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La quarta crisi: “La stampa non è mai riuscita a coprire i costi grazie al suo core business, cioè vendere notizie ai lettori, ma vendendo la audience dei suoi lettori agli inserzionisti. Insomma, la pubblicità.”

di Enrico Beltramini – da Limes

La crisi che sta attraversando il mondo della stampa negli Stati Uniti è probabilmente irreversibile. Il modello di business è insostenibile, e l’intreccio tra informazione, politica ed economia che ha contrassegnato la vita nell’ultimo secolo di storia americana, al capolinea.

Non è soltanto il giornalismo politico che sta attraversando una crisi profonda, ma l’intera industria dell’informazione americana su carta. Dall’inizio dell’anno ad oggi (e siamo a metà anno), 105 giornali sono stati chiusi, lasciando a casa circa 10 mila persone (giornalisti e non). La pubblicità è scesa del 30%, 23 dei 25 più importanti giornali americani hanno dichiarato una riduzione della circolazione tra il 7 e il 20%, e hanno registrato il crollo verticale del valore dei titoli quotati. Per la cronaca, 61 di questi 105 giornali appartenevano a quattro gruppi editoriali: Gannett Co., GateHouse Media, The Sun-Times Media Group e The Journal Register Company. Il gruppo Tribune, che pubblica il Chicago Tribune e il Los Angeles Times, ha chiesto l’accesso alle procedure di in bancarotta, mentre il New York Times ha cominciato ad ipotecare gli immobili. Il Miami Herald è in vendita. Più del 20% del settore editoriale ha problemi finanziari.

Megan McCardle ha spiegato su The Atlantic che “for most of history, most publications lost money, or at best broke even, on their subscription base, which just about paid for the cost of printing and distributing the papers. Advertising was what paid the bills. To be sure, some of that advertising is migrating to blogs and similar new media. But most of it is simply being siphoned out of journalism altogether. Craigslist ate the classified ads. eHarmony stole the personals. Google took those tiny ads for weird products. And Macy’s can email its own damn customers to announce a sale”.

Secondo Cardle, non dovremmo meravigliarci della crisi che ha colpito oggi i giornali. Il problema è che i loro fondamentali sono sempre stati deboli. La stampa non è mai riuscita a coprire i costi grazie al suo core business, cioè vendere notizie ai lettori, ma vendendo la audience dei suoi lettori agli inserzionisti. Insomma, la pubblicità. E anche così, non ha mai raccolto abbastanza soldi per raggiungere il break even. Ecco perché i giornali offrivano altri servizi: la pubblicità locale, i messaggi personali, la comunicazione istituzionale delle aziende, ecc..

Ora però i servizi accessori sono stati strappati via dal corpo del giornale e sono diventati attività a se stanti, servizi indipendenti online con un loro business model specifico; Google offre micro advertising, Craigslist le inserzioni personali, e le aziende possono informare la loro clientela direttamente attraverso il loro sito. Costretta a dover contare soltanto sul suo core business, vendere notizie ai lettori, la stampa ovviamente collassa. Qualcuno spinge l’analisi sulla crisi dei giornali americani ancora più in profondità.

Ricorda Dave Winer, uno dei pionieri delle informazioni in digitale, che le fonti delle notizie non sono mai state pagate. Quindi, integrando il ragionamento di McCardle con quello di Winer, possiamo concludere che vendere notizie ai lettori non è mai stato sufficiente per coprire i costi nemmeno nel caso in cui le notizie fossero gratuite. Insomma, il mestiere di raccolta, selezione, impacchettamento e assemblaggio e vendita della notizia non riesce a pagarsi abbastanza per coprire i costi.

Non c’è da sorprendersi se oggi il business vacilla.

Jeff Jarvis, docente alla City University di New York e famoso bloggista, affonda il coltello senza riguardi. “Owning the printing press or broadcast tower used to define advantage: I own and control the means of production and distribution and you and don’t, which enables me to decide what gets distributed and forces you to come to me if you want to reach the public through news or through advertising, whose price I alone set with little or no concern for competition”.
Quindi, la proprietà dei mezzi di produzione e di distribuzione comporta il controllo sul contenuto, e quindi sulle informazioni.
E’ interessante il ragionamento di Jarvis: creando una connessione tra la proprietà dei mezzi di produzione e distribuzione e il core business della stampa, dimostra la vulnerabilità della stampa dal punto di vista economico e anche dal punto di vista culturale.
Dal punto di vista economico, è proprio il costo dell’infrastruttura che si sta dimostrando insostenibile.

E’ innanzitutto lì che Internet sta ottenendo i maggiori successi, impiegando tecnologie che aprono una conversazione con la audience ad una frazione del costo di un giornale. Dal punto di vista culturale, racconta Jarvis, la proprietà dei mezzi ha determinato la diffusione di una cultura del controllo della notizia. La proprietà dei mezzi si è trasferita a quella delle notizie.

“We journalists own the news, that we’re necessary to it, that we decide what’s reported and what’s important, that we can package the world for you every day in a box with a bow on it, that what we do is perfect (with rare, we think, exceptions), that the world should come to us to be informed, that we deserve to be paid for this service, that the world needs us”. Il cerchio è chiuso. La proprietà dei mezzi determina il controllo dell’informazione. E il controllo dell’informazione rende la stampa una realtà potente.

Il potere è un elemento dell’equazione. Un elemento che Megan McCardle aveva dimenticato. Ovviamente, i giornali servono per dare notizie; ma anche per progetti economici – rendere attraente una nuova area urbana precedentemente depressa, e costruirci sopra una speculazione; e politici – sostenere la candidatura di un politico o un altro.

Il giornale, soprattutto se assurge ad una diffusione nazionale, forgia narrative, costruisce modelli culturali, entra in ogni aspetto importante della vita dei suoi lettori. Tutto questo, naturalmente, significa che intorno a questi progetti, di qualunque natura siano, si raccoglie interesse: interesse economico. Soldi.
Perché il giornale, come tutte le creature economiche, non vive di buoni propositi.
Il giornale ha quindi un ruolo sociale. Ma questo ruolo può essere svolto soltanto se c’è qualcuno che continua a comprare i giornali e qualcun altro che non smette di pagare per metterci sopra la sua pubblicità. Così, quando i soldi che arrivano alle casse del giornale dai lettori o dagli inserzionisti iniziano a declinare, a declinare, e il declino non si ferma più.

Quando il giornale non sembra più essere il veicolo su cui costruire un progetto, o annunciare una conferenza, o cercare un amministratore delegato.
Quando emergono altri mezzi che permettono di aprire una conversazione con milioni di lettori ad un costo minimo.
Quando i conti cominciano a non tornare, e tutta la retorica costruita intorno al giornale che plasma il paese, sostiene un personaggio pubblico, o semplicemente trova il miglior candidato, evapora; quando non ci sono più i soldi per pagare i giornalisti, sostenere sedi estere, avviare inchieste.
Quando tutto questo accade, allora è il momento di voltare pagina. (Beh, buona giornata).

Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/la-stampa-americana-i-dettagli-di-una-crisi-epocale/5498?h=0.

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La quarta crisi: una stagione di tagli per l’editoria italiana.

Editoria in crisi/ Esuberi: 90 al Corriere, 60 alla Stampa. Tagli anche ad agenzie e free press
Dopo settimane di voci, indiscrezioni e soprattutto numeri approssimativi, sembra delinearsi un quadro completo sulla stagione dei tagli che coinvolgerà le principali testate italiane. -blitzquotidiano.it

Fra pensionamenti, prepensionamenti e mancati rinnovi ecco le cifre dell’autunno caldo della stampa italiana, come riporta il sito Affari Italiani.

La cura dimagrante al gruppo Rcs comprende i 90 esuberi al Corriere della Sera, cui si aggiungono le 180 unità in meno previste per il gruppo spagnolo Unedisa, controllato dall’editrice del Corriere.

Fra i primi quotidiani a varare un piano di ristrutturazione è stato La Stampa, poco dopo l’insediamento del nuovo direttore Mario Calabresi: il quotidiano della Fiat dal 1 settembre entrerà ufficialmente in stato di crisi per due anni. Il quotidiano torinese prevede di portare l’organico giornalistico al di sotto delle 190 unità: 26 i pensionamenti (ordinari) già concordati, cui si aggiungeranno altri 34 prepensionamenti volontari dopo il 1° settembre. Previsto anche il taglio di 76 poligrafici, sfruttando le nuove tecnologie che consentono di affidare direttamente ai redattori le funzioni di impaginazione. La strategia complessiva della società – scrive Italia Oggi – comporterà anche uno spostamento di pesi sulla parte multimediale e la chiusura del settimanale Specchio, il cui ultimo numero uscirà a luglio.

Sempre secondo Italia Oggi, anche il gruppo Mondadori si prepara ad accedere alle procedure previste dalla legge 416 e al fondo di 20 milioni stanziato dal Governo per i prepensionamenti: si dovrebbe arrivare a una riduzione di 80 giornalisti fra i periodici, e non è esclusa la chiusura (o la cessione) di qualche testata (nel mirino Economy).

Non si salva nemmeno la free press, con Dnews – il quotidiano fondato e diretto dai fratelli Cipriani dopo l’uscita da E Polis – che si trova a fare i conti con bilanci in rosso: facile prevedere una ristrutturazione e dunque pesanti tagli. Fra i quotidiani sportivi, quello più in crisi è Tuttosport il cui editore ha messo a punto un piano che prevede il taglio del 34% della redazione. Un piano definito “irricevibile” dai giornalisti.

Capitolo agenzie di stampa: la redazione di Apcom è in sciopero per protestare contro il taglio di 30 giornalisti sui 90 deciso dopo il passaggio sotto il controllo del Gruppo Abete, già proprietario dell’Asca. Dove si comincia a parlare di stato di crisi è anche all’Agi, controllata dall’Eni: l’ipotesi è di un tagli di una quindicina di redattori, su un totale di oltre un centinaio. (Beh, buona giornata).

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