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Sordi e sordidi.

 

Una anziana signora di Roma ha vinto la causa davanti al Giudice di Pace, che ha deciso di revocare la multa per la contravvenzione alle norme che vietano di usare il telefono mobile alla guida di un autoveicolo. La notizia è stata riportata da www.ilmessaggero.it, che ci dice anche il perché la multa è stata ritenuta ingiusta e ingiustificata: la signora è sordomuta, quindi fisicamente impossibilitata all’uso del telefonino, men che meno alla guida del sua auto.

Mi pare una allegoria dei tempi che corrono. La signora alla guida del Ministero dell’istruzione non ha voluto ascoltare le mille voci che chiedevano il ritiro del decreto legge che passerà alla storia col suo nome, tanto per fare un esempio di stretta attualità. Ma la sordità sembra essere un difetto molto diffuso.

Sordi ai cambiamenti del comportamento dei consumatori, molti investitori continuano a ritenere la tv il totem di tutta la comunicazione pubblicitaria, invece che mettere in campo tutta la filiera della comunicazione commerciale.

Sorde ai tempi che cambiano, molte agenzie di pubblicità continuano a far largo uso di testimonial, invece che di buone idee.

Sorda alla pluralità dei linguaggi moderni, la nostra tv sforna palinsesti decotti: saranno meno “ansiogeni” come chiede qualcuno, di sicuro appaiono sempre più inefficaci, sia agli ascolti che al successo delle marche e dei loro prodotti, come dimostrano i pesanti cali dei consumi.

Dice: ma c’è la crisi. Infatti, sorde alle reali preoccupazioni legate allo sfavorevole ciclo economico, le agenzie  di pubblicità italiane hanno dimenticato il valore della creatività, unica leva in grado di stimolare l’attenzione verso le marche.

Sordi ai fondamentali dell’advertising, i manager della pubblicità sono più creativi a tagliare che a investire nelle idee, dimenticando che la crisi è da sempre il terreno favorevole all’innovazione.

Ma loro, appunto, sono sordi, da quest’orecchio non ci sentono da tempo, da prima dell’attuale crisi.

Loro sono sordi, ma il mercato ci sente e ci vede bene. Infatti continua a punirli, tagliando i budget previsti in comunicazione per il prossimo anno. Ma loro, siccome sono sordi, fanno finta di niente, dicono che va tutto bene, rilasciano dichiarazioni roboanti, vantano acquisizioni, millantano solide relazioni con i clienti, inventano comunicati stampa surreali, mentre a casa affilano le lame dei tagli del personale. A forza di essere sordi, si diventa sordidi.

Quando non si sente il bisogno di cambiare, la sordità diventa cronica: infatti, siccome pare che a nessuno venga il sospetto che è giunto il momento di sturarsi  le orecchie  e ascoltare attentamente i cambiamenti, la pubblicità italiana è ridotta in uno stato terminale. Beh, buona giornata.

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Metti una sera a cena Berlusconi e i pubblicitari.

«Da presidente del Consiglio non ho poteri per intervenire, ma voi dovreste chiedere un incontro ai vertici della Rai. Dovreste chiedere se è mai possibile che le aziende investano in pubblicità senza veder mai diffusi messaggi positivi. Non dico tanto, almeno una volta». Queste parole, pronunciate durante una recente cena, alla quale partecipavano, tra gli altri, alcuni importanti manager della pubblicità italiana, sono state riferite da Francesco Verderami per il Corriere della Sera di sabato 25 ottobre (http://archiviostorico.corriere.it) e da Aldo Fantanarosa per Repubblica di domenica 26 ottobre (http://www.repubblica.it)

Il riferimento, secondo quanto è stato riportato dalla stampa sarebbe innanzi tutto alla persona di Michele Santoro e al suo Anno zero, programma di Raidue. Le implicazioni politiche che queste parole hanno sollevato appartengono allo scontro politico in atto, e quindi meriterebbero una disamina in altra sede.

Qui è invece il caso di affrontare la questione dal punto di vista pubblicitario. Come tutti sanno, l’efficacia del messaggio pubblicitario in televisione viene monitorato da aziende specializzate, che prendono in esame, attraverso criteri quantitativi, le percentuali di share  e di audience per fascia oraria e di penetrazione sui vari target, suddivisi per segmenti socio-demografici: età, reddito, aree geografiche.

E’sulla base di questi parametri che si costruiscono i palinsesti televisivi, che si propongono alle concessionarie di pubblicità gli spazi e i relativi costi, che poi si propongono alle aziende come efficaci veicoli di comunicazione commerciale.

Il tutto ha, almeno in apparenza, una autorevolezza tecnico- scientifica, che dovrebbe favorire la misurabilità dell’efficacia del messaggio e dunque la prova provata di un favorevole rapporto tra costi (budget pubblicitari) e benefici (penetrazione presso il target utile della buona reputazione di un prodotto pubblicizzato).

Il che detto in soldoni, suona più o meno così:  “Ecco dottore, guardi i dati, lei ha speso tot del suo budget su questo programma televisivo, che è stato visto da tot spettatori, che ha fatto un bel tot di ascolti, tra i quali c’era un tot del tot per cento di persone nella condizione di acquistare il suo prodotto. Contento, dottore?”

Se non che, le parole del capo del governo introducono un altro parametro: la fiducia verso l’opera del suo governo. Quindi bisognerebbe rifare daccapo tutti calcoli, vale a dire inventare una equazione in cui allo share e all’audience, accanto ai vari target e alle variabili socio demografiche, va aggiunta e calcolata l’incognita: non una x, ma una F, fiducia. E non una f minuscola, cioè rivolta la mercato, ma una F maiuscola, cioè rivolta all’operato del governo in carica.

Io c’ho provato e riprovato, ma alla fine è uscito sempre lo stesso risultato: pensavo a un nuovo modo di misurare la pubblicità,  e invece veniva fuori la vecchia storia della propaganda filo-governativa. Il che dimostra che proprio non funziona.

La propaganda ha la sua efficacia per la politica, ma ha caratteristiche molto passeggere e assolutamente mutevoli. Con la propaganda si può aumentare il gradimento del consenso politico con la stessa velocità con la quale lo si può perdere, come dimostra un recente sondaggio di Renato Mannheimer, pubblicato sul Corriere della Sera.

La pubblicità mira, invece, a una relazione stabile e duratura con la clientela di una azienda, una relazione capace di essere, per quanto possibile permeabile agli umori dei consumatori, di modo che si stabilisca quel circolo virtuoso che affini i gusti dell’acquirente e migliori l’offerta da parte della marca.

I clienti della pubblicità scelgono i mezzi di comunicazione di massa più idonei per raggiungere i loro clienti. Per una questione di affinità elettiva, mica elettorale. Beh, buona giornata.

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La bolla speculativa e le balle della propaganda.

La crisi finanziaria rischia di togliere, entro la fine del 2009, l’impiego a 20 milioni di lavoratori nel mondo. E’ l’allarme che ha lanciato in queste ore Juan Somavia, il direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

I settori più colpiti sarebbero quello delle auto, la finanza, i servizi, l’edilizia e il turismo. “Non è solo una crisi di Wall Street,  ma una crisi che interessa tutto il mondo”, dice  Somavia, che sottolinea che è necessario un piano di salvataggio che sia concentrato sull’economia reale e sulle questioni sociale.

Per il direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro è necessaria un’azione rapida e coordinata dei governi per prevenire una crisi sociale che rischia di essere “severa, lunga e globale”. A rendere ancor più preoccupante lo scenario il fatto che la crisi potrebbe colpire soprattutto i più “vulnerabili”.

Chi sono i vulnerabili ce lo ha detto un paio di giorni fa la Caritas italiana che stima intorno ai 15 milioni le persone che in Italia sono poveri o sulla soglia della povertà. Considerando che la popolazione italiana è composta da circa 57 milioni di abitanti, quindici milioni si traduce in una percentuale molto, troppo alta di persone vulnerabili alla crisi economica.

Insomma, come previsto anche dagli analisti economici più moderati, le conseguenze dell’esplosione della bolla dei mutui stanno deflagrando sull’economia reale, cioè sulla produzione, la commercializzazione e i consumi.

Le misure contro la crisi che i governi stanno prendendo, o per meglio dire stanno discutendo di prendere, riguardano  il salvataggio delle banche e il sostegno ad alcune industrie, prima fra tutte l’industria delle auto. Non è nell’agenda dei governi, per il momento alcun provvedimento a favore delle famiglie, del lavoro dipendente, delle piccole imprese.

Barak Obama ha presentato un piano su questi temi, ma è stato tacciato di essere “socialista” dal suo avversario, John McCain. Sarà la vis polemica della campagna elettorale, ma il fatto che non si prendano seriamente in considerazione le questioni sociali sollevate dalla crisi è grave e preoccupante.

Come in Italia, dove il Partito democratico ha presentato proposte simili, che non sembra siano entrate neppure nella polemica tra i due schieramenti, di cui quotidianamente televisioni e giornali ci fanno cortese omaggio.

Sarà, come dice l’Authority per le comunicazioni, che in Italia le reti televisive fanno smaccatamente il tifo per il governo in carica, fatto sta che sembrerebbe che l’opinione pubblica sia più preoccupata del caffè di mezza mattina di un impiegato pubblico “fannullone”, piuttosto che del ritorno del grembiulino a scuola, per non dire dell’amore mercenario nelle pubbliche vie.

Insomma, “il welfare del ricchi”, come Zygmunt Bauman ha definito il salvataggio delle grandi banche fallite per l’ingordigia dei mutui e l’avidità dei manager ha più successo dell’idea di un nuovo welfare a favore dei lavoratori e dei consumatori.

Bauman ha descritto un possibile scenario grottesco: lo stato dà soldi alle banche che così possono continuare a finanziare l’indebitamento perpetuo delle famiglie.

Se ci spostiamo sul terreno dell’economia reale in Italia, apprendiamo che, per esempio il governo ha intenzione di sostenere l’industria dell’auto con la “rottamazione”di vecchi modelli a favore di nuovi, in modo da incentivare l’utilizzo di quell’indebitamento per acquistare una nuova automobile. Pare lo stesso si voglia fare per gli elettrodomestici.

Siamo sicuri che così facendo non si perpetua il circolo vizioso tra soldi virtuali e indebitamento reale, che è esattamente quello che ha portato al fragoroso crack?

Siamo sicuri sia la ricetta giusta contro la recessione, parola che spaventa ma che siccome ci siamo  ormai dentro è inutile esorcizzarla facendo appelli alla fiducia, la quale invece sì rischia di diventare solo e soltanto una parola?

Siamo sicuri che basti mandare ministri nei talk show televisivi, intervistarli sui giornali amici o in quasi tutti i telegiornali perché i cittadini non comincino a dubitare seriamente della capacità del governo di contrastare la crisi,economica ma anche sociale, che come ci ricordano i più avvisati sarà “severa, lunga e globale”?

Anche la pubblicità, che potrebbe servire a favorire il volano dei consumi se la passa male. Secondo gli analisti la stessa Mediaset ha chiuso i primi nove mesi dell’anno con un 2 per cento positivo e spera di mantenerlo anche nell’ultimo trimestre dell’anno, per rimanere negli obiettivi. Comunque, a Piazza Affari ci sono due scuole di pensiero: c’è chi consiglia di vendere il titolo, chi suggerisce di tenerlo.

Tutto il resto è preoccupante: sulla spinta di disinvestimenti della marche globali, molto presenti nel nostro mercato la pubblicità italiana ha smesso di soffrire e ormai comincia a sentirsi male sul serio: la previsione di fine anno è -3%.

Il fatto nuovo è che se la carta stampata piange, la tv fatica,  è la volta di internet a non sorridere più.

Negli Usa internet “frena” (-0,3%); in Italia, a fronte di espansioni di investimenti degli ultimi mesi tra il 40 e il 45%, la stima per fine 2008 si attesterebbe intorno al 23%: una frenata che rischia di lasciare sull’asfalto quasi la metà dei pneumatici di questo nuovo e promettente veicolo di comunicazione commerciale.

In tutto questo, ci vorrebbe una bella dose di creatività: in politica, in economia, ma anche in pubblicità (nella finanza no, per favore, abbiamo già dato!). Ma anche su questo terreno siamo un po’ scarsi: “si lavicchia”, avrebbe detto Totò. Beh, buona giornata.

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Tornare a dire di no è un nuovo inizio.

Qualche giorno prima dell’inizio delle vacanze estive, durante un’affollatissima riunione di brief per la comunicazione pubblicitaria a favore di un importante consorzio italiano, un famoso pubblicitario italiano si è alzato è ha detto no. Ha detto di non essere d’accordo col metodo, di non condividere e dunque di non poter aderire al modo in cui si voleva svolgere la  consultazione. Poi, se ne è andato, lasciando la riunione.

La cronaca ci dice che in seguito, il consorzio ha annullato la procedura, per riconvocare un numero ristretto di agenzie, alle quali assegnare il compito di realizzare la campagna pubblicitaria.

La notizia ha fatto notizia. E la cosa ha fatto piacere a chi sta a cuore il corretto svolgimento delle gare per l’assegnazione di un budget pubblicitario. In particolare, la cosa mi ha fatto piacere perché la persona che si è alzata e ha detto no! è il decano dei pubblicitari italiani, è un uomo di cui coltivo amicizia personale e stima professionale da molti anni: Emanuele Pirella.

Ma la notizia ha fatto notizia perché da anni le agenzie di pubblicità e i loro rappresentanti hanno smesso il ruolo di protagonisti del mercato, diventando comprimari di regole sregolate, di inciuci compromissori, di sudditanza psicologica e fattuale, di labili comportamenti etici: pur di prendere un budget si fa di tutto, meno quello che sarebbe giusto fare. E si è trascinata la pubblicità italiana in limbo di incertezze. Quando il metodo è sbagliato, la pubblicità è brutta, cattiva, senza anima, senza prospettive.

Siccome il mercato è fatto di chi fa il mercato, la responsabilità di questa situazione ha tanti nomi e c
ognomi, quanti sono i top manager della pubblicità italiana di questi anni. 

Come nella famosa favola, Pirella si è alzato e ha detto, molto semplicemente:“il Re è nudo”. Era estate ma sembrava autunno per quante foglie di fico son cadute.  Beh, buona giornata.

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Come fare quello che bisognerebbe fare per salvare la pubblicità italiana dal ginepraio in cui si sta cacciando.

Sarà l’autunno del nostro scontento . Ma quello che succederà il prossimo autunno è già successo tra la primavera e l’estate. A metà del’anno si fanno i conti e si formulano le previsioni. Così vogliono le procedure imposte dalle holding di comunicazione quotate in Borsa.

Ancora una volta i conti non tornano: la pubblicità italiana soffre gli atroci dolori della sua crisi. Alcune personalità, importanti a vario titolo, si sono ritirate,  sono uscite o stanno per uscire dal mercato. Alcuni direttori creativi sono stati allontanati dalle agenzie e andranno a ingrossare la già folta schiera dei free-lance. Alcune sigle storiche dell’advertising italiano o hanno staccato la spina o si sono apprestate a cambiare pelle.

Emanuele Pirella, protagonista in prima persona e testimone oculare di  lungo corso, sostiene si tratti di una fisiologico ricambio, come è spesso e ciclicamente avvenuto  in diversi periodi, se non proprio della storia, quanto meno della cronaca della pubblicità italiana. Tuttavia ciò che è avvenuto nella prima metà del 2008 e soprattutto quello che sta per avvenire tra qui e il 2009 sembra la vera e propria chiusura di un ciclo.

E’ vero che la situazione economica e finanziaria del nostro Paese è alquanto critica: la crisi energetica ha fatto impennare l’inflazione al 4 per cento, contemporaneamente l’aumento generalizzato dei prezzi ha impoverito le famiglie: alcuni prezzi al consumo di beni primari sono schizzati in alto,oltre il 20 per cento, mentre le retribuzioni medie, ferme da anni, per alcuni  addirittura da dieci- quindici anni, hanno determinato una flessione media della propensione al consumo, un crollo delle vendite al consumo intorno al 3,4 per cento.

Per dirla in soldoni, gli italiani spendono meno, dunque consumano meno. Poiché il ciclo economico della nostrana comunicazione commerciale è legato a filo doppio all’economia americana, per via del fatto che la maggior parte delle agenzie e delle strutture sono di proprietà di holding finanziarie anglo-americane, il quadro della situazione viene e verrà ulteriormente aggravato dalla crisi economica americana.

Chi ha ascoltato attentamente le parole di Barak Obama alla Convention democratica di Denver non può che essere rimasto profondamente colpito dal passaggio del suo speech in cui ha apertamente dichiarato la crisi che vivono i ceti medi americani: perdita del lavoro, perdita materiale della casa, fagocitata dall’impossibilità di onorare i mutui, addirittura l’abbandono delle auto nuove, per via dei costi parossistici del carburante. 

Alcune big company statunitensi hanno nei mesi scorsi operato forti tagli ai budget pubblicitari.  Nello stesso tempo, i network internazionali chiedono aumenti  delle revenue alle unit locali, per compensare le perdite previste sui fatturati worldwide. Ed ecco allora che una tenaglia incandescente stritola le agenzie di pubblicità: da un lato la crisi taglia budget, dall’altro la stessa crisi esige più fatturato.

La risposta che nell’immediato cercano i manager della pubblicità italiana è semplice, prevedibile: quando tagliare i costi delle spese generali non basta più, si ricorre all’espulsione delle persone, per rimpiazzarle  con professionalità a basso costo, magari con contratti individuali molto flessibili.

Che tipo di qualità si riesca a garantire ai clienti, passa in secondo piano rispetto all’imperativo categorico di salvare il salvabile dei conti delle agenzie italiane. E così la crisi si avvita su se stessa, in una spirale in cui i tagli spingono alla bassa qualità, la bassa qualità spinge all’omologazione.

Molti clienti italiani della pubblicità sostengono che tutto sommato non c’è più una sostanziale differenza tra un’agenzia e l’altra. Per questo non è raro vedere un budget passare di mano, continuando la stessa creatività, la stessa pianificazione media, ma molto probabilmente venir remunerata con una percentuale più bassa. O vedere gare-ammucchiata, in cui mettere in competizione lo sconto, invece che l’idea di marketing, l’intuizione creativa, la soluzione brillante alle problematiche del cliente e del suo mercato.

Le difficoltà finanziarie delle agenzie di pubblicità sembrerebbero in realtà l’ultima spiaggia di un arretramento culturale, organizzativo, pedagogico, culturale, sempre più spesso etico. La crisi dell’agenzia  di pubblicità sembra una crisi strutturale, più che congiunturale. 

La forma-agenzia sembra  non corrispondere più alla realtà . Sembrerebbe che mentre l’Agenzia vive  il Cliente come un problema di redditività, il Cliente chiede, anche inconsapevolmente  un  sistema integrato di informazione e di comunicazione, cui corrisponda un mondo di riferimento dai connotati ben definiti, permeabile all’innovazione, con una sostanziale e sostanziosa autorevolezza, in gran parte già proiettata nel futuro prossimo.

Stritolata dalle incombenze finanziarie, inaridita di talenti, appesantita dalla burocrazia interna, legata mani e piedi alle logiche dei quartier generali internazionali, l’Agenzia sembra miope col Cliente, presbite col mercato: non ha più sottomano strumenti interpretativi, e di conseguenza organizzativi per raccogliere una sfida più alta per la comunicazione commerciale e pubblicitaria attuale, alla quale sfida dare risposte, che andrebbero cercate, organizzate e rese produttive nella totale discontinuità col passato.

E’ un male comune a tutta la pubblicità italiana: non comprendere le potenzialità del mercato, rappresentate dai propri clienti, dalle loro dinamiche, dalle loro prospettive di sviluppo; a cui corrisponde la tentazione di rimanere arroccati, nella forma e nella sostanza all’idea di agenzia  così come si è  sviluppata e ha cominciato a operare a partire dalla seconda metà del secolo scorso.

Superati gioco-forza i canoni classici così come si erano definiti negli anni scorsi, l’agenzia di pubblicità da tempo non vive più della percentuale che i mezzi gli erogano per  riconoscergli l’intermediazione tra il cliente e i media. Questa attività è infatti da tempo passata alle agenzie  media. L’agenzia ha spostato la sua fonte di reddito sull’intermediazione con altri fornitori: produzione stampa, cinema e tv, radio, web, diritti, eventi. Contemporaneamente, l’agenzia ha inventato  una serie di tecniche di remunerazione: fee, minimi  garantiti, minimi variabili, bonus, mark up su extra-costi di varia natura.

Ne è nata una complessa attività di gestione, che ha determinato un forte attenzione su queste voci, sia da parte del cliente che dell’agenzia.  Il luogo comune vuole che l’agenzia tenti disperatamente di guadagnare su tutto. Ciò che ha reso sempre meno credibile l’agenzia  agli occhi del cliente sta nel semplice fatto economico secondo il quale meno ore-uomo dedicate, più guadagno per l’agenzia.

Non si darebbe discontinuità col passato se non si superasse il concetto di intermediazione, dunque la forma-agenzia in quanto tale. A poco sono valsi e varranno i tentativi, spesso un poco goffi, di dotare la struttura di altri comparti, di immaginare,  in effetti più a parole che nei fatti, approcci olistici, multidisciplinari, multicanale.  

Come fare quello che bisogna fare dovrebbe risultare semplice:  tagliare i lacci e i laccioli delle percentuali significherebbe sgombrare per sempre il campo da vecchi vizi e nuovi  fraintendimenti.  La creatività pubblicitaria non è uno dei servizi offerti dall’agenzia. La creatività è il prodotto di un’attività intellettuale organizzata, tesa a fornire idee, intuizioni, visione d’insieme tra marketing, commercializzazione e comunicazione dei prodotti o dei servizi del committente. 

Discontinuità, dunque.  Perché la creatività pubblicitaria organizzata è l’unica vera, concreta e misurabile attività capace di dare vita a un nuovo ciclo, che sia in grado di far uscire il mercato della pubblicità dalla mangrovie pungenti della crisi della forma-Agenzia, che  sia capace di attraversare le strettoie della crisi economica mondiale e delle sue pesanti ricadute nazionali, quella stessa crisi che dal prossimo autunno ci farà la sua sgradevole, ma in fin dei conti utile compagnia per tutto il prossimo anno. Per fare quello che bisognerebbe fare si dovrebbe dare  alla luce una agenzia di pubblicità di nuova generazione.

La creatività è tutto, è un tutt’uno nella produzione delle idee e nella sua gestione. Questa attività  dovrebbe e potrebbe essere remunerata con una sola e unica voce di spesa da parte del Cliente. Tutto compreso, chiavi in mano. Non si tratta di rinunciare all’attività di consulenza per la scelta del miglior fornitore possibile per il cliente,  del miglior prezzo, si tratta semplicemente di  non ricavarci alcuna fonte di guadagno. Perché la ragione sociale dell’agenzia di nuova generazione è fornire idee, fornire creatività pubblicitaria organizzata, non fare mera intermediazione commerciale.

Un’agenzia di pubblicità di  nuova generazione che sappia  sviluppare la sua attività e la sua stessa ragion d’essere in un mercato che non vede più la centralità del media classici. Né creda di crescere nel tentativo di applicare meccanicamente le vecchie regole ai nuovi media.

Un agenzia di nuova generazione che legga il mercato della comunicazione di massa come un terreno neutro rispetto ai media, nel quale i messaggi possano passare da un veicolo all’altro, possano agire e interagire con i destinatari del messaggio pubblicitario.

Un’agenzia di nuova generazione che si rifiuti di credere che i consumatori moderni siano semplici target. I nuovi mezzi di comunicazione sono a due vie, sono interattivi, dunque i  consumatori , anche quando accedono ai media classici hanno imparato e essere  interlocutori attenti,  non più destinatari passivi.

E’, allora,  necessaria una forte attitudine a capire e includere nuovi e più articolati comportamenti soggettivi, valutare le emotività collettive, intuire le tendenze in nuce. L’agenzia di nuova generazione deve sapersi misurare col vivere e il pensare collettivo, come il giornalismo, la letteratura, l’arte, il design.

Un’agenzia di nuova generazione  che si sappia misurare in profondità con i segmenti merceologici su cui via via si impegna, per ricavarne conoscenza, arricchirsi di esperienza, produrne cultura, da condividere col Cliente.  L’agenzia di nuova generazione  ha molte buone ragioni , ma allo stesso tempo non ha alternative: deve essere creativa in tutti i suoi approcci.  Ma per costringere se stessa a essere sempre e solo creativa, l’agenzia di nuova generazione deve essere leggera.

Le vecchie agenzie hanno presidenti, vice, ad, direttori generali, supervisori finanziari. La vecchie agenzie spendono più tempo e denaro per alimentare la propria verticalità di quanto ne spendano per studiare, capire e risolvere le problematiche del cliente.

L’agenzia di nuova generazione dovrà essere  orizzontale nei rapporti con i collaboratori, perché avrà bisogno del loro cervello, non della loro obbedienza.  L’agenzia di pubblicità di nuova generazione dovrà essere  leggera perché  mirerà  sempre alla qualità del prodotto creativo. La creatività pubblicitaria organizzata vive i criteri organizzativi come mezzi, non come fini: essi servono alla creazione di clima favorevole alla creatività.

Più l’agenzia di nuova generazione sarà capace di rimanere leggera, più sarà  capace di essere flessibile nella struttura, inflessibile nei comportamenti dei singoli collaboratori: niente sprechi di tempo e denaro, niente risparmi di energie per i suoi clienti. 

Creatività pubblicitaria organizzata è il modello di business dell’agenzia di pubblicità di nuova generazione. Sarà competitiva non perché costa di meno, ma semplicemente perché vale di più: saprà come creare valore senza dare vita a costi inutili.

Arriva l’autunno, tempo di semina. Rimbocchiamoci le maniche, prima che arrivi il lungo e gelido inverno della peggiore crisi economica degli ultimi anni. Beh, buona giornata.

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Quando un apostrofo sbagliato manda in vacca la festa.

E’ un vero peccato. I news magazine italiani pubblicano questa settimana un annuncio in pagina singola di una famosa e molto prestigiosa marca di orologi svizzeri. L’annuncio in questione è quello che ci si aspetta da un prodotto di lusso: rigoroso, pulito nella grafica, arguto nel titolo.

Però, c’è un brutto però: c’è uno stupido errore di grammatica. È stato proditoriamente apostrofato l’articolo indeterminativo singolare maschile. Insomma, c’è scritto: “un’ altro”.

Che peccato. L’allure della prestigiosa marca, la percezione dell’assoluta precisione dei maestri orologiai svizzeri, la reputazione della cura maniacale nella soddisfazione del cliente, tutto in vacca per un maledetto apostrofo. Che uno dice: ma se siete davvero così precisi come mai non lo siete stati nello scrivere, nell’impaginare, nel controllare l’esecutivo, nel darlo alle stampe?

Ad aggravare la situazione, l’annuncio pubblicitario in questione celebra quasi un secolo e mezzo di vita e di successi, con una preziosa riedizione di un modello di alto prestigio. Ecco come, dunque, l’apostrofo sbagliato ha mandato in vacca una bella festa.

Lo sappiamo tutti che gli errori sono sempre in agguato, come i briganti con lo schioppo gli errori tentano di tagliarti la gola quando meno te lo aspetteresti. Magari dell’apostrofo galeotto se n’è accorto qualcuno e la regola grammaticale verrà ripristinata prontamente nelle prossime uscite.

Rimane il fatto. Quando una marca è sinonimo di precisione, lo deve essere anche la pubblicità firmata dalla marca. A questa precisione devono concorrere tutti. Se no la pubblicità è capace di vendicarsi, vale a dire riesce in una frazione di secondo a creare più danni che benefici.

Non so se un apostrofo è l’equivalente di un centesimo di secondo. In ogni caso, perdere un centesimo di secondo è grave per una prestigiosa marca di orologi svizzeri, esattamente come mettere un apostrofo nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Pubblicità e mass media

Quante favole sentiamo ogni giorno?

Uno studio della Boston School of Medicine dimostrerebbe che leggere ad alta voce ai bimbi in età prescolare aumenta lo sviluppo del loro linguaggio, dandogli un bagaglio linguistico migliore, con vantaggi che perdurano negli anni.

Inoltre, il racconto del genitore al bambino ha un effetto prodigioso in quanto sarebbe un mezzo fortissimo di scambio emotivo.

Insomma, leggere le fiabe ai bimbi li aiuta ad andare meglio a scuola, ad acquistare l’arte del linguaggio prima e in modo migliore. Forse gli aiuterebbe a sviluppare la fantasia, sapendo riconoscere il vero dal falso, l’immaginifico dal reale.

Forse a tutti quelli che vanno in giro a raccontare panzane sulla pubblicità italiana sono mancati genitori che gli leggevano le favole da piccoli. E allora, per far vedere che sono grandi, le favole se le raccontano da soli. Con l’aggravante che lo fanno ad alta voce davanti al taccuino del cronista o al microfono di una qualche emittente.

Le favole per bambini sono quelle storie che cominciano con “c’era una volta” e finiscono con “e vissero felici e contenti”. Le favole raccontate dai grandi cominciano male: vogliono subito dirti che sono felici e contenti. Come tutte le bugie, queste sono storie che finiscono prima ancora di incominciare. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

I furbetti del lay-out-tino.

La scorsa domenica, Eugenio Scalfari ha scritto che il problema del cinema italiano è la perdita di un linguaggio comune e condivisibile. L’affermazione ha la sua importanza, poiché cade durante il festival di Venezia. Ma il suo ragionamento è estendibile a altri settori della comunicazione, come si definiscono oggi tutte le discipline, i mestieri, le professioni che hanno a che fare col comunicare un idea, un pensiero, un punto di vista.

Non è una caso, che Eugenio Scalari citi il giornale di cui è stato il fondatore come un esempio di innovazione del linguaggio della carta stampata.

Le riflessioni di Scalfari hanno provocato un piccolo ragionamento sul linguaggio della pubblicità italiana. Il ragionamento è questo.

1) La pubblicità italiana è tra le più mediocri del mondo occidentale, dal punto di vista creativo: lo dicono tutti i più importanti appuntamenti di confronto tra le diverse culture della comunicazione commerciale;

2) la pubblicità italiana è tra le più eccellenti del mondo occidentale dal punto di vista economico, con particolare riferimento alla pubblicità televisiva: chi possiede un network televisivo fa e disfa a suo piacimento;

3) la pubblicità italiana è la più politica del mondo occidentale: il sistema televisivo, mezzo principe in Italia è regolato da alchimie di tipo politico, dunque anche l’accesso a budget di questa o quella azienda si muove rispetto a queste regole. Basti pensare all’equazione tra il maggiore partito rappresentato in Parlamento, sia pur attualmente all’opposizione e il maggiore network televisivo commerciale, attualmente maggioritario nella raccolta pubblicitaria;

4) la pubblicità italiana oggi non ha un linguaggio culturale, ma economicista, lobbysta, spartitorio, furbastro: basta leggere i comunicati stampa che si vantano di questa o quella acquisizione di budget pubblicitari, di cui sono pieni i news-magazine del settore, ogni giorno.

Non c’è un linguaggio unitario, condivisibile, formativo, innovatore della creatività italiana per il semplice motivo che le idee sono l’ultima ruota del carro, nella santa processione del business della pubblicità italiana.

A questo contribuiscono, in piena flagranza del reato di eccesso colposo di buona volontà molti creativi pubblicitari italiani. Tra loro c’è chi eccelle nel cinismo della loro mediocrità, professionale e culturale. Di quella umana, boh!

Sono coloro che furono allievi di grandi maestri dell’advertising italiano, ma che del loro maestro hanno creduto di imitare gli aspetti esteriori, non quelli intrinseci, che ne hanno fatto, giustamente, punti di riferimento professionali per più di una generazione di creativi. Anzi, candidandosi ad esserne epigoni, dicono in giro del loro disturbo psicanalitico: uccidi il padre è il loro leit-motive.

Ben presto dimentichi degli insegnamento più preziosi, tra cui l’onestà intellettuale che accompagna ogni minuto la creazione di una campagna pubblicitaria, per il semplice fatto che va sotto gli occhi di milioni di persone, i nostri furbetti del lay-out-ino inanellano sciocchezze: si vantano di una campagna scema e già vista, non distinguono il buono dal marcio, ascoltano il suono delle loro parolette e si credono di alta statura professionale, scambiando il sistema metrico decimale con lo spessore professionale.

Ai tempi dell’odiato Gavino Sanna, che li apostrofava con la dicitura “piscia-letto”, nascosti tra la piccola folla del popolo dei creativi fischiavano in platea i suoi successi.

Oggi che “il popolo dei creativi”, come Pirella definì la moltitudine di copy e art che negli Ottanta entrarono nel mondo della pubblicità italiana, attirati, appunto da quel linguaggio che oggi non sembra più esserci, ecco che i furbetti del lay-out-ino sono feroci come caporali napoleonici, al tempo di Sant’Elena.

I furbetti del lay-out-tino non rispettando i loro maestri, non rispettano il loro lavoro, quindi non sanno del rispetto verso i lettori, gli ascoltatori, i telespettatori.

In ultima analisi, essi non sanno nulla del rispetto che si deve al committente, alla disciplina umana e professionale che si deve a chi paga il conto della creatività. Li prendono in giro con la loro prosopopea e con l’altisonanza dei titoli sui biglietti da visita, magari, come bagarini, con la promessa di un posto comodo per godersi la partita.

I furbetti del lay-out-ino sono come cavallette che distruggono, per via della loro ingordigia, dell’ansia di fama, del loro ego, magari di un bonus di fine anno, che distruggono reputazioni delle persone prima e delle marche poi, con il sorriso ammiccante dalla fotina che per piaggeria campeggia sull’articoletto del giornaletto di settore.

Ignari, o forse cinicamente noncuranti, addirittura consapevoli, che tanto di questa o quella testata non gliene frega un bel niente, gli si può raccontare ogni fandonia, che tanto quelli la pubblicano, che se no, magari, gli togliamo l’abbonamento. E così si chiude il circolo vizioso della mancanza di rispetto del lavoro degli altri.

Lo sappiamo tutti che la fretta (di apparire) passa, ma la merda (di certi comportamenti) rimane. Ma a loro che gliene importa. Sono i furbetti del lay-out-ino. Beh, buona giornata.

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