roboanti. Manco il leggendario “vavavuma!” della Citroen diesel di Seguélá sarebbe arrivato a tanto.

Certo, la frantumazione dei media è la caratteristica attuale. Usciti (male) dall’impero della tv e dalla satrapia di Auditel, oggi vaghiamo in un limbo in cui per raggiungere i consumatori le marche si devono fare in mille pezzi, tanti quanto è la somma tra i vecchi e i nuovi media.

Ma a forza di avvitarsi in tecnicalità e a credere che i mezzi siano tutto, il messaggio langue, il contenuto è esangue. C’è anche un aspetto grottesco, per non dire gotico, una specie di noir de noantri, non tano del dibattito, che forse non c’è mai stato, quanto del chiacchiericcio lamentoso: quelli che urlano “la pubblicità è morta” non riescono a nascondere le mani sporche di sangue della strage di idee.

Guardare a certe importanti campagne fa impressione; vedere immagini, testi, claim, cioè i contenuti, fa pena. Una regressione stilistica, estetica e sintattica; una povertà d’immaginazione e di comunicativa; una fretta nell’esecuzione che fa cadere ogni voglia di interessarsi al narrare delle marche, dunque ai loro prodotti.

La grande corsa all’irrilevanza della comunicazione commerciale italiana fa sudare, boccheggiare e ansimare tutti, su una strada che vede allontanarsi via via il traguardo della ripresa economica.

Come fosse la vocazione a essere comparse, invece che protagonisti, poco vale consolarsi per la partecipazione straordinaria di creativi italiani alla messa in scena di campagne internazionali.

Mentre da più parti ci verrebbe proposto un nuovo modello di comportamento emotivo, basato sulle migliori qualità italiane, si dimentica che il paradigma gramsciano aveva nell’ “ottimismo della volontà” il contrappeso del “pessimismo della ragione”. Cioè di una visione critica, analitica, non conformista, utile alla modificazione positiva della realtà. Che dovrebbe cominciare col rifiutare di credere ancora che tecnicalità e mezzi, invece che idee e contenuti siano la comunicazione del nuovo modo di fare marketing.

E visto che continuiamo a importare acriticamente dall’estero assiomi del marketing moderno, per concludere ci starebbe bene una famosa citazione di “Un americano a Roma”, interpretato da un Sordi giovane e pimpante.

Quando qualcuno viene a farvi il pistolotto sulle nuove opportunità, rivolgetevi a chi vi sta accanto e dite ad alta voce: “Armando, questo mo’ cacci via, subito”. Magari funziona. Beh,buona giornata.

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Se l’inglese diventa un trucco del governo.

C’è una vecchia storiella che parla di un emigrante italiano in procinto di partire per la Gran Bretagna, al quale un amico del suo paese di provincia insegna che l’inglese è come l’italiano, basta parlare lentamente, molto lentamente. Sicché il nostro arriva a Londra, entra in un bar e chiede molto, ma molto lentamente un caffè. Molto lentamente, ma molto lentamente il barman gli risponde chiedendogli come desidera sia fatto il caffè: corto o lungo? Macchiato caldo o freddo? In tazzina o al vetro? Sorpreso, l’emigrante chiede , molto, molto lentamente al barista: ” Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?”.

Dal che si evince, parafrasando un’uscita del celebre Totò, che ogni lingua ha una pazienza.

Dunque rivolgerò lentamente, ma molto lentamente una domanda a chi ha escogitato il trucco semantico che per dire “non vi do un a lira” dice invece “fiscal compact”. La domanda è: perché non parli come tagli?

Anche recentemente, il trucco di mascherare in inglese cose sgradevoli da dire in italiano riguarda, guarda caso, le classi sociali meno abbienti.

Perché chiamare “spending review” il taglio dei soldi alla Sanità, all’Istruzione, ai trasporti pubblici?

Perché chiamare Job Act il peggioramento normativo della condizione del lavoro dipendente, invece che, parafrasando il Belli, “io (imprenditore) sono io e voi (lavoratori) non siete un cazzo”?

È vero che la lingua italiana è sempre stata la lingua delle classi alte, quindi del potere, o meglio dei poteri, per cui tutte le cose importanti vengono ancora oggi scritte e dette con quell’accurata capacità di intimorire, più che farsi capire: basti pensare al linguaggio giuridico, a quello medico, a quello finanziario.

In effetti, oggi sembrerebbe che l’uso della lingua inglese sia come quello del latino ai tempi della nascita del volgare: una roba da pochi eletti, mica da tutti gli elettori.

E allora, invece che spernacchiare, sia pur a ragion veduta, l’uso goffo dell’inglese maccheronico dei nostri politici, dovremmo preoccuparci di come vengono chiamate le leggi.

Non è una questione di purismo linguistico, né di protezionismo sintattico, men che meno di nazionalismo della grammatica. Se una cosa è giusta, bella e fatta bene, sicuramente viene nominata, raccontata, spiegata con semplicità in una lingua a tutti comprensibile.

Al contrario, se si usano artifici linguistici, forzature semantiche, sforzi pirotecnici atti a stupire invece che dialogare; se si fa ricorso a stereotipi e slogan anglofoni, che spesso risultano maccheronici, come un tempo fu il latinorum, allora forte è il puzzo dell’inganno.

Se la lingua inglese diventa la lingua della propaganda del governo, per dire cose che si vergognerebbe di dire in italiano, la domanda che pongo lentamente, molto lentamente è: “Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?” Beh, buona giornata.

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E ora lo Squalo si fa la sua Auditel.

di Giulio Gargia *

Che differenza c’è tra Murdoch e Genny ‘a carogna ? Che con il secondo si può trattare. Gira questa battuta, da qualche giorno, negli uffici dell’Auditel, dopo il lancio dello Smart Panel di Sky.

Da quando è apparsa nel panorama dell’etere, i rapporti tra la nuova Tv e il vecchio rilevatore degli ascolti, l’Auditel, non sono mai stati idilliaci. Le diatribe sull’audience sono state all’ordine del giorno, con frequenti incursioni nei tribunali e richieste di danni.

Oggi la Tv di Murdoch segna un punto a suo favore, lanciando il suo sistema di rilevazione. Praticamente, un’ Auditel fatta in casa, ma con un dispiego di mezzi che non ha nulla a che invidiare a quella ufficiale: subito un campione di 5.000 famiglie, a pareggiare le 5.127 dell’Auditel, per arrivare a 10.000 entro pochi mesi. Ma che bisogno aveva Sky di raddoppiare un sistema degli ascolti già esistente ? La prima risposta, quella che non si può dare, è che anche loro non si fidano dei dati.

La seconda, quella ufficiale, è affidata alle parole di Eric Gerritsen, vicepresidente esecutivo di Sky Italia per la Comunicazione e gli affari istituzionali.

“Il punto – dichiara alle agenzie – è che noi abbiamo bisogno di capire quali sono i comportamenti dei nostri abbonati e purtroppo gli attuali schemi di rilevazione sono un po’ vecchiotti, abbiamo più volte sollecitato Auditel a essere più innovativi ma la risposta ci sembra un po’ lenta quindi ci muoviamo noi” .

Poi in un rigurgito di diplomazia, precisa, giusto per non essere troppo conflittuale che lo Smart Panel “è uno strumento non alternativo ma integrativo rispetto all’Auditel “.
Walter Pancini, direttore generale di Auditel, abbozza e accetta lo ‘Smart Panel come “un legittimo strumento di indagine interna a fini editoriali, non in competizione con noi”.

Ma poi Gerritsen insiste. Il manager della pay tv italiana osserva che le abitudini di consumo della tv sono cambiate: “Basti pensare che nei fine settimana la Formula Uno, come il calcio, viene seguita da circa 600 mila persone sui tablet. Noi dobbiamo misurare gli effetti del cambiamento, nel dettaglio. Non miriamo a una sorta di autonomia dall’Auditel ma abbiamo bisogno di capire puntualmente quali sono i comportamenti degli spettatori”.

A Sky sono interessati soprattutto alla nuova frontiera, ovvero ai consumi da altri dispositivi che non siano il televisore, come smartphone, tablet ma anche l’interazione con i social. Anche per il recente accordo con Telecom che permetterà di portare l’offerta della pay tv anche sulle reti a banda ultralarga dell’operatore tlc.
E qui Pancini non può far altro che inseguire ” Quello dell’analisi degli ascolti in mobilità è un obiettivo al quale stiamo lavorando da tempo, parallelamente con le altre Auditel europee: siamo in fase di sperimentazione”.

Poi vira sul patetico: “Non siamo un organismo vetusto. Auditel resterà un punto di riferimento per le aziende “.
Intanto, però le tensioni più o meno sotterranee tra Auditel e Sky emergono alla luce del sole. Il sistema di rilevazione degli ascolti nato nel 1986 non ha mai riscosso le simpatie degli uomini di Murdoch per due ragioni. Una è che il è nato per garantire gli equilibri tra RAI e Mediaset , la seconda è che la logica analogica dell’Auditel penalizzava il sistema satellitare e digitale di Sky.

Lo Smart Panel rappresenta quindi “ la soluzione finale” che – al di là delle rassicurazioni sul fatto di essere integrativo e non alternativo – costringerà quanto prima Auditel ad affrontare una rivoluzione nei metodi e nei campioni.

Una “ bomba atomica “ che – anche se per ora non si prevede che siano resi disponibili all’esterno – con la sua sola esistenza sposta gli equilibri tra le grandi emittenti. E chiama in causa l’opera dell’AGCOM per capire chi maneggerà questi dati che sono – ricordiamolo – quelli che determinano gli investimenti pubblicitari sulle emittenti.

Chi controlla l’Auditel, controlla gli spot. E chi controlla gli spot è il vero padrone delle Tv. Perciò l’Autorità delle Comunicazioni potrebbe fare 2 cose: una, un lavoro preventivo sulla trasparenza di queste procedure murdochiane ( come non fu fatto per l’Auditel ) visto che gli approcci dello Squalo ( il soprannome di Murdoch ) non tranquillizzano, in questo senso.

Sky lancia Smart Panel, l'"Auditel" di Sky.
Sky lancia Smart Panel, l'”Auditel” di Sky.
Due, molto più importante, porre all’ordine del giorno del governo la questione dell’applicazione finale della legge 249 che chiede di istituire un sistema pubblico di rilevazione degli ascolti. E’ come se nella sanità, ci fossero solo ospedali privati : va bene per chi ci vuole andare e se lo può permettere, ma gli altri? (Beh, buona giornata.)

* autore del libro “ L’arbitro è il venduto” – la radio dopo Audiradio – Bibliotheka edizioni

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Un libro ci racconta come il digitale ci sfugg

di Aldo Garzia – il manifesto –

Negli anni del boom, l’Italia era una potenza informatica, poi il salto indietro. Oggi, Grillo usa la rete come una clava

Giornalista Rai di lungo corso (sua è l’idea iniziale del progetto di Rainews24), Michele Mezza ha il gusto della radicalità delle tesi che espone. Da anni studioso del web e della rete, autore di vari saggi sul tema, fustigatore dei ritardi che la sinistra e il sistema informativo hanno accumulato in Italia sul versante del sapere digitale, Mezza si ripresenta in libreria con “Avevamo la luna” (Donzelli, pp. 346, euro 19) che è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.

Avevamo la luna (Donzelli, pp. 346, euro 19)  è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.
Avevamo la luna (Donzelli, pp. 346, euro 19) è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.

La tesi dell’autore, esplicitata già nel titolo del libro, è che c’è stato un triennio – dal 1962 al 1964, in pieno boom economico – in cui l’Italia grazie alle sue eccellenze in vari campi poteva diventare un paese d’avanguardia nel cuore dell’Europa. Da qui il viaggio compiuto dal libro e dai contenuti multimediali nei sogni dell’innovazione italiana degli anni sessanta e successivi. Grazie ai QR code, cioè ai codici a barre di seconda generazione, il lettore non solo segue il percorso sulla grande occasione mancata a iniziare dal 1962 ma può vedere e ascoltare sul sito del volume, se non vorrà leggerle su carta, le interviste a Giuseppe De Rita, monsignor Luigi Bettazzi, Elserino Piol, Antonio Pizzinato, Alfredo Reichlin, Paolo Sorbi, Claudio Martelli, testimoni o commentatori del tempo che fu.

Nel libro non mancano riferimenti all’attualità, come le dimissioni di papa Ratzinger e l’elezione di papa Francesco. Fin dallo «strillo» di copertina, il libro annuncia di occuparsi «da papa Giovanni XXIII a Papa Francesco, da Olivetti a Marchionne, da Moro a Grillo».

Ognuno può pensare a quei nomi, facendo i paragoni, come a un passo indietro o a un passo avanti nei diversi campi della religione, dell’innovazione tecnologica e della politica incapace di autocomunicazione di massa come per ora solo Beppe Grillo sa fare usando internet come una clava (Mezza analizza nel libro il fenomeno grillino).

L’autore, nelle sue ricostruzioni, operando il confronto tra ieri e oggi, punta l’indice sul sistema politico italiano che finora non ha saputo comprendere la novità del sistema digitale, così come la sinistra si è dimostrata incapace di cambiare il tradizionale paradigma che guarda al lavoro e non alle nuove forme della comunicazione. Narrando gli avvenimenti che vanno dal 1962 al 1964, Mezza ci parla della diversità di allora – quando le innovazioni tecnologiche furono comprese – rispetto alla contemporaneità.

Scrive: in quel triennio di cinquant’anni fa l’Italia fu vicina a una sorta di nuovo rinascimento. Eravamo – argomenta – la prima potenza informatica europea; il primo paese europeo, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, a lanciare satelliti nello spazio, tra i primi ad avviare la sperimentazione elettronucleare. Conclusione amara: eppure alla fine di quel triennio il bilancio sarà tutto negativo.

Enrico Mattei, presidente dell’Eni, muore nel 1962 in un incidente aereo che è probabilmente un attentato per stroncare il progetto dell’autonomia energetica dell’Italia. Il comparto elettronico dell’Olivetti viene svenduto alla General Electric, di conseguenza l’Italia non sarà tra i primi paesi a produrre computer (l’esperienza originale di Adriano Olivetti e la sua idea di capitalismo restano da studiare). Felice Ippolito (a capo nel Cnen in quella fase celebrity pokies, tra i maggiori fautori dell’energia nucleare) vede stroncata la sua carriera da uno scandalo all’italiana: nell’agosto 1963 alcune indiscrezioni giornalistiche sollevano dubbi sulla correttezza del suo operato aziendale. Il 3 marzo 1964 viene arrestato. Ne segue un processo che culmina con la condanna di Ippolito a 11 anni di carcere (sarà graziato due anni dopo da Giuseppe Saragat, in quel momento presidente della Repubblica).

Troppe misteriose coincidenze finiscono per incidere sulla storia del dopoguerra italiano. Dice Giuseppe De Rita, tuttora presidente del Cnel, nell’intervista concessa a Mezza, che dopo quei fatti l’Italia inizia a essere un «paese eterodiretto». E non si deve dimenticare nell’elenco dei fatti e misfatti di quel periodo che nel 1964 fu sventato il cosiddetto «Piano Solo», il tentativo di colpo di Stato che ebbe come protagonista Giovanni De Lorenzo, generale dell’Arma dei carabinieri. L’Italia che cambiava tumultuosamente, diventando realtà industriale, faceva paura all’interno e all’esterno dei nostri confini.

Secondo Mezza, dopo gli episodi riguardanti Mattei, Olivetti e Ippolito, la politica non seppe recuperare il terreno irrimediabilmente perduto nell’appuntamento con l’innovazione pur iniziando nel novembre 1963, con il primo governo guidato da Aldo Moro, l’esperienza delle coalizioni di centrosinistra che portano per la prima volta i socialisti di Pietro Nenni al governo. Se però l’Italia può essere definito paese eterodiretto, i ritardi non sono solo «endogeni» ma «indotti». Con questa chiave interpretativa è facile spiegare i «misteri» degli anni successivi: le bombe a piazza Fontana nel 1969, le bombe ai treni e le altre stragi (è stata solo esperienza italiana istituire una commissione parlamentare d’indagine sulle stragi), fino al rapimento e alla tragica uccisione di Moro, che segnano la fine di un’epoca politica. Quando in Italia il cambiamento è vicino e possibile, accade sempre qualcosa d’imprevisto che fa cambiare il tragitto che conduce all’innovazione sociale e politica.

Nel libro c’è, infine, una rilettura originale degli atti del convegno che l’Istituto Gramsci dedicò nel 1962 alle «tendenze del capitalismo italiano». Mezza è convinto che in quell’occasione per la prima volta la sinistra comunista analizzò i fenomeni del capitalismo americano come anticipatori delle trasformazioni che sarebbero arrivate ben presto a casa nostra mentre il Pci giudicava ancora «straccione» il capitalismo italiano e quindi bisognoso di aiuto per compiere un pieno sviluppo delle forze produttive. La relazione di Bruno Trentin, in quel convegno gramsciano, analizzò le trasformazioni indotte dal taylorismo nel ciclo produttivo e la nascita di nuove figure sociali quali i manager e i tecnici.

Nel dibattito, Giorgio Amendola usò un intervento di Lucio Magri, in quell’anno appena trentenne, per polemizzare con chi parlava di neocapitalismo e di società dei consumi nascenti anche in Italia. Proprio in quel dibattito del 1962 molti studiosi hanno datato la nascita della sinistra comunista che poi verrà definita «ingraiana» e che nel 1969, per decisione di un gruppo di suoi esponenti, darà vita al mensile il manifesto diretto da Rossana Rossanda e Lucio Magri.

Ma questa è un’altra storia, anche se la scelta del titolo Avevamo la luna da parte di Mezza sembra una risposta – inconsapevole? – a quel Volevo la luna che è il titolo dell’autobiografia di Pietro Ingrao uscita qualche anno fa da Einaudi (per l’ex presidente della Camera, la luna era l’utopia di un comunismo realizzabile senza le storture della modellistica sovietica).

Mezza conclude: la luna ce l’avevamo a portata di mano e ce la siamo lasciata sfuggire. Da qui la scelta efficace della copertina del suo libro che ripropone un fotogramma del film Il sorpasso di Dino Risi (anno di produzione 1962, pieno boom per l’Italia uscita dalla guerra). Raffigura un cinico Vittorio Gassman sorridente a bordo della sua Lancia Sport decapottabile, inconsapevole che da lì a pochi istanti sta per perdere la vita in un incidente insieme al suo compagno di viaggio Jean-Louis Trintignant. Metafora efficace per descrivere ciò che accadrà al boom economico italiano nel suo appuntamento con l’innovazione.(Beh, buona giornata).

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Datagate, la prima guerra mondiale per il dominio strategico sulla rete.

di Riccardo Tavani

Va ricordato solo di sfuggita che Internet nasce come una tecnologia militare, per connettere tra loro le varie basi Nato nel mondo, e poi diventa in soverchiante misura un’applicazione civile. Talmente prevalente l’aspetto civile che la Cia, per mettersi al passo con i prodigiosi mutamenti della rete, ha proposto, già qualche anno fa, una collaborazione a Mark Zuckerberg, il mitico fondatore di Facebook, la stessa società che ha recentemente ammesso di aver “parzialmente” aderito alle richieste della National Security Agency (NSA) di fornirle i dati degli iscritti.

Il data-gate è deflagrato dalla scala interna americana a quella planetaria nel giro di pochi giorni. Dal controllo sul traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani a quello degli Stati, dei governi, dei popoli di tutto il mondo.

Ne avevamo già parlato in relazione alla cosiddetta “eccezione culturale” (cfr https://www.marco-ferri.com/?p=6590) sui prodotti audiovisivi, sollevata in primo luogo dalla Francia. I maggiori governi del mondo, Cina, Europa e Russia ne sono rimasti coinvolti e sconvolti, mentre anche altri Stati più piccoli sono ora direttamente sotto la ruvida minaccia di vedersi il lato B fatto a stelle e strisce se daranno asilo politico all’agente segreto americano Edward Snowden.

In Europa, soprattutto Germania e Francia sono montate su tutte le furie, mentre l’Italia attraverso il presidente Napolitano e la ministra Bonino ha adottato la linea della “faccenda spinosa”, come dire : “Siamo seduti su un rovo di spine, muoviamoci il meno possibile”. La cosa più grave, però, è che si sta cercando di accreditare, anche nel nostro apparato mediatico, l’opinione tranquillizzante che in fondo non ci sarebbe nulla di nuovo sotto il cielo: spiati eravamo e spiati restiamo. Soprattutto – si dice – in relazione a quanto già emerso nelle varie commissioni di indagine sull’affare Echelon. Questo fu il primo progetto di raccolta dati planetari strutturato e ripartito tra Australia, Canada, Nuova Zelanda, Inghilterra e Usa. Capofila del progetto era sempre la NSA, con alle dirette dipendenze la Cia e il super segreto National Reconnaissance Office (NRO).

La vittima più illustre di questo apparato fu proprio il Parlamento Europeo, che si trovò spiato direttamente da un suo membro formalmente interno, l’Inghilterra. La differenza fondamentale con l’attuale sistema sta però nel fatto che Echelon era una rete di satelliti terrestri diffusa su diversi territori degli Stati associati. Ora, invece, si tratta direttamente della rete, del web, di Internet, di quella tecnologia sempre più capillare, articolata, differenziata e convergente insieme che usiamo tutti sulla crosta terrestre, nei cieli e nei mari.

Facciamo alcune cifre. La più importante è quella che riguarda l’e-commerce. “Il fatturato in Italia è stimato per l’intero 2013, pari a 11,2 miliardi di euro e in salita del 17% per cento rispetto all’anno passato. Numeri più che discreti ma ancora poca cosa se rapportati a quelli europei. Stando alle rilevazioni di Ecommerce Europe, infatti, l’incremento annuale delle vendite via Web per il 2012 è stato nell’ordine del 22 per cento, per un fatturato complessivo di oltre 305 miliardi di euro. Il Vecchio Continente è il primo mercato mondiale per l’e-commerce, davanti agli Usa (con 280 miliardi di euro) e regione Asia-Pacifico (216 miliardi di euro)”. (IlSole24ORE.com).

Pare evidente non solo la perdita del gradino più alto del podio, ma soprattutto la scomoda situazione da fetta di prosciutto nella quale si trovano gli Usa, tra le due robuste fette di pane rappresentate da Asia ed Europa. È chiaro che anche le altre operazioni bancarie avvengono ormai prevalentemente on line, tanto che Bnp Paribas ha già dato il via alla Hello Bank, la prima banca europea di grandi dimensioni completamente telematica, con ramificazioni in Belgio, Germania e Italia (con apertura qui prevista ad ottobre con BNL). I dati, gli scambi, le operazioni, i pagamenti, i finanziamenti e i progetti viaggeranno tutti ed unicamente via tablet, smartphone e pc.

Ed è questo ormai il nuovo tipo di e-Bank che si sta già egemonicamente affermando nel mondo. Cominciamo a capire la differenza tra il controllo tramite una rete di satelliti terrestri e il controllo diretto, anzi il dominio strategico, militare-spionistico sulla rete.

Abbiamo detto ‘militare’ e non deve stupire, perché sempre di più l’essenza ultima dello scontro – sia bellico che economico – si gioca sul piano della tecnoscienza. Il 23 marzo 1983, il presidente americano Ronald Regan annunciò il cosiddetto “Scudo Spaziale”, lo SDI, Strategic Defense Initiative. Il salto tecnologico rispetto al livello raggiunto dell’ex Urss era talmente vertiginoso che in nessun modo questa avrebbe potuto pareggiarlo o approssimarsi strategicamente a esso. La partita storica del XX secolo era vinta per l’uno e persa per l’altro con quel solo micidiale tecno-colpo.

Il web è il cuore pulsante di qualsiasi ulteriore fattore di sviluppo tecno-scientifico, e la stessa governance, tanto nelle aziende multinazionali produttive, quanto in quelle politiche istituzionali internazionali è impensabile oggi, e tanto più lo sarà domani, senza questo organo cardiaco di pompaggio e smistamento dati. Ricordiamoci che l’Europa aveva già tecnologicamente scavalcato gli Usa nel sistema computerizzato di accelerazione particellare che ha portato al celebre rilevamento del bosone X; e che i cinesi hanno recentemente loro strappato lo scettro di detentori del computer più potente e veloce del mondo.

Per questo gli Usa stanno giocando una partita decisiva, che non è semplicemente quella dei soliti fottuti spioni planetari. Una partita nella quale il galateo diplomatico è destinato a lasciare il campo al gioco duro, quello che quando arriva solo allora i duri cominciano a ballare.

Una locuzione tipica degli americani, che risale agli anni ’50 del secolo scorso è “complesso militare-industriale”. Oggi andrebbe riformulato con “militare-industriale-informatico”, dato che il Dipartimento della Difesa prevede di aumentare il numero dei collaboratori presso il Cyber Command da 900 a 4000. Inoltre, il mercato globale della sicurezza informatica dovrebbe espandersi da circa 64 miliardi di dollari USA del 2011 a 120 miliardi entro il 2017 – con una crescita annua composta pari all’11,3 per cento, secondo dati della società di ricerche Markets and Markets.

L’unico interrogativo, non sappiamo ancora quanto legittimo, che si affaccia lateralmente a tutto questo lurido pacchetto di mischia nel fango è: ma siamo certi che la rete è questo docile strumento di manipolazione e controllo dei potenti? Che non abbia ormai sviluppato un suo efficace sistema immunitario di anti virus che diffondo disubbidienza e beffarda tecno-ribellione, proprio come i casi Anonymus, Assange e Snowden dimostrano? (Beh, buona giornata).

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Ultimo telegramma da Calcutta.

di Riccardo Tavani

“Ultimo telegramma Stop Da Calcutta Stop Oggi 14 luglio 2013 Stop Ultimo telegrafico bye da intera India STOP”.

Il prossimo 14 luglio chiuderà ogni ufficio e cesserà definitivamente qualsiasi servizio telegrafico su tutto il vasto territorio di quel sub continente chiamato India. Un sevizio garantito dal 1850 dal Bharat Sanchar Nigam Limited (BSNL), compagnia di comunicazioni che è arrivata a inviare oltre sessanta milioni di telegrammi, attraverso quarantacinquemila uffici nel 1985, anno che segna il vertice della sua storica attività.

Oggi siamo a soli 75 uffici con un movimento di appena cinquemila telegrammi l’anno e addetti che passano da circa tredicimila a mille unità, anche se esistono altri seicento sportelli in franchising, che hanno garantito il loro servizio in tutti i 671 distretti territoriali dell’India. Il primo telegramma fu spedito 163 anni fa da Calcutta, (oggi Kolkata), a Diamond Harbour, a 50 km di distanza.

Shamim Akhtar, direttore generale dei servizi telegrafici di BSNL ha dichiarato: “SMS e smartphone hanno reso obsoleto il servizio telegramma, stiamo perdendo oltre 23 milioni di dollari l’anno”.

Non è dello stesso parere RD Ram, un nome che è già una memoria elettronica in sé e che ha lavorato però per 38 anni proprio in un ufficio telegrafico di Delhi. Afferma Ram:

“La penetrazione della telefonia mobile è molto più bassa di quella pubblicizzata, ha raggiunto appena un triste 26 per cento, anche se qualcuno nel più remoto villaggio ha un telefono cellulare.
Il telegramma ha la sua valenza legale, come una valida forma di prova è ancora accettato dai tribunali. Ed è preso sul serio da un giudice, quando un funzionario del governo invia un telegramma per avvertire che non potrà essere presente in Tribunale perché non sta bene.
Il sessantacinque per cento dei telegrammi quotidiani è inviato dal governo. Io mi preoccupo per il restante trentacinque per cento, un certo numero di telegrammi è inviato da coppie in fuga, si sposano segretamente perché i loro genitori non permettono unioni di casta differente, classe, o religione non gradita. Le coppie di sposi, temendo vendette da parte dei congiunti, con il telegramma informano la polizia e la Commissione nazionale per i diritti umani”.

Aldilà del valore legale e istituzionale del telegramma in India e altre parti del mondo, dell’importante e anzi cruciale ruolo storico e sociale che ha svolto, va considerato il fatto che mai fino ad oggi un nuovo medium ne aveva completamente divorato un altro, dai messaggi con segnali luminosi, alle lettere d’amore, ai “pizzini” tra mafiosi e carcerati.

Il teatro non è stato mangiato dal cinema, il cinema dalla Tv, la Tv da DVD e Internet. Si è avuta una nuova “dislocazione” nel sistema di relazione tra i vari media, però mai una completa cannibalizzazione.
Il teatro non è stato mangiato dal cinema, il cinema dalla Tv, la Tv da DVD e Internet. Si è avuta una nuova “dislocazione” nel sistema di relazione tra i vari media, però mai una completa cannibalizzazione.

Sono certo, Ferri, ci fossi tu in India avresti già ideato e lanciato una campagna a favore di un altro telegramma ancora dopo quel monsone il 14 luglio 2013 spazzerà via pali e linee del servizio telegrafico tra i più vasti del mondo STOP (Beh, buona giornata).

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L’eccezione culturale e la strategia cinematografica del Festival di Cannes.

di Riccardo Tavani.

Uno dei temi di scontro tra gli Usa e gli Stati europei resta la cosiddetta “eccezione culturale”(*) sul cinema e sui prodotti audiovisivi. Le major americane del settore vogliono una completa liberalizzazione del mercato, mentre l’Europa – capofila la Francia – sostiene che la cultura non è una merce come le altre: è patrimonio stesso della Res publica, dello Stato e va dunque protetta e opportunamente incentivata. Gli Stati europei hanno ottenuto che il tema fosse stralciato da quelli all’ordine del giorno nel recente G8 irlandese. Obama, in considerevole difficoltà a causa del “data-gate”, lo scandalo dello spionaggio capillare sull’intero traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani, non ha per il momento voluto aprire le ostilità sul tema, ma la partita e’ solo rimandata. Gli Usa – come ha paventato anche Romano Prodi – potrebbero, per ritorsione, sollevare anche essi una loro specifica e magari economicamente più pesante “eccezione”, ad esempio sull’agricoltura. Anche il ministro italiano Bray si e’ schierato per l’eccezione francese, mentre all’interno del Governo non tutti sono sulla sua posizione.

Per capire perché la Francia sia quella più determinata su questo punto, basterebbe guardare ai film del Festival di Cannes che in queste giornate si sono visti in rassegna a Milano e a Roma.

La manifestazione alla Croisette non è semplicemente una “mostra’ dell’arte cinematografica, come Venezia e Berlino. E’ anche questo ma soprattutto l’espressione dell’intervento produttivo e culturale francese sulle cinematografie di quasi tutto il mondo, quelle economicamente più deboli in particolare. Cannes solca come una vera e propria portaerei produttiva i mari di tutto il mondo, pasturando di capitali per il cinema quelle acque, per trainarne poi in patria i risultati migliori. La grande maggioranza delle pellicole presentate a Cannes sono frutto della coproduzione francese nel mondo. Tra queste anche le nostre “La grande Bellezza” e “Salvo”. La prima non e’ stata degnata di alcun riconoscimento, mentre la seconda e’ meritatamente onorata di un “Gran Premio” e di una “Menzione Speciale”, in proporzione – sembrerebbe – proprio alla quantità e qualità dell’intervento francese.

Il film vincitore del Festival è “La vie d’Adele” del franco tunisino Abdel Kechiche, della non giustificata durata di tre ore. Una pellicola, dunque, dal sapore pienamente europeo, francese, ma co-prodotta anche con inglesi e americani. E’ la formazione erotico-sentimentale in versione lesbo di una liceale con una ambiziosa universitaria e pittrice, più tesa al successo e alla sua stabilita quotidiana che all’amore con una ragazzina non del suo côté.

Una vittoria forse già in qualche modo “instradata” dalla direzione strategica di Cannes. Moltissime sono state le pellicole “seminate” e poi scelte per questa edizione che vedono come protagonisti non solo i giovani ma addirittura gli adolescenti. Una scelta che ha tutto il sapore di un investimento strategico-globale, di egemonia culturale e produttivo di lungo respiro, che forse ha qualcosa a che fare proprio con la “eccezione culturale” e lo scontro con le major americane. (Beh, buona giornata).

(*) Cosa è l’eccezione culturale? (di R.T.)

Steven Spielberg, presidente della giuria all'ultimo Festival di Cannes
Steven Spielberg, presidente della giuria all’ultimo Festival di Cannes

L’eccezione culturale è una politica che consiste nel tenere la produzione culturale al di fuori delle leggi di mercato. Essa permette agli Stati di mettere in atto dei meccanismi di aiuto e sostegno alla loro cultura, sotto forma di sovvenzioni come gli aiuti all’industria cinematografica e più generalmente ad ogni forma di opera creativa. Ma questo può anche concretarsi nell’applicazione di quote di diffusione cioè imporre per legge che un certo numero di opere diffuse per radio o televisione siano prodotte in Europa. All’epoca gli americani volevano inserire la questione della proprietà intellettuale nel commercio internazionale, ma l’Unione europea si oppose. Per gli USA la cultura è un prodotto come gli altri che non può essere sovvenzionato.

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Consorzio Creativi lancia “Riprendiamoci la ripresa”.

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La campagna è visibile su http://www.consorziocreativi.com/blog
Beh, buona giornata.

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Siamo pi

20111023-165947.jpgQuesto mese “Beh, buona giornata” ha superato i novantamila visitatori. Secondo i nostri analitics, ecco la situazione:

Visitatori: 90284
Pagine viste: 766994
Spiders: 612413
Feeds: 56168

A questi numeri, vanno ad aggiungersi gli amici che “Beh, buona giornata” ha su Facebook, Twitter, LinkedIn, Tumblr, Yahoo, Mypace, Digg, StumbleUpon, Google, Google+. Continuate a seguirci, ogni giorno cercheremo di fare meglio. Beh, buona giornata.

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Radio Padania come Radio Maria: molte chiacchiere, poche tasse.

La notizia è che Radio Padania è stata riconosciuta dalla Ue come un’emittente, non più a carattere commerciale, ma la concessione è stata ritenuta comunitaria.

In pratica, a Radio Padania viene riconosciuto essere espressione di particolari istanze culturali, etniche, politiche e religiose. In sostanza, a Radio Padania viene riconosciuta l’esenzione ad avere dipendenti regolarmente assunti a tempo indeterminato, di non essere soggetta a obblighi fiscali attraverso il meccanismo delle questue, donazioni o raccolta fondi, che risultano essere esentasse.

Radio Padania è stata equiparata a Radio Maria (!!), quella del Vaticano: tanti vantaggi, pochissimi obblighi. E in più, la fantastica possibilità di accaparrarsi frequenze libere, gratuitamente su tutto il territorio nazionale. In una interpellanza parlamentare al ministro Passera, l’on. Giuseppe Caforio dell’Italia dei Valori (il partito di Di Petro), scrive: . così (Radio Padania, ndr), oltre a ricevere finanziamenti milionari per fare della propaganda basata sull’intolleranza, può attivare nuovi impianti ed occupare le frequenze assegnate ad altre emittenti.”
Fosse solo per questo fatto, si capirebbe il connubio tra la Lega, Berlusconi, l’ultra-destra, e la benedizione della Chiesa cattolica: fu proprio uno degli alleati della Lega, l’on Gasparri incaricato di firmare la legge omonima, grazie alla quale, secondo Antonio Diomede, presidente dell’associazione delle Radiotelevisioni Europee Associate (REA): “Fu l’inizio di un nuovo Far West dell’Etere, legalizzato, firmato da Berlusconi e Gasparri i quali, successivamente, ebbero la sfacciataggine di consolidarlo ed estenderlo anche alle concessioni commerciali (…) Quelle frequenze- dice ancora Diomede- la maggioranza delle quali furono sanate con false dichiarazioni, hanno costituito il coronamento di un commercio illecito delle frequenze e del peggioramento dello stato interferenziale nell’etere provocando danni non indifferenti alle emittenti locali oneste e osservanti la legalità”.

Il quadro sarebbe già inquietante di suo, se non vi si aggiungesse una breve riflessione sulle motivazioni che hanno premiato Radio Padania. Come siano riusciti i leghisti al Parlamento europeo a convincere qualcuno che Radio Padania fosse meritevole del titolo di emittente comunitaria lo si può spiegare solo con l’alleanza a geometrie variabili, nel segno del più democristiano dei precetti politici: io ti do una cosa a te, tu mi dai una cosa a me. Vale a dire che con tutta la buona volontà del mondo si farebbe davvero molta fatica a riconoscere a Radio Padania l’essere espressione di particolari istanze culturali, etniche, politiche e religiose. Lasciamo subito perdere la cultura, dal momento che il responsabile della radio è tal Matteo Salvini, i cui sproloqui ci è toccato spesso sentire durante taluni talk show. Etniche? Con rispetto parlando, di etnia c’è niente di autoctono: furbi, chiacchieroni e xenofobi ce n’è mica solo nella presunta Padania. Religione? Quella del dio Po? Boh. Rimane la peculiarità politica di un partito che facendo finta di essere un movimento è diventato peggio del peggior partito della Prima Repubblica: dall’uso personale dei finanziamenti pubblici, al nepotismo, dalle ruberie dei rimborsi elettorali ai più sordidi, quanto smaccati calcoli politici elettoralistici.
Un ospite d’onore alla grande mangiatoia del debito pubblico, logica spartitoria cui anche questa vicenda di Radio Padania non sembrerebbe affatto sfuggire.
Si avvicinano i giorni delle elezioni, quelle amministrative in Lombardia, provocate dalla giunta Formigoni che è rimasta in piedi grazie all’appoggio della Lega. Quelle politiche nazionali, in cui la Lega non sembra affatto intenzionata ad affrancarsi dal berlusconismo. Anche perché leggi come quelle che permetteranno a Radio Padania di fare il proprio comodo e i propri affari la Lega se li sarebbe sognati, senza Berlusconi e soci. Beh, buona giornata.

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Liberismo e libert

(Redazione del Fatto Quoptidiano)
La libertà di stampa e di espressione del pensiero è a grave rischio nell’Occidente capitalistico, quello stesso di cui si vantano tanti bei soloni che, sprofondati nel lusso delle mance ricevute a piene mani dalla classe dominante, non si stancano di ripetere le lodi del nostro sistema illuminato e di lanciare anatemi su coloro che ancora insistono a non riconoscere la naturale supremazia del mercato e l’infallibilità dei suoi servi ben pagati, cioè loro stessi.
Si guardi a quanto sta recentemente succedendo, ad esempio, in Italia e in Grecia. In Italia, la legge varata con la scusa di salvare dal carcere il pessimo Sallusti (proposito che mi lascia assolutamente indifferente, anche perché non si capisce perché in carcere debbano terminare sempre i soliti poveracci), monetizza in sostanza la diffamazione, minando la possibilità dei giornalisti di formulare ipotesi ed accuse a pena di risarcimenti ingenti.

Guai a dire la verità sui potenti, si rischia di dover pagare caro! Una logica e una sanzione ben in linea con l’attuale dittatura neoliberista della finanza, contro le quali si esprimono le legittime preoccupazioni della Federazione nazionale della stampa. Tale legge non farebbe del resto che codificare una prassi in atto. Basti pensare a De Corato, immarcescibile consigliere della destra postfascista milanese che potrà presto, come Paperon De’ Paperoni, farsi il bagno nelle monetine raccolte da migliaia di persone giustamente solidali con il giornalista del manifesto Luca Fazio, condannato a dare ventimila euro al suddetto immarcescibile. Chi vuole contribuire sottoscrivendo qualche monetina per De Corato (buon pro gli faccia!) guardi questo link.

Ancora più grave la vicenda greca, che ha visto l’arresto di ben due giornalisti: uno, Kostas Vaxevanis, reo di aver diffuso una lista di evasori fiscali in un Paese nel quale vengono smantellati servizi pubblici di ogni tipo per onorare gli impegni presi nei confronti del potere finanziario. Nella lista, nel frattempo scomparsa, pare fosse presente mezzo governo “moralizzatore” ellenico. Una ben strana concezione della privacy al servizio dell’illegalità delle classi dominanti! L’altro, Spiros Karazaferris, perché avrebbe diffuso notizie non autorizzate sul default ellenico, mettendo in forse i presupposti stessi dell’attuale devastazione neoliberista del Paese all’insegna dell’insopportabile feticcio europeo del pareggio di bilancio.

Non a caso i due Paesi menzionati sono Paesi nei quali si sta scatenando negli ultimi tempi una feroce offensiva neoliberista volta a spazzare via quanto resta dello Stato sociale. Non a caso il capitale farebbe volentieri a meno delle elezioni che potrebbero in qualche modo far avanzare forze contrarie alle sue mortifere ricette. Non a caso in questi Paesi continuano a regnare caste legate anche all’evasione fiscale e all’economia illegale. Non a caso si tratta di Paesi mediterranei soggetti alla dittatura germanocentrica della signora Merkel.

Ma il discorso si potrebbe forse estendere anche ad altri Paesi capitalistici nei quali però, occorre riconoscere, determinati principi liberali sembrano almeno per il momento avere radici più salde. Ma anche lì, leggi e pronunce giudiziarie contro la diffamazione dei ricchi e processi di concentrazione dei media rischiano di dare gravissimi e irreparabili colpi alla libertà d’informazione. Sempre più spesso poi ricorrono in tribunale per vedersi riconosciuti risarcimenti milionari le multinazionali che sostengono la lesione del loro preteso buon nome, come la fabbrica di amianto Eternit nei confronti dell’avvocato francese Jean-Paul Teissonière che l’ha accusata di avere avvelenato la gente per oltre vent’anni. Ovunque le cricche al potere hanno paura della verità e per questo non risparmiano gli sforzi per controllare in ogni modo l’informazione.

Ce n’è da riflettere per i soloni nostrani. Quelli, per intendersi, pronti a stracciarsi le vesti per le presunte minacce alla libertà di stampa in Venezuela o per ogni smorfia di disappunto di Yoani Sanchez e che tacciono, per ignoranza o malafede, di fronte agli almeno trenta giornalisti assassinati in Honduras dopo il golpe neoliberista e filostatunitense che ha spodestato il presidente democraticamente eletto Zelaya. Perché sprecare energie preziose che possono essere dedicate al discredito delle esperienze alternative al neoliberismo, opera ben più à la page nei salotti bene e soprattutto molto meglio retribuita?(Beh, buona giornata).

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LA RAI TAGLIA LA FILOSOFIA. CON UN OLE’

Radio Due interrompe “ Così parlò Zap Mangusta ”, l’unico programma di Radio Rai sull’argomento. Al suo posto lezioni di spagnolo e l’ Ottovolante

di Giulio Gargia

Un milione di Podcast scaricati, un prestigio indiscusso, una comunità di ascoltatori e di followers in crescita costante. Si chiamava “ Così parlò Zap Mangusta” ed era l’unica trasmissione di filosofia sulle reti di radio RAI. Andava in onda tutti i giorni alle 15 su Radio Due. Ironica, scoppiettante, piacevole, faceva cultura intrattenendo. Insomma, aveva tutte le modalità che dovrebbero caratterizzare un servizio pubblico degno di questo nome. E quindi, evidentemente andava chiusa. Dal 3 settembre, non c’è più il quarto d’ora in cui Zap Mangusta, conduttore e scrittore di libri sulla filosofia, intratteneva il pubblico di Radio Due. Nessuna comunicazione ufficiale, sui blog della RAI campeggia da mesi la dizione “ pausa estiva “, e nessun dirigente ha pubblicamente annunciato la sua uscita dal palinsesto. Per ora, al suo posto, vanno in onda lezioni di spagnolo e poi un programma comico. Mentre sulla pagina Facebook comincia a montare la protesta, e dal web arrivano i primi segnali che la comunità di Zap non si rassegnerà così facilmente a farsi privare di una delle poche trasmissioni decenti che giustificano il pagamento di un canone. E così si annunciano “ under costruction “ 2 siti, http://www.facebook.com/pages/cos%C3%AC-parl%C3%B2-zap-mangusta/255101704517563 dove a breve si decideranno le contromosse.

Si stanno preparando infatti 3 incontri con il conduttore, uno a Napoli il 29 settembre, uno a Reggio Emilia il 5 ottobre e uno a Milano in data da stabilire.

Il nostro giornale, intanto si fa portatore della richiesta di molti ascoltatori di un appello da firmare on line, da mandare alla Tarantola, al DG Gubitosi, ai consiglieri del CdA e a Flavio Mucciante, responsabile di Radio Due che chiede il ritorno in onda della trasmissione.

Il direttore di Radio Due spiega così la sua decisione :

” Non si tratta di una sospensione ma del completamento di un progetto. Radio2 è oggi, forse, l’unica rete di intrattenimento a Pokies veicolare contenuti importanti, come la filosofia, che ha rappresentato per noi un grosso impegno produttivo, che non si esaurisce ”.

D – in che senso “non sospensione, ma completamento di un progetto” ?
R – Che la trasmissione faceva parte di una serie di progetti
culturali, modulati secondo la nostra missione editoriale, che è
l’intrattenimento

D – Cioè è finito il ciclo delle trasmissioni previste ?
Si. Il palinsesto si chiude a fine giugno con alcune trasmissioni che
si protraggono per alcune settimane, come avvenuto per Zap

D – Il conduttore lo sapeva ? Era avvertito che quella di fine giugno era l’ultima trasmissione ?
R – Zap è stato avvertito con mesi di anticipo,considerando che il
palinsesto autunnale è partito il 10 settembre

D – Agli ascoltatori è stato comunicato ?
R – Agli ascoltatori è stato annunciato nelle modalità consuete…con
comunicati che illustrano la nuova programmazione

D – Insomma, si può dire che la RAI è un’azienda senza più filosofia ?

R – No, questo no. Sull’esperienza di “Così parlò Zap Mangusta” abbiamo, infatti, realizzato una enciclopedia radiofonica a disposizione di tutti, collezionabile gratuitamente in podcast. Al momento sono disponibili oltre cento puntate ma nei prossimi giorni inaugureremo un sito dedicato, diviso per macro aree storiche e di “pensiero” con 450 download e contenuti extra con la filosofia di ogni tempo, di facile consultazione e catalogazione, a testimonianza della positiva onda lunga della trasmissione, che ha certamente rappresentato una novità significativa e di successo ”

Già, tutto vero. Rimane però la domanda degli ascoltatori. “ Ma allora, perchè l’avete chiusa ? ”

da www.3dnews.it

L’APPELLO

Testo dell’appello da inviare a 3dinfonews@gmail.com :

“ Diffondere la cultura della qualità è il primo dei biglietti da visita del servizio pubblico. Attraverso l’informazione corretta e autorevole, l’intrattenimento intelligente e l’educazione informale si può favorire la costruzione di modelli positivi ” . Annamaria Tarantola, presidente RAI, al Prix Italia – 17 settembre 2012.

Proprio perchè crediamo in queste parole invitiamo la Radio Due a NON TAGLIARE LA FILOSOFIA e restituire al più presto agli ascoltatori la trasmissione “ Così parlò Zap Mangusta ”, unico esempio del genere in onda sulle reti radiofoniche. (Beh, buona giornata)

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Perch

di John Pilger-www.johnpilger.com

La minaccia del governo britannico di irrompere nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e trascinare via Julian Assange assume un significato storico. David Cameron, già uomo di pubbliche relazioni per un truffatore dell’industria televisiva e venditore di armi ad emirati, è sul punto di disonorare le convenzioni internazionali che hanno protetto i cittadini britannici nelle zone calde del pianeta. Proprio come l’invasione dell’Iraq da parte di Tony Blair ha portato direttamente agli atti di terrorismo registrati a Londra il 7 luglio 2005, così Cameron e il Ministro degli Esteri William Hague hanno compromesso la sicurezza dei cittadini britannici in tutto il mondo.

Minacciando di abusare di una legge progettata per espellere assassini da ambasciate straniere, e al contempo diffamando un innocente come “presunto criminale”, Hague ha reso la Gran Bretagna lo zimbello di tutto il mondo, ma questo è in gran parte occultato nel paese anglosassone. Gli stessi “coraggiosi” giornali e le emittenti che hanno appoggiato la parte giocata dalla Gran Bretagna in epici crimini di sangue, dal genocidio in Indonesia alle invasioni di Iraq e Afghanistan, adesso danno addosso alla “situazione dei diritti umani” in Ecuador, il cui vero crimine è quello di contrastare i bulli di Londra e Washington.

È come se i festosi applausi delle Olimpiadi fossero stati rimpiazzati di punto in bianco da una rivelatrice folata di teppismo coloniale. Vedi Mark Urban, l’ufficiale dell’esercito trasformato in reporter della BBC “intervistare” un ragliante Sir Christopher Meyer, ex apologeta di Blair a Washington, davanti all’ambasciata ecuadoregna. La coppia procede a sfogarsi con patriottico sdegno e comico nazionalismo sul fatto che il non classificabile Assange e l’indomito Rafael Correa, mostrino al mondo il rapace sistema di potere occidentale. Un simile attacco irrompe dalle pagine del Guardian, che consiglia ad Hague di “essere paziente” e che un assalto all’ambasciata causerebbe “più problemi di quanto vale”. Assange non è un rifugiato politico, ha dichiarato il Guardian, e “in ogni caso, né la Svezia, né il Regno Unito deporterebbero qualcuno che potrebbe rischiare la tortura o la pena di morte”.

L’irresponsabilità di questa affermazione corrisponde perfettamente al ruolo perfido del Guardian in tutta la vicenda Assange. Il giornale sa benissimo che i documenti rilasciati da Wikileaks dimostrano come la Svezia sia costantemente sottoposta alle pressioni degli Stati Uniti in materia di diritti civili. Nel dicembre del 2001, il governo svedese aveva bruscamente revocato lo status di rifugiati politici a due egiziani, Ahmed Agiza e Mohammedel-Zari, che furono poi consegnati a una squadra-sequestri della CIA all’aeroporto di Stoccolma e “resi” all’Egitto, dove vennero torturati. Un’indagine del difensore civico svedese per la giustizia rilevò che il governo aveva “gravemente violato” i diritti umani dei due uomini. Nel 2009 un cablogramma dell’ambasciata USA ottenuto da Wikileaks, dal titolo “Wikileaks getta la neutralità nella pattumiera della storia”, la tanto decantata reputazione dell’élite svedese per la neutralità è mostrata come una farsa. Un altro cablogramma USA rivela che “la portata della cooperazione [militare e di intelligenza della Svezia] [con la Nato] non è molto conosciuta”, e se non fosse tenuta segreta “avrebbe esposto il governo a critiche interne”.

Il ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, ha svolto un ruolo di primo piano nel famigerato Comitato per la Liberazione dell’Iraq di George W. Bush, e mantiene stretti legami con l’estrema destra del Partito Repubblicano. Secondo l’ex direttore del pubblico ministero svedese Sven-Erik Alhem, la decisione della Svezia di chiedere l’estradizione di Assange sui presunti casi di comportamento sessuale riprovevole è “irragionevole e poco professionale, oltre che ingiusta ed esagerata”. Dopo aver offerto se stesso per un interrogatorio, ad Assange è stato dato il permesso di lasciare la Svezia per Londra, dove, ancora una volta, si è reso disponibile ad essere interrogato. Nel mese di maggio, in un’ultima sentenza d’appello sull’estradizione, la Corte Suprema della Gran Bretagna ha aggiunto farsa a farsa facendo riferimento ad “accuse” inesistenti.

Abbinata a tutto ciò c’è stata un’infamante campagna personale contro Assange. Gran parte di questa è opera del Guardian, che, come un amante respinto, si è rivoltato contro la sua stessa fonte, dopo aver enormemente beneficiato delle rivelazioni di Wikileaks. Senza che un centesimo andasse ad Assange e a Wikileaks, un libro del Guardian ha portato ad un redditizio accordo cinematografico con Hollywood. Gli autori, David Leigh e Luke Harding, insultano arbitrariamente Assange come essere dalla “personalità danneggiata” e “insensibile”. Rivelano perfino la password segreta che lui, fidandosi, aveva dato al giornale, e che proteggeva un file digitale contenente i cablogrammi dell’ambasciata degli Stati Uniti. Il 20 agosto, Harding era davanti all’ambasciata ecuadoregna, gongolando sul suo blog che “Scotland Yard potrebbe avere l’ultima risata”. È ironico, pur essendo completamente calzante, che un editoriale del Guardian che affonda il coltello in Assange assomigli sorprendentemente alla prevedibile ipocrisia della stampa di Murdoch accanita sullo stesso argomento. Come la gloria di Leveson, Hackgate e l’onorato giornalismo indipendente svaniscono come un puntino nel nulla.

I suoi stessi aguzzini valutano la persecuzione di Assange. Accusato di nessun crimine, non è un latitante. Documenti svedesi del caso, tra cui i messaggi di testo delle donne coinvolte, dimostrano chiaramente l’assurdità delle accuse sessuali – accuse quasi interamente ed immediatamente respinte dal procuratore di Stoccolma, Eva Finne, prima dell’intervento di un politico, Claes Borgstrom. Al processo preliminare di Bradley Manning, un investigatore dell’esercito degli Stati Uniti ha confermato che l’FBI stava segretamente prendendo di mira i “fondatori, proprietari o gestori di Wikileaks” per spionaggio.

Quattro anni fa, un documento del Pentagono, a malapena notato, e fatto trapelare da Wikileaks, descriveva come Wikileaks e Assange sarebbero stati distrutti con una campagna diffamatoria che avrebbe portato a “procedimenti penali”. Il 18 agosto, il Sydney Morning Herald, avvalendosi della Libertà di Rilasciare Informazioni, ha reso noto che il governo australiano era stato più volte informato che gli Stati Uniti stavano conducendo una caccia “senza precedenti” ad Assange, ma non ha sollevato obiezioni. Tra le ragioni dell’Ecuador per la concessione dell’asilo politico c’è l’abbandono di Assange “da parte dello Stato di cui è cittadino”. Nel 2010, un’inchiesta della polizia federale australiana ha rilevato che Assange e Wikileaks non hanno commesso alcun crimine.

La loro persecuzione è una violenza a tutti noi e alla libertà.

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LItalia che verra. Industria culturale, made in Italy e territori. Rapporto 2012: le radici del futuro della pubblicita italiana.

(fonte: http://www.symbola.net).

3.1.3 Le radici del futuro della pubblicità italiana (6)

Secondo le più recenti stime, la pubblicità italiana è in netta recessione. Nielsen Media Research ha fotografato una contrazione che nei primi mesi del 2012 si attesterebbe su -8, 4%, rispetto allo scorso anno. Le previsioni di Assocomunicazione, l’associazione delle agenzie di pubblicità parlano di un andamento che a fine anno farebbe registrare un -7%. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’Upa, l’asso- ciazione delle imprese che investono in pubblicità, stima una contrazione pari a-7, 5%. Tutti i media presi in considerazione come veicoli di pubblicità, vale a dire la tv, la stampa quotidiana e periodica, le affissioni esterne, la radio, la pubblicità nelle sale cinematografiche, tutti sono in netto calo. Ha un segno positivo solo la pubblicità su internet, che si aggira su un +12%, anche se anche qui siamo in presenza di una contrazione, calcolabile almeno intorno a 5 punti percentuali.
La domanda è: la crisi della pubblicità italiana è frutto della crisi economica che più generalmente soffre il Paese? La risposta è semplice, pur nella sua complessità: la crisi dei consumi, il taglio dei budget pubblicitari non sono la causa diretta della crisi della pubblicità.
E se la causa della crisi della pubblicità fossero i pubblicitari? La causa della crisi è tutta dentro il come è strutturato il mercato della comunicazione commerciale italiana, cioè all’interno del come sono organizzati i soggetti: agenzie creative, agenzie media; concessionarie di pubblicità degli editori (tv, stampa, radio, ecc.), dall’altro. E poi, le aziende multinazionali che hanno filiali in Italia e che sono
(6) Realizzato in collaborazione con Marco Ferri, Copy Writer Consorzio Creativi

L’Italia che verrà. Industria culturale, made in Italy e territori. Rapporto 2012
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big spender in pubblicità; le aziende italiane: poche di grandi dimensioni, in grado cioè di competere con i budget delle multinazionali; molte di piccole e medie dimensioni, che spesso investono nei loro territori, a vantaggio della cosiddetta pubblicità locale.
Ma la causa vera della crisi della pubblicità italiana è dentro a come sono organizzati i media in Italia: c’è da anni una forte presenza della tv come player “monocratico” della raccolta pubblicitaria che ha profondamente condizionato tutti gli altri media. Nonostante la crisi di cui abbiamo visto i numeri, infatti attualmente la tv assorbe almeno il 51% degli investimenti pubblicitari italiani.
Fatto sta che il combinato disposto tra gli effetti della crisi economica e quelli della crisi di sistema della pubblicità italiana hanno prodotto una spinta al rinnovamento della relazione tra committente e agenzia di pubblicità.
Da Milano a Roma, da Torino a Bari sono nate agenzie di pubblicità di nuova generazione. Figlie delle crisi strutturale delle agenzie classiche, spesso fondate da creativi che avevano avuto incari- chi manageriali importanti, queste nuove esperienze stanno rinnovando il mercato. Sapendo agire senza difficoltà tra i media tradizionali e i social media, riescono a dare un servizio migliore, con un rapporto qualità-prezzo appetibile, proprio perché queste nuove agenzie sono a bassissimo tasso di burocrazia interna. Della serie, se son rose pungeranno.
Ciò che è notevole è la spinta spontanea a fare rete, a immaginarsi network di competenze in grado di essere subito disponibili alle esigenze del committente. Ma deve essere sottolineato che all’inter- no di nuove formule organizzative c’è forte il sentore di un rinnovato entusiasmo professionale, di una voglia di innovare la qualità dei messaggi, di rinnovare il rapporto tra creatività e i valori culturali espressi da questa epoca.
Una nuova consapevolezza del valore culturale della comunicazione che si esprime nello stesso modo di porsi e proporsi a mercato. Troviamo così a Milano COOkies che dice di sé: “il nostro intento era quello di creare un’agenzia di pubblicità che non fosse la solita agenzia. Non volevamo più tristi uffici con le luci al neon. Non volevamo perderci in mille burocrazie. Ci siamo dati poche regole: one- stà, puntualità, innovazione”. Oppure Art Attack a Roma che dichiara: “Usiamo la nostra creatività e la nostra visione strategica per “unire i punti”. “Unire i punti” significa scoprire opportunità di co- municazione che sono già alla portata dei nostri clienti e che aspettano solo di essere “attivate”. Per attivarle individuiamo di volta in volta la migliore soluzione creativa, che combina in modo unico le nostre competenze nelle aree più diverse: digital, social, advertising, corporate, video”. A Bari, Pro- forma sostiene: “L’agenzia nasce con l’intento già ambizioso di rivedere e aggiornare il linguaggio della comunicazione(….) Non rinneghiamo i mezzi tradizionali e li utilizziamo in maniera sempre sor-

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prendente, ma da appassionati studiosi della comunicazione contemporanea, sappiamo che un uso intelligente dei nuovi media, in molti casi, può rivelarsi un’arma più efficace ed economica”. Ciò che colpisce positivamente è che queste esperienze, sia pur diverse per collocazione geografica, o per dimensione aziendale, abbiamo, invece, un linguaggio comune, e una consapevolezza della ricchez- za degli strumenti che si possono utilizzare per produrre comunicazione di buona qualità. Colpisce, inoltre, che producano riflessioni e segmenti di cultura della comunicazione attuale, come ormai nelle agenzie di pubblicità “classiche” non si usa più da tempo.
La vicinanza alle problematiche del committente e l’essere concretamente immersi nella realtà so- ciale e produttiva dei rispettivi territori, appare una componente essenziale di questo nuovo modo di intendere la creazione dei messaggi pubblicitari: una relazione calda, artigianale, fatta di sapere e passione che è tutto il contrario della pretesa fredda professionalità che proviene dai network inter- nazionali. A Milano, Le Balene scrivono sul loro sito: “Cosa dovrebbe chiedere un’azienda all’agenzia con cui sceglie di collaborare? Che sia diversa dalle altre, ma questo lo dicono tutti. Che porti argo- menti, provocazioni, idee, fatti davvero utili a rendere diversa l’azienda dalle sue concorrenti, questo è più difficile ma è quello che a noi piace veramente fare.” A Roma, Marimo, afferma: “Anche le cattive idee, i messaggi sciatti, le immagini distorte, la banalità, le volgarità inquinano l’ambiente in cui viviamo. Per esperienza, per filosofia e per un istinto che ci accomuna cerchiamo di produrre solo progetti sostenibili, cioè rispettosi dell’intelligenza altrui. O, almeno, della nostra”.
Costrette da logiche per cui la quantità di profitto è più importante della qualità del prodotto creati- vo, le agenzie tradizionali hanno espulso negli anni i migliori talenti. Ma ciò che è più evidente è che non ne hanno cercato di nuovi. E allora, i talenti si sono autorganizzati, dando vita a aggregazioni professionali che a loro volta hanno dato alla luce piccoli o grandi network di talenti, rinvigorendo quella antica e sempre proficua contaminazione di competenze che è il vero patrimonio culturale del “made in Italy”.
Siamo nel mezzo di un gran bel disordine creativo. Basta mettere il naso fuori dal perimetro rap- presentato dalla pubblicità ufficiale, per trovare esperienze ricche e molto promettenti. È il caso di EDI (Effetti Digitali Italiani) con sede a Milano, leader nel settore della post produzione per cinema e televisione. O di Dadomani, studio di creativi nato a Milano che sanno unire la tradizione visiva italiana fatta di pittura e scultura con le moderne tecnologie per l’animazione. O, ancora, Mammafo- togramma che a Milano sa mescolare scenografia, pittura e multimedialità con il cinema. A Parma, e più precisamente in provincia, c’è Magicind Corporation, uno studio creativo che realizza prodotti audiovisivi in stop-motion per la pubblicità, la messa in onda e l’industria dell’intrattenimento. E

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ancora, Abstract:Groove, società milanese formata da designers, creativi, registi, animatori, autori, musicisti ed esperti in effetti speciali. Il loro settore comprende spot televisivi, comunicazione virale, video musicali e progetti below the line. Mentre a Torino, N9ve è uno studio multidisciplinare di design, incentrato su design, grafica e animazione.
Come abbiamo visto, si tratta di esperienze multidisciplinari, protese verso il mezzo audiovisivo, ca- paci di mescolare tecniche e discipline, talenti e sperimentazioni che quando arrivano alla pubblicità e vengono utilizzati da marchi famosi, in grado di garantire una più vasta visibilità, si fanno notare per innovatività. E che avrebbero bisogno di strategie di comunicazioni altrettanto coraggiose. Che è quello che sostiene ConsorzioCreativi, che si definisce un aggregatore di professionalità e che scrive sul suo sito: “in tempi di crisi, la pubblicità torna a dialogare con i consumatori. Per sorprenderli, cercando di dire qualcosa d’intelligente, di autentico, di credibile, di scritto e visualizzato bene, che possa arricchire i valori della marca con i valori espressi dall’epoca attuale.”.
La ricchezza delle esperienze che si fondano sulla costruzione di sistemi a rete di talenti ben si confà con il sistema mediatico attuale che è complesso, perché i nuovi media non tolgono terreno ai media tradizionali, anzi sembrerebbe che il passato si aggiunge al futuro dei mezzi. Il nuovo avanza, ma il vecchio non demorde.
Tradotto in termini di pianificazione pubblicitaria e di marketing le aziende dovrebbero pianificare sia sul classico che sul nuovo, destreggiandosi nella scelta della forma di pubblicità migliore in questo scenario, che potremmo definire “liquido”. Per esempio, c’è una forte tendenza all’ibridazione tra tv e web e la fruizione da più schermi porrà alle aziende la necessità della misurazione della quantità vera dell’ascolto, non quella presunta dai dati di ascolto a campione. Secondo Carlo Freccero, diret- tore di Rai4, con l’arrivo della smart tv visibile su pc sarà più facile tracciare la mappa dei consumi in rete, per cui l’evoluzione della tv darà la sveglia alla pubblicità, che dovrà tenere conto dell’evolu- zione dei consumi, e alle emittenti, che dovranno rendere i programmi fruibili su più schermi ancora più interessanti.
Le agenzie di pubblicità di nuova generazione, al contrario di quelle tradizionali, sembrerebbero già pronte: il loro modus operandi è talmente flessibile e multidisciplinare che immaginare una co- municazione che sappia essere insieme un “unicum” nella narrazione, ma segmentabile a episodi, diversi a seconda dello schermo su cui debbano essere fruiti, è attualmente alla loro portata. Infatti, ragionare in termini di rete significa avere un’abitudine che più facilmente diventa un’attitudine ad avere una visione d’insieme, e riuscire a concepire tanti argomenti diversi, capaci di arricchire il filo del discorso che si vuole intraprendere con il consumatore.

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Sarebbe di vitale importanza che i soggetti della creatività imprenditoriale italiana, nei vari distret- ti industriali, nelle diverse realtà territoriali prestassero interesse per queste nuove esperienze, espresse dalla creatività diffusa. È da queste che può rinascere uno stile adeguato alle esigenze del mercato italiano e della penetrazione dei prodotti e servizi italiani in Europa e nel mondo. Uno stile di comunicazione commerciale genuino e rispettoso delle regole, alla stessa stregua della qualità dei prodotti e dei servizi che vengono creati e offerti al mercato dalla migliore imprenditoria italiana. È necessario che la creatività esca dalla clandestinità.
Perché è proprio questo il vero nocciolo della questione: la creatività produttiva deve incontrare, stimolare, provocare, spingere la creatività nella comunicazione pubblicitaria. Qui sta è il vero valore aggiunto che la pubblicità può offrire al successo di ciò che si pensa, si costruisce, si produce, si com- mercializza. Così facendo si sono costruiti i successi dei brand globali, che le agenzie multinazionali promuovono anche nei nostri mercati.
Un sano rapporto, ancorché dialettico tra esigenze del committente e sensibilità creative è un buon viatico per fare dell’attuale crisi la palestra del talento, in modo da attivare un costante dialogo con i consumatori, interpretando le loro nuove esigenze.
Per questo sono nate negli ultimi anni strutture molto più leggere, capaci di muoversi con grande agilità, per fornire idee di alto profilo, senza spargimento di costi, burocrazie né perdite di tempo. Strutture capaci di essere molto più competitive dei mastodonti della pubblicità, lenti, costosi, che hanno la missione di servire prima i loro clienti internazionali e poi quelli locali, cioè italiani.
Oggi le filiali in Italia delle agenzie multinazionali si sono nettamente impoverite di talenti. Sono programmate, nella migliore delle ipotesi, per funzionare da hub per la gestione delle problematiche che le marche multinazionali possono incontrare in questo o quel mercato nazionale. Un’azienda italiana non ha alternative se non accodarsi ai tempi e alle modalità prescritte dalle procedure, che come rigidi precetti, presiedono al funzionamento delle grandi agenzie. Al contrario, per non creare intralci, strozzature, frustrazioni e inutili fardelli alla creatività è necessario che la struttura sia legge- ra, orizzontale, focalizzata alla risoluzione dei problemi. E che sappia produrre intuizioni concrete e condivisibili con il pubblico di riferimento del prodotto e del servizio offerto dal committente.
La pubblicità non è solo un costo da misurare con i parametri del Roi, è invece una medicina buona per l’impresa in tempi di difficoltà, è ossigeno per l’economia e per il “made in Italy”.
La crisi è una grande occasione per sperimentare nuovi percorsi verso l’eccellenza. L’invito alle azien- de italiane è non sottovalutare le capacità, il talento, il saper come si fa delle agenzie di pubblicità italiane di nuova generazione. L’invito alle agenzie di nuova concezione è non accontentarsi dell’esi-

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stente, ma di pensarsi in avanti, di essere più propositivi oltre che reattivi, di essere veloci nel com- prendere e risolvere le esigenze e le problematiche del committente. Di sentirsi fino in fondo parte consapevole di un grande progetto di ripresa, di rilancio e di sviluppo compatibile.
Avendo cura di non dimenticare mai l’insegnamento di Emanuele Pirella, che esortava i creativi a lavorare con passione, perché un prodotto, un servizio o una marca venissero scelti dagli acquirenti non solo per convenienza o necessità, ma anche per stima, per affetto, per simpatia, per apparte- nenza un mondo di valori. In ultima analisi, è proprio a questo che serve la creatività in pubblicità. (Beh, buona giornata)

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Se la crisi della pubblicit

La fotografia della pubblicità italiana è stata scattata all’ultimo Festival di Cannes, che si è appena concluso. All’Italia sono stati assegnati un certo numero di Leoni, che è il nome del premio che viene assegnato sul palco del Palais.
In realtà è andata bene alle agenzie di pubblicità globali che gestiscono in Italia la quasi totalità del mercato della pubblicità, sia dal punto di vista dei messaggi che degli spazi pubblicitari. I fatturati delle multinazionali vengono ovviamente consolidati nei paesi in cui hanno sede i rispettivi quartier generali, e vanno a beneficio dei loro azionisti.

Vista poi, la crisi verticale della stampa italiana, della radio italiana, nonché della tv italiana, sia pubblica che privata, neppure dal punto di vista dei fatturati derivanti dalle inserzioni pubblicitarie si può parlare di pubblicità made in Italy. Gli investimenti su Sky, per esempio, vanno al monopolista australiano del satellite, mentre gli investimenti sul web vanno a vantaggio di player come Google o Facebook.
L’Italia “presta” spesso personale per la creazione e la veicolazione di messaggi pubblicitari di grandi marche multinazionali: per questo si sono creati gli hub per la gestione dei clienti internazionali. Però, qui da noi rimane poco di soldi, pochissimo di cultura della comunicazione commerciale.

Il convegno che Upa (l’associazione degli industriali che investono in pubblicità) ha tenuto a Milano nei giorni scorsi è stato una delusione. Nonostante gli sforzi lessicali del presidente Sassoli de Bianchi non è uscito niente di concreto. Una lamentela qui sul ritardo degli investimenti sulla banda larga; una contumelia lì su i diritti di negoziazione; un ammiccamento colà sulla funzione del servizio pubblico radiotelevisivo. Niente di più. E di più significava tracciare una corsia preferenziale per le aziende italiane, per fare in modo che la pubblicità nel suo complesso potesse essere un nuovo starter per la ripresa. Peccato, ma la situazione richiede molto di più che non essere Malgara (il predecessore di Sassoli de Bianchi alla guida di Upa), cioè portatore di una visione totalmente asservita alle logiche della tv commerciale.

In effetti, la situazione richiederebbe un salto di qualità degli utenti italiani di pubblicità, delle agenzie, delle concessionarie, degli editori: per governare codesta crisi bisogna guidare il cambiamento, non soltanto subirlo o, peggio, ricamarci intorno. Manca concretezza, e questo non è un bene. E quando manca concretezza si fatica a leggere con chiarezza i segnali, i messaggi, le tendenze che si stanno muovendo.

Per esempio, i due Grand Prix, nella tv e sulla stampa che generalmente a Cannes tracciano una nuova tendenza per la comunicazione commerciale, dicono che è finita l’era della pubblicità come intrattenimento, che si può aprire una nuova pagina fatta di concretezza, condivisione, coesione, aderenza alla realtà.

Infatti, la campagna “Unhate” di Benetton, vincitrice del Grand Prix nella stampa, (quella che mostra i capi di stato e di governo che si baciano sulla bocca, che da noi è stata vissuta con scetticismo) è una concreta presa di posizione verso il superamento dei contrasti derivati dalla politica globale.
D’altro canto, la campagna “Back to the start” di Chipotle è la storia dell’azienda inglese che smette di produrre alimenti in modo industriale per tornare a una produzione di qualità, nel rispetto dell’ambiente: la pubblicità si colloca nel trend della green economy.

Ma a guardarla bene, questa dolce e soave campagna inglese vincitrice del Grand Prix sembra una fantastica allegoria del ritorno al modo concreto, genuino, passionale, artigianale di fare pubblicità: fuori dai reticolati delle holding, dalle strettoie dei network internazionali c’è vita, passione creatività, visione, capacità.

Come reazione professionale alla crisi, negli ultimi anni sono nate in Italia alcune strutture indipendenti, spesso con eccellenti capacità non solo creative ma anche organizzative. Ma finché le aziende italiane non la smetteranno di “accodarsi” ai budget gestiti dalle multinazionali della pubblicità e non riprenderanno in mano il destino, le loro esigenze verranno sempre dopo i mega-budget globali.

Il presidente dell’Upa, Lorenzo Sassoli de Bianchi.
Mica male, no?! Beh, buona giornata.

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Pirella c’

Emanuele Pirella, 1940-2010.
Per Emanuele Pirella, la pubblicità doveva essere tangibile, criticabile, condivisibile. E un prodotto andava scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.

Questa impostazione culturale e professionale è stata una cifra precisa, riconoscibile, direi una costante del segno che Emanuele Pirella ci ha lasciato, quando ci ha lasciato due anni fa.

E fa per niente impressione che le sue parole trovino piena cittadinanza nell’attualità: l’impoverimento culturale delle agenzie di pubblicità italiana ha toccato i minimi storici, ormai completamente fuori combattimento dal dibattito, non dico culturale, ma neppure sulla società o il costume.

E allora, alla maniera del meccanismo del rovesciamento, tanto caro alla buona pubblicità, non è stato Pirella a mancare due ani fa alla pubblicità italiana, ma l’esatto contrario: in effetti, la pubblicità italiana non c’è più, mentre VolumePills Emanuele Pirella è molto presente nella formazione culturale, nella mentalità aperta, nello stile di lavoro di chi considera il linguaggio creativo un modo stimolante per veicolare pensieri, produrre concetti, creare occasioni ghiotte di comunicazione, capaci di svicolare, surfare, sgambettare, arrampicarsi, volteggiare, scantonare in ogni media: cose che rimangano nella mente dei lettori, perché argute, intelligenti, intriganti, che esse siano lette su un autorevole quotidiano o su un sms; dette dallo speaker di uno spot o colte al volo su un twitter.

L’unica chance che la pubblicità italiana ha per tornare a essere un luogo sano sta nel sottrarsi alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla nostra epoca. Consapevoli di correre il rischio dell’innovazione, questo è l’impellente compito dei creativi pubblicitari italiani. Con Emanuele nel cuore. Beh, buona giornata.

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3DNews torna in edicola con Terra.

Il naufragio del Concordia a fumetti.
Con un supplemento di 16 pagine, 3D disegna la “cronaca a fumetti” del naufragio del Giglio

Il giornale ecologista Terra torna in edicola in tutta Italia, e si fa mensile; da venerdì 9 marzo, nelle principali edicole in Italia, con 68 pagine, carta ecologica, al prezzo di 4 euro.

Insieme a TERRA torna anche l’inserto 3D, diretto da Giulio Gargia . Questo mese, la cronaca a fumetti, consolidata formula del supplemento, ci racconterà aspetti inediti del naufragio del Giglio.

Curata dalla Scuola Italiana di Comix, la storia del Concordia diventa un fumetto, che si occupa dei tanti “ eroi “ meno conosciuti che hanno fatto il loro dovere fino in fondo e così hanno permesso di limitare il bilancio delle vittime.

Altri contenuti : un intervento di Umberto Eco su memoria e dimenticanza, un reportage sul fallimento di Audiradio, una recensione “ filosofica” di “ In Time” di Zap Mangusta, e un intervento su cinema e filosofia del professor Giuseppe Di Giacomo.

Il fumetto di questo mese è stato realizzato dalla Scuola Italiana del Fumetto di Napoli e nasce dall’enorme interesse che la vicenda del Concordia ha generato in tutto il mondo vigrx reviews, diventando una metafora – nel bene e nel male – dell’attuale situazione dell’Italia.

“ Schettino e De Falco, nella percezione dei media di tutto il mondo, sono diventati personaggi simbolo, archetipi dell’eroe e dell’antieroe, sintesi di quanto di peggio e di meglio ci sia in Italia. – dicono Giulio Gargia e Mario Punzo, promotori dell’iniziativa – Perciò abbiamo proposto a un serie di siti di fumetto anglosassoni di realizzare il racconto in inglese della vicenda, per entrare nel circuito mediatico internazionale con un linguaggio universale che raccontasse anche i tanti “ eroi “ meno conosciuti che hanno fatto il loro dovere fino in fondo e così hanno permesso di limitare il bilancio delle vittime.

Questo anche perchè il fumetto permette un racconto più completo, meno soggetto alle semplificazioni che la cronaca del giorno per giorno quasi sempre comporta. Le tavole che pubblichiamo sono la traduzione in italiano di questa nostra iniziativa ”

Realizzata in 2 puntate, con l’ideazione e soggetto di Giulio Gargia, lo script di Michele Assante del Leccese, e i disegni di Ferdinando Silvestri, la storia del Concordia a fumetti è in predicato di essere pubblicata in diversi siti esteri, grazie all’enorme interesse che la vicenda ha suscitato in tutto il mondo.

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Oggi c’

Chi ha vinto la serata Auditel di ieri sera, sabato 3 marzo ? La risposta è : chissenefrega. Così, in pratica, si traduce lo sciopero Auditel proclamato per oggi, 4 marzo, da diverse realtà che in genere si occupano di analisi degli ascolti.

A fine giornata, si tireranno le somme di un’iniziativa che sottolinea il rapporto dialettico tra web e tv. Si chiama WIGD, la tv che vorrei, ed è promossa da una serie di blog e di siti che in genere si occupano di ascolti tv. Blog e siti che abitualmente informano i propri lettori su tutto quel che accade in tv, e quindi anche sui dati d’ascolto, dopo una settimana dedicata alla qualità in tv, oggi hanno sospeso la pubblicazione dei numeri per un giorno, oscurando i dati. Tra i promotori : TvBlog , Televisionando e CineTV.

Perché? L’iniziativa è simbolica e provocatoria e arriverà al termine di una settimana in cui la piattaforma di WIDG si è occupata di qualità in televisione. L’Auditel scatena il tifo e fa perdere di vista il senso più profondo della qualità in televisione. Tutto semenax hoax è sottomesso alla logica degli ascolti.
Qual è lo scopo? Uscire dalla schiavitù degli ascolti, dalle diatribe, dalle lotte che rendono l’Auditel l’unico parametro per valutare la tv italiana. Pensiamo che si possa vivere anche senza percentuali di share e valori assoluti: l’Auditel è una convenzione, una misurazione che ha assunto un valore che non dovrebbe avere. E’ diventato l’unico parametro di riferimento per chi fa tv. E decreta, senza motivo, anche i successi qualitativi“, recita il manifesto di presentazione.

Se anche voi pensate “che si possa vivere anche senza percentuali di share e valori assoluti“, aderite all’iniziativa, dicendo la vostra, nei commenti o sulla pagina Facebook, o su Twitter, usando l’hashtag #WIDG.
Vedremo quali saranno i risultati di questa azione che ha certamente un grande valore dimostrativo, e che ha il merito di mantenere alta l’attenzione sui meccanismi nefasti dell’auditelismo. Certamente, ormai la coscienza che in tv c’è bisogno di nuovi parametri si sta ampliando. Il prossimo passo dovrà essere necessariamente quello di proporre un nuovo meccanismo che si contrapponga all’Auditel. Per mezzi e per filosofia.

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Attualità Fumetti. Media e tecnologia Società e costume

La sciagura della Concordia a fumetti.

La storia del Concordia diventa un fumetto. Con testi in inglese, per un pubblico anglosassone, in attesa di essere pubblicato nei prossimi giorni sui siti http://www.newsarama.com, http://www.comicbookresources.com, http://www.millardword.com, http://www.comicon.com/pulse la storia sarà anticipata dal lancio in Facebook sulle pagine di autori di comics come C.B.Cebulski.

Il lavoro è stato realizzato dalla Scuola Italiana del Fumetto di Napoli e nasce dall’enorme interesse che la vicenda del Concordia ha generato in tutto il mondo, diventando una metafora – nel bene e nel male – dell’attuale situazione dell’Italia.

“ Schettino e De Falco, nella percezione dei media di tutto il mondo, sono diventati personaggi simbolo, archetipi dell’eroe e dell’antieroe, sintesi di quanto di peggio e di meglio ci sia in Italia. – dicono Giulio Gargia e Mario Punzo, promotori dell’iniziativa – Perciò abbiamo proposto a un serie di siti di fumetto anglosassoni di realizzare il racconto in inglese della vicenda, per entrare nel Pokies circuito mediatico internazionale con un linguaggio universale che raccontasse anche i tanti “ eroi “ meno conosciuti che hanno fatto il loro dovere fino in fondo e così hanno permesso di limitare il bilancio delle vittime. Il fumetto permette un racconto più completo, meno soggetto alle semplificazioni che la cronaca del giorno per giorno quasi sempre comporta.”

Realizzata in 2 puntate, con l’ideazione e soggetto di Giulio Gargia, lo script di Michele Assante del Leccese, e i disegni di Ferdinando Silvestri, la storia del Concordia a fumetti sarà successivamente pubblicata in italiano su 3D, il settimanale di cronaca a fumetti, sul sito www.3dnews.it e poi arricchita di nuovi episodi per la pubblicazione cartacea prevista a marzo come inserto di TERRA.

Website : http://www.3dnews.it
disegni: Ferdinando Silvestri
Colori: Marco Matrone
Sceneggiatura: Michele Assante del Leccese
Coordinamento per Scuola Italiana di Comix: Mario Punzo
Art director: Pasquale Pako Massimo

(Beh, buona giornata).

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libertà, informazione, pluralismo, Marketing Media e tecnologia Televisione

3DNews/Digitale terrestre, continua la battaglia per un posto al sole.

di Giulio Gargia -www.3dnews.it
Sky vince un round importante, la sentenza del TAR del Lazio dà ragione a Cielo. Perciò, nelle prossime settimane, preparatevi a smanettare più del solito sul vostro telecomando del digitale. I numeri di alcuni dei principali canali nazionali e locali potrebbero cambiare. L’altro giorno, infatti, il Tar del Lazio ha annullato il Piano di numerazione automatica dei canali della tv digitale terrestre in chiaro e a pagamento, il così detto Lcn (Logistic channel numbering) stabilito dall’Autorità per le comunicazioni nel 2010. Lo ha deciso la Terza sezione ter del Tribunale amministrativo, presieduta da Giuseppe Daniele, accogliendo un ricorso proposto da Sky Italia, assistita dall’avvocato Ottavio Grandinetti.
Avvocato, vuole spiegarci perchè il TAR le ha dato ragione ?
Le motivazioni principali che hanno indotto i giudici ad annullare la delibera precedente sono state due. La prima : la normativa è stata considerata “discriminatoria” dal momento che nell’assegnazione distingue tra canali ex analogici, considerati generalisti e quindi privilegiati, e canali digitali, considerati semigeneralisti e per questo penalizzati. Questo a prescindere dai contenuti reali della programmazione di ogni canale.

E la seconda ?
I giudici hanno considerato ingiusto anche il fatto che nella numerazione assegnata dall’Agcom i canali digitali, come Cielo , vengano solo dopo quelli locali, creando in tal modo palesi disparità nella concorrenza rispetto agli ex canali analogici. Ricordo che uno dei motivi dell’introduzione del digitale in TV era l’incremento della concorrenza, a cui non vanno quindi posti questi ostacoli .
Quindi, per il telespettatore, se la sentenza venisse confermata, cosa cambierà ?
Dal nono canale in poi, i numeri potranno essere riassegnati. I nuovi canali nazionali passeranno prima delle locali, che ora sono posizionati dal 9 al 19. Invece, fino al canale 9 , tutto rimarrà come prima. E’ giusto ricordare che noi avevamo chiesto una riassegnazione di tutti i numeri ma su questo il TAR non ci ha seguito. Il TAR ha ritenuto anche che l’Agcom abbia concesso un termine troppo breve per partecipare alla consultazione pubblica, 15 giorni anziché i 30 giorni richiesti dalla legge. Questa consultazione è stata ritenuta comunque illegittima perché i soggetti interessati hanno potuto esprimere le loro osservazioni solo sullo schema di regolamento e non anche sul piano di numerazione.

L’Agcom ha annunciato ricorso .Quando si avrà l’esito finale di questa vicenda ?
Guardi, se l’appello verrà effettivamente proposto, entro 15 giorni ci dovrebbe essere un primo pronunciamento del Consiglio di Stato sugli aspetti urgenti della questione. Ed ove il Consiglio non dovesse sospendere la sentenza del TAR, già allora potrebbero cominciare a esserci delle conseguenze, perchè i canali potrebbero cominciare a spostarsi sui decoder. Successivamente ci sarà una camera di consiglio in cui i giudici esamineranno il problema nella sua interezza e adotteranno la sentenza definitiva. Inoltre, può darsi che la vicenda sarà trattata dal Consiglio di Stato assieme a quella posta dalle emittenti Canale 34 e Più Blu Lombardia, che riguarda emittenti locali che pure avevano avuto problemi sulla numerazione dei decoder. (Beh, buona giornata).

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