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Media e tecnologia Scuola Società e costume

I figli e il computer.

L’ansia di apparire fa miracoli, così succede che la tv sforna opinionisti. Tutti sanno tutto su tutto e su tutti.  Stavolta tocca a Claudio Amendola, star de “I Cesaroni”. Che dice: ‘Tutta sta’ gente che chatta e va su Facebook è  demenziale. Se volete parlare con qualcuno andate al bar’. L’attore si è sfogato in un’intervista a Nostrofiglio.it. ‘Molti ragazzi passano la giornata sul web? Perché non passiamo più tempo con loro? Dobbiamo sforzarci – osserva – Importa la qualità del tempo che gli dedichiamo, non la quantità. Abbiamo solo un’ora? Giochiamo con loro a battaglia navale’ (Ansa, 20 gennaio).

 

Ma per favore. Ma ti pare che uno si mette a fare un gioco noioso come la battaglia navale? Tuo figlio ti affonda prima ancora di cominciare. Facciamo così: mettiamoci insieme davanti al computer. Tu gli insegni dove navigare per trovare qualcosa di buono e interessante. Lui ti fa vedere come si cazzeggia sul web. Tutti e due avremmo qualcosa da imparare, l’uno dall’altro. Insieme, si potrebbe navigare in acqua migliori, lasciando fuori gioco moralismi para-pedagogici, più dannosi che inutili.

 

Quanto al fatto che la qualità è meglio della quantità del tempo che si dedica ai figli, anche questo mica è vero. Basta provare a rovesciare l’ordine degli addendi per scoprire che il risultato non torna: se fosse tuo figlio a dirtelo, ti incazzeresti come una bestia. Se fosse la tua donna, penseresti che ha un altro. Altro che battaglia navale: poi dice che i rapporti tra padri e figli fanno acqua da tutte le parti. (A Clà, gnente de perzonale, ma quanno ce vò ce vò). Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Società e costume

Si stava meglio quando si stava peggio?

“La crisi non è così drammatica come tutti vogliono pensare e il meno 2 per cento del Pil previsto significa che torneremo indietro di due anni e due anni fa non stavamo così male”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro Salute e benessere

Dall’inizio dell’anno 6 “senza tetto” sono morti a Milano. Ecco una ricerca sugli homeless in Italia.

SENZA TETTO, MA NON SENZA SPERANZA

di Michela Braga  e Lucia Corno da lavoce.info

Il 14 gennaio è stato effettuato a Milano il primo censimento dei senzatetto. La ricerca è stata realizzata grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini che due anni fa ci lasciava. A lui sono anche dedicati i Dossier Grazie Riccardo, Ricordando Riccardo e Riccardo, un anno dopo. Sono stati censiti quattromila adulti che dormono in strada, nei dormitori o in baraccopoli, campi nomadi ed edifici dismessi. E’ una popolazione estremamente variegata, ma con caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che aprono alla possibilità di politiche di reinserimento e non solo di mera assistenza.

Dopo la recente bolla del mercato immobiliare, che ha colpito progressivamente a macchia di leopardo i paesi su entrambe le sponde dell’oceano, il dibattito e l’attenzione sul tema della casa si sono fatti sempre più caldi. L’enfasi, tuttavia, è quasi sempre su chi già possiede una casa o, al più, è in procinto di acquistarla. Raramente, e solo nei mesi invernali, si parla di coloro che la casa non l’hanno: i senza tetto.
Sembra esserci un consenso unanime sul fatto che il possesso della casa debba essere un diritto acquisito in tutte le società sviluppate che davvero possano essere definite tali. Al contrario, proprio laddove la ricchezza è maggiore, questo diritto primario, che è alla base del vivere sociale, è spesso disatteso.
In Italia, la quota di popolazione che possiede una casa di proprietà è tra le più alte del mondo, oltre il 73 per cento: un dato che sembra far passare in secondo piano il problema dell’assenza di una casa tout court. In ambito accademico, a non accendere neppure il dibattito concorre il fatto che i dati affidabili sul fenomeno sono estremamente limitati a livello internazionale, e pressoché nulli in Italia.

LA DIMENSIONE DEL FENOMENO

Il primo censimento completo dei senza tetto in Italia è stato effettuato il 14 gennaio 2008, nel comune di Milano grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini promossa dall’Ere. In linea con la definizione internazionale, il censimento ha riguardato tutti coloro che nella notte di riferimento dormivano in luoghi non preposti all’abitazione. La rilevazione ha fotografato una popolazione di circa 4mila adulti privi di una casa: 408 erano in strada, 1.152 nei dormitori e circa 2.300 nelle baraccopoli, campi nomadi o edifici dismessi. La distribuzione spaziale della popolazione mostra una maggior concentrazione  nel centro città ma una distribuzione regolare su tutto il territorio cittadino.  (Figura 1 e 2)
La sola quantificazione del fenomeno è già di per sé un risultato interessante. L’unico dato esistente in Italia, infatti, risaliva al 2001 e stimava una popolazione di 17mila persone sull’intero territorio nazionale, pari quindi allo 0,03 per cento della popolazione nazionale. L’assenza di dimora sembrava un fenomeno estremamente marginale e ben lontano dalle dimensioni assunte negli Stati Uniti, dove la quota di senza tetto sul totale della popolazione si attesta nell’ordine dello 0,2 – 0,3 per cento.

CHI SONO I SENZA TETTO?

Il secondo risultato interessante è quello connesso alle caratteristiche della popolazione, emerse dall’indagine condotta su un campione casuale di circa mille individui. I tratti distintivi sono, infatti, ben diversi da quelli dell’iconografia tradizionale del clochard come di un individuo che rifiuta il mondo e le sue convenzioni ed è pertanto completamente avulso dal tessuto dalle reti sociali.
La popolazione è prevalentemente composta da uomini nella parte centrale della vita. L’età media è 40 anni, ma ci sono differenze significative tra strada e dormitori rispetto alle aree dismesse, la cui popolazione è formata in egual misura da uomini e donne relativamente più giovani (30,7 anni).
Le persone relativamente più anziane tendono a preferire la strada ai dormitori. E ciò porta a riflettere su un aspetto non neutrale rispetto alle politiche di reinserimento. Se infatti, da un lato, la vita e la sopravvivenza in strada è più difficoltosa, una simile scelta da parte delle persone relativamente più anziane sembra suggerire che all’avanzare dell’età si è relativamente meno propensi ad accettare il grado di socialità e il rispetto di regole connesse alla residenza nei centri di accoglienza notturna.
Lo status di street homeless appare più cronico rispetto a quello di chi dorme nei centri di accoglienza notturna. In media, gli intervistati sono in strada in modo continuativo da 4,5 anni, mentre nei dormitori da 3,2 anni. Preoccupante è il livello di cronicità che si riscontra nelle aree dimesse, dove la permanenza continuata supera abbondantemente gli 8 anni. (1) La strada e le baraccopoli, perciò, rappresentano la forma più estrema di homelessness: dopo un periodo più o meno lungo di permanenza le difficoltà di reinserimento nel tessuto sociale risultano maggiori.
La composizione etnica è variegata per effetto della netta maggioranza di stranieri (67 per cento) concentrati soprattutto nelle baraccopoli, mentre la quota scende al 60 per cento nei dormitori e al 44 per cento in strada. Le nazionalità di origine sono in linea con la popolazione straniera presente sul territorio nazionale e, per lo più, si tratta di immigrati di nuova generazione arrivati dopo il 2000.
Se gli italiani indicano come causa principale della loro situazione attuale problemi legati alle relazioni familiari e al mercato del lavoro, gli stranieri riconoscono nell’immigrazione con i connessi problemi di lingua, documenti, lavoro il motivo della mancanza di una casa. L’homelessness è quindi il punto di rottura di un percorso di vita per gli italiani: il risultato di un processo di impoverimento oggettivo progressivo i cui effetti si sommano a cause ed eventi di tipo soggettivo quali esperienze traumatiche, di tipo sia familiare (separazioni, lutti, abusi) sia istituzionale (problemi legali, mancanza di assistenza). Per gli immigrati, al contrario, l’assenza di una casa sembra essere accompagnata da un progetto migratorio, che consente di vivere in una condizione di privazione per un periodo di tempo sufficiente per realizzare i propri obiettivi e pervenire a un maggiore benessere.
La popolazione è mediamente istruita, con una quota non trascurabile di laureati (6 per cento), e attiva nel mercato del lavoro (74 per cento) (Tabella 1). Circa un terzo ha svolto un lavoro nell’ultimo mese. Di questi, oltre la metà ha operato nell’economia sommersa e non possiede alcun tipo di contratto, mentre circa un quarto ha contratti temporanei (Tabella 2).
La condizione di povertà materiale estrema non si riflette sul livello di conoscenza del tessuto sociale in cui i senza tetto vivono. Oltre il 57 per cento ha ascoltato un telegiornale o un radiogiornale il giorno della rilevazione, mentre il 15 per cento lo ha fatto al più nell’ultima settimana. Un’analoga proporzione si trova per la lettura di giornali (Tabella 1). Oltre i tre quarti degli intervistati sono informati sulla situazione politica del paese.

CHE COSA FARE?

Alla luce di questi risultati due riflessioni sono necessarie.
In relazione al quantum, sembrerebbe che il fenomeno sia notevolmente cresciuto negli ultimi anni anche in Italia. Usare il condizionale è d’obbligo poiché le metodologie di rilevazione adottate non consentono una perfetta comparabilità dei risultati.
La serietà del fenomeno è comprovata dal fatto che l’Unione Europea abbia incluso tra le priorità proprio l’individuazione di strategie tese ad aumentare la protezione e a favorire l’inclusione sociale di chi non possiede una casa.
Diventa quindi fondamentale la sistematicità e la periodicità delle rilevazioni sui senza tetto, al pari di quanto fatto con la popolazione generale. Solo se si hanno dati affidabili sul fenomeno, che consentano confronti intertemporali. è possibile attuare politiche pubbliche efficaci nel breve, ma soprattutto nel lungo periodo.
Realizzare sistemi integrati di rilevazione è meno difficile di quanto possa sembrare. La maggior parte delle realtà che operano con i senza tetto registrano quotidianamente informazioni sui loro utenti. In potenza, esiste quindi un patrimonio di dati amministrativi che se condiviso tra enti e messo al servizio della comunità scientifica consentirebbe di effettuare analisi più approfondite. Sarebbe sufficiente fissare poche linee guida e alcune direttive essenziali per creare banche dati da cui estrapolare le informazioni necessarie. (2)
Se si considerano invece i risultati qualitativi dell’indagine, emerge come l’homelessness non vada di pari passo con la hopelessness di reinserimento nel tessuto sociale. La popolazione è estremamente variegata, ma ha caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che sembrano suggerire la possibilità (e l’auspicabilità) del disegno di politiche di reinserimento piuttosto che di mera assistenza. Le politiche volte ad alleviare o attenuare il fenomeno, come gli interventi di emergenza e temporanei, sono sicuramente importanti, ma rischiano di accelerare fenomeni di cronicizzazione creando dipendenza: tanto è facile entrare nei circuiti di assistenza, quanto è difficile uscirne.
Viceversa, politiche di inclusione sociale che passino in primis dal mercato del lavoro e da quelo immobiliare, come interventi di supporto o di housing sociale, possono generare interessanti esternalità positive sulla società nel suo complesso e agevolare circoli virtuosi nel gruppo dei pari. (Beh, buona giornata).

Figura 1: La distribuzione spaziale dei senza tetto in strada (apri)

Figura 2: La distribuzione spaziale dei senza tetto nei centri di accoglienza (apri)

Tabella 1: La partecipazione al mercato del lavoro

  Tutto Maschi Femmine Italiani Stranieri
Tutto il campione 74.39 76.8 68.08 59.54 81.48
Strada 57.14 59.59 40.91 51.58 64.38
Dormitori 78.3 79.83 70.15 62.57 88.93
Aree dismesse 77.94 84.83 70.76 65.79 79.42

 

Tabella 2: La situazione contrattuale dei senza tetto attualmente occupati

  Tutto il campione Italiani Stranieri Strada Dormitori Aree dismesse
Contratto permanente 13.12 9.3 14.8 9.52 8.94 18.8
Contratto temporaneo 22.7 29.07 19.9 7.14 30.89 19.66
Non hanno un contratto 58.16 55.81 59.18 64.29 56.91 57.26
Non so 1.06 2.33 0.51 2.38 0.81 0.85
Non risponde 4.96 3.49 5.61 16.67 2.44 3.42

 

Tabella 3: Ultima volta in cui si è letto un quotidiano

  Tutto il campione Donne Uomini Italiani Stranieri
Oggi 56.22 31.92 65.49 64.59 52.2
1 settimana fa 14.24 20 12.04 10.49 16.04
1 mese fa 3.83 5 3.38 3.93 3.77
6 mesi fa 0.85 0.77 0.88 1.31 0.63
1 anno fa 0.11   0.15 0.33  
più di un anno fa 2.44 3.08 2.2 4.26 1.57
Mai letto un giornale 14.77 27.69 9.84 9.84 17.14
Non so 4.99 8.08 3.82 3.28 5.82
Non risponde 2.55 3.46 2.2 1.97 2.83

 
(1) La durata media è stata calcolata dal giorno di arrivo in strada/dormitorio/area dismessa al momento della survey. Quindi, non potendo osservare l’uscita dallo stato di homeless, il dato è sottostimato.
(2) Una metodologia informatizzata altamente sofisticata di questo tipo è l’Homeless Management Information System, utilizzata dal Department of Housing and Urban Development negli Stati Uniti su un campione di 80 città, in diverse aree geografiche del paese, che consente rilevazioni sistematiche cadenzate in modo regolare nel tempo.

PER SAPERNE DI PIU’:

Primo censimento dei senza dimora a Milano, Risultati preliminari e progetto di ricerca da www.frdb.it

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Nella Russia del “mio amico Vladimir” si continua impuniti ad ammazzare giornalisti.

Russia e diritti, omissione di soccorso

di PAOLO LEPRI da corriere.it

Mentre il mondo è giustamente in ansia per le imprese di un eroe di carta—il reporter svedese Mikael Blomkvist, protagonista della Trilogia Millennium, braccato e minacciato dai poteri forti e dai servizi segreti di Stoccolma—c’è un luogo reale, la Russia, dove i giornalisti che cercano di sfidare il potere vengono uccisi in mezzo alla strada.

È accaduto ancora ieri a Mosca. È successo molte altre volte nell’era del putinismo. Sembrano essersene accorti solo i radicali italiani, qualche intellettuale controcorrente, come Bernard-Henry Lévy o André Glucksmann, e alcune organizzazioni umanitarie internazionali. Due anni fa Anna Politkovskaya, la donna che denunciava sulla Novaya Gazeta i soprusi delle autorità russe e del governo installato dal Cremlino in Cecenia, fu assassinata nell’ascensore del suo palazzo. Il killer fuggì sulle scale, come Raskolnikov dopo aver colpito a morte la vecchia usuraia. Era l’8 ottobre 2006. Putin tacque. Solo due giorni dopo la richiesta di una «indagine approfondita». Per l’opinione pubblica mondiale Anna è diventata un simbolo, per lui una persona «che non aveva influenza nella vita politica russa».

Nel novembre scorso è iniziato un processo farsa che ha coinvolto alcuni pesci piccoli. Ieri è stata la volta di Anastasia Barburova, 25 anni, considerata l’erede della Politkovskaya, uccisa mentre tentava di inseguire il killer dell’avvocato Stanislav Markelov, difensore dei ceceni finiti nella morsa rabbiosa e implacabile delle milizie filorusse. Ma delitti e trame oscure non sono che il segnale più evidente della malattia di un Paese dove quello che si può chiamare, in sintesi, il «deficit democratico» sta toccando livelli di pericolosità allarmante. Revival di volontà di potenza, aggressività economica, nostalgie autoritarie, indulgenze post-sovietiche, disprezzo per le regole delle società aperte sono le caratteristiche del regime guidato dall’ex agente del Kgb: un uomo che ha cambiato negli ultimi tempi solo il taglio dei suoi vestiti.

Il nuovo presidente americano Barack Obama è chiamato da oggi a tentare di risolvere tutti i problemi del mondo. Non sarà facile riuscirci, ma gli va subito chiesto di mettere il dossier Russia in testa alle pratiche da sbrigare con urgenza. Il successore di Bush sa che i diritti umani sono un valore universale e che i loro principi sono vincolanti anche se tradotti in cirillico. Se necessario, come ha scritto Lévy, imparando a trattare Putin non come un partner ma come un avversario. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

Oggi si insedia Barak Obama. Paul Krugman: “Signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale.”

di PAUL KRUGMAN da lastampa.it
Caro Signor Presidente, come FDR (Franklin Delano Roosevelt) tre quarti di secolo fa, Lei sta entrando in carica in un momento in cui tutte le vecchie certezze sono svanite, tutta la saggezza acquisita si è rivelata fallace. Viviamo in un mondo che né Lei né nessun altro si aspettava di vedere. Molti Presidenti devono fare i conti con una crisi, ma pochi sono stati costretti a fare i conti dal primo giorno con una crisi al livello di quella che l’America affronta ora. Perciò, che cosa dovrebbe fare? In questa lettera non cercherò di offrire consiglio su tutto. Per lo più mi atterrò all’economia, o ad argomenti che si basano sull’economia. La misura del successo o del fallimento della sua amministrazione dipenderà in larga misura da che cosa accadrà nel primo anno, e soprattutto, dalla sua capacità o meno di capire come gestire l’attuale crisi economica.

Quanto brutta è la prospettiva economica? Peggiore di quanto la maggior parte di noi possa immaginare. La crescita economica degli anni di Bush, o cosiddetta tale, è stata alimentata dall’esplosione del debito nel settore privato; ora i mercati del credito sono in confusione, le attività commerciali e i consumatori sono in ritirata e l’economia è in caduta libera.

Quello che stiamo affrontando, essenzialmente, è una voragine di disoccupazione. L’economia statunitense ha bisogno di aggiungere più di un milione di posti di lavoro l’anno per tenere il passo con una popolazione in crescita. Anche prima della crisi, sotto Bush la crescita dell’occupazione viaggiava su una media di soli 800 mila posti di lavoro l’anno, e durante lo scorso anno, invece di guadagnare più di un milione di posti, ne abbiamo persi due milioni. Oggi continuiamo a perdere posti di lavoro a un ritmo di mezzo milione al mese.

Non c’è niente, nei dati a disposizione o nella situazione sottostante, che suggerisca che il crollo dell’occupazione rallenterà in tempi brevi. Il che significa che verso la fine dell’anno potremmo ritrovarci con 10 milioni di posti di lavoro in meno rispetto a quanti ne dovremmo avere. Ciò si tradurrebbe in un tasso di disoccupazione superiore al 9%. Se poi a questi si aggiungono gli individui che non vengono presi in considerazione dal tasso standard perché hanno smesso di cercare lavoro, più quelli costretti ad accettare lavori part time anche se vorrebbero avere un lavoro a tempo pieno, probabilmente stiamo parlando di un tasso di disoccupazione reale del 15% circa: più di 20 milioni di americani i cui sforzi per trovare lavoro vengono resi vani.

I costi umani di una caduta così grave sarebbero enormi. Il Center on Budget and Policy Priorities ha di recente previsto i possibili effetti di un picco del tasso di disoccupazione al 9%: uno scenario che sembrava il peggiore possibile e che ora sembra fin troppo probabile. Quindi, che cosa accadrà se la disoccupazione salirà, o supererà il 9%? Almeno 10 milioni di americani appartenenti al ceto medio finiranno in povertà, e altri sei milioni saranno spinti in «profonda povertà», lo stato che definisce le severe privazioni alle quali si va incontro quando il salario è pari a meno della metà della soglia di povertà. Molti degli americani che perderanno il lavoro perderanno anche l’assicurazione per le cure mediche, peggiorando lo stato già deplorevole della salute pubblica statunitense, e i pronto soccorso si affolleranno di persone che non hanno nessun altro posto dove andare. Nello stesso tempo, qualche altro milione di americani perderà la propria casa, e le amministrazioni statali e locali, private di buona parte delle loro entrate, saranno costrette a tagliare perfino i servizi più essenziali.

Se le cose vanno avanti seguendo l’attuale traiettoria, signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale. Ed è suo compito – un compito che nessun altro Presidente ha dovuto svolgere dai tempi della Seconda Guerra Mondiale – fermare questa catastrofe… L’ultimo Presidente ad affrontare un disastro simile è stato Franklin Delano Roosevelt, e Lei può imparare molto dal suo esempio. Questo non significa, tuttavia, che lei dovrebbe fare tutto quello che ha fatto FDR. Al contrario, dovrà stare attento a emulare i suoi successi, evitando però di ripetere i suoi errori. Per quanto riguarda quei successi, il modo in cui FDR ha gestito il disastro finanziario della sua epoca offre un modello molto buono. Allora, come oggi, il governo ha dovuto impiegare il denaro dei contribuenti per salvare il sistema finanziario. In particolare, la Reconstruction Finance Corporation (Società per la ricostruzione finanziaria) inizialmente ha giocato un ruolo simile a quello del Troubled Assets Relief Program dell’amministrazione Bush (il programma da 700 miliardi di dollari che tutti conoscono). Come il Tarp, la Rfc ha irrobustito la situazione monetaria delle banche nei guai usando fondi pubblici per acquisire quote finanziarie in quelle banche.

C’è però una grande differenza tra l’approccio di FDR al salvataggio finanziario foraggiato dai contribuenti e quello dell’amministrazione Bush: in particolare, FDR non era timido nel pretendere che il denaro pubblico fosse usato per servire il bene pubblico. All’inizio del 1935 il governo statunitense possedeva circa un terzo del sistema bancario, e l’amministrazione Roosevelt usò quella quota di proprietà per insistere sul fatto che le banche aiutassero davvero l’economia, facendo su di loro pressioni perché prestassero il denaro che stavano ricevendo da Washington. Oltre a questo, il New Deal uscì allo scoperto e prestò moltissimo denaro: direttamente alle aziende, agli acquirenti di case e alle persone che possedevano già una casa, aiutandole a ristrutturare il proprio mutuo in modo che potessero rimanere nelle loro abitazioni. Può Lei fare qualcosa del genere oggi? Sì, Lei può. L’amministrazione Bush potrà anche avere rifiutato di allegare delle clausole all’aiuto che ha fornito agli istituti finanziari, ma Lei è in grado di cambiare tutto questo. Se le banche hanno bisogno di fondi federali per sopravvivere, li fornisca, ma pretenda che le banche facciano la loro parte, prestando quei fondi al resto dell’economia. Dia più aiuto ai proprietari immobiliari.

I conservatori la accuseranno di nazionalizzazione del sistema finanziario, e alcuni la chiameranno marxista (a me succede sempre). E la verità è che in qualche modo Lei sarà davvero impegnato in una nazionalizzazione temporanea. Ma va bene: a lungo termine non vogliamo che il governo gestisca le istituzioni finanziarie, ma per ora è quello di cui abbiamo bisogno per fare ripartire il credito. Tutto questo aiuterà, ma non abbastanza. C’è bisogno di dare una sferzata all’economia reale del lavoro e dei salari. In altre parole, si deve affrontare per il verso giusto la creazione di occupazione, cosa che FDR non ha mai fatto. Questa può sembrare una cosa strana da dire. Dopotutto, quello che ci ricordiamo dagli Anni 30 è il programma Works Progress Administration (Wpa), che al suo apice impiegava milioni di Americani per costruire strade, scuole e bacini artificiali. Ma i programmi di creazione di posti di lavoro del New Deal, seppure abbiano certamente aiutato, non erano né abbastanza grandi né abbastanza sostenibili da mettere fine alla Grande Depressione. Quando l’economia è profondamente depressa, bisogna mettere da parte le normali preoccupazioni che riguardano i deficit di bilancio; FDR non ce l’ha mai fatta.

Di quanta spesa stiamo parlando? Forse è meglio che si sieda prima di leggere quello che segue. Bene, ecco qui: «Piena occupazione» significa un tasso di disoccupazione del 5% al massimo e forse anche meno. Nello stesso tempo, al momento siamo su una traiettoria che spingerà il tasso di disoccupazione al 9% o più. Perfino le stime più ottimistiche indicano che ci vogliono almeno 200 miliardi di dollari l’anno in spesa governativa per tagliare il tasso di disoccupazione di un punto percentuale. Faccia i conti: Lei dovrà probabilmente spendere 800 miliardi di dollari l’anno per ottenere un completo risanamento economico. Qualsiasi cifra al di sotto dei 500 miliardi l’anno sarà davvero troppo piccola per produrre una vera inversione economica. Il più possibile, dovrebbe spendere in cose di valore durevole, cose che, come le strade e i ponti, ci renderanno una nazione più ricca.

Migliori l’infrastruttura che sta dietro Internet, migliori la rete elettrica, migliori l’information technology nel settore della salute pubblica, un’area cruciale per qualunque riforma di questo settore. Fornisca aiuti alle amministrazioni statali e locali, per prevenire che taglino le spese in investimenti nel momento più sbagliato. E ricordi, nel momento in cui fa questo, che tutto questo esborso serve a un duplice scopo: serve al futuro, ma aiuta anche nel presente, generando posti di lavoro ed entrate per compensare la crisi.

Tutto questo, tuttavia, non sarà abbastanza per risolvere la profonda crisi nella propensione alla spesa dei singoli. Perciò, sì: ha anche senso tagliare le tasse su base temporanea. Gli sgravi fiscali per le famiglie che lavorano, delineati da lei in campagna elettorale, appaiono un veicolo ragionevole. Ma siamo chiari: i tagli alle tasse non sono lo strumento d’elezione per combattere una crisi economica. Per prima cosa, producono meno ritorni per l’investimento rispetto alle spese per l’infrastruttura.

Ora, il mio onesto parere è che perfino con tutto ciò, lei non sarà in grado d’impedire che il 2009 sia un anno molto brutto. Se riuscirà a far sì che il tasso di disoccupazione non superi l’8%, lo considererò un grande successo. Ma per il 2010 dovrebbe riuscire a ottenere di avere un’economia in via di ripresa. Che cosa dovrebbe fare per prepararsi a quella ripresa?

La gestione della crisi è una cosa, ma l’America ha bisogno di molto più di questo. FDR ricostruì l’America non solo facendoci uscire dalla depressione e dalla guerra, ma anche rendendoci una società più giusta e al sicuro. Da una parte creò programmi di assicurazione sociale, prima su tutti la Social Security, che proteggono i lavoratori americani ancora oggi. Dall’altra si prese a carico la creazione di un’economia molto più equa, dando vita a una società borghese che durò per decenni, fino a quando le politiche economiche dei conservatori condussero alla nuova epoca di ingiustizia che prevale oggi. Lei ha l’opzione di emulare i traguardi raggiunti da FDR, e il giudizio ultimo sul suo governo si baserà su come saprà gestire questa opzione. La più importante eredità che potrà lasciare alla nazione sarà quella di darci finalmente ciò che ogni altro stato avanzato ha: l’assistenza sanitaria garantita a tutti i cittadini. La crisi attuale ci ha dato una lezione obiettiva sulla necessità dell’assistenza sanitaria universale su due versanti: ha evidenziato la vulnerabilità degli Americani la cui assicurazione sulla salute è legata a un posto di lavoro che può così facilmente scomparire; e ha messo in chiaro che il nostro attuale sistema è anche negativo per l’economia – le tre principali case automobilistiche non sarebbero in così grave crisi se non dovessero pagare i conti medici dei vecchi e attuali impiegati. Lei ha un mandato per il cambiamento, e la crisi economica ha appena evidenziato quanto il sistema richieda un cambiamento. Quindi, è giunta l’ora di approvare una legislazione a favore di un sistema che garantisca la sicurezza sanitaria per tutti.

L’assistenza medica universale, quindi, dovrebbe essere la sua massima priorità dopo avere salvato l’economia. Fornire copertura per tutti gli Americani può essere per la sua amministrazione quello che la Social Security è stata per il New Deal. Ma il New Deal ha ottenuto qualcos’altro: ha reso l’America una società borghese. Sotto FDR, l’America ha attraversato quello che gli storici del lavoro chiamano Grande Compressione, un forte aumento degli stipendi per i lavoratori ordinari che ridusse enormemente l’ineguaglianza salariale. Prima della Grande Compressione, l’America era una società di ricchi e poveri; dopo, è stata una società in cui le persone, a ragione, si sono considerate ceto medio. Può essere difficile raggiungere quel risultato oggi, ma lei può, almeno, far muovere il Paese nella giusta direzione. Il futuro è ciò che importa di più. Questo mese festeggiamo il suo arrivo alla Casa Bianca; in un’epoca di grande crisi nazionale, Lei porta la speranza di un futuro migliore. Ora tocca a Lei far materializzare la nostra speranza. Mettendo in atto un piano di rinascita anche più coraggioso ed esaustivo del New Deal, Lei può non solo cambiare il corso dell’economia, può mettere l’America su un sentiero, quello che porta a una più grande uguaglianza per le generazioni a venire.(Beh, buona giornata).

*dalla lettera che il premio Nobel per l’Economia ha indirizzato al presidente Obama. Il testo integrale sarà pubblicato sul sito di «Rolling Stone Italia»

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Attualità Società e costume Sport

“La verità sulla vicenda di Kakà non la sapremo mai. Fu vera finzione?”

di MARCO ANSALDO da lastampa.it
Quando sembrava che si verificasse l’inevitabile e Kakà scegliesse i milioni del Manchester City, un colpo di teatro ha riportato sulla scena il più astuto dei burattinai: Silvio Berlusconi. Lui, l’uomo che sabato sera aveva spiegato agli avventori di un’osteria sarda che non era possibile rinunciare ai 105 milioni offerti dagli arabi sbarcati in Inghilterra.

Lui che, poco prima della suprema decisione, aveva dichiarato che un ragazzo non può rinunciare a 15 o 18 milioni all’anno. Insomma lui che pareva spingesse il suo giocatore più importante tra le braccia dei nuovi sultani perché sarebbe stato un affare per tutti ieri sera ha potuto annunciare che hanno trionfato i buoni sentimenti, l’amore, la riconoscenza, il disinteresse e «Kakà rimane al Milan per altri quattro anni perché i soldi non contano». Da maestro della comunicazione il Cavaliere ha scelto per il melodrammone all’italiana Aldo Biscardi, il barman del Bar Sport traslocato lontano dai grandi network ma di sicura fedeltà al nazional-popolare. E’ uno spot da milioni di consensi. Quelli dei milanisti, ovviamente. Ma anche di chi si sente rassicurato dalla scelta che tiene alle porte i possibili predoni. Se Riccardino fosse finito al City, si sarebbero aperte le porte del supermercato anche in Italia. Quelli come Buffon, che in estate avevano respinto le sirene di Mansour, probabilmente ci avrebbero ripensato, vedendo che a Manchester non finivano soltanto mezzi campioni alla Robinho ma i campioni veri come Kakà. I tifosi di qualsiasi squadra importante non avrebbero dormito sonni tranquilli.

La verità sulla vicenda di Kakà non la sapremo forse mai. Fu vera finzione? Oppure, forse per la prima volta nella vita, Riccardino ha imposto le proprie ragioni al padre che gli ha inculcato profonde passioni religiose ma anche altre più terrene, come l’attenzione ai guadagni? Kakà in questi giorni sembrava un pallone di coccio, dopo aver vinto quello d’oro. Piangeva e portava al cuore la maglia del Milan mentre il padre trattava con gli emiri. Alla fine è rimasto. Tutto sarà come prima. Forse. Perché in queste ore di gioia milanista tornano all’orecchio le parole dei procuratori più scafati che avevano previsto l’aborto dell’affare con il Manchester City ma con altrettanta certezza parlavano di un rinvio a giugno per la partenza di un campione che adesso sa di avere un prezzo per il Milan. Il Real come sponda futura? Sarà il tormentone del futuro anche se Riccardino e Berlusconi cercheranno di oscurarlo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

David Grossman:”Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese.”

di DAVID GROSSMAN da repubblica.it

Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un’unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l’un l’altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi – il nostro doppio, la nostra tragedia – e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all’esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest’ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.

Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all’occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.

Allo stesso modo il successo dell’operazione non ha risolto le cause che l’hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all’occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l’esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L’offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un’altra generazione di palestinesi crescerà nell’odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.

Ma quando l’operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c’è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.

È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata “strozzata” da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.

Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività – con attentati suicidi e lanci di Qassam – Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.

Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?

Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un’esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l’opinione pubblica israeliana all’arroganza e al compiacimento nell’uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.

Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest’ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un’alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.

Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un’opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.

Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall’esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati. (Beh, buona giornata).

Traduzione di A. Shomroni

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Attualità Popoli e politiche

“Mia nonna non è morta per fornire la copertura ai soldati israeliani che ammazzano le nonne palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano sfrutta spietatamente e cinicamente il continuo senso di colpa tra i gentili per la strage degli ebrei nell’olocausto per giustificare la sua uccisione di palestinesi. L’implicazione è che la vita degli ebrei sia preziosa, ma la vita dei palestinesi non conti.”

Un deputato ebreo denuncia come nazisti i comportamenti israeliani a Gaza

di Pino Cabras – Megachip.info

Atti nazisti a Gaza. Lo dice un deputato inglese ebreo, Gerald Kaufman, la cui famiglia in Polonia fu in gran parte inghiottita dalla Shoah. Cosa succede?
Il paragone tra l’assedio e le stragi a Gaza da parte della potenza occupante israeliana e l’assedio e le stragi del ghetto di Varsavia da parte dei nazisti suscita in genere reazioni durissime. Si vuole far credere che sia dettato da pregiudizio antiebraico.

L’aggettivo antisemita è il grande silenziatore contro chi si oppone ai pericoli scatenati dal bellicismo israeliano di oggi. Che impressione vedere Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri, gli eredi di Salò, pontificare contro l’antisemitismo. O leggere il resoconto di un quotidiano grondante di umori fascisti sulla manifestazione nazionale a difesa dei palestinesi del 17 gennaio con il titolo cubitale «Dàgli agli ebrei». Ma dove viviamo?

Vi propongo perciò la traduzione integrale del discorso parlamentare pronunciato il 15 gennaio 2009 dal deputato britannico Gerald Kaufman, durante un dibattito in cui nessuno avrebbe mai potuto trovare argomenti da opporgli. È una denuncia breve, durissima e lucidissima, della condotta del governo israeliano, con argomenti di grande valore politico e documentale, segnati da una inattaccabilità biografica formidabile (cosa che non potremmo dire del nostro attuale presidente della Camera).

Qualcuno recapiti questo testo anche a quei deputati del PD sinora sdraiatisi sui comunicati dello Stato Maggiore israeliano, per illustrare loro la possibilità di assumere posizioni a schiena dritta.

Testo tradotto in italiano:
Gerald Kaufman, deputato laburista. 15 gennaio 2009.
Sono stato cresciuto come un ebreo ortodosso e un sionista. Su una mensola in cucina c’era una scatola di latta per il Fondo nazionale ebraico, dentro la quale mettevamo le monete per aiutare i pionieri a costruire una presenza ebraica in Palestina.

Sono andato la prima volta in Israele nel 1961 e v i sono stato innumerevoli volte. Ho avuto familiari in Israele e ho amici in Israele. Uno di essi ha combattuto nelle guerre del 1956, 1967 e 1973 ed è stato ferito in due di esse. Il distintivo che indosso viene da una decorazione sul campo a lui insignita, che mi ha regalato.
Ho conosciuto la maggior parte dei primi ministri di Israele, a partire dal Primo ministro fondatore David Ben-Gurion. Golda Meir era mia amica, così come lo è stato Yigal Allon, vice primo ministro, che, da generale, conquistò il Negev per Israele nella guerra del 1948 per l’indipendenza.

I miei genitori vennero in Gran Bretagna come rifugiati provenienti dalla Polonia. La maggior parte dei loro familiari sono stati in seguito uccisi dai nazisti nell’olocausto. Mia nonna era a letto malata, quando i nazisti giunsero alla sua città natale, Staszow. Un soldato tedesco la uccise sparandole nel suo letto.
Mia nonna non è morta per fornire la copertura ai soldati israeliani che ammazzano le nonne palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano sfrutta spietatamente e cinicamente il continuo senso di colpa tra i gentili per la strage degli ebrei nell’olocausto per giustificare la sua uccisione di palestinesi. L’implicazione è che la vita degli ebrei sia preziosa, ma la vita dei palestinesi non conti.

Su Sky News pochi giorni fa, al portavoce dell’esercito israeliano, il Maggiore Leibovich, è stato chiesto in merito all’uccisione da parte israeliana di, in quel momento, 800 palestinesi (il totale è ora di 1000). Ha risposto all’istante che «500 di questi erano militanti».
Questa era la risposta di un nazista. Suppongo che gli ebrei che lottavano per la loro vita nel ghetto di Varsavia avrebbero potuto essere denigrati in quanto militanti.

Il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, afferma che il suo governo non avrà rapporti con Hamas, perché sono terroristi. Il padre di Tzipi Livni era Eitan Livni, il capo delle operazioni dell’organizzazione terroristica Irgun Zvai Leumi, che ha organizzato l’attentato esplosivo dell’Hotel King David di Gerusalemme, in cui perirono 91 vittime, di cui quattro ebrei.

Israele è stato partorito dal terrorismo ebraico. Terroristi ebraici impiccarono due sergenti britannici e fecero esplodere i loro cadaveri. Irgun, insieme con la banda terrorista Stern, nel 1948 massacrò 254 palestinesi nel villaggio di Deir Yassin. Oggi, gli attuale governanti israeliani indicano che sarebbero disposti, in circostanze per loro accettabili, a negoziare con il presidente palestinese Abbas, di al-Fatah. È troppo tardi per farlo. Essi avrebbero potuto negoziare con il precedente leader di al-Fatah, Yasser Arafat, che era un mio amico. Invece, lo assediarono in un bunker a Ramallah, dove lo visitai. A causa dei fallimenti di al-Fatah, a partire dalla morte di Arafat, Hamas ha vinto le elezioni palestinesi nel 2006. Hamas è una organizzazione sgradevolissima, ma è stata democraticamente eletta, ed è quel che passa il convento. Il boicottaggio di Hamas, anche da parte del nostro governo, è stato un errore colpevole, dal quale sono derivate terribili conseguenze.

Il grande ministro degli Esteri israeliano Abba Eban, con il quale ho fatto campagna per la pace da molte tribune, ha dichiarato: «Fate la pace se parlate con i vostri nemici.»
Per quanti palestinesi gli israeliani possano uccidere a Gaza, non possono risolvere questo problema esistenziale con mezzi militari. Quando e qualora i combattimenti finissero, ci sarebbero ancora un milione e mezzo di palestinesi a Gaza e altri due milioni e mezzo in Cisgiordania. Essi sono trattati alla stregua di immondizia da parte degli israeliani, con centinaia di blocchi stradali e con gli orrendi abitatori degli insediamenti ebraici illegali che li molestano. Verrà il momento, non molto lontano da ora, in cui supereranno la popolazione ebraica in Israele.

È giunto il momento per il nostro governo di render chiaro al governo israeliano che la sua condotta e la sua politica sono inaccettabili, e di imporre un divieto totale di esportare armi a Israele. È l’ora della pace, ma la pace vera, non la soluzione attraverso il soggiogamento che è il vero obiettivo degli israeliani, ma che è impossibile per loro da raggiungere. Essi non sono semplicemente dei criminali di guerra, sono stupidi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Aspettando l’insediamento di Barak Obama.

  Se Obama parlasse con il nemico
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Le grandi speranze riaccese da Obama, alla vigilia della cerimonia inaugurale di martedì che lo insedierà alla Presidenza, somigliano non poco alle Grandi Speranze che accompagnano Pip, il protagonista del romanzo di Charles Dickens. Solo in apparenza il romanzo racconta una promessa di palingenesi personale, sociale: quel che narra è in realtà un faticoso apprendistato, un addestramento alla realtà. Pip, come Obama, deve imparare a camminare da solo, e soprattutto evitare d’esser «tirato su per mano» da tutori invadenti, paternalisti. Pip è figlio d’operai, ha scarpe grosse, mani brutte. La sua vita cambia quando uno sconosciuto benefattore gli lascia i suoi beni dandogli, appunto, Great Expectations. Ma il cambiamento vero dipende da lui, da quel che farà della donazione.Come ha scritto Kissinger sull’Herald Tribune: la magica ascesa di Obama «definisce un’opportunità, non una politica».
Il mondo che Obama eredita gli s’accampa davanti pieno di rovine, e profondamente equivoco. Anche quello di Bush si nutriva infatti di Grandi Aspettative. Ma erano promesse immateriali, capziose, che non hanno insegnato nulla all’America e anzi l’hanno corrotta, sostituendo alla realtà l’ideologia. È un mondo che ha prodotto una «mescolanza letale di arroganza e ignoranza», scrivono Robert Malley e Hussein Agha sul New York Review of Books del 15 gennaio, nel descrivere la strategia Usa in Medio Oriente. C’è del miracolismo anche nell’attesa di Obama, rafforzato dal fatto che egli è il primo Presidente nero e che corona una storia dentro la storia nazionale, che lo collega non solo a Abramo Lincoln ma a Martin Luther King. Il suo apprendistato sarà duro perché dovrà rispondere alle Great Expectations e al tempo stesso non divenir ostaggio di chi pretende d’averlo fatto re, «tirandolo su per mano». Percepito come messia, egli deve al tempo stesso spezzare i messianesimi che da secoli catturano le menti americane.

L’apprendistato non può avvenire dunque che in solitudine, sotto forma di una vasta disintossicazione che salvi la speranza ma sappia anche spegnerla quando è irrealistica. Sono tante e svariate le sostanze tossiche di cui toccherà depurare l’organismo, e come in medicina urgono terapie radicali: dalla somministrazione di antidoti alla trasfusione del sangue all’inalazione di ossigeno. In politica occorre cambiare i paradigmi, come usano dire gli esperti in finanza; congedarsi dalle illusioni d’onnipotenza e dalle ideologie che dominano la politica estera, militare, climatica. Così poliedrico è il cambiamento richiesto che il paragone con la trasfusione sanguigna non è azzardato.

Le sostanze tossiche non hanno avvelenato solo gli otto anni di Bush. Sono decenni che lo Stato americano fabbrica bolle, ipnotizzato dal miraggio d’una forza autosufficiente e universalmente egemonica. In economia ha immaginato di poter vivere indebitandosi smisuratamente, consumando senza criterio, e fidandosi d’un mercato che magicamente si autoregola; in politica estera e militare ha creduto di poter modellare il pianeta secondo una propria idea del bene e del male, e non secondo l’utilità considerata opportuna dal maggior numero di soggetti. È qui che l’arroganza s’è unita all’ignoranza, impedendo agli Usa di considerare gli interessi di altri Paesi e di nuovi potentati locali; di riconoscere i propri limiti oltre che i limiti, in genere, dello Stato-nazione alle prese con mali e sfide che non è più in grado di padroneggiare da solo.

La stoffa della bolla è antica perché risale all’idea dell’America «faro sulla collina», votata a civilizzare il mondo, dotata di incorrotta supremazia morale e politica. Il continuo parlare di carote e bastoni è parte di questa presunzione, umiliante per i popoli destinatari: nessuno – tranne forse Al Qaeda – parlerebbe così dei rapporti con Washington. Non è vero che Bush s’è disinteressato al Medio Oriente, all’Iran, all’Asia, all’Europa. Secondo Malley e Agha se n’è interessato fin troppo, diminuendo ad esempio in Israele il senso della propria responsabilità, dei confini geografici, del limite: i progressi, Israele tende a compierli quando Washington latita, e a mediare sono magari gli europei o i turchi. Lo stesso dicasi per la Russia: i cui ricatti o soprusi (nel Caucaso, sul gas) sono possibili perché l’America promette un fiancheggiamento e una presenza – in Georgia, Ucraina – del tutto ingannevoli.

È il motivo per cui i realisti, in Israele, chiedono oggi a Obama di cominciare finalmente a parlare con le forze generatrici dei conflitti, anche se nemiche mortali d’Israele come Hamas, Hezbollah, Iran. («Vada avanti per la sua strada, Presidente, non ascolti nessuna lobby», scrive Yossi Sarid su Haaretz). In un importante articolo sul New York Review of Books, tre autori (William Luers, Thomas Pickering, Jim Walsh) sostengono che l’Europa dovrebbe costruire con Teheran un consorzio, favorito da Obama, che produca uranio arricchito in Iran (la formula multinazionale ha il vantaggio di implicare controlli multinazionali). Obama, intanto, dovrebbe avviare con Teheran colloqui senza precondizioni, dopo le presidenziali iraniane di giugno, tenendo conto degli interessi di ambedue: l’Iran è essenziale per pacificare l’Iraq e anche l’Afghanistan, essendo ostile ai talebani sunniti. Le sanzioni non rischiano di fallire: già son fallite. Così come son fallite le guerre di Bush: perché hanno generato caos nel mondo invece di stabilità, soddisfacendo solo nel brevissimo periodo il desiderio Usa di dominarlo.

I neocon che hanno scommesso su Bush hanno condotto per anni una personale e accanita guerra contro la realtà, creando miti a ripetizione. Un episodio lo prova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush (era Karl Rove) gli disse: «Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora» (New York Times, 17-10-04). La reality-based community viveva di fatti, mentre chi vive nello show mistificatorio li trascende, fino a quando la realtà si vendica.

La rottura con la realtà si è rivelata contagiosa: sin d’ora e nei prossimi anni converrà ricordarlo. La chimera dello Stato-nazione autosufficiente, la prepotenza congiunta all’ignoranza, il rifiuto di negoziare, la predilezione del breve termine rispetto al lungo, l’abitudine a violare la legalità internazionale: sono veleni di cui deve disintossicarsi l’amministrazione americana ma anche l’Europa, il mondo. Tanto più prezioso è l’annuncio di Obama: rispetterà le convenzioni internazionali sulla tortura e i prigionieri di guerra; chiuderà Guantanamo.

Sono i civili a pagare infatti chimere e menzogne. Pagano in economia, perché il fondamentalismo del laissez-faire ha colpito la gente comune e non solo Wall Street. Pagano a Gaza e nel Sud d’Israele, col sangue, la morte o il terrore. Pagano in Europa, dove milioni di cittadini gelano perché i nazionalismi russo e ucraino non sono imbrigliati da accordi multilaterali.

Ha scritto lo storico Andrew Bacevich che i grandi americani sono di rado ascoltati in patria, perché dicono cose realiste e per questo sgradite, poco trascinanti (The Limits of Power: The End of American Exceptionalism, New York 2008). Fa parte della disintossicazione riscoprire quella tradizione. È nella solitudine che Obama potrà ritrovare il realismo di Reinhold Niebuhr, il teologo profeta che nel secondo dopoguerra denunciò l’eccezionalismo americano e «il sogno di manipolare la storia, nato da una peculiare combinazione di arroganza e narcisismo: una minaccia potenzialmente mortale per gli Stati Uniti». /Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia

Ecco articolo di Prodi citato da Tremonti.

di ROMANO PRODI da Il Messaggero del 31.12.08

Facendo un bilancio dell’economia mondiale del 2008, l’unica conclusione possibile è che prima finisce l’anno meglio è. Non c’è un indicatore che vada bene. Non la crescita, non il commercio internazionale, non l’occupazione.
Solo il calo dell’inflazione è un elemento positivo, ma l’inflazione cala proprio perché tutto il resto va male. Si tratta di una crisi generalizzata e imprevista. Nessuno l’aveva immaginata così profonda e diffusa.
Qualcuno aveva previsto tensioni nei mercati finanziari, altri lo scoppio della bolla immobiliare, ma nessuno pensava che l’intreccio di tutti questi fatti potesse portare ad una caduta così rapida e diffusa dell’economia mondiale.

Non potendo quindi considerare buone le previsioni fatte in passato, non mi sento di avere un maggior grado di fiducia nemmeno nei confronti di coloro che oggi ci presentano raffinati e complicati grafici rispetto al futuro. Previsioni su quando comincerà la ripresa è meglio non farne. I ragionamenti sulla politica più opportuna da adottare sono invece d’obbligo.

Per costruire questi ragionamenti partiamo naturalmente dalla constatazione (non è più una previsione) che, globalmente preso, il 2009 sarà un anno di recessione tanto per l’Europa che per gli Stati Uniti. L’Oriente (pur con una sensibile diminuzione dei precedenti tassi di crescita) conoscerà uno sviluppo positivo, ma non a sufficienza per bilanciare la crisi del resto del mondo.Se non conosciamo i tempi di uscita dalla crisi, conosciamo almeno gli errori da evitare e le decisioni da prendere perché se ne possa al più presto venir fuori più forti e soprattutto più puliti. Il primo errore è quello di sperare che una soluzione nazionale (di qualsiasi paese) posa risolvere una crisi che ha cause mondiali. Chi pensa di poterlo fare con il protezionismo, con i sussidi all’esportazione o con estemporanei aiuti alle imprese si sbaglia, perché gli altri Paesi non potranno che reagire con analoghe misure. La recessione si trasformerebbe fatalmente in grande depressione.

Diverso è il caso del salvataggio delle banche (anche se non sono certo esenti da colpe) perché la certezza che il proprio denaro sia al sicuro è condizione del funzionamento stesso di ogni economia. Se si fosse intervenuti a salvare la Lehman Brothers, avremmo certamente evitato momenti di panico in tutto il mondo.
Nell’anno che sta iniziando non vi sono solo errori da evitare, ma anche azioni da compiere. Tra queste non basta iniettare capacità di acquisto nei sistemi economici (come è stato già positivamente compiuto da moltissimi paesi negli ultimi mesi), ma soprattutto occorre stabilire nuove regole per i mercati e gli operatori finanziari.
Regole valide per tutto il mondo.

Mi limito a parlare di regole finanziarie perché stiamo riflettendo sull’economia, ma il mondo è ormai globale in tutti i sensi. Certo non si può vincere la sfida del terrorismo, dell’energia e dell’ambiente senza regole che coinvolgano tutti i grandi attori che agiscono sulla scena mondiale.
Tornando all’economia, bisogna partire dalla constatazione che l’economia globale non è la somma delle economie di tutti i paesi, ma è qualche cosa di diverso, perché le diverse nazioni, se non agiscono in armonia, si distruggono reciprocamente. Un primo passo in questa direzione è stato compiuto con la sostituzione del G8 con il G20, un’assise in cu,i accanto all’Europa, all’America e al Giappone, sono presenti i nuovi protagonisti dell’economia mondiale, a partire dalla Cina e dall’India.

Bisogna però che il G20 non sia solo una riunione di emergenza, ma il luogo in cui si propongano e si impongano le riforme dei mercati finanziari e monetari di cui il mondo ha urgente bisogno. Ci vorrà tempo, perché anche la riforma di Bretton Woods era stata preceduta da due anni di intenso lavoro tecnico e politico, ma non vi è altra strada per mettere lo sviluppo del mondo su un binario virtuoso.
Se infatti rimarranno regole nebulose e frammentate, mercati grigi in cui tutto si ricicla, istituzioni finanziarie che non rendono conto a nessuno della propria attività, non potremo che passare da una crisi a un’ altra crisi.

Non bisogna nascondere il fatto che questa riforma è un compito difficilissimo. Così difficile che, quando si è cercato di promuoverla nell’ambito dell’Unione Europea, gli interessi e i veti dei diversi Paesi hanno trasformato il progetto di un leone in un disegno di un gattino.
Se questo avviene nell’ambito europeo, figuriamoci come sarà difficile riscrivere queste regole di comportamento e di trasparenza a livello mondiale !

Concludendo con alcune telegrafiche riflessioni possiamo dire che i governi stanno generalmente agendo nella direzione giusta per uscire alla crisi, ma non sappiamo quando queste azioni daranno frutto, perché nessuno conosce ancora le dimensioni della crisi. Ma soprattutto dobbiamo riconoscere che, se non si riscrivono nuove regole comuni per il funzionamento dei mercati, la ripresa sarà soltanto la preparazione della prossima crisi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia

Il ministro Tremonti e la crisi economica: d’accordo con Prodi, non del tutto con Berlusconi.

da ilmessaggero.it

A casa o in galera: per i responsabile della crisi economca, dice il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ci sono solo queste due possibilità. «I responsabili di questa crisi fosse per me dovrebbero andare o a casa o in galera. Non possono continuare a tenere in ostaggio il mondo in nome di una illusione. Bisognerebbe mandare a casa i responsabili di tutto questo disastro», ha detto Tremonti alla trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio.

Il ministro ha puntato nuovamente il dito contro la finanza «speculativa e irresponsabile» ed in particolare contro l’uso dei derivati «che valgono 30-40 trilioni di dollari mentre il piano di Obama non arriva neanche ad un trilione». «Bisogna dire comunque che quello che è stato fatto finora, in particolare negli Stati Uniti, non è servito e si rischia di fare solo più debito. Speriamo che Obama, grazie anche alla forza simbolica e politica che ha, possa ottenere un risultato migliore di Bush. Abbiamo però bisogno di una “uscita di sicurezza” in caso di insuccesso e quindi confermo che è necessario
creare una “bad bank” in cui mettere tutta la finanza derivata e isolarla per 50 anni». «Salvare tutto – dice Tremonti- è una missione divina, salvare il salvabile è una missione umana ed è questo il nostro obiettivo. Salvare le famiglie e le industrie e staccare il resto».

Tremonti ha poi definito l’economia «una disciplina ausiliaria. In tempi normali i numeri hanno un senso, in questo momento invece chi non ha previsto nulla non è autorizzato a prevede qualcosa. C’è stata una follia della finanza che ha avuto anche molti sacerdoti. Ora dobbiamo intervenire su questa follia e proprio per questo è necessario isolare i derivati e le altre speculazioni. Se una persona ha un infarto bisogna intervenire sul cuore, e questo è il punto su cui noi dobbiamo intervenire».

L’invito all’ottimismo del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è giusto, ma secondo Tremonti «non è una questione di stimolo e consumi ma di regole, se non cambi le regole non fai altro che preparare una nuova crisi». Tremonti ha citato poi un articolo uscito sul Messaggero di Romano Prodi («anche se – ha detto – mi spiace farlo») sul tema della crisi, condividendone le argomentazioni. «Bisogna per un po’ lasciar stare la finanza fine a se stessa», ha spiegato, sottolineando che il richiamo alle regole non è «un limite al mercato, ma alla follia del mercato. E questo è stato un periodo di grande follia».

L’Italia «è più forte di quanto si pensava perché da noi i bisogni sono stati finanziati più con il lavoro e il risparmio che non col debito». «L’eccesso di debito – ha ripetuto Tremonti – non si cura con nuovo debito, privato o pubblico che sia, non è la cura». 

Quanto all’invito del premier a non diminuire i consumi, per Tremonti «Berlusconi ha ragione quando dice che i pessimisti non fanno mai nulla di importante. Da parte mia aggiungo che non basta però detassare e stimolare l’economia se poi uno guarda la tv e si spaventa. È necessario che ci sia un
clima generale migliore». (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

Comincia la tregua, finisce l’embargo della libertà di stampa nella Striscia di Gaza.

Per la prima volta dal 27 dicembre Israele ha autorizzato oggi l’ingresso nella striscia di Gaza di giornalisti della stampa estera. Per la prima volta dall’inizio di ‘Piombo Fuso’ e dopo ore di attesa al valico di Erez, fra Israele e Gaza, sei giornalisti hanno potuto entrare nella Striscia nel pomeriggio e raggiungere la vicina citta’ palestinese di Beit Lahya, dove hanno constatato ingenti danni materiali alle abitazioni, alle automobili, e alle infrastrutture. Lo riferisce l’Agenzia Ansa. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Una nuova puntata del Brunetta-Show.

Il ministro Brunetta, come il Papa, parla molto volentieri di domenica. Stavolta si cimenta con la cassa integrazione, non perché sia il ministro del lavoro, ma perché lui è Brunetta, quindi esterna il suo pensiero su tutto quello che potrebbe metterlo in mostra, anche solo per un dispaccio d’agenzia.

Accade così che l’Agenzia Ansa batta la seguente notizia, ripresa da ilmessaggero.it: <La cassa integrazione non puo’ essere interpretata ‘solo come un reddito che consente un secondo lavoro in nero’, afferma Brunetta.Il ministro della Funzione Pubblica sottolinea che la cig e’ ‘una garanzia del lavoro perso. Bisogna responsabilizzare il lavoratore che, quando va in cassa integrazione, ha l’obbligo di riqualificarsi in modo da avere un’altra chance per un altro lavoro’>.

E Bravo Brunetta, bravo, bravo e bravo Brunetta (sulle note del jingle dello spot Palombini, quello cantato e suonato da Pippo Baudo). Però c’è un però: se un lavoratore viene pagato in nero, vuol dire che il datore di lavoro ha nero da gestire, e se ha nero da gestire, vuol dire che non paga, almeno in parte  le tasse. Insomma, è un fannullone del Fisco. Gli mettiamo i tornelli?  Alla prossima puntata del Brunetta-Show. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Salute e benessere

Caso Eluana:”La decisione d’un ministro ha la forza di impedire che una sentenza abbia corso.”

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it

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La clinica convenzionata Città di Udine ha comunicato venerdì scorso che non potrà effettuare l’intervento richiesto dalla famiglia Englaro e autorizzato dalla Cassazione, per porre fine alla vita vegetativa di Eluana a diciotto anni di distanza dal suo inizio. La suddetta clinica era disposta ad eseguire ciò che la famiglia voleva e che la magistratura aveva autorizzato, ma ne è stata impedita dall’intervento del ministro Sacconi il quale ha minacciato di far cessare i rimborsi dovuti alla clinica per le degenze dei suoi clienti, costringendola quindi a sospendere la sua attività.

La decisione d’un ministro ha cioè la forza di impedire che una sentenza abbia corso. Si tratta d’un fatto di estrema gravità politica e costituzionale, di un precedente che mette a rischio la divisione dei poteri e la natura stessa della democrazia. Poiché si invoca da molte parti una riforma della giustizia condivisa con l’opposizione, a nostro giudizio si è ora creata una questione preliminare: non si può procedere ad alcuna riforma condivisa se non viene immediatamente sanata una ferita così profonda. Se la volontà politica di un ministro o anche di un intero governo può impedire l’esecuzione di una sentenza definitiva vuol dire che lo Stato di diritto non esiste più e quindi non esiste più un ordine giudiziario indipendente.

Non c’è altro da aggiungere per commentare una sopraffazione così palese e una violazione così patente dell’ordinamento costituzionale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Nessuna categoria Popoli e politiche

In piazza aspettando la tregua sulla Scriscia di Gaza.

da ilmessaggero.it

Corteo a Roma. Il corteo Dalla parte dei Palestinesi è stato organizzato dal comitato Stopmassacrogaza. Partito alle 15.30 da piazza Vittorio, all’Esquilino, il corteo ha raggiunto Porta San Paolo, passando per Santa Maria Maggiore, via Cavour, via San Gregorio, Circo Massimo. Secondo fonti della Questura di Roma, le persone che hanno preso parte al corteo sono state 15mila. Secondo gli organizzatori 200mila.

Manifestazioni in Francia. A Parigi, dietro lo striscione «Resistenza palestinese. Stop alla collaborazione franco-israeliana», hanno sfilato 2.600 persone secondo la polizia, «diverse decine di migliaia» secondo gli organizzatori. Momenti di tensione e suo di lacrimogeni da parte della polizia quando alcuni manifestanti hanno cercato di forzare un cancello dell’Opera, nel centro della città. Al corteo di Marsiglia per denunciare il «massacro del popolo palestinese» hanno partecipato in 2.500 secondo la polizia, 25.000 secondo gli organizzatori.

Inghilterra. In migliaia hanno manifestato in tutto il paese. A Londra in circa 3.500 si sono radunati a Trafalgar Square, dove l’ex premier Tony Blair, rivolgendosi alla folla, ha chiesto al governo di inviare a Gaza la Royal Navy per aggirare il blocco israeliano e scortare le imbarcazioni di soccorso medico e alimentare.

Germania. Circa tremila in piazza in tutto il paese di cui 1600 a Berlino. A Duisburg, oltre al corteo pro-Gaza, c’è stata anche una manifestazione pro-Israele di circa 200 persone.

Turchia. Centinaia di manifestanti anche ad Ankara, davanti all’ambasciata d’Israele e nel centro della città, dove il corteo è stato bloccato dai blindati della polizia.

Grecia. Ad Atene un corteo di più di mille persone, guidato da un gruppo di palestinesi, ha sfilato fino all’ambasciata d’Israele.

Svizzera. A Ginevra, davanti alla sede europea dell’Onu, si sono radunati in centinaia al grido «Israele terrorista». Molti vestivano magliette bianche con sopra la scritta rossa “Gaza”. A Berna circa 1.500 persone hanno invece manifestato a favore di Israele.

Argentina. L’ambasciata israeliana di Buenos Aires ieri sera è stata investita da una pioggia di scarpe, lanciate in segno di protesta da molti delle centinaia di manifestanti, che, sventolando bandiere con scritte anti-israeliane, si erano radunate davanti all’edificio.(Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Aspettando la tregua sulla Striscia di Gaza.

da repubblica.it

L’OPERAZIONE israeliana contro Hamas nella Striscia di Gaza, ‘Piombo Fuso’, ha avuto inizio il 27 dicembre. Ecco una cronologia.

– 27 dicembre: Israele lancia un’offensiva aerea per fermare il lancio di razzi Qassam. Da Damasco, il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, invoca una terza Intifada.

– 28 dicembre: l’esercito di Tsahal si ammassa alla frontiera con Gaza, il ministro della Difesa Ehud Barak dichiara che un’operazione terrestre “è possibile”. Il Consiglio di sicurezza Onu chiede la fine delle ostilità.

– 29 dicembre: decine di razzi Qassam piovono su Israele. Il bilancio delle vittime dall’inizio delle ostilità sale a quattro. Tra i palestinesi, i morti sono 340. Nel campo profughi di Jabaliya muoiono cinque sorelle tra i quattro e i 17 anni.

– 30 dicembre: l’Unione Europea chiede la fine delle ostilità. Il governo israeliano riceve una proposta francese per il cessate il fuoco che respinge il giorno dopo.

– 1 gennaio: i bombardamenti israeliani centrano diversi ministeri, un edificio del Parlamento e tunnel destinati al contrabbando di armi. Ucciso uno dei capi di Hamas, Nizar Rayan.

– 2 gennaio: Israele permette agli stranieri di lasciare la Striscia.

– 3 gennaio: ucciso un alto esponente di Hamas, il terzo in tre giorni. Nel pomeriggio iniziano i tiri di artiglieria che preparano l’offensiva di terra, che scatta in serata con l’avanzata delle truppe corazzate nella Striscia. Hamas minaccia: “Gaza sarà il vostro cimitero”.

– 4 gennaio: il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, chiede l’immediato stop dell’operazione di terra. Israele prosegue l’offensiva. L’esercito conferma la morte del primo soldato. Sessantatre i palestinesi uccisi in 24 ore, il bilancio delle vittime è di 512 morti.

 5 gennaio: il giornale britannico The Times denuncia l’uso di bombe al fosforo bianco parte dell’esercito israeliano. I blindati avanzano, scoppiano violenti combattimenti a Gaza City.

– 6 gennaio: i carri armati entrano a Khan Yunes, nel Sud della Striscia. Quaranta i palestinesi uccisi in un raid contro una scuola gestita dall’Onu a Jabaliya. Barack Obama rompe il silenzio dicendosi “preoccupatissimo” per le vittime civili.

– 7 gennaio: le forze armate israeliane annunciano una tregua di tre ore ogni giorno, per “ragioni umanitarie”.

– 8 gennaio: un carro armato colpisce un convoglio dell’Onu uccidendo due autisti.

– 9 gennaio: il Consiglio di sicurezza Onu approva, con l’astensione Usa, una risoluzione per il cessate il fuoco.

– 10 gennaio: manifestazioni contro l’offensiva in tutto il mondo. A Milano i dimostranti bruciano una bandiera di Israele.

– 12 gennaio: il Consiglio dei diritti umani dell’Onu “condanna con forza” l’offensiva militare israeliana.

– 14 gennaio: in un messaggio audio, il leader di Al Qaeda Osama Bin Laden chiama alla jihad per Gaza. Ban Ki-moon inizia al Cairo una missione in Medio Oriente. Secondo fonti mediche nella Striscia, il bilancio delle vittime supera i mille morti, cinquemila i feriti.

– 15 gennaio: l’artiglieria israeliana colpisce la sede dell’Unrwa, l’agenzia per i rifugiati palestinesi dell’Onu.
Ucciso in un raid il ministro dell’Interno di Hamas, Siad Siam.

– 16 gennaio: summit dei Paesi arabi a Doha, boicottato da Egitto e Arabia Saudita. Usa e Israele siglano un’intesa per agevolare il cessate il fuoco. E il governo Olmert annuncia l’ipotesi di un cessate il fuoco unilaterale a Gaza. (Beh, buona giornata).

 

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

Chi di tv ferisce, di tv perisce.

“In tv, soprattutto nei programmi di seconda serata, mi basta al massimo cinque minuti per sentire dire qualcosa contro di me”, ha detto Berlusconi, che aggiunge: “C’e’ una volonta’ di colpire chi si impegna allo strenuo per il bene del Paese, per gli interessi di tutti i cittadini e colpisce anche quelli della sinistra”. Per il presidente del Consiglio, questa situazione “non accade in nessuna tv nazionale del mondo, di nessun Pese civile del mondo”. Berlusconi vittima delle  televisioni fa rima, ma fa verità. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia

Alitalia: “I debiti li dovevano pagare chi aveva gestito Alitalia prima.”

“I nuovi acquirenti di Alitalia non li ho definiti capitani coraggiosi ma patrioti perche’ hanno messo li’ una montagna di soldi. Hanno comprato tutto cio’ che e’ Alitalia. I debiti li dovevano pagare chi aveva gestito Alitalia prima, lo stesso avrebbe fatto Air France”. Berlusconi dixit. Che dimentica (!?) che i debiti, circa 4 miliardi non li pagherà “chi aveva gestito Alitalia prima”, ma chi paga le tasse adesso e nel prossimo fututo. Beh, buona giornata

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Attualità Popoli e politiche

Israele duramente contestata. Non è successo a “Anno zero”, ma a Washington.

da ilmessaggero.it

WASHINGTON (17 gennaio) – Il ministro israeliano degli Esteri Tzipi Livni è stata duramente contestata da alcuni giornalisti che durante una conferenza stampa di ieri a Washington l’hanno chiamata «terrorista» e hanno paragonato il suo governo a quello dello Zimbabwe.

Lo raccontano oggi i siti dei giornali israeliani, aggiungendo che all’esterno del Washington press club dove si teneva la conferenza un gruppo di attivisti del gruppo pacifista «Code Pink» scandiva lo slogan «c’è un criminale di guerra nell’edificio». Uno dei momenti più tesi è stato quando un giornalista ha iniziato la sua domanda con una lunghissima citazione di un rapporto sulla situazione dei diritti umani a Gaza.

Quando l’uomo è stato sollecitato a dire quale era la sua domanda, questi ha replicato con veemenza: «l’avete lasciata parlare e ora non lasciate che si facciano domande. Da quand’è che qui vengono accolti i terroristi?».

Diversi giornalisti hanno dichiarato nelle loro domande che l’operazione «piombo fuso» avrebbe soltanto allontanato la pace, e una di loro ha paragonato Israele allo Zimbabwe per il divieto ai giornalisti di entrare a Gaza.

La Livni non ha mai perso la pazienza, rispondendo a tutti. All’uomo che le ha dato della terrorista ha detto che Israele «non vuole farsi coinvolgere nelle questioni interne dell’autorità palestinese e che per questo abbiamo lasciato unilateralmente la Striscia di Gaza, ma in cambio abbiamo avuto il terrorismo. Cerchiamo di far tutto per evitare di colpire i civili, ma questo accade». (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia

Berlusconi dice che dobbiamo avere fiducia, Tremonti dice che non crede alle previsioni pessimiste. Intanto, ecco quello che ci manda a dire L’Europa.

“L’esperienza dimostra che le recessioni economiche provocate da una crisi finanziaria tendono ad essere gravi e prolungate”: è quanto si legge nel documento preparatorio dell’Ecofin, che si svolgerà martedì, all’indomani dell’annunciato taglio delle previsioni di crescita per il 2009 da parte della Commissione europea.

“Attualmente – si sottolinea nel documento del Consiglio Ue anticipato dall’agenzia Ansa – la fiducia dei consumatori e delle imprese si trova al livello più basso da decenni e la situazione rischia di deteriorarsi ulteriormente”. Questo nonostante le misure anticrisi adottate “siano già in via di attuazione”. Ma, si legge ancora, “bisognerà pazientare, perché ci vorrà del tempo per vederne gli effetti sull’economia reale”.

Inoltre, si legge ancora nel documento, le condizioni del credito in Europa continuano a essere “difficili” e la priorità assoluta deve essere “ristabilire il normale funzionamento” di tale mercato, “ripristinando la fiducia” di imprese e consumatori. (Beh, buona giornata).

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