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Hanno privatizzato la Protezione Civile. Si salvi chi può.

Povero Bertolaso: gli tocca restare, comandare, privatizzare, di Antonio Sansonetti-blitzquotidiano.it
Aveva detto «mollo il Dipartimento e vado in pensione», invece resta – Aveva promesso: «La Protezione Civile non va riorganizzata e tanto meno trasformata in società per azioni», invece i suoi servizi adesso saranno gestiti da una Spa

Aveva fatto credere di essere stanco di fare il Superman delle emergenze e per questo Guido Bertolaso, poco più di due mesi fa, aveva confessato: «Mollo il Dipartimento e vado in pensione».

Un mesetto dopo aveva confermato: «A fine anno me ne vado. Ma non si tratta di dimissioni, si tratta della possibilità di avvalersi di una legge, la cosiddetta legge “anti-fannulloni” voluta dal ministro Renato Brunetta, che consente ai funzionari dello Stato di andare in pensione con anticipo rispetto alla scadenza naturale. Io ho fatto domanda».

Detto per inciso, si tratta di una norma destinata a decapitare lo Stato dei suoi uomini più esperti, come fu agli inizi degli anni ‘70 con la mai abbastanza vituperata legge detta “dei sette anni” di Giulio Andreotti, figlia di un cinismo elettorale che valse parecchi voti alla Dc ma che sfasciò l’apparato statale e in particolare la polizia contribuendo a lasciare per qualche anno l’Italia in balia di malavita e terrorismo.Rivestita del finto efficientismo di Brunetta, questa norma ha un sapore antico e preoccupante che sembra sfuggire a quanti sono troppo occupati a “mandare a casa” Berlusconi bollandolo con la lettera scarlatta per rendersi conto dello sfascio in atto.

La distrazione ha fatto sì che nessuno rilevasse le contraddizioni e anche i rischi del caso Bertolaso, il quale giovedì 17 dicembre ha comunicato: «Avevo chiesto di poter andare in prepensionamento alla fine di quest’anno, ma il governo ha inserito una norma che prevede una proroga a questi termini e quindi rimarrò nelle funzioni di capo del Dipartimento fino ad un massimo di 12 mesi a partire da gennaio». Accidenti ’sto Governo.

Ma non finiscono qui le contraddizioni. Bertolaso aveva detto (26 novembre) che «la Protezione Civile non va riorganizzata e tanto meno trasformata in società per azioni (Spa)». Aveva garantito che «la possibilità che la Protezione civile sia in via di privatizzazione, come ipotizzano alcuni organi di stampa, sono solo chiacchiere». Del resto, aveva sottolineato, «la Protezione Civile non può che essere pubblica».

Notizia fresca è che il Governo la Spa l’ha fatta. Lo ha annunciato lo stesso Bertolaso senza un’ombra di imbarazzo: «È stata approvata la realizzazione di una società di servizi che possa agire in nome e per conto della Protezione Civile».

Una cosa non da poco, questa neonata società, alla quale sarà affidata «la gestione della flotta aerea e delle risorse tecnologiche, la progettazione, la scelta del contraente, la direzione dei lavori, la vigilanza degli interventi strutturali ed infrastrutturali, l’acquisizione di forniture o servizi di competenza del Dipartimento, compresi quelli concernenti le situazioni di emergenza socio-economico-ambientale».

Una Spa che nasce per decreto. Nello stesso provvedimento vengono dati in mano a Bertolaso 8,2 milioni di euro che serviranno ad assumere il personale che in questi anni ha lavorato per il Dipartimento.

Insomma i servizi della Protezione Civile sono privatizzati. Su Blitz avevamo spiegato perché si tratta di un “bene pubblico puro”. Così non sarà più. E Bertolaso resta.

Ma per questo c’è una spiegazione. Lui promise che «quel che è certo è che non me ne andrò fino a quando l’ultimo degli sfollati del terremoto del 6 aprile non sarà sistemato in un’abitazione sicura». Un impegno ribadito pubblicamente più volte.

E come lui stesso ha dovuto ammettere il 9 dicembre, «3.000 sfollati che avrebbero dovuto ricevere le case entro la fine dell’anno non entreranno nei moduli abitativi provvisori (Map)». Peggio, molto peggio per altri 14 mila sfollati che si trovano sulla costa, di cui «il 60% vive in case prese in affitto ed il 40 % negli alberghi».

Che dice il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio cui la Protezione civile dovrebbe rispondere? Ovviamente nulla, visto che è lo stesso Bertolaso che ricopre la carica di controllore di se stesso, senza il minimo imbarazzo e senza che ci sia qualcuno che glielo faccia notare, a parte qualche moralista un po’ demodé. Naturalmente di dimissioni dal doppio incarico nessuno ha mai sentito parlare, anche se adesso il conflitto di interessi è ancora più lampante.
(Beh, buona giornata).

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Come per la crisi finanziaria, come per la crisi economica, come per la crisi energetica, i governi del mondo non sono capaci di prendere decisione vere neppure sul Clima. Prendiamone atto.

Copenaghen, ore 16:23 (fonte: AGI)

CLIMA: SI CHIUDE VERTICE, PAESI RASSEGNATI “PRENDONO ATTO”
Con un’intesa minimalista e che ha lasciato tutti insoddisfatti si e’ chiuso ufficialmente poco fa, dopo 13 giorni di passione, il vertice di Copenaghen. In un comunicato tutte le nazioni, anche quelle che fino all’ultimo hanno osteggiato l’intesa e che ieri sera gridavano allo scandalo, alla fine hanno “preso atto” che, anche se non sufficiente, il documento passera’ comunque alla storia come l’accordo di Copenaghen e servira’ da base di lavoro per il futuro. Beh, buona giornata.

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Conferenza sul Clima di Copenhagen: c’è stato del marcio in Danimarca.

Copenhagen, la «grande delusione» vista dalla Nigeria, di Marina Forti-il manifesto

Verranno fuori con una dichiarazione politica senza vera sostanza, giusto per non dire che torniamo a casa con le mani vuote, dice Nnimmo Bassey: questa conferenza di Copenhagen «è una grande delusione». Da un anno Bassey è il presidente di Friends of the Earth International, grande rete ambientalista internazionale con affiliati sia nel Nord che nel Sud del pianeta. Nigeriano, architetto di formazione, nel ’93 è stato tra i co-fondatori di Environmental Right Action (Era), organizzazione che ha cominciato a legare i diritti umani alle questioni ambientali: e forse non esiste luogo dove la relazione tra i due sia più evidente che nel delta del fiume Niger, una delle regioni mondiali più ricche di petrolio e gas naturale, devastata dall’inquinamento, dove le pacifiche proteste sono state represse in modo brutale – è là che in quegli anni ’90 il governo nigeriano, allora una dittatura militare, ha risposto alla protesta contro la Shell nella regione Ogoni del Rivers State, nel delta, facendo impiccare 9 dirigenti del movimento tra cui lo scrittore Ken Saro-Wiwa.

Dunque «delusione»: ma cosa vi aspettavate da Copenhagen?
Che i governi qui riuniti fossero in grado di giungere a un accordo che riconosce il principio della giustizia climatica, finanzia le misure necessarie a mitigare il cambiamento del clima, in cui i paesi industrializzati si impegnano a seri tagli delle emissioni di gas di serra in casa propria e non solo attraverso il meccanismo degli offsets (i «meccanismi flessibili» che permettono di scrivere a proprio credito progetti ambientali finanziati in paesi poveri, ndr). E che fissa tempi e verifiche chiari. Ma di tutto questo qui non vedo nulla.

Chi ne ha la responsabilità?
Prima di tutto c’è un problema di mancanza di trasparenza. Troppe riunioni riservate, bozze di documenti che circolano in segreto, lo stile della presidenza danese ha una parte di responsabilità. Portano responsabilità anche i paesi del Annex 1 (i 37 paesi industrializzati elencati nel Protocollo di Kyoto, tenuti a tagliare le loro emissioni di gas di serra secondo quote precise, ndr): è chiaro che non sono qui per rafforzare il Protocollo di Kyoto ma per indebolirlo, fare manovre politiche a breve temine. Chi ha mostrato senso di leadership è Lula: il Brasile sta finanziando le sue misure per riconvertire l’industria nazionale e tagliare le emissioni, e aiuta anche altri paesi più poveri. E lo fa su base volontaria, senza pre-condizioni.

Come cittadino di un paese africano «in via di sviluppo», ma anche grande produttore di petrolio, cosa si aspetta che faccia qui il governo della Nigeria?
Vorrei che venisse a dire che mette fine, da subito, a una delle maggiori fonti di gas di serra nel mio paese, il gas flaring – il gas disperso da soffioni non controllati. E’ un problema pazzesco, circa 24 miliardi di metricubi di gas all’anno dispersi nell’atmosfera, una perdita di 25 miliardi di dollari l’anno. Invece qui hanno detto che vogliono legare il gas flaring ai Meccanismi di sviluppo pulito, cioè farsi finanziare interventi che dovrebbero già fare come obbligo di legge, e che non faranno mai.

Lo sfruttamento di petrolio e gas ha inquinato il delta innescando dagli anni ’90 un ciclo terribile di proteste e repressione.
E non è finita: nel 1999 è finita la dittatura militare ma non la grave violazione dei diritti umani. Prosegue la devastazione di comunità locali, non c’è lo stato d’emergenza ma continuano uccisioni e violenza, e l’inquinamento: in media una perdita di greggio al giorno. Come stupirsi che sia nata una lotta armata. L’amnistia? Di solito tregue e amnistie seguono un processo di negoziato, nel delta invece è stata annunciata dall’alto e ora ci sono segnali che sta collassando. Perché non ha fondamenta solide, non sono state affrontate le questioni di fondo: mancano investimenti in infrastrutture e sviluppo, non c’è stata alcuna bonifica, restano povertà, abbandono. Problema di fondo, posto fin dai movimenti degli anni ’90, il controllo delle risorse: ormai lo stato centrale trasferisce fino al 30% del reddito del petrolio, ma va nelle tasche della burocrazia non allo sviluppo economico e sociale.

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Verso Copenhagen 2009: “alcuni emendamenti presentati dal governo alla Finanziaria 2010 che se approvati ucciderebbero nella culla lo sviluppo delle rinnovabili italiane.”

Alla faccia di Copenaghen, dal blog di VALERIO GUALERZI-repubblica.it
Altro che vertice di Copenaghen affossato dalla prepotenza del G2, dalla timidezza di Obama e dalla sfrenata corsa cinese allo sviluppo a suon di emissioni. Non c’è bisogno di andare così lontano per cercare i sicari dell’impegno nella lotta ai cambiamenti climatici. Basta guardarsi in casa. E’ di questi giorni la notizia di alcuni emendamenti presentati dal governo alla Finanziaria 2010 che se approvati ucciderebbero nella culla lo sviluppo delle rinnovabili italiane.

A denunciare l’agguato nel quale rischiano di cadere soprattutto eolico, solare e biomasse, è un cartello di associazioni ambientaliste e organizzazioni del settore. Il testo, spiega un comunicato congiunto di ANEV, APER, FEDERPERN, FIPER, GREENPEACE ITALIA, ISES ITALIA, ITABIA, KYOTO CLUB e LEGAMBIENTE, prevede ben tre passaggi deleteri per lo svilluppo delle rinnovabili

1) “rimodulazione in forte riduzione, causa l’impraticabilità dell’obbligo di dotare gli impianti di idonea capacità di accumulo, dei coefficienti di incentivazione delle fonti rinnovabili non programmabili, là dove Terna dichiara di avere difficoltà di dispacciamento”.

Detto in altre parole: come è noto le rinnovabili portano molti vantaggi, ma richiedono un adeguamento della rete di trasmissione e distribuzione. Per questo Bruxelles (Direttiva 2001/77/CE e successive) impone ai gestori delle reti “di garantire la priorità di dispacciamento alle fonti rinnovabili e di prevedere e risolvere in anticipo, attraverso le attività di idoneo sviluppo della rete, le problematiche connesse all’inserimento delle fonti rinnovabili nel sistema elettrico nazionale”. Ma in disprezzo a questo principio (e a qualsiasi logica di impegno ambientale) l’emendamento governativo chiede invece che si sviluppino nuovi impianti solo lì dove la rete è in grado di assorbirne la produzione.

2) ”riduzione drastica del valore del prezzo di riferimento del Certificato Verde che passerebbe dal prezzo medio di mercato pari a circa 85,00 €/MWh a circa 40,00 €/MWh (pari alla differenza tra 120 €/MWh e il prezzo medio dell’energia elettrica)”. In questo caso il proposito dell’emendamento è fin troppo chiaro;

3) ”invece di impegnare Terna a realizzare i necessari è già previsti piani di potenziamento delle reti, gli si attribuisce l’insindacabile potere di stabilire la massima quantità di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile non programmabile che può essere connessa ed erogata”. Una modifica che fa il paio con il punto 1 : non si fissa un obiettivo di espansione e si chiede a tutti gli attori interessati di adeguarsi, ma si delega a Terna il compito di pronunciare la parola finale su quanta energia rinnovabile si può “permettere” il Paese.

Sulla base di queste intenzioni, le associazioni denunciano quindi come gli emendamenti proposti, “anche a causa della loro estemporaneità, debbano essere ritirati, dato che la loro approvazione provocherebbe innanzitutto una forte confusione nel mercato, tra gli operatori e negli investitori, a causa del repentino ennesimo mutamento delle regole del gioco in corsa”.

“Tali emendamenti, inoltre – denunciano ancora il comunicato – provocherebbero la crisi di un settore, quello della produzione di energia da fonte rinnovabile, attualmente in grande sviluppo, oltre tutto anticiclico e con notevoli prospettive economico-occupazionali (almeno 250.000 addetti diretti ed indiretti al 2020), e impedirebbero all’Italia di mantenere gli impegni per il raggiungimento degli obiettivi vincolanti al 2020 (17% dei consumi finali di energia coperti da fonti rinnovabili), definiti in sede europea nel pacchetto Energia-Clima, con la grave conseguenza di dover sostenere elevate penalità finanziarie a causa del mancato raggiungimento del target”. (Beh, buona giornata).

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Verso Copenhagen 2009: non è vero che la Cina è contro la riduzione delle immissioni di Co2.

di Loretta Napoleoni-ilcannocchiale.it

La visita del Presidente Obama in Cina ha confermato che ormai Pechino sa e puo’ dire di no a Washington. Per nascondere l’imbarazzo, l’amministrazione americana e la stampa internazionale hanno ripreso a recitare il mantra dell’inquinamento: la Cina ignora le esortazioni degli scienziati e dei paesi industrializzati affinche’ riduca il suo consumo energetico. “Nulla di piu’ falso,” afferma un analista della City di Londra.

“Si tratta dell’ennesima leggenda metropolitana dura a morire”. Che pero’ a ridosso dell’incontro di Copenhagen molti continuano a credere veritiera.

Pechino ha una sua strategia per sostituire nel breve periodo la produzione energetica degli idrocarburi con fonti rinnovabili e si chiama delocalizzazione. Non si puo’ certamente dire altrettanto dell’amministrazione Obama che invece mantiene un atteggiamento di profonda ambiguita’ rispetto a queste tematiche.

Da qualche tempo il partito comunista incoraggia provincie e regioni a riconvertire l’energia al punto che ormai i progetti ecologici vengono visti come tappe essenziali nello sviluppo economico. E’ cosi’ iniziata una gara tra le autorita’ locali a chi protegge e preserva meglio l’ambiente. In testa al momento c’e’ Ordos, una regione che comprende gran parte del deserto della Mongolia.

E’ chiaro che all’origine di questa competitivita’ c’e’ la certezza che il fabbisogno energetico cinese e’ potenzialmente tanto elevato che deve necessariamente essere soddisfatto con fonti rinnovabili, se se ne vogliono contenere i costi. Ed e’ questa la filosofia che da qualche anno la regione Ordos persegue. Qui l’americana First Solar sta costruendo la piu’ grande centrale fotovoltaica al mondo.

Del complesso fara’ parte anche una centrale eolica dieci volte piu’ potente di quella texana, la Roscoe Wind Complex, che al momento e’ la piu’ grande al mondo ed una centrale a biomassa.

Il governatore di Ordos, Mr.Du, ha da diversi anni in cantiere un progetto che presto trasformera’ parte del deserto mongolo in una sterminata foresta di pini. Dal 2000 a oggi la percentuale di verde nella regione e’ salita dal 20 all’81%.

La campagna contro l’inquinamento e’ dunque iniziata e quello che fino a qualche anno fa’ era un paese dove non esistevano controlli nelle fabbriche oggi ne chiude a centinaia per salvare l’ambiente. Anche la legislazione energetica rispecchia questo nuovo atteggiamento e fissa come obbiettivo il ricorso alle rinnovabili per soddisfare il 15% della produzione nazionale entro il 2020. Ci riusciranno? Si accettano scommesse. (Beh, buona giornata).

Fonte: http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it/2009/11/24/il_15_percento.html.

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Basta col Pil, bisogna creare un nuovo sistema di misurazione della ricchezza, magari improntato sulla sostenibilità.

da greenreport.it.

Che cosa conta nella vita? Qual è la ricchezza e come la si misura? Sono domande cui cerca di rispondere Patrick Viveret, filosofo e consigliere referente della Corte dei Conti, incaricato nell’ agosto 2000 da Guy Hascoët, sottosegretario di stato per l’economia solidale del governo francese, di scrivere un “Rapporto sui nuovi fattori di ricchezza”.

“Ripensare la ricchezza. Dalla tirannia del Pil alle nuove forme di economia sociale” è appunto il rapporto di Viveret volto a ripensare ciò che nella vita umana rappresenta un valore e a proporre, sulla base di nuovi criteri, un nuovo sistema di contabilità nazionale, non esclusivamente appiattito su valori numerici, come il Pil (prodotto interno lordo), ma soprattutto basato su valori qualitativi ed esistenziali. (Le intenzioni di fondo che portarono alla commissione del lavoro infatti erano quelle di sottrarsi progressivamente alla “dittatura del Pil”, considerato ormai da molti “un termometro che rende malati”).
Il rapporto di Viveret si sviluppa in due fasi. Mentre la prima fase è di tipo “esplorativo” mirata ad aprire il dibattito – si compone di due grossi capitoli e di una conclusione programmatica – ed è focalizzata sui problemi e sulle incongruenze della contabilità nazionale lorda basata prevalentemente sul Pil; la seconda – che consta di tre capitoli e di una breve conclusione – è una vera e propria sintesi delle discussioni di un anno intorno al tema affrontato dove, fra l’altro, l’autore, stimola, comunque, a continuare nella riflessione.

Il prodotto interno lordo e la sua evoluzione, il “tasso di crescita”, è diventato un vero “indicatore sociale” nelle società occidentali ossessionate dalla misurazione monetaria, viene di continuo evocato, ma molto spesso senza mai precisare le sue condizioni di costruzione, i suoi paradossi e i suoi limiti. Viene, però, considerato positivo, anche se ignora l’insieme delle ricchezze non monetarie e anche quando contabilizza in maniera positiva il numero di distruzioni ambientali, insoddisfazioni personali, malattie. Perché comunque sia, i disastri ambientali e umani generano flussi monetari per le riparazioni, gli indennizzi o le sostituzioni.

Del resto il Pil misura sola le transazioni monetarie senza distinguere fra quelle positive o quelle negative e trascura tutte quelle a titolo gratuito o comunque non quantificabili monetarmene (come ad esempio il volontariato di qualsiasi genere).

Ma, in ogni caso il calo o il rialzo del Pil dai governi viene interpretato come il declino o la ripresa del Paese. Senza interrogarsi se davvero l’aumento del Pil fa la ricchezza della popolazione di un Paese e se davvero il Pil è lo strumento adeguato per misurarla.
Il Pil è indifferente al concetto di benessere dell’essere umano ossia alla soddisfazione di bisogni fondamentali come il cibo, la casa, una buona salute, relazioni solide e la possibilità di realizzare il potenziale di ogni singolo individuo. Però, gran parte dei governi e anche dei consumatori-individui, credono che al crescere dei consumi corrisponda un miglioramento del benessere.

Ma non è esattamente così perché la società occidentale dei consumi che poggia fondamentalmente su tre pilastri come la pubblicità, il credito e l’ obsolescenta programmata crea anche disagi e infelicità. La tesi secondo cui più si consuma più siamo felici si rivela errata, perché il livello di soddisfazione di vita a un certo punto non tende ad aumentare all’aumento del reddito mentre il numero percentuale di depressi, bulimici e anoressici aumenta.

E allora come fare? Creare un nuovo sistema, magari improntato sulla sostenibilità. Per Viverent l’obiettivo da raggiungere è una nuova responsabilità ecologica e sociale, mediante un nuovo approccio alla ricchezza e uno Stato ecologicamente e socialmente responsabile. Infatti, ogni indicatore di ricchezza è una “scelta sociale e politica”.

Ma accanto a un nuovo paradigma, occorre anche una strategia “ambiziosa”, che tenga conto del fatto che ci sono valori umani che non si possono contabilizzare, ma che sono evidenti ed importanti per la società. Cambiare paradigma significa anche non continuare a ruotare intorno al concetto che «solo» l’impresa sia unica produttrice di ricchezza. Altrimenti, le teorie sul capitale sociale, naturale ed umano non avrebbero ragione di esistere.

Occorre evitare poi il rischio di «mercantilizzare» ancor più la visione sociale e la stessa vita umana. E questo in un certo senso è direttamente legato ad una nuova concezione della moneta, che da pacificatrice e mediatrice degli scambi, è diventata strumento di violenza e di dominazione economica, politica e sociale. Ecco perché – come sostiene Viverent – pronosticare «una riabilitazione della nozione del bene comune o dell’ interesse generale» non può essere considerata un’illusione, ma una necessità, un percorso che confluisca in giuste prospettive di sviluppo umano, di una nuova politica (nazionale, europea e internazionale), di un nuovo modo di intendere i rapporti umani tra uomo ed uomo e tra uomo e ambiente.

E dobbiamo fare in modo che i principi di cooperazione e di solidarietà siano determinanti nella sfera economica, sociale, pubblica e culturale e che dalla logica dei «vincenti/perdenti» si passi alla logica «cooperanti/guadagnanti».
(Beh, buona giornata).

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Copenhagen 2009 come Kyoto: un bluff la riduzione delle emissioni di Co2.

Clima, accordo Usa-Cina, stop tagli di Co2, Copenhagen in serie B-da blitzquotidiano.it

A venti giorni dalla conferenza di Copenhagen che avrebbe dovuto sancire un accordo storico sulla riduzione delle emissioni, da un incontro Usa-Cina arriva uno stop ai tagli di Co2
I Paesi dell’Apec, l’associazione per la cooperazione economica Asia-Pacifico, riuniti a Singapore, infatti hanno ”riaffermato il loro impegno ad operare per un risultato ambizioso a Copenaghen”, ma non compaiono impegni su obiettivi numerici di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra.

Il presidente americano Barack Obama ha aperto domenica a Singapore, con una riunione a sorpresa dedicata proprio al clima, la giornata più intensa della sua visita in Asia.
Obama ha partecipato ad un breakfast di lavoro fuori programma per ascoltare una proposta del premier danese Lars Lokke Rasmussen di giungere ad un accordo sul clima in due fasi: una intesa politica (a Copenhagen) e quindi legale (in colloqui successivi), con l’ipotesi di un prossimo incontro in Messico.

Secondo la Casa Bianca la proposta fatta da Rasmussen rappresenta ”una valutazione realistica del fatto che non è possibile a questo punto sperare di raggiungere da qui a Copenhagen un accordo internazionale legalmente vincolante che possa essere approvato alla conferenza in Danimarca”.

Un funzionario della Casa Bianca presente all’incontro ha detto che ”è stato manifestato un ampio sostegno dai leader al fatto che l’incontro di Copenhagen deve concludersi con un successo, che si arrivi ad una intesa che possa far segnare un vero progresso e aprire la porta all’accordo conclusivo”. Rasmussen non ha dato molti dettagli sulla fase successiva, post-Copenhagen, che dovrebbe concentrarsi sugli aspetti legali della intesa.

L’accordo politico dovrebbe coprire comunque – ha detto la Casa Bianca – tutti gli aspetti più importanti della fase successiva: traguardi numerici, fasi previste per giungere alla meta finale, sostegno tecnologico, aspetti finanziari. Il presidente Obama non ha comunque ancora deciso se recarsi a Copenhagen in dicembre alla conferenza sul clima.

Tra le barriere che vincolano un accordo globale a Copenaghen, c’è però l’incapacità del Congresso per il clima e l’energia, di emanare una legislazione che fissa obiettivi vincolanti sui gas a effetto serra negli Stati Uniti. Senza un tale impegno, le altre nazioni sono quindi riluttanti a rispettare i loro impegni. (Beh, buona giornata).

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Il G8 non è un bell’ambiente.

(Fonte:ilmessaggero.it)
Salta l’accordo di riduzione delle emissioni di gas serra del 50% entro il 2050. Si apre con una sconfitta il G8 dell’Aquila al quale partecipano i leader di Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Russia, Canada e Giappone. Era proprio il clima, accanto alla crisi finanziaria, uno dei temi principali del summit che si svolge nella caserma della scuola della Guardia di Finanza di Coppito, in Abruzzo. Il tema verrà affrontato domani al Major economies Forum, cui, oltre ai paesi del G8, partecipano anche Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa.

Silvio Berlusconi ha commentato che fra i partecipanti del G8 c’è un accordo sostanziale sul clima, ora bisogna «verificare» se sia possibile un’intesa con India e Cina.

Cina e India: niente accordo su taglio emissioni gas serra. Non ci sarà lo sperato storico accordo di riduzione delle emissioni di gas serra del 50% entro il 2050. Ci sarà invece un’indicazione più blanda, che sottolinea l’importanza di non consentire un surriscaldamento del pianeta superiore ai gue gradi centigradi. Secondo fonti del vertice, India e Cina si sarebbero infatti opposte a identificare obiettivi concreti di riduzione delle emissioni. I due paesi ritengono che i paesi occidentali debbano prima tagliare drasticamente le loro emissioni entro il 2020 se poi vogliono imporre target ambiziosi al resto del mondo. Il tema sarà affrontato giovedì ai lavori del Major economies Forum, cui, oltre ai paesi del G8, partecipano anche Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa, incontro presieduto da Obama. Berlusconi aveva anticipato ieri che sul tema dell’ambiente non c’era unanimità. Beh, buona giornata.

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Come e perché è nata l’influenza suina messicana.

Pandemia? Non ve la prendete con i maiali di Mike Davis-Il Manifesto

Le orde di turisti primaverili sono tornate quest’anno da Cancún con un invisibile ma sinistro souvenir. L’influenza suina messicana, chimera genetica probabilmente concepita in qualche pantano fecale di un industria di maiali, all’improvviso minaccia di portare la sua febbre in giro per il mondo.

Il suo rapido propagarsi nel continente nord americano rivela una velocità di trasmissione superiore all’ultima varietà pandemica ufficialmente riconosciuta, la febbre di Hong Kong del 1968. Rubando la scena all’assassino ufficialmente designato, l’H5N1 altrimenti conosciuto come influenza aviaria – che oltretutto ha dimostrato di mutare vigorosamente – questo virus suino costituisce una minaccia di sconosciuta magnitudo. Sicuramente, sembra meno letale della Sars del 2003 ma, essendo un’influenza, potrebbe durare molto più di questa ed essere meno incline a tornare nelle segrete caverne da cui è saltata fuori.

Ammesso che una normale influenza stagionale di tipo A uccide un milione di persone ogni anno, un suo anche modesto incremento di virulenza, specialmente se accoppiato con un’alta incidenza, potrebbe produrre una carneficina pari a un grande conflitto bellico. Intanto, una delle sue prime vittime sembra essere la consolante fiducia, per lungo tempo predicata dagli spalti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la pandemia potesse essere contenuta tramite una rapida risposta della burocrazia medica, indipendentemente dalla qualità dello stato di salute della popolazione locale.

Sin dalle prime morti causate dall’H5N1 a Hong Kong nel 1997, l’Oms, con il sostegno della maggior parte dei servizi sanitari nazionali, ha promosso una strategia concentrata sull’identificazione e l’isolamento del ceppo pandemico e della sua area di contagio, cui segue la distribuzione alla popolazione di medicinali antivirali e, se disponibili, di vaccini. Un esercito di scettici ha giustamente contestato questo metodo di risposta all’insorgere di nuove minacce virali, sostenendo che i microbi sono ormai in grado di volare intorno al mondo (letteralmente parlando per quanto riguarda l’aviaria) più velocemente rispetto ai tempi di reazione dell’Oms o dei servizi sanitari nazionali.

Sono finite sotto accuse anche le primitive, spesso inesistenti misure di sorveglianza del rapporto tra le malattie animali e umane. Ma il mito dell’audace, preventivo ed economico intervento contro l’aviaria non è stato valutabile per colpa dei paesi ricchi, come Stati uniti e Gran Bretagna, che preferiscono investire in una loro linea Maginot biologica, piuttosto che incrementare drammaticamente gli aiuti nelle frontiere delle epidemie fuori dai loro confini. Allo stesso modo agiscono le multinazionali farmaceutiche, che combattono la domanda dei paesi del terzo mondo di fabbricazione pubblica di antivirali generici come il Tamiflu della Roche.

Ad ogni modo, è probabile che l’influenza porcina dimostri che la versione Oms/Ccd (Centro di controllo sulle malattie) della preparazione contro una pandemia – senza nuovi corposi investimenti in sorveglianza, infrastrutture scientifiche e regolatorie, salute pubblica generale e accesso globale a medicinali di base – appartenga alla stessa classe di rischio del truffaldino management piramidale dei derivati della Aig o i titoli di Madoff. Non si tratta tanto di un fallimento del sistema di allarme della pandemia, quanto della sua completa inesistenza, persino negli Stati uniti e in Europa. Forse non sorprende che il Messico non abbia né la capacità né la volontà politica di monitorare le malattie del bestiame e il loro impatto sulla salute pubblica, ma la situazione è quasi la stessa a nord del confine, dove la sorveglianza è un fallimentare mosaico di giurisdizioni statali e le corporazioni di commercianti di bestiame trattano la salute con lo stesso atteggiamento con cui sono soliti trattare i lavoratori e gli animali. Allo stesso modo, una decade di avvisi urgenti da parte di scienziati nel campo non è riuscita ad assicurare il trasferimento di sofisticate tecnologie di saggi virali al paese sulla strada diretta di probabili pandemie.

Il Messico conta esperti di fama mondiale ma ha dovuto mandare i tamponi ai laboratori di Winnipeg (che ha meno del 3% ella popolazione di Città del Messico), per poter identificare il genoma del virus. Motivo per il quale si è persa quasi una settimana. Ma nessuno era meno in allerta dei leggendari controllori di Atlanta. Stando al Washington Post, il Cdc è rimasto all’oscuro dello scoppio della pandemia fino a sei giorni dopo che il governo messicano aveva iniziato ad impartire misure di sicurezza. Infatti il Post scrive: «A distanza di due settimane dal riconoscimento dell’epidemia in Messico, i funzionari dei servizi sanitari americani non hanno ancora valide informazioni a riguardo». Non ci sono scuse. Non si tratta di un evento straordinario. Di fatto, il vero paradosso di questo panico da virus suino è che, sebbene del tutto inaspettato, era stato previsto con precisione.

Sei anni fa “Science” aveva dedicato un lungo articolo (mirabilmente scritto da Bernice Wuetrich) per dimostrare che “dopo anni di stabilità, il virus nord americano dell’influenza suina è entrato in una fase di rapida evoluzione. Dalla sua identificazione all’inizio della Depressione, il virus H1N1 aveva solo leggermente deviato dal suo genoma originario. Poi, nel 1998, si è scatenato l’inferno. Una varietà altamente patogena cominciò a decimare le scrofe di un allevamento di maiali nella Carolina del nord, e nuove, virulente versioni iniziarono ad apparire quasi ogni anno, inclusa un’insolita variante dell’ H1N1 che conteneva geni interni di H3N2 (l’altro tipo di influenza A che circolava tra gli umani. Ricercatori da Wuethrich, intervistati, espressero la preoccupazione che uno di questi ibridi potesse diventare un’influenza che colpiva gli umani (si ritiene che le pandemie del del 1957 e del 1958 siano state originate da una mescolanza di virus aviari e umani nei maiali) e sollecitarono la creazione di un sistema ufficiale di sorveglianza per l’influenza suina. Quell’ammonimento, naturalmente, passò inosservato in una Washington che si preparava a gettare miliardi in fantasie bioterroriste e trascurava i pericoli più ovvii.

Ma cosa ha provocato l’accelerazione di questa evoluzione dell’influenza suina? Probabilmente la stessa cosa che ha favorito la riproduzione dell’influenza aviaria. I virologi hanno a lungo ritenuto che il sistema agricolo intensivo della Cina meridionale – un’ecologia immensamente produttiva di riso, pesci, maiali e uccelli selvatici e domestici – sia il motore principale delle mutazioni influenzali: sia degli “spostamenti” stagionali sia dei “cambiamenti” episodici del genoma. (Più raramente, può verificarsi un passaggio diretto dagli uccelli ai maiali e/o agli umani, come con l’H5N1 nel 1997). Ma l’industrializzazione indotta dalle corporation della produzione da allevamenti ha rotto il monopolio naturale della Cina sull’evoluzione dell’influenza. Come molti autori hanno evidenziato, nei recenti decenni la zootecnia è stata trasformata in qualcosa che somiglia più all’industria petrolchimica che all’allegra famiglia contadina raffigurata nei libri di scuola.

Nel 1965, ad esempio, c’erano in America 53 milioni di maiali per più di un milione di fattorie; oggi, 65 milioni di maiali sono concentrati in 65mila strutture – la metà delle quali con più di 500mila animali. In sostanza, è avvenuta una transizione dai vecchi porcili a enormi inferni di escrementi, mai visti in natura, contenenti decine, persino centinaia di migliaia di animali con sistemi immunitari indeboliti, che soffocavano nel caldo e nel letame, mentre si scambiavano agenti patogeni a velocità accecante con i loro compagni di sventura e con la loro patetica progenie. Chiunque passi per Tar Heel, North Carolina o Milford, Utah – dove ogni partecipata di Smithfield Foods produce annualmente più di un milione di maiali, oltre che centinaia di pozze piene di merda tossica – capirebbe in modo intuitivo quanto profondamente l’agrobusiness ha interferito con le leggi della natura.

Lo scorso anno una rispettata commissione convocata dal Pew Research Center ha rilasciato un clamoroso rapporto sul tema «produzione animale in allevamenti industriali», sottolineando il grosso rischio che «i continui cicli di virus in larghe mandrie aumenteranno le possibilità di generazione di nuovi virus attraverso mutazioni o ricombinazioni che potrebbero risultare in una più efficiente trasmissione uomo-uomo. La commissione ha anche avvertito che l’uso promiscuo di diversi antibiotici negli allevamenti suini (alternativa meno costosa di un sistema di drenaggio o di ambienti più umani) stava causando l’aumento di resistenti infezioni da stafilococco, mentre le perdite fognarie producevano esplosioni da incubo di E. Coli e Pfisteria (l’apocalittico protozoo che uccise più di un milione di pesci negli estuari della Carolina, e fece ammalare decine di pescatori).

Tuttavia, ogni tentativo di migliorare questa nuova ecologia patogena è destinato a scontrarsi con il mostruoso potere esercitato dai conglomerati dell’allevamento come Smithfield Foods (maiale e manzo) e Tyson (pollo). I commissari della Pew, guidati dall’ex governatore del Kansas John Carlin, hanno raccontato di sistematiche ostruzioni alle loro ricerche da parte delle corporations, comprese sfacciate minacce di far ritirare i finanziamenti ai ricercatori. Inoltre questa è un’industria altamente globalizzata, con equivalente peso politico internazionale. Come il gigante thailandese del pollame Charoen Pokphand riuscì a sopprimere le inchieste sul suo ruolo nell’espansione dell’influenza aviaria attraverso il sudest asiatico, allo stesso modo è probabile che l’epidemiologia forense dell’esplosione della febbre suina vada a sbattere la testa contro le mura di pietra dell’industria delle costolette. Non vuol dire che la «pistola fumante» non sarà mai trovata: c’è già del gossip sulla stampa messicana circa un epicentro dell’influenza intorno a una gigantesca sussidiaria della Smithfield Foods nello stato di Veracruz.

Ma ciò che importa di più (specialmente a causa della continua minaccia costituita da H5N1) è il quadro più ampio: la fallita strategia anti-pandemie dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’ulteriore declino della salute pubblica mondiale, il ferreo controllo di Big Pharma sui farmaci vitali e la catastrofe planetaria di un allevamento industrializzato e ecologicamente disordinato. (Beh, buona giornata).

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La rivista “Nature” conferma le affermazione del principe Carlo: “Ci restano solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno. Poi la storia ci giudicherà. E se non agiremo, i nostri nipoti non potranno mai perdonarci”.

“Se non si agisce subito
tra 20 anni sarà catastrofe”
Sull’ultimo numero della rivista “Nature” le ricerche di autorevoli istituti che danno base scientifica alle affermazioni fatte qualche giorno fa a Roma dal principe Carlo di ANTONIO CIANCIULLO da repubblica.it

Il principe Carlo lo aveva detto pochi giorni fa in maniera un po’ esoterica: “Ci restano solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno. Poi la storia ci giudicherà. E se non agiremo, i nostri nipoti non potranno mai perdonarci”. Qualcuno ha alzato il sopracciglio considerando questo nuovo campanello d’allarme sul cambiamento climatico un vezzo reale. E invece la base scientifica – pur con qualche approssimazione sulle date – c’è. Lo dimostra l’ultimo numero della rivista Nature che in The Climate Crunch mette assieme le ricerche di istituti molto autorevoli (dal Potsdam Institute for Climate Impact Research all’università di Oxford). Conti alla mano, risulta che se non si agisce immediatamente, nel giro di un paio di decenni subiremo un danno di portata catastrofica. Le lancette del count down vanno spostate: l’ora X non scatta più nel 2050 ma tra 20 anni.

E’ un risultato a cui si arriva seguendo due percorsi logici diversi e convergenti. Partiamo dal primo: le emissioni di carbonio. Gli scienziati hanno calcolato che, per contenere l’aumento di temperatura entro i 2 gradi (il livello oltre il quale il prezzo per l’umanità diventa altissimo), bisogna stare ben al di sotto del tetto complessivo di mille miliardi di tonnellate di carbonio. Dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo consumato quasi metà di questi mille miliardi. Al ritmo attuale di aumento delle emissioni ci giocheremmo la dote restante in una ventina di anni.

Quest’ordine di grandezza torna seguendo un altro ragionamento. Prendiamo la concentrazione delle emissioni di anidride carbonica: in atmosfera c’erano circa 280 parti per milione di CO2 all’alba della rivoluzione industriale, oggi abbiamo superato quota 385 e l’incremento è sempre più veloce: ormai ha superato le due parti per milione l’anno e si avvia verso le 3 parti per anno. Con un incremento di 3 parti per milione l’anno per arrivare a una concentrazione di 450 parti, che è il tetto da considerare invalicabile, ci vorrebbero per l’appunto una ventina di anni.

Tutto ciò ha dei risvolti pratici molto concreti perché l’analisi scientifica lascia aperte due opzioni. O supponiamo che un virus sconosciuto si sia impossessato dei migliori climatologi del mondo portandoli ad affermazioni prive di senso, oppure li prendiamo sul serio e tagliamo subito le emissioni serra che sono prodotte dal consumo di combustibili fossili e dalla deforestazione. La rivista Nature, poco incline a credere all’esistenza del virus che colpisce gli scienziati, arriva a questa conclusione: “Solo un terzo delle riserve economicamente sfruttabili di petrolio, gas e carbone può essere consumato entro il 2100, se vogliamo evitare un aumento di temperatura di 2 gradi”.

E non è detto che anche la stima dei 20 anni non risulti troppo generosa. James Hansen, che per anni ha guidato il Goddard Institute della Nasa, sostiene che il tetto va abbassato e bisognerebbe restare molto al di sotto delle 450 parti per milione. “Anch’io credo che bisognerebbe partire subito e mettere il mondo in sicurezza nell’arco di un decennio perché le capacità di recupero degli ecosistemi stanno arrivando al limite di rottura”, precisa il climatologo Vincenzo Ferrara. “Gli oceani e le foreste che finora hanno assorbito circa una metà del carbonio emesso dalle attività umane sono sempre meno in grado di continuare a svolgere questa funzione: se queste spugne di anidride carbonica smetteranno di catturarla il cambiamento climatico subirà un’accelerazione drammatica”.

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Peste suina: il virus, il panico, i governi.

In un bell’articolo apparso oggi sul quotidiano la Repubblica, il professor Umberto Veronesi scrive: “Se da un lato i rischi per la salute in un mondo consumista e globalizzato aumentano, dall’altro aumentano anche gli strumenti per capirle e le misure per farvi fronte. Faccio quindi un appello alla gente perché, proprio nei momenti di maggiore insicurezza, come questo, abbia ancora più fiducia nella scienza, nella medicina, e nelle capacità dei suoi uomini di salvaguardare il loro bene più prezioso: la salute.”

Tutto giusto, se non fosse che il problema non è la fiducia nella scienza, quanto la sfiducia nellla politica, in particolare nei Governi. Ha detto una volta Nelson Mandela che certi governi dell’Africa sono stati una epidemia peggiore dell’Aids, virus ha ha flaggellato quel continente e che ancora continua a mietere vittime. I governi del mondo globalizzato hanno fatto “carne di porco” di quasi tutti i diritti, compreso il diritto alla salute, che ha sempre lasciato il posto al profitto. E’ questo che crea panico, più del virus della peste suina. Beh, buona giornata.

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Peste suina: la Fattoria degli animali di Orwell si è globalizzata.

La peste nascosta fra i grattacieli
nelle strade un nemico invisibile
di VITTORIO ZUCCONI-Repubblica

WASHINGTON – Nella città della perenne Apocalisse reale e immaginaria, non poteva non sbarcare anche la peste orwelliana, la vendetta dei maiali sugli umani, sotto forma dell’influenza suina, un nemico invisibile che ha colpito il quartiere di Queens con otto studenti ammalati.

Con una densità di undicimila abitanti per chilometro quadrato, più del triplo di Milano, e una umanità che ogni giorno si accalca nelle sue strade, nella carrozze della metropolitana, nei treni dei pendolari, nelle conigliere dei suoi grattacieli, i quattro borghi che formano New York sono il terreno di cultura ideale per ogni batterio, virus e microrganismo che si trasmetta per contatto umano. E dunque l’incubatrice perfetta per la diffusione della nuova psicosi da fine del mondo che dalle porcilaie del Messico ha attraversato la frontiera del Rio Grande e si sta allargando al Nord.
Casi di questa variante del virus influenzale trasmissibile dai maiali e agli umani sono stati registrati anche in passato, creando addirittura una campagna di vaccinazione collettiva del tutto inutile e in molti casi micidiale ordinata dal presidente Ford nel 1976, e da giorni sono segnalati nelle zone di confine con il Messico, Stati come la California, l’Arizona e il Messico.

Ma è lo sbarco a New York del virus, individuato in otto studenti del Liceo San Francesco a Queens a trasformare l’epidemia di questa forma temibile, ma non nuova come le prime notizie frettolosamente indicano, di influenza in un evento che ha raggiunto addirittura la Casa Bianca, dalla quale il Presidente Obama è stato costretto a comunicare di star benissimo, al ritorno dal viaggio in Messico.

Queens è, ancora più di Brooklyn lentamente rinconquistato dalla borghesia middle class debordata da Manhattan, l’ultimo e il massimo melting pot, crogiolo di razze e di lingue, di New York, lo sterminato “borough”, borgo, nel quale convivono emigrati arabi e africani, latinos e asiatici. Fu sopra le casette di Queens, che pochi giorni dopo l’11 settembre, precipitò un aereo di linea, facendo subito pensare a una nuova ondata di attacchi terroristici, che nei mesi scorsi virò senza più motori in funzione il jet che poi miracolosamente planò sul fiume Hudson.
Queens ospita quell’aeroporto nel quale si affolla ogni giorno la babele del mondo, il John F. Kennedy, e che le agenzia per la sicurezza guardano come al formicaio nel quale potrebbero annidarsi le cellule maligne del prossimo attacco.

Era dunque ovvio, se non atteso, che sarebbero stati i leggendari tabloid di New York a sporcare per primi le loro prime pagine con gli annunci della nuova peste, a mettere in guardia, e quindi a causare, l’onda di panico che sta afferrando il popolo della “Grande Mela” e che ha spinto 100 degli studenti del Liceo San Francesco a farsi visitare in massa tutti convinti di avere contratto il virus dell’influenza suina dopo una gita scolastica di massa proprio a Città del Messico. Risultandone infetti soltanto in otto, forse nove, in forme blande, anche grazie alla loro età e salute generale. Ma da ieri, dopo l’esplosione dei titoli e delle news locali, gli ospedali e i pronto soccorso di questa nazione città sono invasi da tutti coloro che esibiscono quei sintomi vaghi e insieme sinistri, mal di gola, stanchezza, brividi, tosse, particolarmente diffusi grazie alle allergie primaverili.

Da sempre, con orgoglio e con ansia contenuta, New York sa di essere, vuole essere la terra dove il mondo finirà, per essersi vista tante volte al cinema in quel ruolo. Anche questa ennesima “pandemia” che spazzerà via l’umanità, come la dovevano spazzare via l’influenza aviaria, la Sars, il prione della mucca pazza, l’Ebola, la febbre gialla, la nuova tubercolosi resistente agli antibiotici, il retrovirus, ha ora in New York il proprio palcoscenico ideale, capace di toccare il mondo che in questa città la lasciato qualcosa di se stesso e porta quel senso oscuro, orwellianamente perfetto, della vendetta del mondo dei maiali contro il mondo degli umani. (Beh, buona giornata).

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Attualità Natura

Terremoto in Abruzzo, terremoto nella Protezione civile.

di FEDERICA CRAVERO da repubblica.it

“Ci sono persone che devono chiedermi scusa e che avranno sulla coscienza il peso di quello che è accaduto”. È arrabbiato, distrutto, Giampaolo Giuliani, ricercatore ai laboratori del Gran Sasso dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, che ha messo a punto un sistema in grado di prevedere i terremoti. Nei giorni scorsi lo strumento da lui creato aveva rilevato la presenza massiccia di precursori dei terremoti nella zona di Sulmona, attraverso i livelli di radon liberati dalla terra. Poi il sisma non era avvenuto e lui era stato denunciato per procurato allarme. Ma le sue previsioni, evidentemente, non erano errate, ma soltanto anticipate.

Cosa ha pensato quando ha visto che il suo allarme non era ingiustificato?
“Questa notte non sapevo più a chi rivolgermi, vedevo la situazione che stava precipitando e io non potevo fare nulla perché ho ricevuto un avviso di garanzia per aver detto che ci sarebbe stato un terremoto”.

Lei vive all’Aquila, come ha vissuto il sisma?
“Qui ci sono dei morti, cinquantamila persone senzatetto, una situazione drammatica, nemmeno durante i bombardamenti in guerra si vedevano cose del genere. Vedevamo le case muoversi, una sensazione tremenda, anche se per me si aggiungeva la rabbia “.

Lei è stato anche messo in ridicolo per la sua previsione. Come si sente adesso?
“Di me sono state dette delle cose tremende. Mi hanno dato dell’imbecille, perché i terremoti non si possono prevedere. Ma era una situazione creata ad arte. Io adesso non ce la faccio nemmeno a parlare, la situazione è troppo grave. Ma adesso c’è gente che mi deve chiedere scusa”.

A chi si riferisce?
“Al capo della protezione civile Guido Bertolaso: andate a leggere cosa ha dichiarato di me. E poi parlo del sindaco di Sulmona e dell’assessore alla protezione civile. Mi devono chiedere scusa sulle pagine dei giornali nazionali. Queste persone portano sulla coscienza un peso enorme”. (Beh, buona giornata).

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Berlusconi disse sì senza neanche sapere che significa sì.

da repubblica.it

Gli Stati Uniti di Barack Obama intendono assumere la guida della lotta ai cambiamenti climatici. Per questo il presidente americano ha invitato i leader dei 16 Paesi più ricchi a un forum-vertice in programma a Washington il 27 e il 28 aprile, che trarrà le conclusioni al G8 della Maddalena in Italia dall’8 al 10 luglio. Lo ha reso noto la Casa Bianca. L’obiettivo finale è giungere a un nuovo accordo sui cambiamenti climatici all’Onu.

Per riattivare il “Major economies Forum sull’energia ed i cambiamenti climatici”, Obama ha scritto una lettera a Silvio Berlusconi, in cui si chiede l’aiuto dell’Italia. Berlusconi, si apprende da fonti governative, ha dato il suo via libera affinchè la riunione si tenga a margine del G8 della Maddalena.

I Paesi invitati a Washington sono Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Indonesia, Italia, Messico, Russia, Sud Africa. La Danimarca parteciperà come presidente della Conferenza del dicembre 2009 in vista di una convenzione Onu sul clima. Sono state invitate al dialogo anche le Nazioni Unite.

Il presidente sta lanciando il forum su energia e clima per facilitare il raggiungimento di un accordo sul riscaldamento globale alle Nazioni Unite, ha spiegato la Casa Bianca. Al summit di Washington i leader delle principali potenze economiche “contribuiranno a generare la necessaria leadership politica” per raggiungere, più avanti durante l’anno, un patto internazionale per tagliare le emissioni di gas serra, si legge in una nota diffusa dalla Casa Bianca. (Beh, buona giornata).

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Se il Forum mondiale sull’acqua continua a fare acqua.

(fonte: ilmessaggero.it)

Cambiamenti climatici, aumento popolazione, domanda di energia, e incapacità politico-gestionale. Questi i principali motivi che potrebbero assetare entro il 2030 quasi la metà della popolazione mondiale. Di fronte a queste emergenze, si è riunito a Istanbul il quinto forum mondiale sull’acqua.

Le previsioni. La popolazione mondiale di 6,6 miliardi di persone crescerà di 2,5 miliardi entro il 2050, per la maggior parte nei paesi in via di sviluppo che soffrono già di scarsità idrica. Questo tasso di crescita comporterà un aumento della domanda di acqua dolce di 64 miliardi di metri cubi all’anno. I rappresentati di governi, agenzie e organismi internazionali si troveranno a discutere delle questioni relative alla disponibilità e alla sicurezza dell’acqua. Più di 1,2 miliardi di persone (circa un quinto della popolazione mondiale) vive, infatti, in aree di scarsità fisica di acqua, e ulteriori 1,6 miliardi hanno accesso limitato all’acqua per ragioni economiche, politiche e di altra natura. L’agricoltura attualmente assorbe il 70% delle risorse mondiali di acque dolci utilizzate dagli esseri umani.

L’Italia ogni anno viene usata per scopi civili una quantità d’acqua pari a circa 7.940 milioni di m3, e pur se circondata da mare e ricca di fiumi e laghi (in condizioni di stress idrico), il Bel Paese ha problemi, in particolare al sud e nelle isole.

Scontri. La polizia di Istanbul è intervenuta stamani in tenuta antisommossa per disperdere con la forza circa 300 ambientalisti che andavano a manifestare verso il luogo dove si apre oggi il quinto Forum internazionale dell’Acqua. Lo hanno riferito tv locali turche mostrando le immagini degli scontri.

Il Forum. E’ il più grande evento relativo alla risorsa acqua che ha l’obiettivo di inserire la crisi idrica mondiale nell’agenda internazionale e vi prendono parte oltre a 3.000 organizzazioni, una ventina di capi di Stato e circa 180 ministri dell’ambiente da altrettanti Paesi del mondo. Per l’Italia prevista la partecipazione del ministro Stefania Prestigiacomo. Nell’aprire i lavori, il presidente del Consiglio mondiale dell’acqua, il francese Loic Fauchon, ha puntato il dito contro «le abitudini incoerenti» ed i «consumi stravaganti» che contribuiscono allo spreco delle risorse idriche in tutto il mondo.

Eventi alternativi. In parallelo al Forum «ufficiale», si terrà un Forum e altri eventi «alternativi» organizzati da molti movimenti internazionali che non riconoscono la legittimità del Consiglio Mondiale dell’Acqua, promotore dell’incontro, e da essi accusato di essere un think-tank privato strettamente legato alla Banca Mondiale, alle multinazionali dell’acqua e alle politiche dei governi più potenti del mondo.

La protesta. Robert Ramakant, portavoce dell’organizzazione «Corporate Accountability International» ha detto che stasera un gruppo di 118 organizzazioni da 33 Paesi presenterà ai partecipanti al Forum «ufficiale» copia di una lettera indirizzata al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon. Nella missiva si chiede al capo dell’Onu di ritirare il proprio sostegno al Consiglio Mondiale dell’Acqua del quale si mette in dubbio la legittimità e la trasparenza. Secondo Omer Madra, editore dell’emittente turca Acik Radio, «la gente ritiene erroneamente che il Forum sia stato organizzato dall’Onu per ottenere una gestione ottimale delle risorse idriche, ma il Forum Alternativo servirà proprio a smascherare questi tentativi di disinformazione». (Beh, buona giornata).

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Energia nucleare? No, grazie.

“Dovremo affrontare la costruzione e la realizzazione di centrali nucleari in Italia”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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Greenpeace al vertice di Berlino: “Se il mondo fosse una banca, lo avreste già salvato”.

(fonte:ilmmessaggero.it)

Durante il vertice di Berlino trenta attivisti di Greenpeace hanno accompagnato i leader europei mostrando uno striscione su scritto “Se il mondo fosse una banca, lo avreste già salvato”.

Greenpeace – informa una nota – chiede a Berlusconi e gli altri leader europei riuniti oggi a Berlino per i preparativi del prossimo G20, che facciano il massimo per sostenere con urgenza un “New Deal” verde per risolvere sia la crisi economica che la crisi climatica che minacciano il Pianeta. «Nel tentativo di salvare l’economia, i nostri leader hanno l’opportunità di sviluppare un piano di stimolo per creare centinaia di migliaia di posti di lavoro verdi per fronteggiare i cambiamenti climatici. Se invece l’Europa sceglierà un futuro energetico sporco e pericoloso, puntando su carbone e nucleare, gli impatti del riscaldamento globale faranno sembrare le difficoltà economiche di oggi insignificanti», afferma Karsten Smid, della campagna sul clima di Greenpeace.

La prossima Conferenza ONU sui cambiamenti climatici di Copenhagen – a dicembre – sarà un appuntamento storico che non deve essere disatteso. Greenpeace chiede al l’Unione europea di prepararsi a questo appuntamento investendo in una ripresa verde dell’economia, e impegnando circa 35 miliardi di euro all’anno per aiutare le economie in via di sviluppo a ridurre le proprie emissioni di gas serra, proteggere le foreste tropicali e mettere in atto misure di adattamento. Questa cifra rappresenta la quota europea di un fondo mondiale di 110 miliardi di euro all’anno, da oggi al 2020, che tutti i Paesi industrializzati dovrebbero contribuire a creare per trovare un accordo a Copenhagen. (Beh, buona giornata).

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C’è un pessimo clima sulla questione ambientale.

Clima di crisi

di Marzio Galeotti da lavoce.info

Quali sono le conseguenze della crisi economica per la causa dell’ambiente? Difficile dirlo a priori, perché molteplici sono gli effetti e le interrelazioni al livello di sistema economico. Ma anche se la tensione sul problema dovesse calare, compito del governo e delle politiche è di contrastare questa tendenza. Dopotutto, prima o poi, la crisi passerà, mentre il problema del clima resta. E così pure gli impegni internazionali da onorare. Meglio allora pensare a come agire, secondo le linee di un piano di intervento e rilancio verde.

Il 2008 sembrava un anno speciale per la lotta ai cambiamenti climatici. Il pacchetto europeo sul clima annunciato a gennaio attraversava una fase di discussione turbolenta, durante la quale si era distinto in negativo il nostro paese, ma non tale da comprometterne l’approvazione finale. Dall’altra parte dell’oceano, il candidato democratico Barack Obama viaggiava verso un’elezione alla presidenza degli Stati Uniti che gli eventi successivi avrebbero reso trionfale, sulla base di una piattaforma che della lotta agli sprechi energetici e sul clima aveva fatto uno dei pilastri principali.
Ma poi sul finire dell’estate era arrivata la crisi, una crisi dalla virulenza senza precedenti. Una crisi che dalla sfera finanziaria si era trasferita all’economia reale e che a fine anno cominciava a fare  intravvedere le sue pesanti conseguenze. Era una crisi di fiducia verso gli altri operatori e una crisi di sfiducia verso il futuro che inceppava il meccanismo del credito, rallentava significativamente l’economia, riduceva i redditi e accresceva la disoccupazione. Le pubbliche finanze venivano sottoposte a tensioni crescenti: a fronte di minore gettito fiscale aumentavano le richieste di intervento a favore di banche, industrie e famiglie. Si affacciava un nuovo statalismo che dilatava i deficit pubblici e nel lessico politico scompariva la parola “tassa”, per far posto a un’altra, “sussidio”.

IL CLIMA NELLA CRISI

E la lotta ai cambiamenti climatici? Quali gli effetti della crisi economica sul clima e sulla politica del clima? La lotta al clima è percepita, a torto o a ragione, come un costo: è un atteggiamento diffuso tra i decisori politici dal momento che i costi sono più vicini, visibili e certi dei benefici. Ed è difficile negare che la profonda crisi economica abbia l’effetto di attenuarne, e di molto, la serietà e l’urgenza.
Prima di affrontare le reazioni della politica potremmo però provare a interrogarci su quali effetti la crisi economica possa avere su energia e clima, in assenza di interventi. Diciamo subito che una risposta nitida è difficile da ottenere, in quanto molteplici appaiono gli effetti, anche di segno opposto, cosicché l’economista ben presto osserverebbe come una disamina in qualche modo soddisfacente sarebbe possibile solo con l’ausilio di un modello di equilibrio economico generale capace di tenere traccia degli effetti principali della crisi.
In assenza di simili strumenti, con mero intento illustrativo, potremmo anzitutto guardare ai mercati dell’energia, a cominciare dal petrolio. Sul mercato internazionale i capitali abbandonano frettolosamente il mercato dei futures, mentre il rallentamento della domanda globale innesca  potenti aspettative al ribasso, che la volontà dell’Opec di restrizione dell’offerta non è riuscita finora a contrastare. Il prezzo crolla e le fonti fossili di energia (il petrolio porta con sé il gas) tornano a essere competitive, mentre le entrate fiscali su combustibili e carburanti si riducono (chi si ricorda più di speculazione tremontiana e Robin tax?).
Se la bolletta energetica per le famiglie ne risente in positivo, ancorché in misura più lenta, il riequilibrio dei prezzi relativi delle fonti energetiche rende relativamente più costose quelle alternative, rinnovabili in testa. Sulla carta questo fatto, unito alla scomparsa del credito bancario, rende più difficoltosa l’auspicata espansione dell’industria della produzione di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica. Se è vero che l’installazione di impianti di generazione di elettricità da eolico e solare, così come interventi di risparmio ed efficienza energetica come quelli sulle abitazioni e gli edifici pubblici e privati, sono intraprese a minimo rischio, resta il fatto che il credit crunch sembra generalizzato.
Un’implicazione di quanto appena detto è che nel nostro paese il nucleare è “rimandato a settembre”. Ciò appare già abbastanza chiaro a livello di dibattito parlamentare: troppe incognite sui tempi e sui costi. Altro che dichiarare che il nucleare è la soluzione per uscire dall’impasse del contenzioso russo-ucraino che con puntualità si ripropone con orizzonte di un anno, massimo due.

DALLE TASSE AI SUSSIDI

Un altro presumibile effetto è lo spostamento delle politiche dalle tasse ai sussidi: questo non fa un favore alla causa del clima, in quanto il principio secondo cui “chi inquina paga” non lascia molto spazio alla fantasia. Ma i tempi sono quelli che sono e i sussidi hanno il pregio di contribuire ad attenuare la recessione e sostenere prima o poi la ripresa. Ma se le tasse ambientali, come tutte le tasse, incontrano una difficoltà nell’accettabilità politica, dall’altro lato procurano gettito. Esattamente l’opposto accade con i sussidi. Specie se questi ultimi prendono verosimilmente direzioni diverse dal finanziamento dell’innovazione in tecnologie pulite e verdi, a causa dell’elevata incertezza circa tempi ed esiti che, pur nella loro cruciale importanza, le caratterizza.
Il rallentamento generalizzato dell’economia induce spontaneamente comportamenti volti al risparmio, a economizzare sui consumi e ciò riguarda anche l’energia, dai trasporti agli utilizzi di elettricità. Naturalmente, qui la questione riguarda l’elasticità al reddito dei consumi energetici, che sembra evidenziare asimmetrie a seconda che si tratti di aumenti ovvero riduzioni. In generale, comunque, si può affermare che il rallentamento della crescita a livello globale porterà a un rallentamento spontaneo nella crescita delle emissioni inquinanti, di gas-serra comprese.

SOTTRARSI DALLA LOTTA?

Il problema più serio che la crisi economica pone per la lotta al clima è l’attenzione che viene distolta dal tema, la tensione che si riduce. Il risultato è che l’emergenza climatica cessa di essere tale di fronte all’emergenza del credito, dei redditi, dell’occupazione e solo una forte volontà politica può impedire questa per certi versi comprensibile tendenza.
Dovremmo dunque abbandonare la lotta? Dare la partita per persa? Rinunciare a prendere l’iniziativa? Ci si chiede se l’ambiente è favorito dalla crisi: in realtà la risposta dipende da noi, dalla nostra volontà – e in qualche misura dal coraggio – di afferrare per le corna il toro della crisi per dirigerla verso un’uscita ad alto tasso di efficienza energetica e basso tenore di carbonio.
Vi sono tre fondamentali ragioni per cui non possiamo e non dobbiamo rimandare l’intervento a un futuro più favorevole (se mai esiste). La prima è che prima o poi la crisi economica passa, mentre il problema climatico no. Anzi, con l’inazione è destinato a diventare ancora più grave. Se le emissioni (anche) quest’anno si ridurranno, sarà comunque un fatto transitorio se non sarà il risultato di politiche attive e consapevoli. Il prezzo del petrolio tornerà a crescere e tenderanno a riproporsi le condizioni precedenti alla crisi, se non avremo colto questa cruciale occasione per presentarci all’uscita dal tunnel in condizioni diverse.
La seconda ragione è che le obbligazioni per il nostro e altri paesi sono sempre lì. Kyoto è ineludibile e così lo sono gli impegni del pacchetto europeo. Dopo la battaglia sul pacchetto, vinta a metà (o vinta dall’industria, ma non dal paese), non abbiamo più sentito nulla dai ministeri interessati su come si pensa di onorare gli impegni assunti. Stupisce un po’ di leggere che si vagheggia di rivedere i termini dell’accordo in anticipo sui tempi previsti (2010), quando in realtà la clausola di revisione non è stata introdotta per tornare indietro, quanto per verificare se vi siano le condizioni per rendere l’impegno di riduzione delle emissioni ancora più stringente. In ossequio al principio di precauzione, i costi da sostenere potrebbero essere tanto più alti quanto più tardiamo a intervenire. Mentre ancora siamo in attesa di sapere come si intende operare per la riduzione delle emissioni per quei settori – trasporti, residenziale, commercio, agricoltura – non coperti dal Sistema europeo di scambio dei permessi di emissione. O si ha il coraggio di pronunciare la parola tassazione, ma crucialmente specificando che si tratterebbe di una riforma dell’intero sistema in senso ambientale, che non porti a nuove tasse, corredandola da una clausola di impiego del gettito a favore della detassazione del lavoro e dell’incentivazione alla ricerca e sviluppo. Oppure si deve spiegare dove il Tesoro reperirà i fondi per acquistare i crediti d’emissione necessari per rientrare nei limiti degli impegni assunti.
Naturalmente, e questa è la terza ragione, si può e si deve intervenire anche sostenendo l’economia con incentivi e sussidi. Qui Obama è d’esempio: incentivi e sussidi servono a contrastare il ciclo economico avverso, ma è cruciale cogliere questa occasione di intervento dello Stato nell’economia per iniziare a cambiare la struttura della produzione e dei consumi in direzione della sostenibilità. Questo significa la concessione di aiuti condizionati e mirati, come quelli che il governo ha faticosamente deciso a favore dell’auto e degli elettrodomestici, mentre meno si comprende, dal nostro punto di vista, l’intervento a favore dei mobili. Ma naturalmente molto di più si potrebbe e sarebbe necessario fare, a cominciare da tutte quelle opzioni a costo zero di riduzione delle emissioni negative costituite dai vari interventi di efficienza e risparmio energetico. In questo senso, abbiamo registrato il piano “obamiano” presentato dal segretario del Partito democratico Veltroni, di cui solo uno dei grandi quotidiani nazionali ha riferito, e capace secondo il proponente di creare (il famoso) milione di posti di lavoro nel giro di cinque anni. (1)
Sul fronte delle politiche domestiche è necessario essere lucidi e coraggiosi. Nonostante la generale crisi di fiducia, non deve venire meno la fiducia nella lotta al clima, ma è necessario cogliere questa occasione che potrebbe rivelarsi irripetibile, come osservano le Nazioni Unite con la proposta di un Green Global New Deal e Obama con il suo American Recovery and Reinvestment Plan. Qualche settimana addietro Francesco Giavazzi notava in un editoriale come questa crisi sia l’occasione propizia per procedere in maniera decisa a una riforma radicale del sistema delle relazioni industriali. (2) Quando l’abbiamo letto, abbiamo pensato che poteva anche notare come questa sia una straordinaria occasione per offrire al paese un’ambiziosa fuga in avanti verso un obiettivo comunque ineludibile. (b

 

(1)“Un milione di posti in 5 anni la svolta è la green economy”, La Repubblica 1 febbraio 2009.
(2)“Lo scambio virtuoso”, Corriere della Sera 8 gennaio 2009.

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L’Obama-pensiero contro la crisi.

Obama: “Il mio attacco a più punte
contro il tracollo dell’America”

di JOHN HARDWOOD

Alla vigilia del suo discorso sull’economia, il presidente eletto degli Stati Uniti ha rilasciato un’intervista a John Hardwood per il New York Times e la CNBC. Ecco il testo integrale, da repubblica.it 

Pare che il suo pacchetto di incentivi all’economia si aggiri intorno ai 775 miliardi di dollari.
“È così”.
Il rischio è fare troppo poco… Perché dunque fermarsi a una cifra come 775 miliardi di dollari? Perché non arrivare a quell’1,2 trilioni di dollari che gli economisti hanno raccomandato? Forse perché crede che una cifra così sia troppo politicamente carica di significato? O pensa che spendere di più sarebbe più un finanziamento più che un incentivo? O crede di aver individuato la cifra esatta che serve?
“Penso che sia importante tener presente che ogni economista, conservatore o liberal che sia, a questo punto concorda sul fatto che dobbiamo predisporre un piano di recupero sostanziale, che ci aiuti a ridare slancio alla nostra economia, che sul breve periodo ci costerà caro, ma sarebbe estremamente più costoso veder l’economia avvitarsi su se stessa a vuoto come sta accadendo adesso.

“Abbiamo sentito parlare di fasce che vanno da 800 a 1,3 trilioni di dollari e il nostro approccio, considerato il processo legislativo nel quale ci troviamo è che se iniziamo dal basso, possiamo vedere come si evolvono le cose. Ci preoccupa…”.

Sicuramente (il pacchetto) aumenterà….
“Beh, ancora non lo sappiamo. Ma ciò che ci sta davvero a cuore è essere sicuri che i soldi siano spesi con saggezza, che ci sia controllo, trasparenza. Useremo questo denaro per alimentare temporaneamente l’economia, per creare o salvare tre milioni di posti di lavoro, ma anche per qualche anticipo per cose che avremmo già dovuto fare nel corso dei decenni passati che possono contribuire a creare un’economia statunitense più competitiva.


“Le faccio qualche esempio: accertarsi che raddoppiamo le energie alternative, creare edifici e sistemi di trasporto molto più efficienti dal punto di vista energetico, ridurre i costi dell’assistenza sanitaria utilizzando le tecnologie dell’informazione sanitaria, costruire scuole e classi all’altezza di quelle del resto del mondo, così che tutti i nostri bambini ne possano trarre giovamento e possano essere competitivi nell’economia globale.

“Vogliamo essere sicuri che il denaro che spendiamo sia, prima di tutto, utilizzato per creare posti di lavoro, stabilizzare l’economia, ma anche usato con prudenza, così che quando usciremo da questa fase difficile nella quale ci troviamo, vedremo un’economia più solida, migliore, più efficiente”.

Si sono fatti molti paralleli tra lei e John F. Kennedy, che ha anch’egli fatto la storia: era giovane, di una famiglia attraente e nella sua amministrazione si era circondato di cervelloni usciti da Harvard. Ma negli anni Sessanta abbiamo imparato che i migliori e i più intelligenti non sempre prevedevano correttamente le cose.
“Si deve stare attenti ai laureati di Harvard… ti sorprendono sempre!”.

Quanta fiducia ha che il suo piano funzioni davvero? Come eviterà il rischio di essere troppo fiducioso nelle sue possibilità?
“L’approccio che abbiamo scelto è quello di non limitarci a parlare con i soliti sospetti, ma di parlare con persone che di norma non sono d’accordo con me. Se l’ex consigliere economico di Ronald Reagan o l’ex consigliere economico di John McCain o l’ex consigliere economico di George Bush ti danno il medesimo consiglio di quello che i consiglieri di Bill Clinton o di Jimmy Carter ti stanno dando, allora puoi essere pressoché sicuro che in tutto lo spettro politico vi è del consenso.

“Certo, tutto ciò non avverrà nell’arco di una sola notte. La situazione è complessa e sappiamo che, indipendentemente da quanto riusciremo a fare dal punto degli investimenti e della ripresa, dovremo nondimeno fare molte altre cose per essere sicuri che l’economia sia in forma migliore. Una delle cose più importanti che dovremo fare è riformare il modo col quale funzionano i nostri sistemi finanziari. Dobbiamo far sì che il flusso del credito ricominci. Questo significa ripristinare la fiducia, ripristinare le aperture nel sistema. Significa che il nostro contesto normativo deve essere riformato profondamente…

“C’è un pacchetto consistente di riforme che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi renderò noto. Significa che dobbiamo occuparci molto più seriamente della crisi immobiliare che c’è al momento e stabilizzarla. Significa che dovremo pensare a quale approccio avere nei confronti della responsabilità fiscale. Ecco perché ho annunciato che nominerò un funzionario capo addetto alla performance, incaricato di attuare l’impegno che ho sottoscritto in campagna elettorale di andare a fondo nel budget federale, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e determinare quali programmi funzionano e quali programmi non funzionano, eliminando di conseguenza quelli che non funzionano e facendo sì che quelli che funzionano funzionino ancora meglio.

“Si tratta dunque di un attacco a più punte nei confronti di questo enorme tracollo al quale stiamo assistendo al momento. L’obiettivo a lungo termine è essere certi che salveremo e proteggeremo i posti di lavoro, e che le imprese e le famiglie americane siano in grado di beneficiare del flusso del credito nuovamente. Non voglio aumentare le dimensioni del governo a lungo termine: preferirei che fosse il settore privato a fare tutto ciò per conto suo. Ma credo che ci sia un consenso pressoché unanime tra le persone, anche quelle che non sono andate ad Harvard, e che è necessario varare iniziative coraggiose adesso per essere sicuri che facciamo il possibile per evitare che accada il peggio”.

 
Non ha preoccupazioni su questa eccessiva fiducia?
“No, anzi, mi sento schiacciato dalle sfide che ci stanno di fronte. Ma ho fiducia in una cosa: sono un buon ascoltatore, sono bravo a sintetizzare i consigli provenienti da prospettive e ottiche diverse e prenderò le migliori decisioni possibili pensando proprio a che cosa andrà bene per i comuni americani”.

Il presidente Bush ha dovuto per parecchi anni rispondere alle domande sulla sua strategia di disimpegno dall’Iraq. La stessa domanda vale per gli attacchi su più fronti ai quali lei accennava. Pertanto le chiedo: qual è la sua strategia di uscita dalla crisi dell’auto, delle assicurazioni, del settore finanziario? Come decide quando è tempo di smettere di concentrarsi sul breve periodo? Come deciderà che i suoi programmi hanno dato buoni frutti e che è giunto il momento di concentrarsi sulla responsabilità fiscale a lungo termine?

“Deve essere chiaro che non agiremo in fasi successive, ma agiremo su binari paralleli. Pertanto prepareò un budget che sottoporrò al Congresso a febbraio e quel budget conterrà proiezioni a medio termine, a lungo termine come pure a breve termine”.

“Non aspetteremo che passino due anni per iniziare a preoccuparci di quello che dobbiamo fare per il deficit. Vogliamo vedere tutte le cose che possiamo fare durante il mio mandato iniziare a influire riducendo il deficit. In sostanza, io credo che quando si vedrà che il settore privato riprenderà a erogare prestiti, quando il flusso del credito arriverà alle famiglie e alle aziende, quando si potranno acquistare automobili a rate, quando si potrà essere in grado di onorare le rate del mutuo, quando il mercato del lavoro si sarà stabilizzato allora piano piano ci tireremo indietro. Ed è per questo che è estremamente importante per noi monitorare i progressi con grande attenzione.

“Cerchiamo però di capire che le migliori previsioni che abbiamo al momento sono che malgrado tutti gli sforzi più grossi che possiamo fare ancora adesso abbiamo davanti la prospettiva di una disoccupazione considerevole. Non sarà pari a un numero a due cifre come accadrebbe se non facessimo assolutamente nulla… ma potrebbe occorrere buona parte del prossimo anno prima di vedere l’economia riprendere a funzionare come dovrebbe”.

Ci sarà una crescita nella seconda metà del 2009 secondo lei?
“Non ho una sfera di cristallo… ma sono fiducioso in una cosa: se non facessimo niente, le cose peggiorerebbero, e di molto. Con il piano che abbiamo predisposto, le cose andranno in ogni caso meglio di come sarebbero andate altrimenti. Sono fiducioso che potremo creare o salvare tre milioni di posti di lavoro.
Ne abbiamo già persi almeno due milioni. Alla fine di questa settimana potremo leggere un rapporto sui posti di lavoro, dal quale probabilmente emergerà che ne abbiamo persi quanto meno un altro mezzo milione. Se iniziamo a vedere che l’anno prossimo si perderanno tre, quattro, cinque milioni in più di posti di lavoro, allora possiamo stare certi che si tratta di una crisi come non ne abbiamo mai viste e dovremo intervenire e stroncare questo processo sul nascere”.

Parliamo di tasse: quando ci siamo incontrati a giugno lei mi disse che avrebbe potuto posporre alcuni aumenti di tasse che lei ha proposto per far fronte all’attuale situazione economica. Sappiamo che nel suo programma si parla all’incirca di tagli alle tasse pari a 300 miliardi di dollari, ma le chiedo: è pronto adesso a dirci che non procederà alla revoca immediata degli sgravi fiscali apportati dal presidente Bush ai contribuenti che guadagnano più di 250.000 dollari e lasciare la situazione così come è fino al 2010?

 

“Non posso in questo momento qui con lei prendere un impegno così importante e in modo così rapido, John, ma le ripeto che mi preoccupa meno se ciò accade quest’anno o l’anno prossimo. La cosa che più mi preme è riportare parità e equità nel sistema contributivo.

“Ecco perché abbiamo presentato precisi sgravi fiscali nell’ambito del pacchetto delle nostre proposte. Il 95 per cento delle famiglie che lavorano avranno uno sgravio fiscale. Vogliamo anche studiare altri modi con i quali far sì da rimettere quei soldi in tasca velocemente alle famiglie senza dover attendere la prossima dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo, perché altrimenti non si avrà quel genere di effetto incentivo che invece occorre.

“Ma vogliamo altresì essere sicuri che teniamo bene sotto controllo il deficit. Per persone come lei e come me, che guadagnano più di 200-250.000 dollari l’anno, i tagli alle tasse voluti da Bush non erano necessari…. non sono tuttora necessari e pertanto faremo sì che non continuino a essere parte del nostro codice tributario ancora a lungo”.

Non so che cosa intenda lei con i termini importanti e rapido, ma mi sembra che lei non procederà a modificare le cose quest’anno.
“Non ho ancora preso una decisione finale in proposito. Oltretutto ciò rientra tra le cose sulle quali dovremo consultarci con il Congresso”.

In tema di politiche bipartisan: mi sembra che almeno per un momento il dialogo tra i due partiti sia diverso. Quando conta per lei il dialogo bipartisan? È pronto ad accettare idee dalla controparte, anche se non pensa che quelle siano le idee migliori?

“Vede, io la penso in questi termini: la cosa più importante è che cosa serve a ottenere il risultato voluto. Questa è l’ottica dalla quale io considero ogni cosa. È creare tre milioni di posti di lavoro o salvare tre milioni di posti di lavoro? Ci stiamo preparando? Stiamo gettando le fondamenta della nostra indipendenza energetica? Stiamo riducendo le spese della nostra assistenza sanitaria, che sono di importanza cruciale per affrontare il nostro deficit sul lungo periodo? Stiamo creando un sistema scolastico di prima classe? Queste sono le mie priorità assolute.

“Quindi: io non reputo affatto che il partito democratico abbia il monopolio delle buone idee. I repubblicani hanno molto da offrire. Ciò che farò sarà ascoltare e imparare dai miei colleghi repubblicani. Ogniqualvolta saranno in grado di dimostrazione e addurre valide motivazioni a favore di qualcosa che sarà proficuo per il popolo americano, solo perché non ci hanno pensato prima i democratici ma lo promuovono i repubblicani non per questo ignorerò i loro suggerimenti.

“Ci saranno occasioni, naturalmente, nelle quali saremo in disaccordo. E se qualcuno mi presenta un progetto al quale è legato ideologicamente, ma non è in grado di persuadermi che sarà effettivamente buono e positivo per l’economia, allora non se ne farà nulla. Ci saranno anche altre occasioni nelle quali dovremo combattere. Ma dal mio punto di vista io non sono alla ricerca di battaglie: a me interessa quanta più cooperazione possibile. Sono aperto a qualsiasi idea che mi sarà presentata”.

Prevede che la quota di sgravi fiscali del suo piano aumenterà dopo le consultazioni con i repubblicani al Congresso, nel momento in cui lei cercherà di ottenere maggiore supporto per il suo programma?
“L’atteggiamento che intendo avere nei confronti degli sgravi fiscali è il medesimo che intendo applicare al pacchetto degli investimenti. Ovvero: si tratta di denaro speso bene? Questi sono soldi dei contribuenti, che vanno ad aumentare il deficit sul breve periodo. Se non saremo in grado di giustificarli, allora non si spenderanno decine o centinaia di miliardi di dollari soltanto per fare felice qualcuno. E la stessa regola l’applicherò anche a tutto il resto”.

Si concorda pressoché unanimemente che il settore immobiliare è alla radice del problema economico che oggi ci assilla. Pensa che la priorità più assoluta ora sia di far ripartire il settore immobiliare, forse tramite crediti fiscali, o di limitare i pignoramenti?

“Quando si parla di mercato immobiliare, il Consiglio della Federal Reserve ha fatto quello che poteva per abbassare i tassi, quanto più era possibile. Quindi abbiamo visto qualche attività sui rifinanziamenti. Questo non risolve certamente il problema del calo del valore degli immobili.

“Penso che la cosa più importante sia, in tema di calo del valore degli immobili, evitare ulteriori pignoramenti. Ecco perché penso che quanti tra noi stanno ancora pagando un mutuo…. sì, insomma si sente talvolta qualcuno nel Paese che dice: ‘Bene, io sono stato responsabile, perché dovrei dare aiuto a chi forse ha sottoscritto un mutuo che non poteva permettersi?’.

“Questa domanda ci riporta a un adagio secondo il quale se la casa del tuo vicino sta bruciando, la tua prima preoccupazione deve essere quella di spegnere le fiamme, anche se il tuo vicino ha agito irresponsabilmente. Penso che questo è vero anche per i pignoramenti. Dobbiamo evitare questo continuo deterioramento del mercato immobiliare. E ciò inizia proprio con i pignoramenti. Questo non significa che non possiamo anche fornire assistenza, magari non sarà tutta sotto forma di assistenza ai mutui.

“Una delle cose che reputo molto importante nel nostro piano di reinvestimento è fornire gli incentivi per coibentare le case di tutto il Paese. Si tratta di un tipo di investimento a lungo termine che può tagliare drasticamente le bollette energetiche del Paese, aumentare la nostra indipendenza energetica, ridurre i gas serra globali. Quindi, come vede, ci sono alcune aree nelle quali possiamo fare progressi, fornendo sollievo alle famiglie, aiutando i proprietari di casa.

“Ma occuparci della crisi dei pignoramenti dei beni ipotecati è qualcosa che dobbiamo assolutamente fare. Prevedo di rendere noti i miei piani su come evitare i pignoramenti dopo essermi consultato con Barney Frank e Chris Dodd, che hanno fatto un ottimo lavoro da questo punto di vista, in un periodo imprecisato entro il prossimo mese o i prossimi due”.

Nell’ambito della seconda parte del suo pacchetto di interventi di salvataggio finanziari?
“Nell’ambito del nostro attacco a più punte alla crisi”.

Si è molto parlato di Larry Summers, l’ex segretario del Tesoro che dirige la sua commissione economica nazionale e si ipotizza che lei lo sceglierà per sostituire Ben Bernanke come presidente della Federal Reserve, quando il suo mandato scadrà nel 2010. È questa la sua intenzione o lei intende rinnovare la nomina ancora a Ben Bernanke?
” Larry Summers non ha ancora ottenuto questo posto… Io ho fatto il suo nome ma non è ancora iniziata la nostra amministrazione. Penso che sia del tutto prematuro per me fare congetture e speculare sulle nomine di qui a due anni, nel momento in cui ancora non ho la mia squadra pronta”.

Mi permetta una domanda sugli enti di controllo. Ci troviamo oggi in un edificio che un tempo ospitava la Sec. Quanto grosso è l’intervento di riforma dell’apparato normative finanziario che lei propone e appoggia? Quando lo varerà? Pensa che vi sia la necessità di creare un apparato normativo globale? Ad aprile dovrà prendere parte al G-20 a Londra…

“Per quando dovrò prendere parte al G-20 credo che di sicuro avrò presentato il nostro approccio alle normative finanziarie. Penso che una certa coordinazione internazionale ci voglia. Ma al momento noi dobbiamo occuparci della nostra. Wall Street non ha funzionato come doveva, e il nostro sistema normativo di controllo non ha funzionano come si supponeva dovesse fare. Quindi si impone un intervento drastico e sostanziale.

“Dovremo occuparci di farlo applicare meglio, di avere migliori controlli, migliore chiarezza, migliore trasparenza. Dovremo controllare questo insieme di sigle di agenzie varie e escogitare come farle funzionare più efficacemente. Dobbiamo smettere di spezzettare le varie funzioni in modo tale che il capitale sotto una forma è trattato in un modo e il capitale sotto un’altra forma è trattato in un altro, perché in questi tempi di mercati finanziari globali, sono tutti fungibili .

“Ci sono rischi sistemici in agguato, sia sotto forma di derivati, sia di assicurazioni sia di depositi bancari tradizionali. Quindi dobbiamo aggiornare il nostro intero sistema per rispondere alle esigenze del XXI secolo. Questo è un compito sul quale il mio team sta già lavorando e credo che avremo, in tempi abbastanza brevi, un pacchetto da presentare al popolo americano al quale ho lavorato insieme a Barney Frank e Chris Dodd”.

Dick Parsons sarà il suo prossimo segretario del Commercio?
“Non ho ancora preso una decisione finale su chi sceglierò per essere il prossimo segretario del Commercio. Quando lo saprò, te lo farò sapere, John”.

Ma Parsons è un candidato?
“Non farò commenti in proposito. Dick Parsons è una persona in gamba ed è anche mio amico”.

E’ fiducioso di avere ormai alle spalle questo breve periodo di controversia sulla scelta di Lon Panetta come capo della Cia? Quanto crede che sarà difficile per lei cercare di tradurre in pratica il suo impegno a porre fine al concetto che gli Stati Uniti ammettono la tortura?
“Prima di tutto io non ho fatto alcuna dichiarazione ufficiale su Leon Panetta. Quando lo farò sarà perché avrò qualcosa di più da dire in proposito. Posso soltanto dire che Leon Panetta è un funzionario pubblico eccezionale, che ha un’integrità impeccabile. È una persona che ha lavorato ai più alti livelli per la sicurezza nazionale e se dovessi sceglierlo penso che svolgerebbe meravigliosamente il suo lavoro.

“C’è una questione più ampia di cui occuparsi, però. Come ricominciamo, come rietichettiamo le nostre operazioni di intelligence? Nella Cia, nel nostro Dipartimento dell’Intelligence Nazionale ci sono persone straordinarie che hanno fatto un lavoro incredibile e voglio che abbiano tutto ciò di cui necessitano per poter lavorare in modo efficiente. Voglio anche essere sicuro che tutte queste persone che lavorano così duramente per fornire le migliori intelligence all’apparato della nostra sicurezza nazionale, che operano nel segreto e conformemente alle politiche scelte, non si trovino sotto i riflettori e accusati, o finiscano col portare il peso delle conseguenze di quello che facciamo se non dovessimo vivere all’altezza dei nostri ideali e dei nostri valori più alti”.

Prevede che sarà difficile cambiare queste cose?
“Sì”.

Ci vorrebbe qualcosa di preciso che stabilisse che cosa esattamente è etichettabile come tortura, non crede?
“Mi permetta di farle un esempio. Io credo che ci siano alcune cose che non sono difficili. Noi ottemperiamo alle Convenzioni di Ginevra: questo non dovrebbe essere difficile. Noi abbiamo contribuito a redigerle. Le abbiamo sostenute e ci sono servite bene.

“Penso che chiuderò Guantanamo. Come lo faremo non è facile a dirsi, perché ci saranno persone che sono state recluse lì, e molte di loro di fatto potrebbero essere molto pericolose. Dovremmo averle processate , prima di ogni altra cosa, ma adesso a causa delle circostanze nelle quali ci siamo trovati per svariati anni, è molto più difficile perché alcune delle prove contro di loro possono essere alterate dalle modalità con le quali sono state ottenute. Quindi dovremo procedere a una revisione molto attenta di come procedere.

“Tuttavia il mio impegno è questo: nessuna tortura, adesione totale alla legalità, adesione totale alla nostra Costituzione, adesione totale alle Convenzioni di Ginevra. Queste cose sono state messe a punto non soltanto per farci sentire bene, ma sono state concepite per essere sicuri che continueremo a comunicare che noi abbiamo una solida morale, che l’America vive secondo standard più elevati. Questo nel lungo periodo ci porterà sicuramente benefici, e ci renderà più sicuri”.

Lei ha spesso instaurato confronti…. O meglio, le sfide alle quali lei deve far fronte hanno fatto sì che si instaurassero paragoni anche con Franklin Roosevelt…
“Esatto”.

… con i tempi della peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Quando Franklin Delano Roosevelt fece il suo discorso inaugurale egli disse al popolo americano: “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”.
“Esatto”.

Quando il 20 gennaio lei farà il suo discorso inaugurale crede che dovrà ricoprire questo medesimo ruolo? Rassicurare il popolo americano? Come bilancerà questo messaggio con la necessità di trasmettere l’urgenza di ciò che si dovrà fare?
“È interessante…. Come può immaginare di recente ho letto vari discorsi inaugurali. Se si legge il primo discorso di Franklin Delano Roosevelt l’unica frase che ci si ricorda è quella, “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”, ma di fatto il grosso del suo discorso si incentrava sulla necessità di agire e agire subito. Poi Roosevelt spiegava, credo, la natura della crisi, sia nel suo discorso inaugurale, sia nelle sue famose chiacchierate accanto al caminetto, tanto quanto chiunque altro.

“Questo è un consiglio che ho ricevuto da un ex presidente, che mi ha detto: “Barack, parte del tuo successo e di come stai agendo bene al momento è che tu non parli con mezzi termini con il popolo americano, tu dici le cose come stanno, spiegando ciò che sta accadendo e come sta accadendo”. Io ho fiducia nel popolo americano: se gli si parla chiaramente, se ci si spiega chiaramente, dicendo testualmente “Questa è la nostra sfida, siamo arrivati a questo punto perché abbiamo fatto questo, e questa è la direzione che secondo me dobbiamo imboccare”, allora io sono assolutamente fiducioso che il popolo americano sarà all’altezza della sfida. Quindi il mio compito, sia nel discorso inaugurale, sia nei mesi che seguiranno, sarà semplicemente quello di spiegare quanto più onestamente e sinceramente possibile quali sono le circostanze, quali sono le idee migliori che abbiamo per far fronte a queste sfide. Se ci riuscirò sono sicuro che saremo uniti per risolvere questi problemi”.

Girano un sacco di voci nella cultura americana contemporanea. Si discute della sinistra, della destra, in televisione, continuamente, e anche del sistema finanziario. Per lei è importante o è più importante astrarsi da tutto ciò e decidere ancora prima che non avranno peso?
“Io credo che sia importante non vivere in una bolla. Quindi bisogna essere aperti alle informazioni che arrivano da fuori, in particolare le critiche. Io leggo di rado la stampa, ma spesso leggo la “cattiva” stampa, non perché sia d’accordo con quella, ma perché voglio capire in quali aree sto agendo male e dove posso migliorare”.

Finora non ci sono stati articoli cattivi su di lei…
“Sono sicuro che arriveranno… per quanto riguarda i mercati, però, la situazione è leggermente diversa. Per il momento, considerata la sua vulnerabilità, dovrò prestare attenzione all’aspetto psicologico del mercato, perché parte di ciò a cui stiamo assistendo nasce da una perdita di fiducia sia nel mercato sia nel governo che ripristina tale fiducia.

“Pertanto ripristinare la fiducia è una prima cosa estremamente importante. Quello che farò sarà essere sicuro di comunicare a scadenze regolari con gli attori più importanti del mercato e di spiegare loro con esattezza quali sono i nostri piani chiedendo loro di mettere a disposizione i loro suggerimenti migliori. Nel complesso, comunque, una delle cose dell’essere presidente che mi sono abbastanza chiare è che dovrò guardare oltre l’orizzonte. Non posso guardare i titoli dei notiziari di oggi perché se lo facessi allora probabilmente non prenderei le decisioni sulla base di ciò che è meglio per il Paese. Sprecherei molto tempo a preoccuparmi della politica di tutti i giorni, giorno dopo giorno, e questo è qualcosa che devo cercare di evitare”.

Visto che parliamo di come evitare i problemi legati al fatto di vivere in una bolla, ha ancora in tasca uno di questi? (Estrae dalla tasca un BlackBerry).
“In realtà l’ho messo da parte per questa intervista, ma mi porto ancora dietro il mio BlackBerry. Dovranno strapparmelo dalle mani!”.

Riuscirà ad accettare questa idea anacronistica, forse, di un presidente che non può utilizzare i mezzi più moderni?
“Ecco quello che sono giunto a capire: credo che riuscirò ad avere accesso a un computer, da qualche parte. Non sarà proprio nello Studio Ovale! La seconda cosa che spero è di vedere se in qualche modo riusciranno a consentirmi di continuare ad avere accesso al mio BlackBerry. So che…”

In questo momento lei ha ancora il BlackBerry?
“In questo momento ancora sì. Ma devo aggiungere che crea preoccupazione non soltanto ai Servizi Segreti, ma anche agli avvocati. Come sa, questa città pullula di avvocati. Non so se se ne è accorto…”.

Sì!
“E tutti questi avvocati hanno un sacco di opinioni diverse. Quindi, sto ancora lottando… ma senta, forse è la cosa più difficile dell’essere presidente: come rimanere in contatto con il flusso della vita quotidiana? Sa quando eravamo in vacanza alle Hawaii mi sono sentito molto scoraggiato dall’essere tenuto d’occhio costantemente dalle guardie del corpo. Anche solo andare a prendere una granita è stata un’impresa…”

E le hanno detto di non andarsene in giro senza maglietta?
” Quello l’ho imparato sin dal primo giorno, ma credo che… ”

E’ stato imbarazzante per lei? Se ne è preoccupato? Ci sono stati molti commenti su questo.
“Lo so, è stato sciocco, ma si sa, in questo lavoro ci sono molti aspetti sciocchi”.

Ha ricevuto bei complimenti, però.
“Mia moglie ha ridacchiato quando sono arrossito. In ogni caso… di che cosa stavamo parlando? Siamo usciti fuori argomento, John…”

Stava dicendo che pare proprio che dovrà lottare per tenersi il suo BlackBerry…
“Non so se la spunterò, ma mi sto battendo ancora… Ma il punto è un altro… Immagino che non è solo il flusso di informazioni. Voglio dire, potrò sempre chiedere a qualcuno di stamparmi le notizie di agenzia e potrò leggere i giornali. Quello che mi sta a cuore è avere meccanismi con i quali interagire con le persone che sono fuori dalla Casa Bianca in modo significativo.

“Dovrò cercare ogni opportunità possibile per farlo…. modi che non sono complicati, che non sono controllati, in cui la gente non cerchi solo di farti i complimenti o di alzarsi in piedi quando entro in una stanza, modi di stare con i piedi per terra. Se riuscirò a gestire questa cosa nei prossimi quattro anni, credo che mi aiuterà a servire il popolo americano meglio, perché sarò in grado di sentire quello che dice, la voce di tutti. Non dovranno tacere per il fatto che io sono alla Casa Bianca”.

Un’ultima domanda: la Florida domanica gioca in Ocklaohoma in quella che da tutti è considerata la partita determinante del campionato nazionale. Lei ha parlato della necessità di un playoff nel football universitario. Pensa che l’Utah, che ha terminato il campionato senza essere sconfitta dalla squadra dell’Alabama che ha sconfitto tutti, abbia buoni motivi per dichiararsi campione di questo campionato nazionale?
“Penso che l’Utah abbia ottimi motivi. Penso che gli USC, che hanno un grande Rose Bowl, hanno battuto di brutto Penn State. Hanno ottimi motivi per dichiararsi vincitori. Florida e Ocklahoma, penso l’abbiano entrambi. Il Texas a questo punto deve sentirsi un po’… come dire … ‘Beh, ci siamo comportati bene anche noi’. Insomma, io credo che il sistema dei playoff nel football sia utile… Ne ho parlato e ne parlo già da un pezzo e credo che se chiede a chi se ne intende di sport ed è un tifoso ne troverà molti d’accordo con me. Ma io posso scegliere e decidere in quali battaglie lanciarmi: credo che probabilmente mi concentrerò a creare tre milioni di posti di lavoro in più!”.  (Beh, buona giornata).

Copyright New York Times News Service/CNBC – Traduzione di Anna Bissanti

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Il sindaco che straparla di un fiume che non straripa.

Alemanno, il Tevere e il linguaggio dell’emergenza
di Giulio Gargia

Il 12 dicembre il Tevere minaccia di invadere Roma. La Protezione Civile ha proclamato lo stato di calamità naturale. Intere zone sono pronte all’evacuazione. Alle 15,31 il sindaco Gianni Alemanno detta una dichiarazione, riportata tra le altre , dall’Adn Kronos. Il primo cittadino informa che le forze di sicurezza stanno evacuando il Coni, spiega che “l’ Isola Tiberina non è a rischio evacuazione” (dall’ospedale Fatebenefratelli fanno sapere che sono comunque pronti ad affrontare l’emergenza) e ricorda che le zone più in pericolo “restano Ponte Milvio e le aree golenali, sia a valle che a monte della città, dove possono esserci degli straripamenti”.

Insomma , il sindaco ha dato indicazioni chiare e pronunciato parole precise: il pericolo sta nelle aree golenali a monte e a valle della città. Ed è imminente. La furia del Tevere si concentrerà lì.
Ma , mentre è chiaro dove sia Ponte Milvio, non è affatto precisato quali siano queste “ aree golenali” dove bisogna temere il peggio. Quali diavolo sono ?
La Prenestina, Monti, il Ghetto, Prati ? Come si differenziano dalle “aree non golenali “ ? Quando la notizia mi raggiunge, come mi accorgo se sto passando per una di queste ? Alemanno non ritiene di doverlo divulgare e ci lascia soli con la madre di tutte le domande.
Questione che in tempi normali avrebbe interessato solo specialisti e cultori dei quiz di Gerry Scotti, che pero almeno ti dà 4 opzioni e un aiutino da casa. Ma che ora, con il Tevere che sta per straripare, sembra drammaticamente urgente risolvere.

Ora, chi scrive confessa la sua ignoranza. Pur essendo mediamente ritenuto dai suoi studenti dell’Università e dai diversi giornali con cui collabora una persona mediamente colta e informata, non ha la minima idea di cosa possa essere “un’area golenale”. Ora, si potrebbe fare una ricerca
e saperlo in una mezz’oretta. O in un paio d’ore al massimo. O forse telefonare a qualche amico geologo.

Ma certo la prospettiva di una drammatica inondazione in quelle aree ( che si continua a non dire dove siano ) non aiuta a mantenere la calma. E soprattutto innervosisce un’altra domanda : ma perché Alemanno non le indica, come ha fatto con Ponte Milvio ? Ha voglia di giocare al piccolo geologo ? Perché obbliga tre milioni di romani a una gigantesca caccia al tesoro al contrario per sapere se si trovano in queste benedette aree o no ?

Ora che il peggio è passato, questa notazione può avere il sapore di una beffa. Ma sarebbe bastato un ferito o un metro d’acqua in più del fiume per far assumere alla criptica indicazione del sindaco un tono tragico. Immaginate infatti lo scenario prefigurato da molti : il Tevere esonda, e colonne di auto e di persone pressate dall’acqua chiedono, bestemmiando con un certo vigore, ai pizzardoni e agli uomini dell’ineffabile Bertolaso di portarli fuori dalle “ aree golenali”…
Dulcis in fundo, anche i colleghi dell’Adn Kronos ( non so cosa abbiamo fatto quelli delle altre testate cui è stata resa la dichiarazione – ndr ) avrebbero potuto, con poco sforzo, tradurre in nomi l’enigmatica espressione geologica del sindaco. Ottemperando a un preciso dovere giornalistico: la divulgazione di notizie di interesse pubblico.

PS – Naturalmente, ora chi scrive sa cosa sono e dove si trovano le “aree golenali “ a Roma. Ma non ritiene di dovervelo svelare. Perché , in fondo, un umile cronista non può contraddire la volontà di un sindaco eletto dal voto democratico, e particolarmente apprezzato proprio nelle “ aree golenali”… (Beh, buona giornata)

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