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Signore e signori, ecco a voi la crisi in tutto il suo splendore.

Nel 2009 ci saranno 1,9 milioni di disoccupati, un picco massimo rispetto a poco più di 1,5 mln nella media del 2007. Sono le nuove stime dell’Ufficio studi di Confcommercio, che prevede dunque per il 2009 e il 2010 un incremento inferiore all’8%.

Come se non bastasse, se il dato dovesse però superare la soglia dell’8%, questo “implicherebbe una riduzione del reddito disponibile reale che impatterebbe sui consumi e questo potrebbe indurre a rivedere al ribasso le previsioni”.

Come è noto, la pubblicità è l’anima del commercio, ma in Italia la pubblicità è nel comparto del commercio. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“Socializzare le perdite, privatizzare i profitti.”

NON TOCCA A NOI PAGARE LA LORO CRISI! PDF Stampa E-mail
da sdlintercategoriale.it 
 

Appello internazionale già sottoscritto da 30 organizzazioni sindacali tra cui SdL intercategoriale

Partita dagli Stati Uniti, la crisi finanziaria si è estesa al mondo intero, per due ragioni. Innanzitutto, tutti i meccanismi che avrebbero potuto arginarla sono stati distrutti dalla deregulation finanziaria attuata dai governi, che hanno rimosso ogni ostacolo alla libera circolazione dei capitali.

Inoltre, poiché quasi tutte le istituzioni finanziarie del mondo hanno partecipato alla corsa alle speculazioni in ambito finanziario, nessun paese è stato protetto dalla deflagrazione.

 

Questa crisi è la prova del fallimento totale dell’ideologia neoliberista e delle politiche che mirano a mettere le sorti dell’umanità nelle mani del mercato.

Se non fosse in gioco il destino di miliardi di esseri umani, verrebbe da ridere a vedere quelli che erano gli adoratori beati della libera concorrenza, come i nostri governanti, trasformarsi in apostoli dell’intervento dello Stato. Ma questa apparente inversione di tendenza non deve ingannare nessuno.

Perché l’invocato intervento dello Stato è finalizzato a salvare interessi privati, secondo la ben nota regola “socializzare le perdite, privatizzare i profitti”.

Così migliaia di miliardi di denaro pubblico, i nostri soldi, vengono oggi riversati senza batter ciglio nelle tasche di banche e grandi azionisti da salvare, mentre è “impossibile” destinare la minima risorsa a far fronte ai bisogni sociali.

Ma non è tutto. La crisi finanziaria ha colpito l’economia reale, c’è la recessione con il suo strascico di licenziamenti; padroni e governi sono ben decisi a continuare ad attaccare i diritti sociali di lavoratrici e lavoratori, soprattutto sul terreno della previdenza sociale, del welfare e del diritto del lavoro.

Il loro obiettivo è di far pagare la crisi a lavoratrici e lavoratori, predicando l’“unità nazionale” in ogni paese per cercare di indorare la pillola.

In quanto sindacaliste e sindacalisti, noi costruiamo invece la solidarietà internazionale di lavoratrici e lavoratori per contrastarli! Padroni e azionisti si sono ingozzati di dividendi, sgravi fiscali di ogni genere, remunerazioni demenziali e si sono assicurati delle fortune la cui entità supera la comprensione.

Tocca a loro pagare la loro crisi.

A noi tocca il compito di imporre le nostre esigenze sociali. Più che mai, la mobilitazione di lavoratrici e lavoratori è all’ordine del giorno. Per salvare il loro sistema capitalista, loro si sono organizzati internazionalmente: Il movimento sindacale deve agire al di sopra delle frontiere per imporre un sistema alternativo a quello che sfrutta chi lavora, saccheggia i paesi sottosviluppati, pianifica a tavolino la carestia in gran parte del pianeta… Ovunque ci troviamo, sviluppiamo il conflitto sociale e costruiamo la resistenza comune!

Union syndicale Solidaires (Francia) 

  • Sindacato dei Lavoratori Intercategoriale SdL Intercategoriale (Italia) 
  • Union Syndicale des Travailleurs Kanaks et Exploités USTKE (Kanaky) 
  • Syndicat National Autonome des Personnels de l’Administration Publique SNAPAP (Algeria) 
  • Confederazione Unitaria di Base CUB (Italie) 
  • Confederazione Italiana di Base Unicobas (Italia) 
  • Confederazione COBAS (Italia) 
  • Conseil des Lycées d’Algérie CLA (Algeria) 
  • Syndicat des Travailleurs Corses STC (Corsica) 
  • Syndicat indépendant des écoliers, des étudiants et des apprentis SISA (Suisse) 
  • Syndical libre Agosto 80 (Polonia) 
  • La Fragua (Argentina) 
  • Confederazione Intersindacale (Stato Spagnolo) 
  • Coordinadora Sindical (Stato Spagnolo) 
  • Sindacato dei Lavoratori Andalusi STA (Andalusia) 
  • Intersindacale Canarie 
  • Intersindacale Aragona 
  • Intersindacale Baleari 
  • Intersindacale Valencia 
  • STEE-EILAS (Paesi Baschi) 
  • Corrente sindacale di sinistra Asturia 
  • Confederazione Intersindacale Alternativa d Catalogna IAC (Catalogna) 
  • Central de los Trabajadores Argentinos CTA (Argentina) 
  • Central Unitaria de los Trabajadores CUT (Colombia) 
  • Confédération des Syndicats Autonomes CSA (Sénégal) 
  • Renouveau de l’Action Syndicale RAS (Congo) 
  • Fédération SUD service public (cantone del Vaud, Svizzera) 
  • Syndicat unique des travailleurs des transports aériens et activités annexes du Sénégal SUTTAAAS (Sénégal) 
  • Organisation Démocratique du Travail ODT (Maroc) 
  • Confederacion General del Trabajo CGT (Etat espagnol)

 

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Di seguito la versione in francese, inglese e spagnolo dell’appello

NOUS N’AVONS PAS À PAYER LEUR CRISE !

Partie des Etats-Unis, la crise financière s’est étendue au reste du monde et ce pour deux raisons. Tout d’abord, tous les pare-feux qui auraient pu permettre de la contenir ont été détruits par la déréglementation financière mise en œuvre par les gouvernements, aucune entrave n’étant plus mise à la libre circulation des capitaux. Ensuite, la quasi totalité des institutions financières du monde ayant participé à la course spéculative engagée dans la finance, aucun pays n’a été protégé de la déflagration. Cette crise marque l’échec absolu de l’idéologie néolibérale et des politiques qui visent à confier au marché le sort de l’humanité. Si le sort de milliards d’êtres humains n’était pas en jeu, il serait comique de voir ceux qui, comme tous nos gouvernants, étaient des adorateurs béats de la libre concurrence, se transformer en apôtres de l’intervention de l’Etat. Mais ce changement de posture ne doit tromper personne. Car s’ils décident que l’Etat intervienne, c’est pour sauver des intérêts privés suivant le précepte bien connu : “socialiser les pertes et privatiser les profits”. Ainsi des milliers de milliards d’argent public, notre argent, sont aujourd’hui déversés, sans discuter, pour sauver les banques et les actionnaires, alors qu’il est « impossible » de trouver le moindre sou pour répondre aux besoins sociaux. Mais ce n’est pas tout. La crise financière a touché l’économie réelle, la récession est là avec son cortège de licenciements ; patrons et gouvernements sont bien décidés à continuer à s’attaquer aux droits sociaux des salarié-e-s, notamment en matière de protection sociale ou de droit du travail. Leur objectif est de faire payer la crise aux salarié-e-s en prônant dans chaque pays « l’unité nationale » pour essayer de faire passer la pilule. Syndicalistes, nous construisons la solidarité internationale des travailleurs/ses pour leur répondre ! Les patrons et les actionnaires se sont gavés de dividendes, de cadeaux fiscaux de toutes sortes, de rémunérations démentielles avec, à la clef, des fortunes qui dépassent l’entendement. C’est à eux de payer leur crise. A nous de leur imposer nos exigences sociales. Plus que jamais, la mobilisation des salarié-e-s est à l’ordre du jour ! Pour sauver leur système capitaliste, ils sont organisés internationalement : le mouvement syndical doit agir à travers les frontières pour imposer un autre système que celui qui exploite les travailleurs/ses, pille les pays sous développés, organise la famine d’une partie de la planète, … Partout, développons les luttes sociales, et construisons la résistance commune !

 

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WE DON’T HAVE TO PAY FOR THEIR CRISIS!

Originated in the US, the financial crisis spread to the rest of the world for two reasons. The first of them is that all the firewalls that could have been able to contain it had been destroyed by the financial deregulation put in force by the governments, with no more interference with the free circulation of capital. The second one is that because of the involvement of the world financial institutions into the financial speculative run, no country had been protected from the explosion. This crisis shows the absolute failure of both the neoliberal ideology and policies whose aim is to entrust to the market the future of the humanity. If the destiny of billions of human being were not at stake, it should be comical to see those who, as for example our governments, were blessed worshippers of free competition, transformed into apostle of State intervention. But this move in the posture must not mislead anyone. Because if they decide that the State has to intervene, it’s only in order to save private interest according to the well-known precept: “socialize the losses and privatize the profits”. Thus, thousands of billions of public money, i.e. our money, are to-day poured, without any bargaining, in order to save the banks and the shareholders. At the same time, it is said that it is “impossible” to find out a single penny to satisfy social needs. But that’s not all. The financial crisis impact the “real economy” , the recession is there, with a lot of redundancies. Employers and governments are well decided to attack the social rights of the employees, especially about social protection and labour laws. Their aim is to make the employees pay for the crisis, advocating in each country “national unity” in order to get them to accept that. We have to build up international solidarity to riposte! Employers and shareholders filled up with dividends, tax exemptions, mad remunerations, with fortunes beyond all understanding as well. They have to pay for their crisis. It’s up to us to impose them our social claims. More than ever, the agenda is to mobilize the employees! To save their capitalist system, they are worldwide organize: the trade union movement must act throughout boundaries in order to impose an other system that this one which exploit the employees, pillage the developing countries, organize the famine in a part of the planet….. Everywhere, we have to develop social struggles and build up a common resistance!

 

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NO NOS TOCA PAGAR SU CRISIS!

La crisis financiera arrancó en EE-UU, y se extendió al mundo entero por dos motivos. Primero, todos los cortafuegos que habrían podido mantenerla a raya han sido destruidos por la desregulación financiera implementada por los gobiernos, pues ya no existe ninguna traba para la libre circulación de los capitales. Luego, habiendo participado la casi totalidad de las instituciones financieras del mundo en la carrera especulativa que se da en la banca, ningún país se halló a salvo de la deflagración. Esta crisis significa el fracaso integral de la ideología neoliberal y de las políticas cuya óptica es entregar al mercado la suerte de la humanidad. Si la suerte de miles de millones de seres humanos no estuviera en juego, sería para reírse ver a quienes, como todos nuestros gobernantes, eran adoradores beatos de la libre competencia, convirtiéndose en apóstoles de la intervención del Estado. Pero ese cambio de postura no debe engañar a nadie. Pues si deciden que intervenga el Estado, es para salvar intereses privados según el conocido precepto: “socializar las pérdidas y privatizar las ganancias”. Así billones de dinero público, nuestro dinero, se vierten hoy día sin regatear para rescatar los bancos, mientras que resulta “imposible” encontrar ni un real para responder a las necesidades sociales. Pero hay más: la crisis financiera ha alcanzado la economía real, la recesión está aquí, con su comitiva de despidos; patronos y gobiernos se ven muy resueltos a seguir atacando los derechos sociales de l@s asalariad@s, tanto en la protección social como en el derecho laboral. Su objetivo es hacer pagar la crisis a l@s asalariad@s, pregonando en cada país “unidad nacional” para tratar de que traguemos la píldora. Sindicalistas, vamos construyendo la solidaridad internacional de l@s trabajadores-as para responderles. Los patronos y accionistas se han atiborrado de dividendos, de regalos fiscales de toda clase, de remuneraciones demenciales, que desembocaron en fortunas propiamente inimaginables. A ellos les toca pagarse su crisis. A nosotros, imponer nuestras exigencias sociales. ¡Más que nunca, la movilización de l@s asalariad@s está en la agenda! Para rescatar su sistema capitalista, se han organizado a escala internacional: el movimiento sindical debe actuar a través de las fronteras para imponer otro sistema que no sea el que explota a l@s trabajadores-as, saquea a los países subdesarrollados, organiza el hambre de una parte del planeta… En todas partes, ¡a desarrollar las luchas sociales y a construir la resistencia común! (Beh, buona giornata).

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“Se il buongiorno si vede dal mattino, l’imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale”.

Pubbblico un ampio stralcio di “Con i sacchetti di sabbia non si ferma l’oceano” di EUGENIO SCALFARI, da repubblica.it

(* * *)

Una prima risposta ce la può dare il pasticcio Alitalia; nell’economia italiana è un caso importante anche se confrontato con quanto sta accadendo nel mondo è come una goccia nel mare in tempesta.

Tremonti se ne è tenuto lontano quanto poteva fingendo di dimenticarsi perfino di essere l’azionista di maggioranza della (ormai fallita) compagnia di bandiera. Perciò ne è politicamente e oggettivamente responsabile almeno alla pari col presidente del Consiglio, per il poco che ha fatto e per il molto che non ha fatto.

L’affare Alitalia è cominciato malissimo dieci mesi fa e l’altro ieri si è concluso nella farsa. Cioè in un cumulo di bugie con l’intento di darla da bere agli italiani. Non starò a ripetere nel dettaglio un racconto già fatto mille volte. In sommi capi: il governo Prodi era riuscito a vendere l’Alitalia al gruppo Air France-Klm alle migliori condizioni possibili trattandosi d’una azienda praticamente decotta. Air France si accollava i debiti, il personale di volo e di terra con un esubero di duemila persone, pagava gli azionisti offrendo loro il 7 per cento del proprio capitale e integrava il marchio e la compagnia nel gruppo franco-olandese.

Questa soluzione fu definita “svendita” da Berlusconi, dalla Lega e da tutto lo stato maggiore di centrodestra nonché dai sindacati aziendali che, forti delle loro amicizie in Alleanza nazionale, puntarono non sulla privatizzazione ma sulla nazionalizzazione dell’azienda. Furono ipotizzate e indicate inesistenti cordate tricolori, Berlusconi ci giocò sopra perfino il nome dei propri figli come possibili sottoscrittori. Avrebbe dovuto bastare l’insensatezza di questo “vaudeville” per mettere in sospetto la pubblica opinione, ma la pubblica opinione propriamente detta già non c’era più, affondata nella poltiglia generale.

Dopo dieci mesi, mercoledì prossimo la nuova compagnia Alitalia-Cai darà il via alla sua prima giornata operativa e ai suoi primi voli e noi gli indirizziamo da queste pagine il più sincero augurio di successo, senza però tacere il costo pubblico di questa operazione e i suoi probabili sviluppi.

Il costo pubblico è quantificabile in 5 miliardi di euro calcolando il passivo residuo della vecchia Alitalia dopo che avrà realizzato il poco attivo che le è rimasto e avervi aggiunto il costo degli speciali ammortizzatori riservati ai 7.000 dipendenti rimasti senza lavoro.

Su questa valutazione concordano tutti gli esperti che hanno verificato le cifre e concorda anche la sola compagnia operante in Italia in parziale concorrenza, la “Meridiana” il cui amministratore ha scodellato le cifre in un’intervista a Repubblica di tre giorni fa.

Air France entra nel capitale con il 25 per cento pagato 310 miliardi. Sarà presente nel consiglio d’amministrazione e nel comitato esecutivo. È il solo operatore e vettore aereo in una compagine di azionisti che di questo ramo di attività non sanno nulla ed hanno il cuore e il portafoglio da tutt’altra parte. Tutto fa supporre che tra cinque anni (ma anche prima se vi sarà bisogno di aumenti di capitale e certamente ve ne sarà) Air France diventerà l’azionista di comando. Di fatto lo è già.

Bisognava all’ultimo momento superare il veto della Lega e degli amministratori lombardi (Moratti, Formigoni) in favore di Malpensa, bilanciato dagli amministratori laziali (Alemanno, Marrazzo, Zingaretti) schierati in difesa di Fiumicino. I nordisti hanno tirato per la giacca più che potevano il governo affinché imponesse una scelta politica alla nuova compagnia privata.

Tremonti, taciturno fino a quel momento, si è schierato con i nordisti i quali tuttavia erano divisi tra loro perché il sindaco di Milano proclamava intoccabile l’aeroporto di Linate mentre Formigoni se ne infischiava.

“Malpensa ha tutte le chance per essere l'”hub” (l’aeroporto internazionale) italiano” ha detto il ministro dell’Economia. Per fortuna questa volta la sua parola non ha avuto peso e il premier ha convalidato la scelta privata di Colaninno senza sovrapporgli un’impensabile scelta politica.

Bisognava però a quel punto prendere in giro l’opinione pubblica lombarda e padana. Detto e fatto: la parola magica è stata “liberalizzazione”, alla luce della quale Malpensa dovrebbe riacquistare una posizione di primo piano tra i grandi aeroporti internazionali.

Ebbene, quella parola “liberalizzazione” nel caso specifico non ha alcun significato. Non ce l’ha per l’area europea perché i voli in tutti i 27 paesi dell’Unione sono assolutamente liberi. Ma non ce l’ha per il resto del mondo perché i voli sono regolati da trattati e accordi internazionali circa le frequenze, gli orari, gli “slot”.

Per arrivare ad un’effettiva liberalizzazione ci vorranno dunque anni, ammesso che ne valga la pena, il che è molto dubbio: un viaggiatore che voglia andare da Venezia o da Bologna o da Genova o da Trieste a New York o a Shanghai o a Cape Town avrà comunque più convenienza a raggiungere Parigi o Francoforte che non Malpensa.

* * *

Se il buongiorno si vede dal mattino, l’imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale. Basti dire che il governo non ha ancora fatto nulla salvo l’elemosina della “social card” finanziata in modo assai dubitabile.

Le misure anticrisi contenute nel decreto in corso di esame parlamentare ammontano complessivamente a mezzo punto di Pil, cioè tra i sei e i sette miliardi, dispersi in molti rivoli, bonus, parziali e limitate detassazioni, parziali e limitati incentivi, rifinanziamenti della Cassa integrazione.

Con questi sacchetti di sabbia sembra molto improbabile arginare un mare in tempesta d’una recessione mondiale i cui effetti dureranno almeno un anno se non due. Ma già con queste operazioni il nostro deficit rispetto al Pil si posiziona al 3,5 per cento, sconfinando di mezzo punto oltre la soglia di stabilità. Le cause di fragilità dei nostri conti pubblici stanno in questo caso nell’abolizione dell’Ici e nel costo dell’Alitalia. In totale si tratta di otto miliardi dissipati in una fase in cui gli incassi tributari diminuiscono, il reddito anche, l’evasione torna ad aumentare.

Tremonti queste cose le sapeva. Avrebbe dovuto impedire quella dilapidazione ma non l’ha fatto. Adesso vedremo che cosa si inventerà, nel senso positivo del termine. Sa anche lui che con i sacchetti di sabbia non si ferma l’oceano. (Beh, buona giornata).

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Berlusconi:”Sulla questione Alitalia non c’e’ nulla di agghiacciante.”

L’italianità è già costata allo Stato 3,3 miliardi

di LUCA IEZZI da repubblica.it

«Le condizioni poste da Air France sul taglio del cargo e su Malpensa sono assolutamente irricevibili» diceva Silvio Berlusconi il 19 marzo scorso rimandando al mittente un’ offerta che dopo dieci mesi non è paragonabile a quella di Cai, ma nel senso opposto a quello inteso dal premier.

I francesi avevano messo 1,85 miliardi di euro, un miliardo subito per azzerare i debiti e 850 milioni d’ investimenti dal 2009 in poi. Ma soprattutto davano in cambio titoli Air France allo Stato e agli altri azionisti. Nel dicembre scorso, dopo quattro mesi di commissariamento, la cordata di 20 «patrioti», come li ha definiti lo stesso premier, ha pagato 427 milioni cash (solo 100 versati) per rilevare una parte di un gruppo con un passivo da 3,2 miliardi.

Il conto tra quanto incassato da Cai (427 milioni), il debito rimasto in capo alla bad company e il mancato incasso del pacchetto Air France, il primo bilancio del salvataggio dell’ italianità già segna un passivo di 3,3 miliardi per i contribuenti italiani. In attesa che il commissario Augusto Fantozzi recuperi qualcosa dalla vendita di quanto rimasto.

Ancor più negativo il bilancio occupazionale: la nuova Alitalia ha circa lo stesso personale (12.650 persone immaginato da Parigi, ma gli ex lavoratori della Magliana sono solo 10.150 perché a loro si aggiungono oltre 2 mila addetti Air One.

Gli esuberi sono raddoppiati (2.120 dicevano i francesi, contro i 4 mila del piano Cai) anche perché circa 3 mila persone della manutenzione e dei servizi di terra non saranno riassorbiti da Fintecna come previsto nel marzo scorso.

Tra le “vittime” del rifiuto ad Air France vanno anche considerati i circa mille lavoratori a tempo determinato di Air One cui non sarà rinnovato il contratto.

Non è finita: Air France era disposta a pagare il 20% del costo degli esuberi da lei provocati. Il piano francese è stato respinto perché chiudeva il trasporto merci, depotenziava Malpensa e dirottava i flussi turistici verso Parigi, direttive confermate dal piano industriale della cordata tricolore.

Complice l’ accordo che porterà Air France-Klm a rilevare il 25% del vettore rinato, Alitalia chiuderà il cargo nel 2009, ha scelto Fiumicino come aeroporto principale e Roma e Milano sommano circa cento voli a settimana con Parigi Charles de Gaulle.

Dal punto di vista delle prospettive future l’ Alitalia presieduta da Roberto Colaninno nasce con 300 milioni in cassa, poco meno di 600 milioni di debito operativo e 490 milioni di debiti sugli aerei acquistati da Air One.

Senza contare che nella flotta di 148 aerei della nuova Alitalia la quota dei velivoli in leasing (da pagare mensilmente al socio Carlo Toto) è ben più alta di quella cui avrebbe fatto affidamento la società guidata da Jean-Cyril Spinetta.

 I prossimi cinque anni, periodo che per statuto vede i soci italiani rimanere alla guida della società quindi saranno molto difficili. Forse il costo finale dell’ operazione “Alitalia agli italiani” lo potremo fare solo quando sarà finita, cioè quando Air France diventerà l’ unico proprietario. (Beh, buona giornata).

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Il sistema bancario italiano è solido? No, è sodale. L’Antitrust scopre che il conflitto di interessi tra concorrenza e corporate governance “interessa” l’80 per cento del settore finanziario.

da repubblica.it

Nel settore finanziario italiano ci sono intrecci personali e azionari fra concorrenti senza paragoni in Europa. Lo rileva l’Antitrust che ha chiuso l’indagine conoscitiva su banche, assicurazioni e sgw, rilevando che l’80% dei gruppi esaminati ha nei propri organismi soggetti con incarichi in società concorrenti. Secondo l’Autorità serve un'”attenzione alta sulla corporate governance” e occorre rivedere la governance per aumentare la trasparenza e recuperare la fiducia necessaria per superarare la crisi.

Così l’Antitrust descrive la grave situazione riscontrata: “Un azionariato, anche per le società quotate, spesso concentrato in capo a pochi soggetti e legato da patti, nonché una gestione caratterizzata da incarichi personali doppi o addirittura multipli in società concorrenti e da intrecci del tutto peculiari rispetto al resto d’Europa”.

L’indagine conoscitiva sui rapporti tra concorrenza e corporate governance è stata avviata oltre un anno fa. Ricostruisce il quadro aggiornato degli assetti di governo societario di banche, compagnie assicurative e società di gestione del risparmio, quotate e non quotate in Italia, evidenziando i punti di forza e i punti di debolezza del settore e suggerendo, anche alla luce dell’attuale crisi, i necessari interventi.

La situazione attuale, è l’ovvia conclusione degli esperti dell’Antitrust, impone “un’attenzione alta sulla corporate governance”. Emerge “l’esigenza di un nuovo processo – di regolazione, autoregolazione e di modifiche statutarie – che innovi, ad esempio, sotto il profilo della trasparenza nei processi decisionali, della chiarezza nella attribuzione delle funzioni e responsabilità dei vari organi/comitati, nella eliminazione dei cumuli di ruoli e incarichi tra concorrenti, nonchè nella definizione più puntuale dei requisiti per figure rilevanti come gli amministratori indipendenti”.  (Beh, buona giornata).

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Crisi: lo spettro della disoccupazione in Italia.

da repubblica.it

Un dipendente su due nel settore privato in Italia è senza ammortizzatori sociali. Un esercito di 7.141.300 persone, rileva un’indagine della Cgia di Mestre, pari al 50,9% del totale dei dipendenti italiani (escluso il pubblico impiego). Sono questi, assieme ai precari, sottolinea la Cgia, i lavoratori più a rischio in questa fase di crisi economica. Si tratta di dipendenti che nel caso di esplusione dall’azienda non hanno nessuna misura di sostegno al reddito, come la cassa integrazione ordinaria o straordinaria.

Quanto ai settori di appartenenza di questi lavoratori “senza ombrello”, spicca per numeri assoluti quello dei servizi. In questo comparto ci sono 2.336.400 lavoratori dipendenti. Seguono gli occupati del commercio alle dipendenze di aziende con meno di 200 dipendenti (1.968.000), quelli dell’artigianato (889.500, con l’esclusione degli edili che usufruiscono della Cigo), i dipendenti di alberghi e ristoranti (870.000), quelli del credito/assicurazione (544.400 unità) e quelli delle comunicazioni (338.100 dipendenti). Chiudono la classifica i trasporti con 194.800 dipendenti.

“Sono dei veri e propri lavoratori invisibili – dice Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre – che quando stanno a casa non se ne accorge nessuno. Per questo chiediamo al Governo di intervenire e di mettere in campo dei sussidi senza nessun aggravio per le imprese”. (Beh, buona giornata).

http://cgia.slowdata.com/

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Crisi: la disoccupazione negli Usa.

da repubblica.it

L’economia statunitense a dicembre ha perso 524.000 posti di lavoro, poco meno di quanto stimato dagli analisti, facendo salire il tasso di disoccupazione al 7,2% (a novembre era al 6,7%), un dato peggiore delle attese (ferme al 7%). Complessivamente nel corso del 2008 l’economia Usa ha perso 2,6 milioni di posti di lavoro, come non accadeva dal 1945, al termine della Seconda guerra mondiale.

Il calo degli occupati ha toccato quasi tutti i settori. Tra i peggiori quello manifatturiero (-149.000 posti), le costruzioni (-101.000) e la distribuzione (-23.900). Lieve incremento nel pubblico impiego (+7.000), mentre sale in modo consistente solo il settore sanitario (+32.000 posti di lavoro). Il costo orario medio, sempre secondo i dati diffusi dal Dipartimento del Lavoro Usa, è salito dello 0,3% mensile a 18,36 dollari, contro un previsto aumento dello 0,2%. Su base annua il costo orario medio è cresciuto del 3,7%.

L’apparente contraddizione tra il dato assoluto di dicembre (migliore delle attese) e la percentuale (peggiore delle previsioni) è spiegata con il fatto che il Dipartimento del Lavoro Usa ha rivisto in peggio il dato del mese precedente con 584.000 posti di lavoro in meno, circa 50.000 in più rispetto ai 533.000 comunicati nella prima rilevazione. Rivista in peggio anche la statistica di ottobre con 423.000 posti cancellati, vale a dire 183.000 in più di quanto comunicato nella prima lettura (che a sua volta era già stata rettificata al rialzo di 80.000 unità a quota 320.000). (Beh, buona giornata),

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Attualità Lavoro

Alitalia: cosa sta succedendo oggi a Fiumicino.

ROMA (Reuters) – Alcune decine di rappresentati della sigla sindacale SdL Intercategoriale hanno occupato oggi gli uffici dove si svolgono le assunzioni del personale di Alitalia, all’aeroporto romano di Fiumicino, e hanno annunciato per martedì 13 gennaio, data in cui è previsto l’avvio delle attività della nuova compagnia, una manifestazione di protesta.

Lo riferisce in una nota la stessa sigla sindacale precisando che l’occupazione degli uffici è contro “la vergognosa politica delle assunzioni (della compagnia aerea) suggerita da alcune sigle sindacali”.

Contemporaneamente, secondo quanto riferito da un funzionario del sindacato, il segretario nazionale di SdL Trasporto aereo, Paolo Maras, si è incatenato in segno di protesta davanti al centro equipaggi dello scalo della capitale.

Il sindacato chiede che vengano riconsiderati sia il numero degli organici, “largamente insufficienti”, sia i criteri “che devono essere equi, ragionevoli e trasparenti” e sollecita l'”immediata applicazione in Alitalia-Cai di tutti gli strumenti per aumentare l’occupazione”.

Ieri — in una giornata in cui le proteste di alcuni dipendenti di Alitalia hanno provocato la cancellazione di 135 voli da e per l’aeroporto di Fiumicino e altri disagi ai passeggeri — SdL ha annunciato uno sciopero di quattro ore del personale Alitalia-Cai per il 19 gennaio, dalle 10 alle 14. (Beh, buona giornata).

 

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L’Obama-pensiero contro la crisi.

Obama: “Il mio attacco a più punte
contro il tracollo dell’America”

di JOHN HARDWOOD

Alla vigilia del suo discorso sull’economia, il presidente eletto degli Stati Uniti ha rilasciato un’intervista a John Hardwood per il New York Times e la CNBC. Ecco il testo integrale, da repubblica.it 

Pare che il suo pacchetto di incentivi all’economia si aggiri intorno ai 775 miliardi di dollari.
“È così”.
Il rischio è fare troppo poco… Perché dunque fermarsi a una cifra come 775 miliardi di dollari? Perché non arrivare a quell’1,2 trilioni di dollari che gli economisti hanno raccomandato? Forse perché crede che una cifra così sia troppo politicamente carica di significato? O pensa che spendere di più sarebbe più un finanziamento più che un incentivo? O crede di aver individuato la cifra esatta che serve?
“Penso che sia importante tener presente che ogni economista, conservatore o liberal che sia, a questo punto concorda sul fatto che dobbiamo predisporre un piano di recupero sostanziale, che ci aiuti a ridare slancio alla nostra economia, che sul breve periodo ci costerà caro, ma sarebbe estremamente più costoso veder l’economia avvitarsi su se stessa a vuoto come sta accadendo adesso.

“Abbiamo sentito parlare di fasce che vanno da 800 a 1,3 trilioni di dollari e il nostro approccio, considerato il processo legislativo nel quale ci troviamo è che se iniziamo dal basso, possiamo vedere come si evolvono le cose. Ci preoccupa…”.

Sicuramente (il pacchetto) aumenterà….
“Beh, ancora non lo sappiamo. Ma ciò che ci sta davvero a cuore è essere sicuri che i soldi siano spesi con saggezza, che ci sia controllo, trasparenza. Useremo questo denaro per alimentare temporaneamente l’economia, per creare o salvare tre milioni di posti di lavoro, ma anche per qualche anticipo per cose che avremmo già dovuto fare nel corso dei decenni passati che possono contribuire a creare un’economia statunitense più competitiva.


“Le faccio qualche esempio: accertarsi che raddoppiamo le energie alternative, creare edifici e sistemi di trasporto molto più efficienti dal punto di vista energetico, ridurre i costi dell’assistenza sanitaria utilizzando le tecnologie dell’informazione sanitaria, costruire scuole e classi all’altezza di quelle del resto del mondo, così che tutti i nostri bambini ne possano trarre giovamento e possano essere competitivi nell’economia globale.

“Vogliamo essere sicuri che il denaro che spendiamo sia, prima di tutto, utilizzato per creare posti di lavoro, stabilizzare l’economia, ma anche usato con prudenza, così che quando usciremo da questa fase difficile nella quale ci troviamo, vedremo un’economia più solida, migliore, più efficiente”.

Si sono fatti molti paralleli tra lei e John F. Kennedy, che ha anch’egli fatto la storia: era giovane, di una famiglia attraente e nella sua amministrazione si era circondato di cervelloni usciti da Harvard. Ma negli anni Sessanta abbiamo imparato che i migliori e i più intelligenti non sempre prevedevano correttamente le cose.
“Si deve stare attenti ai laureati di Harvard… ti sorprendono sempre!”.

Quanta fiducia ha che il suo piano funzioni davvero? Come eviterà il rischio di essere troppo fiducioso nelle sue possibilità?
“L’approccio che abbiamo scelto è quello di non limitarci a parlare con i soliti sospetti, ma di parlare con persone che di norma non sono d’accordo con me. Se l’ex consigliere economico di Ronald Reagan o l’ex consigliere economico di John McCain o l’ex consigliere economico di George Bush ti danno il medesimo consiglio di quello che i consiglieri di Bill Clinton o di Jimmy Carter ti stanno dando, allora puoi essere pressoché sicuro che in tutto lo spettro politico vi è del consenso.

“Certo, tutto ciò non avverrà nell’arco di una sola notte. La situazione è complessa e sappiamo che, indipendentemente da quanto riusciremo a fare dal punto degli investimenti e della ripresa, dovremo nondimeno fare molte altre cose per essere sicuri che l’economia sia in forma migliore. Una delle cose più importanti che dovremo fare è riformare il modo col quale funzionano i nostri sistemi finanziari. Dobbiamo far sì che il flusso del credito ricominci. Questo significa ripristinare la fiducia, ripristinare le aperture nel sistema. Significa che il nostro contesto normativo deve essere riformato profondamente…

“C’è un pacchetto consistente di riforme che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi renderò noto. Significa che dobbiamo occuparci molto più seriamente della crisi immobiliare che c’è al momento e stabilizzarla. Significa che dovremo pensare a quale approccio avere nei confronti della responsabilità fiscale. Ecco perché ho annunciato che nominerò un funzionario capo addetto alla performance, incaricato di attuare l’impegno che ho sottoscritto in campagna elettorale di andare a fondo nel budget federale, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e determinare quali programmi funzionano e quali programmi non funzionano, eliminando di conseguenza quelli che non funzionano e facendo sì che quelli che funzionano funzionino ancora meglio.

“Si tratta dunque di un attacco a più punte nei confronti di questo enorme tracollo al quale stiamo assistendo al momento. L’obiettivo a lungo termine è essere certi che salveremo e proteggeremo i posti di lavoro, e che le imprese e le famiglie americane siano in grado di beneficiare del flusso del credito nuovamente. Non voglio aumentare le dimensioni del governo a lungo termine: preferirei che fosse il settore privato a fare tutto ciò per conto suo. Ma credo che ci sia un consenso pressoché unanime tra le persone, anche quelle che non sono andate ad Harvard, e che è necessario varare iniziative coraggiose adesso per essere sicuri che facciamo il possibile per evitare che accada il peggio”.

 
Non ha preoccupazioni su questa eccessiva fiducia?
“No, anzi, mi sento schiacciato dalle sfide che ci stanno di fronte. Ma ho fiducia in una cosa: sono un buon ascoltatore, sono bravo a sintetizzare i consigli provenienti da prospettive e ottiche diverse e prenderò le migliori decisioni possibili pensando proprio a che cosa andrà bene per i comuni americani”.

Il presidente Bush ha dovuto per parecchi anni rispondere alle domande sulla sua strategia di disimpegno dall’Iraq. La stessa domanda vale per gli attacchi su più fronti ai quali lei accennava. Pertanto le chiedo: qual è la sua strategia di uscita dalla crisi dell’auto, delle assicurazioni, del settore finanziario? Come decide quando è tempo di smettere di concentrarsi sul breve periodo? Come deciderà che i suoi programmi hanno dato buoni frutti e che è giunto il momento di concentrarsi sulla responsabilità fiscale a lungo termine?

“Deve essere chiaro che non agiremo in fasi successive, ma agiremo su binari paralleli. Pertanto prepareò un budget che sottoporrò al Congresso a febbraio e quel budget conterrà proiezioni a medio termine, a lungo termine come pure a breve termine”.

“Non aspetteremo che passino due anni per iniziare a preoccuparci di quello che dobbiamo fare per il deficit. Vogliamo vedere tutte le cose che possiamo fare durante il mio mandato iniziare a influire riducendo il deficit. In sostanza, io credo che quando si vedrà che il settore privato riprenderà a erogare prestiti, quando il flusso del credito arriverà alle famiglie e alle aziende, quando si potranno acquistare automobili a rate, quando si potrà essere in grado di onorare le rate del mutuo, quando il mercato del lavoro si sarà stabilizzato allora piano piano ci tireremo indietro. Ed è per questo che è estremamente importante per noi monitorare i progressi con grande attenzione.

“Cerchiamo però di capire che le migliori previsioni che abbiamo al momento sono che malgrado tutti gli sforzi più grossi che possiamo fare ancora adesso abbiamo davanti la prospettiva di una disoccupazione considerevole. Non sarà pari a un numero a due cifre come accadrebbe se non facessimo assolutamente nulla… ma potrebbe occorrere buona parte del prossimo anno prima di vedere l’economia riprendere a funzionare come dovrebbe”.

Ci sarà una crescita nella seconda metà del 2009 secondo lei?
“Non ho una sfera di cristallo… ma sono fiducioso in una cosa: se non facessimo niente, le cose peggiorerebbero, e di molto. Con il piano che abbiamo predisposto, le cose andranno in ogni caso meglio di come sarebbero andate altrimenti. Sono fiducioso che potremo creare o salvare tre milioni di posti di lavoro.
Ne abbiamo già persi almeno due milioni. Alla fine di questa settimana potremo leggere un rapporto sui posti di lavoro, dal quale probabilmente emergerà che ne abbiamo persi quanto meno un altro mezzo milione. Se iniziamo a vedere che l’anno prossimo si perderanno tre, quattro, cinque milioni in più di posti di lavoro, allora possiamo stare certi che si tratta di una crisi come non ne abbiamo mai viste e dovremo intervenire e stroncare questo processo sul nascere”.

Parliamo di tasse: quando ci siamo incontrati a giugno lei mi disse che avrebbe potuto posporre alcuni aumenti di tasse che lei ha proposto per far fronte all’attuale situazione economica. Sappiamo che nel suo programma si parla all’incirca di tagli alle tasse pari a 300 miliardi di dollari, ma le chiedo: è pronto adesso a dirci che non procederà alla revoca immediata degli sgravi fiscali apportati dal presidente Bush ai contribuenti che guadagnano più di 250.000 dollari e lasciare la situazione così come è fino al 2010?

 

“Non posso in questo momento qui con lei prendere un impegno così importante e in modo così rapido, John, ma le ripeto che mi preoccupa meno se ciò accade quest’anno o l’anno prossimo. La cosa che più mi preme è riportare parità e equità nel sistema contributivo.

“Ecco perché abbiamo presentato precisi sgravi fiscali nell’ambito del pacchetto delle nostre proposte. Il 95 per cento delle famiglie che lavorano avranno uno sgravio fiscale. Vogliamo anche studiare altri modi con i quali far sì da rimettere quei soldi in tasca velocemente alle famiglie senza dover attendere la prossima dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo, perché altrimenti non si avrà quel genere di effetto incentivo che invece occorre.

“Ma vogliamo altresì essere sicuri che teniamo bene sotto controllo il deficit. Per persone come lei e come me, che guadagnano più di 200-250.000 dollari l’anno, i tagli alle tasse voluti da Bush non erano necessari…. non sono tuttora necessari e pertanto faremo sì che non continuino a essere parte del nostro codice tributario ancora a lungo”.

Non so che cosa intenda lei con i termini importanti e rapido, ma mi sembra che lei non procederà a modificare le cose quest’anno.
“Non ho ancora preso una decisione finale in proposito. Oltretutto ciò rientra tra le cose sulle quali dovremo consultarci con il Congresso”.

In tema di politiche bipartisan: mi sembra che almeno per un momento il dialogo tra i due partiti sia diverso. Quando conta per lei il dialogo bipartisan? È pronto ad accettare idee dalla controparte, anche se non pensa che quelle siano le idee migliori?

“Vede, io la penso in questi termini: la cosa più importante è che cosa serve a ottenere il risultato voluto. Questa è l’ottica dalla quale io considero ogni cosa. È creare tre milioni di posti di lavoro o salvare tre milioni di posti di lavoro? Ci stiamo preparando? Stiamo gettando le fondamenta della nostra indipendenza energetica? Stiamo riducendo le spese della nostra assistenza sanitaria, che sono di importanza cruciale per affrontare il nostro deficit sul lungo periodo? Stiamo creando un sistema scolastico di prima classe? Queste sono le mie priorità assolute.

“Quindi: io non reputo affatto che il partito democratico abbia il monopolio delle buone idee. I repubblicani hanno molto da offrire. Ciò che farò sarà ascoltare e imparare dai miei colleghi repubblicani. Ogniqualvolta saranno in grado di dimostrazione e addurre valide motivazioni a favore di qualcosa che sarà proficuo per il popolo americano, solo perché non ci hanno pensato prima i democratici ma lo promuovono i repubblicani non per questo ignorerò i loro suggerimenti.

“Ci saranno occasioni, naturalmente, nelle quali saremo in disaccordo. E se qualcuno mi presenta un progetto al quale è legato ideologicamente, ma non è in grado di persuadermi che sarà effettivamente buono e positivo per l’economia, allora non se ne farà nulla. Ci saranno anche altre occasioni nelle quali dovremo combattere. Ma dal mio punto di vista io non sono alla ricerca di battaglie: a me interessa quanta più cooperazione possibile. Sono aperto a qualsiasi idea che mi sarà presentata”.

Prevede che la quota di sgravi fiscali del suo piano aumenterà dopo le consultazioni con i repubblicani al Congresso, nel momento in cui lei cercherà di ottenere maggiore supporto per il suo programma?
“L’atteggiamento che intendo avere nei confronti degli sgravi fiscali è il medesimo che intendo applicare al pacchetto degli investimenti. Ovvero: si tratta di denaro speso bene? Questi sono soldi dei contribuenti, che vanno ad aumentare il deficit sul breve periodo. Se non saremo in grado di giustificarli, allora non si spenderanno decine o centinaia di miliardi di dollari soltanto per fare felice qualcuno. E la stessa regola l’applicherò anche a tutto il resto”.

Si concorda pressoché unanimemente che il settore immobiliare è alla radice del problema economico che oggi ci assilla. Pensa che la priorità più assoluta ora sia di far ripartire il settore immobiliare, forse tramite crediti fiscali, o di limitare i pignoramenti?

“Quando si parla di mercato immobiliare, il Consiglio della Federal Reserve ha fatto quello che poteva per abbassare i tassi, quanto più era possibile. Quindi abbiamo visto qualche attività sui rifinanziamenti. Questo non risolve certamente il problema del calo del valore degli immobili.

“Penso che la cosa più importante sia, in tema di calo del valore degli immobili, evitare ulteriori pignoramenti. Ecco perché penso che quanti tra noi stanno ancora pagando un mutuo…. sì, insomma si sente talvolta qualcuno nel Paese che dice: ‘Bene, io sono stato responsabile, perché dovrei dare aiuto a chi forse ha sottoscritto un mutuo che non poteva permettersi?’.

“Questa domanda ci riporta a un adagio secondo il quale se la casa del tuo vicino sta bruciando, la tua prima preoccupazione deve essere quella di spegnere le fiamme, anche se il tuo vicino ha agito irresponsabilmente. Penso che questo è vero anche per i pignoramenti. Dobbiamo evitare questo continuo deterioramento del mercato immobiliare. E ciò inizia proprio con i pignoramenti. Questo non significa che non possiamo anche fornire assistenza, magari non sarà tutta sotto forma di assistenza ai mutui.

“Una delle cose che reputo molto importante nel nostro piano di reinvestimento è fornire gli incentivi per coibentare le case di tutto il Paese. Si tratta di un tipo di investimento a lungo termine che può tagliare drasticamente le bollette energetiche del Paese, aumentare la nostra indipendenza energetica, ridurre i gas serra globali. Quindi, come vede, ci sono alcune aree nelle quali possiamo fare progressi, fornendo sollievo alle famiglie, aiutando i proprietari di casa.

“Ma occuparci della crisi dei pignoramenti dei beni ipotecati è qualcosa che dobbiamo assolutamente fare. Prevedo di rendere noti i miei piani su come evitare i pignoramenti dopo essermi consultato con Barney Frank e Chris Dodd, che hanno fatto un ottimo lavoro da questo punto di vista, in un periodo imprecisato entro il prossimo mese o i prossimi due”.

Nell’ambito della seconda parte del suo pacchetto di interventi di salvataggio finanziari?
“Nell’ambito del nostro attacco a più punte alla crisi”.

Si è molto parlato di Larry Summers, l’ex segretario del Tesoro che dirige la sua commissione economica nazionale e si ipotizza che lei lo sceglierà per sostituire Ben Bernanke come presidente della Federal Reserve, quando il suo mandato scadrà nel 2010. È questa la sua intenzione o lei intende rinnovare la nomina ancora a Ben Bernanke?
” Larry Summers non ha ancora ottenuto questo posto… Io ho fatto il suo nome ma non è ancora iniziata la nostra amministrazione. Penso che sia del tutto prematuro per me fare congetture e speculare sulle nomine di qui a due anni, nel momento in cui ancora non ho la mia squadra pronta”.

Mi permetta una domanda sugli enti di controllo. Ci troviamo oggi in un edificio che un tempo ospitava la Sec. Quanto grosso è l’intervento di riforma dell’apparato normative finanziario che lei propone e appoggia? Quando lo varerà? Pensa che vi sia la necessità di creare un apparato normativo globale? Ad aprile dovrà prendere parte al G-20 a Londra…

“Per quando dovrò prendere parte al G-20 credo che di sicuro avrò presentato il nostro approccio alle normative finanziarie. Penso che una certa coordinazione internazionale ci voglia. Ma al momento noi dobbiamo occuparci della nostra. Wall Street non ha funzionato come doveva, e il nostro sistema normativo di controllo non ha funzionano come si supponeva dovesse fare. Quindi si impone un intervento drastico e sostanziale.

“Dovremo occuparci di farlo applicare meglio, di avere migliori controlli, migliore chiarezza, migliore trasparenza. Dovremo controllare questo insieme di sigle di agenzie varie e escogitare come farle funzionare più efficacemente. Dobbiamo smettere di spezzettare le varie funzioni in modo tale che il capitale sotto una forma è trattato in un modo e il capitale sotto un’altra forma è trattato in un altro, perché in questi tempi di mercati finanziari globali, sono tutti fungibili .

“Ci sono rischi sistemici in agguato, sia sotto forma di derivati, sia di assicurazioni sia di depositi bancari tradizionali. Quindi dobbiamo aggiornare il nostro intero sistema per rispondere alle esigenze del XXI secolo. Questo è un compito sul quale il mio team sta già lavorando e credo che avremo, in tempi abbastanza brevi, un pacchetto da presentare al popolo americano al quale ho lavorato insieme a Barney Frank e Chris Dodd”.

Dick Parsons sarà il suo prossimo segretario del Commercio?
“Non ho ancora preso una decisione finale su chi sceglierò per essere il prossimo segretario del Commercio. Quando lo saprò, te lo farò sapere, John”.

Ma Parsons è un candidato?
“Non farò commenti in proposito. Dick Parsons è una persona in gamba ed è anche mio amico”.

E’ fiducioso di avere ormai alle spalle questo breve periodo di controversia sulla scelta di Lon Panetta come capo della Cia? Quanto crede che sarà difficile per lei cercare di tradurre in pratica il suo impegno a porre fine al concetto che gli Stati Uniti ammettono la tortura?
“Prima di tutto io non ho fatto alcuna dichiarazione ufficiale su Leon Panetta. Quando lo farò sarà perché avrò qualcosa di più da dire in proposito. Posso soltanto dire che Leon Panetta è un funzionario pubblico eccezionale, che ha un’integrità impeccabile. È una persona che ha lavorato ai più alti livelli per la sicurezza nazionale e se dovessi sceglierlo penso che svolgerebbe meravigliosamente il suo lavoro.

“C’è una questione più ampia di cui occuparsi, però. Come ricominciamo, come rietichettiamo le nostre operazioni di intelligence? Nella Cia, nel nostro Dipartimento dell’Intelligence Nazionale ci sono persone straordinarie che hanno fatto un lavoro incredibile e voglio che abbiano tutto ciò di cui necessitano per poter lavorare in modo efficiente. Voglio anche essere sicuro che tutte queste persone che lavorano così duramente per fornire le migliori intelligence all’apparato della nostra sicurezza nazionale, che operano nel segreto e conformemente alle politiche scelte, non si trovino sotto i riflettori e accusati, o finiscano col portare il peso delle conseguenze di quello che facciamo se non dovessimo vivere all’altezza dei nostri ideali e dei nostri valori più alti”.

Prevede che sarà difficile cambiare queste cose?
“Sì”.

Ci vorrebbe qualcosa di preciso che stabilisse che cosa esattamente è etichettabile come tortura, non crede?
“Mi permetta di farle un esempio. Io credo che ci siano alcune cose che non sono difficili. Noi ottemperiamo alle Convenzioni di Ginevra: questo non dovrebbe essere difficile. Noi abbiamo contribuito a redigerle. Le abbiamo sostenute e ci sono servite bene.

“Penso che chiuderò Guantanamo. Come lo faremo non è facile a dirsi, perché ci saranno persone che sono state recluse lì, e molte di loro di fatto potrebbero essere molto pericolose. Dovremmo averle processate , prima di ogni altra cosa, ma adesso a causa delle circostanze nelle quali ci siamo trovati per svariati anni, è molto più difficile perché alcune delle prove contro di loro possono essere alterate dalle modalità con le quali sono state ottenute. Quindi dovremo procedere a una revisione molto attenta di come procedere.

“Tuttavia il mio impegno è questo: nessuna tortura, adesione totale alla legalità, adesione totale alla nostra Costituzione, adesione totale alle Convenzioni di Ginevra. Queste cose sono state messe a punto non soltanto per farci sentire bene, ma sono state concepite per essere sicuri che continueremo a comunicare che noi abbiamo una solida morale, che l’America vive secondo standard più elevati. Questo nel lungo periodo ci porterà sicuramente benefici, e ci renderà più sicuri”.

Lei ha spesso instaurato confronti…. O meglio, le sfide alle quali lei deve far fronte hanno fatto sì che si instaurassero paragoni anche con Franklin Roosevelt…
“Esatto”.

… con i tempi della peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Quando Franklin Delano Roosevelt fece il suo discorso inaugurale egli disse al popolo americano: “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”.
“Esatto”.

Quando il 20 gennaio lei farà il suo discorso inaugurale crede che dovrà ricoprire questo medesimo ruolo? Rassicurare il popolo americano? Come bilancerà questo messaggio con la necessità di trasmettere l’urgenza di ciò che si dovrà fare?
“È interessante…. Come può immaginare di recente ho letto vari discorsi inaugurali. Se si legge il primo discorso di Franklin Delano Roosevelt l’unica frase che ci si ricorda è quella, “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”, ma di fatto il grosso del suo discorso si incentrava sulla necessità di agire e agire subito. Poi Roosevelt spiegava, credo, la natura della crisi, sia nel suo discorso inaugurale, sia nelle sue famose chiacchierate accanto al caminetto, tanto quanto chiunque altro.

“Questo è un consiglio che ho ricevuto da un ex presidente, che mi ha detto: “Barack, parte del tuo successo e di come stai agendo bene al momento è che tu non parli con mezzi termini con il popolo americano, tu dici le cose come stanno, spiegando ciò che sta accadendo e come sta accadendo”. Io ho fiducia nel popolo americano: se gli si parla chiaramente, se ci si spiega chiaramente, dicendo testualmente “Questa è la nostra sfida, siamo arrivati a questo punto perché abbiamo fatto questo, e questa è la direzione che secondo me dobbiamo imboccare”, allora io sono assolutamente fiducioso che il popolo americano sarà all’altezza della sfida. Quindi il mio compito, sia nel discorso inaugurale, sia nei mesi che seguiranno, sarà semplicemente quello di spiegare quanto più onestamente e sinceramente possibile quali sono le circostanze, quali sono le idee migliori che abbiamo per far fronte a queste sfide. Se ci riuscirò sono sicuro che saremo uniti per risolvere questi problemi”.

Girano un sacco di voci nella cultura americana contemporanea. Si discute della sinistra, della destra, in televisione, continuamente, e anche del sistema finanziario. Per lei è importante o è più importante astrarsi da tutto ciò e decidere ancora prima che non avranno peso?
“Io credo che sia importante non vivere in una bolla. Quindi bisogna essere aperti alle informazioni che arrivano da fuori, in particolare le critiche. Io leggo di rado la stampa, ma spesso leggo la “cattiva” stampa, non perché sia d’accordo con quella, ma perché voglio capire in quali aree sto agendo male e dove posso migliorare”.

Finora non ci sono stati articoli cattivi su di lei…
“Sono sicuro che arriveranno… per quanto riguarda i mercati, però, la situazione è leggermente diversa. Per il momento, considerata la sua vulnerabilità, dovrò prestare attenzione all’aspetto psicologico del mercato, perché parte di ciò a cui stiamo assistendo nasce da una perdita di fiducia sia nel mercato sia nel governo che ripristina tale fiducia.

“Pertanto ripristinare la fiducia è una prima cosa estremamente importante. Quello che farò sarà essere sicuro di comunicare a scadenze regolari con gli attori più importanti del mercato e di spiegare loro con esattezza quali sono i nostri piani chiedendo loro di mettere a disposizione i loro suggerimenti migliori. Nel complesso, comunque, una delle cose dell’essere presidente che mi sono abbastanza chiare è che dovrò guardare oltre l’orizzonte. Non posso guardare i titoli dei notiziari di oggi perché se lo facessi allora probabilmente non prenderei le decisioni sulla base di ciò che è meglio per il Paese. Sprecherei molto tempo a preoccuparmi della politica di tutti i giorni, giorno dopo giorno, e questo è qualcosa che devo cercare di evitare”.

Visto che parliamo di come evitare i problemi legati al fatto di vivere in una bolla, ha ancora in tasca uno di questi? (Estrae dalla tasca un BlackBerry).
“In realtà l’ho messo da parte per questa intervista, ma mi porto ancora dietro il mio BlackBerry. Dovranno strapparmelo dalle mani!”.

Riuscirà ad accettare questa idea anacronistica, forse, di un presidente che non può utilizzare i mezzi più moderni?
“Ecco quello che sono giunto a capire: credo che riuscirò ad avere accesso a un computer, da qualche parte. Non sarà proprio nello Studio Ovale! La seconda cosa che spero è di vedere se in qualche modo riusciranno a consentirmi di continuare ad avere accesso al mio BlackBerry. So che…”

In questo momento lei ha ancora il BlackBerry?
“In questo momento ancora sì. Ma devo aggiungere che crea preoccupazione non soltanto ai Servizi Segreti, ma anche agli avvocati. Come sa, questa città pullula di avvocati. Non so se se ne è accorto…”.

Sì!
“E tutti questi avvocati hanno un sacco di opinioni diverse. Quindi, sto ancora lottando… ma senta, forse è la cosa più difficile dell’essere presidente: come rimanere in contatto con il flusso della vita quotidiana? Sa quando eravamo in vacanza alle Hawaii mi sono sentito molto scoraggiato dall’essere tenuto d’occhio costantemente dalle guardie del corpo. Anche solo andare a prendere una granita è stata un’impresa…”

E le hanno detto di non andarsene in giro senza maglietta?
” Quello l’ho imparato sin dal primo giorno, ma credo che… ”

E’ stato imbarazzante per lei? Se ne è preoccupato? Ci sono stati molti commenti su questo.
“Lo so, è stato sciocco, ma si sa, in questo lavoro ci sono molti aspetti sciocchi”.

Ha ricevuto bei complimenti, però.
“Mia moglie ha ridacchiato quando sono arrossito. In ogni caso… di che cosa stavamo parlando? Siamo usciti fuori argomento, John…”

Stava dicendo che pare proprio che dovrà lottare per tenersi il suo BlackBerry…
“Non so se la spunterò, ma mi sto battendo ancora… Ma il punto è un altro… Immagino che non è solo il flusso di informazioni. Voglio dire, potrò sempre chiedere a qualcuno di stamparmi le notizie di agenzia e potrò leggere i giornali. Quello che mi sta a cuore è avere meccanismi con i quali interagire con le persone che sono fuori dalla Casa Bianca in modo significativo.

“Dovrò cercare ogni opportunità possibile per farlo…. modi che non sono complicati, che non sono controllati, in cui la gente non cerchi solo di farti i complimenti o di alzarsi in piedi quando entro in una stanza, modi di stare con i piedi per terra. Se riuscirò a gestire questa cosa nei prossimi quattro anni, credo che mi aiuterà a servire il popolo americano meglio, perché sarò in grado di sentire quello che dice, la voce di tutti. Non dovranno tacere per il fatto che io sono alla Casa Bianca”.

Un’ultima domanda: la Florida domanica gioca in Ocklaohoma in quella che da tutti è considerata la partita determinante del campionato nazionale. Lei ha parlato della necessità di un playoff nel football universitario. Pensa che l’Utah, che ha terminato il campionato senza essere sconfitta dalla squadra dell’Alabama che ha sconfitto tutti, abbia buoni motivi per dichiararsi campione di questo campionato nazionale?
“Penso che l’Utah abbia ottimi motivi. Penso che gli USC, che hanno un grande Rose Bowl, hanno battuto di brutto Penn State. Hanno ottimi motivi per dichiararsi vincitori. Florida e Ocklahoma, penso l’abbiano entrambi. Il Texas a questo punto deve sentirsi un po’… come dire … ‘Beh, ci siamo comportati bene anche noi’. Insomma, io credo che il sistema dei playoff nel football sia utile… Ne ho parlato e ne parlo già da un pezzo e credo che se chiede a chi se ne intende di sport ed è un tifoso ne troverà molti d’accordo con me. Ma io posso scegliere e decidere in quali battaglie lanciarmi: credo che probabilmente mi concentrerò a creare tre milioni di posti di lavoro in più!”.  (Beh, buona giornata).

Copyright New York Times News Service/CNBC – Traduzione di Anna Bissanti

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Alitalia: vi ricordate “Oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri(*)”?

ALITALIA: PARADOSSI TRA LE NUVOLE

di Andrea Boitani da lavoce.info (segnalato da hans suter).

Diventa operativa il 13 gennaio la nuova Alitalia. Non siamo alla conclusione dell’estenuante telenovela perché rimangono le polemiche intorno al partner straniero e al destino di Malpensa. Gli errori, la cattiva gestione e le indebite intrusioni della politica sono l’esempio di una pessima conduzione di crisi d’impresa. Ne pagano il prezzo altissimo i cittadini italiani, sia come contribuenti sia come utenti del servizio aereo. Esce sconfitta l’autonomia dell’autorità Antitrust.

Dopo oltre un anno, fiumi di parole, estenuanti trattative, offerte vincolanti, veti sindacali, penultimatum di ogni genere, proclami politici, vessilli nazionali sventolati e poi cautamente riposti, cordate di capitani coraggiosi a lungo invano invocate, sollecitate e poi robustamente aiutate, scioperi veri e scioperi bianchi, una catastrofica caduta dei passeggeri, la nuova Alitalia dovrebbe diventare operativa il 13 gennaio, con un partner straniero che dovrebbe essere Air France, salvo sorprese dell’ultimo minuto. Sarà una compagnia piccola: inizialmente opererà 670 voli a settimana contro i 1050 operati nel 2008 dalla somma della vecchia Alitalia e di Air One (una riduzione del 36%).

PICCOLA, POTENTE, COSTOSA (PER I CITTADINI)

Alitalia piccola, ma con maggior potere sulla rotta Milano-Roma, che verrà presidiata con 290 voli settimanali, di cui 255 su Linate (il 38% di tutti i voli della nuova compagnia). L’Antitrust – il cui potere d’intervento nella vicenda era stato sostanzialmente ridotto per decreto governativo – ha assunto un atteggiamento così minimalista da rasentare il ridicolo. Il prevedibile incremento delle tariffe sulla Milano Linate – Roma ha subito spinto Trenitalia ad aumentare sostanziosamente le tariffe ferroviarie sulla stessa tratta, approfittando dell’inaugurazione dell’alta velocità tra Milano e Bologna.
Si può obiettare che, una volta definita l’alleanza con Air France, i clienti della nuova Alitalia potranno beneficiare della vastissima offerta di uno dei maggiori network mondiali (Skyteam). Ma va pur detto che se si fosse accettata l’offerta di Air France-Klm del marzo scorso, il beneficio del network internazionale sarebbe stato identico, mentre Air One sarebbe rimasta indipendente o sarebbe stata acquisita da Lufthansa (della cui “galassia”, Star Alliance, faceva già parte), con il conseguente beneficio della maggior concorrenza. Per non parlare dei maggiori costi sociali (maggiori esuberi) e per lo Stato (quindi per tutti i cittadini) che ha prodotto la decisione di ammainare la bandiera a gennaio 2009 invece che nell’aprile 2008 (1). Vale solo la pena di ricordare che gli stimati (complessivi) 4 miliardi di euro equivalgono a 333.333 sussidi di disoccupazione da 1000 euro al mese per un anno.

MALPENSA E FIUMICINO: IL DERBY CHE NON C’È

Salta agli occhi che, nonostante l’impegno di tanti “nordisti”, la nuova compagnia avrà come (semi) hub Roma Fiumicino: le destinazioni intercontinentali da Malpensa saranno solo 3 contro le 13 da Fiumicino. Ancora di più salta agli occhi che – nonostante la privatizzazione totale di Alitalia – molti politici continuino a pensare che sia la politica a dover decidere le alleanze della compagnia, in funzione delle esigenze del territorio. Non è possibile dire, a priori, se la scelta di Air France si rivelerà migliore della scelta di Lufthansa. Dipende anche dalle concrete offerte finanziarie che le due compagnie avranno fatto (si sa che Air France ha offerto 300 milioni per il 25% della nuova Alitalia). Ma è certo che la scelta deve essere compiuta dagli azionisti della nuova Alitalia, valutando solo ciò che è bene per la compagnia. Resta da notare il singolare argomento di alcuni vocali paladini del fronte del Nord, secondo i quali se l’alleato sarà Air France, allora bisognerà procedere rapidamente alla revisione degli accordi bilaterali per consentire a compagnie diverse da Alitalia di volare da Malpensa sulle rotte intercontinentali non liberalizzate (cioè tutte, salvo quelle verso gli Usa). La liberalizzazione dei voli andrebbe fatta se l’alleato sarà Air France che favorisce Fiumicino, ma non andrebbe fatta se verrà scelta Lufthansa, che favorirebbe Malpensa! In realtà, la revisione dei bilaterali va fatta comunque, perché una maggiore concorrenza nei servizi aerei intercontinentali è un vero interesse nazionale e garantisce lo sviluppo di Malpensa (così come di altri aeroporti italiani, al Sud per esempio), indipendentemente dal fatto che Cai “sposi” una francese o una tedesca. Ma non risulta che il governo italiano si sia mosso o si stia muovendo in questa direzione, che certo non fa piacere agli azionisti di Cai. L’impresa, infatti, vuole riservarsi la possibilità di riattivare le rotte ora dismesse senza ritrovarsi tra i piedi scomodi concorrenti. Dato che la revisione dei bilaterali non si fa in un giorno, sarebbe il caso di darsi da fare subito, a prescindere dalle decisioni della nuova Alitalia. È troppo chiedere autonomia dell’impresa dalla politica e autonomia della politica dalle imprese?

IL PREZZO DI AIR ONE

Infine, la questione della valutazione di Air One da parte di Cai. Si tratta di 790 milioni, 300 in contanti e 490 per i debiti di Air One, contro i 1052 pagati per Alitalia, al netto dei debiti di quest’ultima (che sono rimasti in capo alla “bad company”). Ma Air One ha un fatturato che è un quinto (20%) di quello di Alitalia. Quindi, considerando soltanto i 300 milioni “freschi”, sembra che pagare Air One oltre il 28% di quanto si è pagata Alitalia, accollandosi anche i debiti, sia un bel pagare: in totale Cai sborsa per Air One il 75% di quanto ha sborsato per Alitalia. Rocco Sabelli (l’aamministratore delegato di Cai) aveva giustificato la supervalutazione con le “sinergie derivanti dal mettere insieme due reti sovrapposte, che stimiamo 150-200 milioni all’anno per alcuni anni”(2). Qualcuno ha però osservato: “ma è chiaro che su Colaninno e sulla valutazione finanziaria (a meno Toto non avrebbe venduto) ha pesato il pressing di Intesa San Paolo, decisa a rientrare dai crediti vantati verso Air One, che stavano diventando un problema per la banca guidata da Corrado Passera” (3). Sarebbe interessante sapere se le cose stiano proprio così o se Carlo Toto abbia soltanto potuto esigere un premio per le “sinergie” e – verrebbe da aggiungere – per il monopolio sulla Milano-Roma che l’acquisizione di Air One ha consentito alla nuova Alitalia di riconquistare. (Beh, buona giornata).

(1) Si vedano i sintetici conti presentati da Tito Boeri su Repubblica del 2 gennaio 2009.
(2) Dichiarazione riportata da Gianni Dragoni su Il Sole 24 Ore del 13 dicembre 2008.
(3) Marco Alfieri su Il Sole 24 Ore del 30 dicembre 2008.

(*) “Alitalia: oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri” è stato pubblicato su “Beh, buona giornata “il 1.11.08, nelle categorie Attalità, Finanza e Economia, Lavoro.

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“Non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse.”

 
La carta della fiducia
LUCA RICOLFI da lastampa.it
Se ripensiamo alle notizie economiche delle ultime settimane c’è da restare sconcertati. La maggior parte dei mezzi di informazione ha prima annunciato un crollo dei consumi (-20% a Natale) e un aumento della povertà (il 15% della famiglie «non ha i soldi per mangiare»), per poi accorgersi che i consumi erano sostanzialmente stabili e le notizie sulla crescita della povertà erano un po’ vecchiotte, visto che risalivano al biennio 2006-2007, ossia alla scorsa legislatura. Prima l’idea sconsolata del Natale povero, poi le immagini delle fiumane di gente in coda per le strade davanti ai negozi, pronta a spendere centinaia di euro a testa in saldi.

Ma non si tratta solo di dati detti e contraddetti. Quando non è il dato ad essere controverso, è la sua interpretazione che diventa ballerina. Nei giorni scorsi abbiamo appreso che il deficit dello Stato nel 2008, il cosiddetto fabbisogno, è risultato di quasi 8 miliardi superiore al previsto. Per alcuni è l’ennesima conferma che Tremonti sa solo sfasciare i conti pubblici, per altri è segno che il governo ha già fatto quello che l’opposizione da tempo gli chiede di fare, ossia allargare i cordoni della borsa per combattere la crisi.

Questa altalena di fatti e contro-fatti, interpretazioni e contro-interpretazioni, rende estremamente difficile orientarsi per capire quel che realmente sta succedendo nel nostro Paese. A mio parere, in questo momento, l’errore di prospettiva più grande che stiamo commettendo è quello di proiettare le nostre paure per eventuali guai futuri sulla realtà, più modesta e meno allarmante, dei segnali che attualmente ci stanno arrivando. Il fatto che nei prossimi mesi possa esserci qualche nuovo crack (come Lehman Brothers), o una crisi di panico dei risparmiatori, o una guerra nucleare fra Israele e Iran, non autorizza a pensare che già ci siamo dentro, né a ignorare i segnali positivi che continuano ad affiancare quelli negativi.

I segnali negativi sono ben noti e ribaditi ad ogni piè sospinto: aumento dei disoccupati e delle ore di cassa integrazione, difficoltà di accesso al credito, crollo della borsa, caduta della produzione industriale e più in generale dell’attività economica. A questi segnali, tuttavia, si affiancano anche parecchi segnali di segno opposto, che tendiamo a ignorare ma su cui sarebbe invece opportuno riflettere.

Primo, e più importante: negli ultimi 6 mesi, soprattutto grazie alla diminuzione dei prezzi (confermata giusto ieri dall’Istat), il numero di famiglie che non riescono a quadrare il bilancio si è ridotto di circa il 30% (indagini Isae di luglio-dicembre 2008), riportandosi al livello del 2006, ossia dell’anno migliore dai tempi dell’introduzione dell’euro (2002). Secondo: finora, le domande per la social card sono poco più di 1/3 del previsto, un fatto che è difficile spiegare solo con i ritardi delle istituzioni e la «vergogna» dei potenziali beneficiari. Terzo: nel corso del 2008 i bandi di gara per le grandi opere hanno avuto un incremento record, pari al 26,9% (dati Crem diffusi pochi giorni fa). Quarto: nonostante la crisi, fra il 2007 e il 2008 l’occupazione dipendente è aumentata di oltre 300 mila unità (ultima indagine Istat, 18 dicembre). Quinto: benzina, gasolio, energia elettrica, mutui, case stanno diminuendo di prezzo. Sesto: a dicembre, per la prima volta da 9 mesi, l’indice Pmi del settore manifatturiero, che misura le aspettative dei responsabili acquisti delle imprese, è salito anziché continuare la sua corsa verso il basso.

Bastano questi segnali a convertire il nostro pessimismo in ottimismo? No, e non solo perché in qualsiasi momento lo tsunami può piombarci addosso dall’esterno, ma perché vi sono rischi strettamente interni che, al momento, paiono sottovalutati dal governo. Il primo, ben noto, è il rischio di un aumento della disoccupazione dovuto al licenziamento di operai e impiegati non tutelati dalla legislazione e dai sindacati: non solo lavoratori atipici, ma anche semplicemente dipendenti in imprese medie e piccole. Il secondo rischio, assai meno noto, è che il rallentamento dell’attività economica costringa a chiudere centinaia di migliaia di artigiani e di piccole imprese, oltre alle più di 200 mila che hanno già chiuso nell’ultimo anno e di cui nessuno parla. Il terzo rischio, forse il più importante, è che anche chi non perderà il posto ma semplicemente teme di perderlo, sia indotto a comportamenti di consumo e di investimento eccessivamente prudenti, contribuendo così, senza volerlo, ad aggravare la recessione in corso. È paradossale, ma dal punto di vista macroeconomico, ovvero del sostegno della domanda, è più importante tranquillizzare i 20 milioni di occupati che si salveranno, che aiutare 1 milione di occupati che il posto lo perderanno davvero.

È dunque su questo versante, quello delle garanzie a chi rischia di perdere il lavoro, che i nostri governanti – ma anche un’opposizione costruttiva – hanno una grande responsabilità. I provvedimenti finora varati, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali, vanno senz’altro nella direzione giusta, ma sono largamente insufficienti se il loro scopo non è semplicemente di tappare qualche falla futura, ma di creare fin da ora un clima di serenità e di fiducia generalizzato. Se si vuole che i comportamenti economici tendano a normalizzarsi, non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse, ma occorre dare un chiaro segnale di attenzione nei confronti di chi teme di perdere il lavoro, sia esso lavoratore atipico o normale, dipendente o indipendente. E l’unico segnale che può funzionare, lo sappiamo tutti, è che gli ammortizzatori sociali diventino automatici, permanenti e universali. Non a caso, nel giro di pochi mesi, il lavoro è divenuto di gran lunga la preoccupazione centrale degli italiani (vedi l’ultimo sondaggio pubblicato da Mannheimer sul Corriere della Sera).

Certo, un’operazione del genere avrà un costo elevato, né potrà essere condotta in pochi mesi o senza fare qualche sacrificio su altri versanti. Ma sono certo che, se il punto di arrivo sarà chiaro, per governo e opposizione sarà più facile trovare un ragionevole accordo, e a quel punto la fiducia, premessa cruciale della ripresa economica, lentamente ma inesorabilmente tornerà a scorrere nelle vene della società italiana. (Beh, buona giornata).

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A Est della crisi economica globale/2.(Fine).

di SIMONE SANTINI – www.clarissa.it

Nelle province rurali ad est della Cina si moltiplicano le manifestazioni di rivendicazione di condizioni di vita più eque e contro la corruzione. L’affermazione di un ceto sociale di nuovi miliardari contro l’impoverimento complessivo attuale è sempre più avvertito come profondamente ingiusto.

Negli ultimi venticinque anni, da quando Deng Xiao Ping annunciò che arricchirsi non era più un peccato contro il socialismo, lo scarto tra ricchi e poveri è aumentato del 50% e in questo campo le politiche del governo per un maggiore bilanciamento del benessere sono fallite. Un rapporto di polizia di inizio dicembre lanciava l’allarme: “I rischi di sommosse su larga scala sono reali”.
Mentre nella regione più produttiva del paese, il Guangdong, le fabbriche chiudono e si licenzia massicciamente, il governo cerca di correre ai ripari. Il presidente della Commissione economica, massimo organo del partito comunista nel settore, ha chiesto alle imprese di stato di non licenziare nessuno nel corso del nuovo anno, le imprese “dovranno mantenere la stabilità dei propri effettivi”. Gli ha fatto eco il presidente della Commissione per le riforme: “Se non gestiremo al meglio le difficoltà attuali, potremmo correre dei seri rischi”.

È la situazione dell’occupazione che si fa grave, ed in modo paradossale. Il tasso di sviluppo per il 2009 è previsto all’8%, straordinario rispetto agli altri paesi industrializzati ma in netto calo rispetto alle due cifre cui era abituata la Cina. Questo non permetterebbe al sistema economico di svilupparsi per assorbire tutti i lavoratori di cui avrebbe bisogno e che potenzialmente potrebbe impiegare. E i nodi vengono al pettine tutti insieme. Le imprese lamentano i lacci anti-inquinamento dovuti alle riforme ambientali che non erano più rinviabili e l’export frena perché lo yuan si sta apprezzando sul dollaro come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale. A questo si deve aggiungere che la crisi recessiva in occidente potrebbe anche determinare politiche protezionistiche nei confronti della Cina: il partito democratico americano, tornato alla Casa Bianca, ha tra i suoi massimi esponenti dei noti fautori di questa linea (come Nancy Pelosi e Hillary Clinton).

La crisi economica del colosso asiatico è dunque strutturale e rischia di esplodere in crisi sociale anti-sistema. La situazione internazionale può diventare così una formidabile arma di destabilizzazione ed eventualmente ricatto nei confronti della classe dirigente cinese da parte di forze che sapessero controllare e indirizzare la crisi mondiale. La domanda da cui siamo partiti si colora di una luce rivelatoria: qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi per ottenerne un vantaggio geopolitico di straordinario valore? Alcuni analisti prevedono che il nuovo equilibrio del pianeta post-guerra fredda, che prevedeva la divisione ideologica tra occidente ed oriente del blocco eurasiatico sotto il controllo della “isola” nordamericana, sarà determinato dalla integrazione tra il grande debitore (gli Usa) e i grandi creditori (Cina e Giappone).

Ovvero, dal secolo Atlantico al secolo Pacifico, in cui la zona eurasiatica non sarà più tenuta sotto controllo attraverso la divisione ma attraverso l’accerchiamento. E, ovviamente, questa architettura, come la precedente, sarà plasmata dal potere finanziario transnazionale: il caos economico mondiale, dunque, come fucina del nuovo ordine mondiale. (Beh, buona giornata).

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A Est della crisi economica globale.(Continua).

di Simone Santini – www.clarissa.it

Qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi economica globale? Se la “crisi terminale del capitalismo” sembra essere stata scongiurata con la socializzazione delle perdite del sistema finanziario internazionale e il suo essere riversata in termini di recessione sulla economia reale (ovvero su imprese e lavoratori), dal punto di vista geopolitico dinamiche parallele appaiono altrettanto chiare.

La globalizzazione, negli ultimi quindici anni, ha avuto questo motore fondamentale: la Cina produceva e gli Stati Uniti consumavano; la Cina vendeva e gli Stati Uniti compravano a debito. Il fenomeno è estremamente più complesso e con molti altri attori, ma questa sintesi essenziale ne svela il meccanismo più vero e cruciale.
Il risultato è che il colosso asiatico è stato il protagonista assoluto della crescita mondiale in questi anni, al punto che l’Asia (o più precisamente la “Cindia” come la chiama Federico Rampini) potrebbe essere il motore dell’umanità di questo secolo e soppiantare la civiltà occidentale.Ma c’è un rovescio della medaglia. La Cina è diventata anche il più grande creditore degli Stati Uniti, avendo sopravanzato in termini assoluti il Giappone nel corso del 2008 detenendo 1.200 miliardi di dollari del debito pubblico americano (seguono in questa classifica, dopo il paese del Sol Levante, i paesi arabi produttori di petrolio del Golfo). Questo elemento apparentemente di forza è in realtà il punto debole centrale della Cina. L’economia di Pechino è legata a filo doppio con Washington e il collasso degli Usa non farebbe che trascinare con sé il Paese del Dragone.

Non è un caso che i cinesi abbiano promesso 600 miliardi di dollari, il 20% del PIL, per salvare il sistema monetario internazionale (il piano Paulson americano ne prevede 700 e la BCE ne ha erogati 550).
La Cina, dunque, nel momento di sua massima espansione si trova anche nel momento di sua massima vulnerabilità e debolezza. Gli americani hanno tutto l’interesse strategico a mantenere legato, e dunque in una dimensione di controllo e dipendenza, l’amico/nemico cinese; questi non può fare altro che cercare di sfuggire alla tutela a stelle e strisce per provare a giocare la sua sfida al mondo voluta dalla sua odierna leadership.

La partita si delinea attualmente su due livelli nevralgici: Pechino ha assoluta necessità di avere un accesso stabile, sicuro ed indipendente, alle materie prime, in particolare alle fonti energetiche. Questo aspetto viene contrastato dagli americani sul piano militare con l’occupazione diretta di Asia centrale e Medio Oriente di cui le guerre di Afghanistan e Iraq sembrano essere solo il preludio.
Sotto un altro aspetto, la crisi economica mondiale sta avendo effetti dirompenti sul fragile equilibrio della società cinese. Nel paese si è innescata una bomba sociale che ora rischia di deflagrare.

Il capitalismo di stato si era retto finora su alcune variabili molto vantaggiose rispetto l’occidente. Da una parte una grande disponibilità di manodopera a basso prezzo, con livelli di produttività altissimi e una possibilità quasi illimitata di sfruttamento. D’altro lato pochi vincoli ambientali e conseguente abbattimento dei costi di produzione, almeno dal punto di vista strettamente economico. Infine, il mantenimento del valore della moneta nazionale, lo yuan, artificialmente basso rispetto al dollaro per favorire l’esportazione.
Ma l’equilibrio si è rotto. Il risultato dello sviluppo tumultuoso di questi anni è stato lo spopolamento delle campagne.

Si calcola ormai che la migrazione interna, l’inurbamento dei contadini che divengono operai, assommi a 230 milioni di persone. In termini assoluti, se 730 milioni di cinesi vivono ancora nelle zone rurali, sono ormai 570 a vivere e lavorare in città. In settori come l’edilizia ed il tessile, i nuovi migranti rappresentano il 70-80% della forza lavoro.
Questo ha determinato la creazione di grosse sacche di povertà e disagio sociale.

Nel 2009 saranno oltre 40 milioni i cittadini che beneficeranno del programma di aiuto statale per gli indigenti nonostante i parametri della soglia di povertà siano un terzo di quelli fissati dalla Banca mondiale (0,31 euro giornalieri contro 0,90). E nonostante tutto, la migrazione interna non si arresta poiché se un contadino guadagna mediamente 425 euro l’anno, un operaio impiegato nei cantieri dei giochi olimpici arrivava ad oltre 200 al mese. (beh, buona giornata)

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Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./4.

Crisi, il Nobel Solow: «Garantire credito
alle imprese e difendere i posti di lavoro»

di Anna Guaita da ilmessaggero.it
NEW YORK (2 gennaio) – Salvare i posti di lavoro, creandone di nuovi e proteggendo quelli ancora esistenti: per il premio Nobel Robert Solow questo deve essere il «primo comandamento» a cui i governi devono ispirarsi per avviare la ripresa economica: «Chi è senza lavoro, chi ha paura di perderlo, vive in una condizione di incertezza. Non è solo ingiusto per la persona stessa, è sbagliato per l’economia: l’incertezza affonda i consumi».

Professore, quanto sarà lunga la crisi?
«Gli ottimisti dicono che finirà entro il 2009, mentre i pessimisti la allungano fino alla metà del 2010. Io mi pongo a metà, penso che cominceremo a uscirne fra la fine dell’anno e l’inizio dell’anno nuovo. Ma bisognerà lavorare per arrivare a questa soluzione. Nel mondo è scomparsa la fiducia, se non la recuperiamo, non ne usciamo».

Tre anni fa, in un’intervista con il nostro giornale, lei esprimeva preoccupazione per le politiche aggressive delle banche, per l’eccessivo indebitamento degli americani, in particolare dei meno abbienti. Era il settembre del 2006 quando disse: ”Chi sta bene finanziariamente cadrà in piedi, ma le classi più povere soffriranno”. E’ successo quel che temeva?
«Mi dispiace dire che avevo ragione. Ma adesso i governi che hanno lasciato che questo succedesse, nella convinzione che i mercati si autoregolamentano, devono trovare delle vie d’uscita. E la prima è di proteggere i posti di lavoro. Sono convinto che Barack Obama intenda muoversi proprio in questa direzione, almeno nei primi tempi della sua presidenza. Sono altrettanto certo che non appena l’economia si sarà rimessa in moto, passerà alla seconda parte del suo programma, che è quello di avviare una riforma che riporti controlli più seri e affidabili».

Lei è stato consigliere di Obama durante la campagna. E il presidente eletto ha scelto vari suoi studenti nella nuova Amministrazione. Quali consigli gli state dando?
«Riguardo alla crisi io la vedo così: è necessario rimettere in moto il credito ed è necessario ridare fiducia alla gente. Il credito è compito della Federal Reserve, che sta facendo del suo meglio per aiutare le istituzioni finanziarie insolventi o con scarsità di liquidi. Qui negli Usa vediamo che qualcosa si sta muovendo. Il congelamento del credito dà i primi segni di scongelamento. La nostra prosperità dipende dalla possibilità delle aziende di avere credito, sia per investire che per pagare i salari. Credo che la Bce stia facendo lo stesso, o almeno me lo auguro».

E come si ridà fiducia alla gente?
«Ripeto: proteggendo il loro posto di lavoro. Ma qui negli Usa Obama ha anche un’altra carta: avviare una riforma sanitaria. Uno dei grandi incubi per i lavoratori americani, che voi fortunatamente non avete, è che con il licenziamento perdono l’assicurazione medica. Spesso quando trovano un altro lavoro, è di qualità inferiore, con meno benefici. Quindi per limitare il senso di insicurezza, bisogna che il lavoratore sappia che anche se per un certo periodo è disoccupato, potrà continuare a curare se stesso, sua moglie e i suoi figli».

Professore lei ha ancora fiducia nel capitalismo americano?
«Ho fiducia che abbiamo imparato la lezione, che abbiamo capito finalmente che il laissez faire non funziona, che dobbiamo accettare un progetto di riforma, e che Obama si sforzerà di realizzarlo».

Lei fu un sostenitore dell’euro. Nel decimo anniversario della sua introduzione, ne è soddisfatto?
«Penso che il mondo, e l’Europa in particolare, abbiano tratto un grande vantaggio dall’euro, che ha portato stabilità nel vostro continente, e una valida alternativa al dollaro sui mercati mondiali. Penso tuttavia che in questo momento anomalo di crisi mondiale, l’Ue dovrebbe permettere ai Paesi in difficoltà dei margini di manovra nel patto di stabilità. Essere rigidi in presenza di una crisi così vasta è da miopi. Garantire una flessibilità, magari temporanea, è saggio. E anche chi si oppone oggi potrebbe finire per averne bisogno presto».
(Beh, buona giornata).

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Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./2.

Uguaglianza e sviluppo
di FRANCO BRUNI da lastampa.it
La crisi come opportunità: su questo insiste il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica. E auspica, fra l’altro, che sia colta l’occasione per ridurre le disparità dei redditi e delle condizioni di vita. È davvero possibile? Si può diminuire l’ingiustizia sociale mentre si è affannati dall’emergenza macroeconomica internazionale? Si può accentuare la funzione ridistribuiva della finanza pubblica quando il bilancio è stressato dalle conseguenze del rallentamento produttivo, come mostrano i dati forniti ieri dal governo?La crisi è esplosa in una fase della crescita globale caratterizzata da crescenti disuguaglianze. Esse sono una ragione di fragilità dello sviluppo e rendono la recessione socialmente e politicamente più preoccupante. Combattere la crisi facendo attenzione agli aspetti distributivi e di giustizia sociale sembra l’unica via per ottenere risultati duraturi. Come si fa?Il cattivo funzionamento e l’inadeguata regolazione di alcuni mercati hanno favorito lo scoppio della crisi. È diffusa la tentazione di dedurne che dalla crisi e dall’ingiustizia si esce andando «contro il mercato». È un’idea sbagliata. Va invece migliorato il quadro di regole e politiche pubbliche.All’interno di quel quadro funzionano liberamente i mercati, permettendo ai loro meccanismi di ottenere sia una ripresa della crescita dei redditi che una loro miglior distribuzione.

Lo strumento principale per influenzare la distribuzione del reddito rispettando i mercati sono le imposte progressive. Una riduzione delle imposte e degli oneri sociali sui redditi da lavoro medio-bassi, migliorerebbe la distribuzione, oltre a stimolare la domanda e ad abbassare i costi del lavoro. È però arduo tagliare le aliquote proprio quando già la crisi contrae il gettito fiscale allargando il fabbisogno. Perché la crescita del debito pubblico non appaia insostenibile ai mercati finanziari, la riduzione immediata delle tasse andrebbe associata a una credibile contrazione, graduale e futura, di molte spese pubbliche. Di quelle inutili e di quelle, come alcuni trattamenti pensionistici, che sono, proprio loro, gravi cause di ingiustizia distributiva fra categorie e generazioni di lavoratori. Occorre inoltre insistere nella riduzione dell’evasione fiscale. Ovvio da dire e difficile da fare: ma la spudoratezza con cui l’evasione continua, per alcune categorie di operatori e di transazioni, rende precaria e artificiale la condizione apparentemente migliore di chi evade, è fonte di distorsioni competitive, di ingiustificate disuguaglianze, ed è insopportabile, soprattutto in tempi di crisi.

Per favorire, insieme, il mercato e la giustizia distributiva, è indispensabile, soprattutto in Italia, arricchire e migliorare gli ammortizzatori sociali. In una fase di profonde ristrutturazioni produttive, gli aiuti per chi perde il posto vanno messi a disposizione, senza ingiusti privilegi per le categorie di lavoratori più protette, in forme che aiutino a chiudere le imprese meno efficienti e spostare i lavoratori verso nuovi impieghi. Le regole devono avere applicazione generale e vanno evitati trattamenti ad hoc, come quelli proposti per il caso Alitalia, che sono fonte di maggiori, anziché minori disuguaglianze.

Complementare all’assistenza alla disoccupazione è l’adozione di salari minimi e imposte negative per i più poveri. Inoltre, quando gli ammortizzatori sono adeguati, una forte decentralizzazione della contrattazione salariale può migliorare, insieme, l’allocazione di mercato delle risorse, la velocità di crescita dei redditi e la giustezza della loro distribuzione. Una giustezza che deve riflettere la crescente importanza e diversità delle competenze e delle abilità dei singoli lavoratori.

È stato calcolato, in molti Paesi, che una parte considerevole dell’aumento della disuguaglianza dei redditi dell’ultimo decennio è dovuta alle retribuzioni fuori misura dei dirigenti di imprese e banche. Non è demagogico sperare che la crisi sia occasione per rimediare alle anomalie di sistemi di fissazione dei compensi che, oltre a eccessive disparità distributive, hanno creato incentivi per comportamenti manageriali arrischiati e inopportuni. I rimedi vanno decisi soprattutto all’interno delle imprese, anche se la politica può facilitarne e sollecitarne l’adozione.

Il contenimento delle disparità dei redditi e delle condizioni di vita, oltre al risultato di provvedimenti specifici, è prezioso sottoprodotto di diverse altre politiche utili a gestire la crisi. Esse non sono contro i meccanismi di mercato ma, anzi, li rendono più fluidi e produttivi. Le politiche in difesa della concorrenza, contro i privilegi oligopolistici e i protezionismi corporativi, rafforzano i mercati e hanno ovvie implicazioni di giustizia distributiva. Parlare oggi di liberalizzazioni può apparire stonato: eppure si tratta di provvedimenti che, oltre a rilanciare la crescita, servono proprio a far giustizia. Il miglioramento dell’efficienza e la riduzione degli sprechi nella produzione dei servizi pubblici, dalle scuole alla sanità alla giustizia al verde delle città, beneficia molto di più i meno fortunati e i più deboli. Il drastico ridimensionamento del numero e dei privilegi della casta politica libera risorse per la crescita dei mercati e fa giustizia, nel senso più elementare del termine.

Ha dunque ragione il Presidente: non c’è affatto contrasto fra le politiche per riprendere a crescere e l’attenzione alla giustizia distributiva. Il nostro Paese, come tanti altri, può svincolarsi meglio dalla morsa della crisi se ha anche l’ambizione di uscirne più giusto. (Beh, buona giornata).

franco.bruni@unibocconi.it

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Oui, je suis Alitalia.

di TITO BOERI da repubblica.it


DIECI mesi dopo, con quasi lo 0,3 per cento di pil sottratto ai contribuenti e 7.000 posti di lavoro in meno, Alitalia torna a parlare francese. Era il 14 marzo 2008 quando Air France-KLM depositava la propria offerta vincolante, subito accettata dal Consiglio di Amministrazione di Alitalia. Sono stati 10 mesi da incubo per i viaggiatori, presi ripetutamente in ostaggio in una battaglia senza esclusioni di colpi in cui la politica ha occupato un ruolo centrale, dimentica della recessione che ci stava investendo. In questi 300 giorni gli italiani hanno visto franare il prestito ponte di 300 milioni di euro concesso quasi all’unanimità dal Parlamento italiano. Oltre a perdere così un milione al giorno, i contribuenti si sono accollati i debiti contratti dalla bad company per quasi tre miliardi.

Ci sono poi circa 7.000 posti di lavoro in meno nella nuova compagnia rispetto all’offerta iniziale di Air France, che comporteranno, oltre ai costi sociali degli esuberi (soprattutto di quelli che riguardano i lavoratori precari), oneri aggiuntivi sul contribuente legati al finanziamento in deroga degli ammortizzatori sociali, per almeno un miliardo di euro. Il conto pagato dal contribuente è, dunque superiore ai 4 miliardi di euro, più o meno un terzo di punto di pil, quasi due volte il costo della social card e del bonus famiglia messi insieme.

Sarà Air France-KLM l’azionista di maggioranza, in grado di decidere vita, morte e miracoli della compagnia sorta dalle ceneri di Alitalia. Poco importa che sia italiana la faccia, che si chiami ancora Alitalia la nuova compagnia. Sarebbe stato così comunque, anche con il 100 per cento del capitale nelle mani di Air France-KLM. Come canta Carla Bruni, chi mette la faccia “non è nulla”, chi mette la testa “è tutto”.


La composita cordata italiana ha dovuto subito rinunciare all’italianità della compagnia perché non era da sola in grado di far decollare neanche il primo aereo, previsto in volo sui nostri cieli il 13 gennaio prossimo venturo. Air France rileva il 25% della nuova compagnia, versando 300 milioni. Questo significa che il 100 per cento del capitale viene oggi valutato 1200 miliardi, circa 150 milioni in più dei 1052 pagati a Fantozzi da Colaninno e soci solo un mese fa. Questo sovrapprezzo si spiega col fatto che CAI ha nel frattempo acquisito Air One. Si tratta di una compagnia in crisi, con un debito verso i soli fornitori valutato attorno ai 500 milioni di euro, ma il valore dell’acquisizione di Air One è tutto nella soppressione dell’unico concorrente sulla tratta Milano-Roma, consumatosi con il beneplacito della nostra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Anche questi 150 milioni vanno aggiunti al conto pagato dagli italiani. E’ sono sicuramente una sottostima dei costi che dovremo pagare per la mancata concorrenza.

Conti fatti, è soprattutto Air France dunque ad aver fatto un affare. Rileva una compagnia più leggera di 7000 dipendenti rispetto a quella che avrebbe acquisito nel marzo scorso, che ha nel frattempo assunto una posizione di monopolio nella tratta più redditizia versando molto meno di quel miliardo su cui si era impegnata solo 10 mesi fa.

Dopo avere subìto un danno ingente in conto capitale e avere assistito alla beffa finale di vedere documentata, nero su bianco, la svendita della loro compagnia di bandiera allo straniero da parte dei “patrioti” della Cai, i cittadini italiani rischiano ora di vedere salire ulteriormente le tariffe aeree, in barba alla deflazione. Per scongiurare questo pericolo l’Autorità Antitrust dovrà assicurarsi fin da subito che gli slot lasciati liberi da Alitalià vengano venduti sul mercato. Le speranze di concorrenza in Italia riposano ormai solo sull’ingresso di Lufthansa-Italia nella tratta Milano-Roma. Varrà senz’altro molto di più della moral suasion esercitata da chi, dopo aver benedetto la fusione fra CAI e Air One il 3 dicembre scorso, oggi promette di monitorare da vicino le tariffe della nuova compagnia.  (Beh, buona giornata).

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Crisi economica: una volta l’operaio voleva il figlio dottore, oggi anche il dottore ha il figlio precario.

L’INCHIESTA/ Il futuro impossibile degli under 35
Tre milioni di lavoratori a termine senza tutele

Giovani precari vittime predestinate
generazione a rischio per la crisi

Flessibilità significa che è più facile assumere. Il problema è che adesso
stiamo vedendo il rovescio della medaglia: è più facile anche licenziare
di MAURIZIO RICCI da repubblica.it

ROMA – “Una vita senza futuro, senza progetti. Del resto, chi si può permettere dei progetti, quando non puoi comprare un mobile a rate o fare un mutuo per la casa? Sei appesa al nulla”. Giovanna, quarantenne, precaria all’ufficio cassa di un ospedale abruzzese, campa da dodici anni di proroghe di tre, sei mesi del contratto: il presente le offre molto poco. Ma è molto, molto meglio del futuro, che è diventato un incubo.

L’incubo della tagliola: “Il contratto scade a fine gennaio. Chi sa cosa succederà? Io ho paura”. Gianluca, 29 anni, laureato in Scienze della comunicazione, tre anni nel call center di una grande azienda, il contratto l’ha già perso. Scade a fine dicembre e sa già che non glielo rinnoveranno. “Cosa faccio? Torno dai miei. Non ne ho nessuna voglia e la sento come una sconfitta. Ma non posso stare in mezzo alla strada. E poi? Boh. Ho provato a chiedere in giro, ma i miei amici stanno come me”.

La crisi economica, la recessione, stanno arrivando in queste settimane. Ma questa non è una crisi come le altre che l’hanno preceduta. E’ diversa, perché ha delle vittime predestinate. I sindacati lanciano un allarme a tutto campo. La cassa integrazione è cresciuta del 25% questa estate. In Lombardia è raddoppiata. I posti di lavoro a rischio, nei prossimi due anni, sono 900 mila solo nell’industria. Compresi commercio e servizi, potrebbero arrivare a un milione e mezzo.

Sono cifre enormi per un paese con 17 milioni di lavoratori dipendenti. Ma questa è la parte forte del mercato del lavoro, protetta da sussidi e garanzie che attutiscono l’impatto del taglio dei posti di lavoro. La mattanza dell’occupazione comincerà altrove, nella parte più debole ed esposta delle maestranze. Le vittime predestinate sono gli apprendisti, collaboratori, meglio noti come cococò, somministrati, interinali, a tempo determinato. L’esercito dei tre milioni di precari, che hanno monopolizzato il mercato del lavoro degli ultimi anni e per i quali non è necessario il licenziamento o l’anticamera della cassa integrazione: basta non rinnovare il contratto.

Perché questa è la prima crisi dell’era della flessibilità e tutto sta funzionando come prevedono i manuali. Flessibilità significa che è più facile assumere. Il problema è che, adesso, stiamo vedendo il rovescio della medaglia: è più facile anche licenziare. In teoria ? dicono sempre i manuali ? questo è un bene. Le imprese sono in grado di alleggerire rapidamente i costi, tagliando il personale. Così sgravate, reggono meglio la crisi e, non appena il vento dell’economia girerà, potranno riprendere più velocemente la corsa, tornando ad assumere. La teoria funziona, quando la crisi riguarda un’impresa o un gruppo di imprese. Quando è generale, l’impatto sociale è devastante, perché gente come Giovanna e Gianluca deve riuscire a galleggiare senza salvagente.

I numeri non sono facili da mettere insieme. Nel caso degli interinali (oggi si chiamano somministrati), Ebitemp, l’ente bilaterale per il lavoro temporaneo, calcola che il personale gestito dalle agenzie del lavoro in affitto, fra luglio e settembre sia calato del 7,6%. Soprattutto, sono scese di oltre il 21% le richieste di personale. Stefano Sacchi, Fabio Berton, Matteo Richiardi, in un articolo per lavoce.info stimano che solo metà degli interinali abbia qualche forma di protezione, quando resta senza lavoro.

Questa percentuale scende sotto il 40% per il milione e mezzo di lavoratori a tempo determinato: oltre 600 mila dipendenti a contratto rischia di restare in mezzo alla strada. Lo stesso vale per mezzo milione di cococò. In totale, oltre un milione di persone, per cui la crisi significa solo un buco nero. “Senza indennità, senza pensione, senza liquidazione: se non mi rinnovano il contratto, come mangio il prossimo mese” si domanda angosciata Giovanna?

Il momento della verità arriverà nei prossimi giorni, a spegnere, per molti, il Natale. Un precario su dieci balla, infatti, proprio adesso, sulla corda. Dicembre è un mese come tutti gli altri, ma, a fine anno, per motivi burocratici, viene a scadenza il 40% in più dei contratti, rispetto agli altri mesi. Sacchi e i suoi colleghi hanno calcolato che, il 31 dicembre, oltre 300 mila precari, sui 3 milioni totali, si troveranno a rinnovare i loro contratti: 193 mila tempi determinati, 10 mila apprendisti, 16 mila interinali, 64 mila cococò. In tempi normali, l’84% degli interinali e il 50% dei collaboratori coordinati ottiene automaticamente il rinnovo. Ma questi non sono tempi normali. Ancora: in tempi normali, un interinale aspetta 9 mesi per trovare un nuovo posto, un cococò anche 19. Ma ora? “Boh” come dice Gianluca.

Questa è una crisi diversa dalle altre perché non colpisce, come avviene di solito, alcuni settori, alcune categorie più di altre. Questa crisi colpisce una classe di età, come ai tempi del militare. E’ la crisi dei “bamboccioni”, per dirla con Padoa-Schioppa. O, meglio, di quelli che, in questi anni, hanno trovato un lavoro. E’ la crisi dei giovani, perché è la crisi dei precari e il precariato è l’unica forma di lavoro che i giovani hanno trovato. L’interinale tipo ha 32 anni. Uno su due ha meno di 30 anni. Se la crisi sarà dura come dicono, un’intera generazione rischia di essere ributtata indietro, espulsa dal mercato del lavoro.

In affitto come interinali o somministrati, collaboratori coordinati e continuativi o a progetto, a tempo determinato, questi, e non altri, sono i lavori che hanno trovato ragazzi e ragazze usciti, negli ultimi anni, dalla scuola. “Almeno due terzi dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro ? dice Sacchi ? in questi anni sono avvenuti con contratti atipici”. All’Istat sono appena più prudenti: “sia nel 2006, che nel 2007 ? spiega Mario Albisinni ? il 45% delle nuove assunzioni è stato a carattere temporaneo”.

I numeri, qui, aiutano a raccontare la storia di questi anni. Fra il secondo trimestre del 2004 e il secondo trimestre del 2008, gli occupati sono aumentati del 5% e, fra questi, i lavoratori dipendenti dell’8%. Quanti, di questi ultimi, con un contratto a tempo indeterminato, di quelli normali, con pensione, Cig e liquidazione? Ci sono state oltre 800 mila assunzioni di questo tipo: i contratti a tempo indeterminato sono cresciuti di quasi il 6%. Ma, attenzione, è una faccenda da adulti. Quanti di questi nuovi contratti permanenti riguardano, infatti, giovani under 35? La risposta è che il numero di lavoratori sotto i 35 anni con un contratto a tempo indeterminato è, in realtà, diminuito. I bamboccioni in rotta per la pensione, rispetto a quattro anni fa, sono quasi mezzo milione in meno: un taglio del 9%.

E dove sono finiti? Fra i precari. I lavoratori dipendenti a carattere temporaneo sono cresciuti, negli ultimi quattro anni, da 1 milione 900 mila a quasi due milioni e mezzo. Oltre metà di questo aumento è dovuto agli under 35. Poi c’è poco meno di mezzo milione di cococò, formalmente lavoratori indipendenti, ma, lo dice anche l’Istat, in concreto dipendenti a tutti gli effetti. Tre milioni di precari. Sei su dieci hanno meno di 35 anni. Saranno loro i primi a subire l’impatto di una crisi che, dicono gli economisti, può essere la più grave degli ultimi settant’anni. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

La crisi non paga, il Governo non si spende.

da corriere.it

«Il governo riduca le tasse sui redditi da lavoro e pensione»

Cgil: «Retribuzioni ferme nel 2008»

L’aumento delle buste paga azzerato dall’inflazione. E aumenta il divario tra operai e imprenditori

ROMA – Retribuzioni al palo nel 2008: secondo le stime Ires Cgil – che anticipano i dati del rapporto sui salari che saranno diffusi a gennaio – l’anno in corso si chiuderà con una crescita delle buste paga del 3,4%-3,5%, sostanzialmente alla pari con l’andamento del tasso di inflazione. Per il segretario confederale della Cgil e presidente dell’Ires, Agostino Megale, «questo significa retribuzioni ferme».

CALA LA DISPONIBILITA’ REALE – «Le retribuzioni nel 2008 – spiega Megale – chiuderanno sostanzialmente alla pari con il tasso di inflazione: entrambi saranno probabilmente tra il 3,4% e il 3,5%. Questo significa che le retribuzioni saranno più alte solo nominalmente del 2007, ma più basse in termini di disponibilità reale. Nella sostanza ciò significa: retribuzioni ferme».

FORBICE – Non solo. Aumenta la forbice di reddito tra operai-impiegati e imprenditori-liberi professionisti: tra il 2002 e il 2008 le buste paga dei primi hanno fatto registrare una diminuzione di 1.600 euro mentre i redditi dei secondi sono aumentati di 9 mila euro. «Il segno dell’impatto della crisi sulle retribuzioni è evidenziato anche dalla forbice che si è prodotta nell’aumento delle disuguaglianze reali poiché tra il 2002 e il 2008, mentre le famiglie con capofamiglia imprenditore o libero professionista registrano un aumento del reddito di oltre 9 mila euro, le famiglie di impiegati o di operai subiscono una diminuzione di 1.600 euro» afferma Megale. «Ecco perché – continua – continueremo ad insistere affinché ciò che il governo non ha fatto fin qui, lo faccia a partire dal nuovo anno, riducendo le tasse sui redditi da lavoro e pensione in modo tale da poter rilanciare i consumi». (Beh, buona giornata).

 

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Cosa significa il tonfo dei consumi di Natale.

 

Secondo i dati del Codacons i consumi italiani, nel periodo natalizio, sono scesi del 20% rispetto all’anno scorso e per i prossimi saldi le attese sono per un calo degli acquisti del 30% rispetto all’anno scorso. Secondo Federconsumatori-Adusbef, inoltre, per i regali di Natale, gli italiani hanno speso quest’anno 2 miliardi in meno rispetto all’anno scorso.  A questo dato si aggiunge il rilevamento del’Osservatorio del turismo, secondo il quale i viaggi per le vacanze invernali registrano una flessione del 15%.  Se confermati, il combinato disposto tra questi due dati ci dice che non solo i ceti meno abbienti, ma anche i ceti medi si sono trovati in grave difficoltà economica in questa fine d’anno.

Il tonfo dei consumi che si è registrato a Natale significa almeno tre cose.

La prima è che gli appelli all’ottimismo e le professioni di fiducia sono risultati del tutto vani, se non addirittura hanno peggiorato la percezione della crisi. In principio si è voluto sottacerne la portata, poi si sono fatte ammissioni a mezza bocca, infine si cercato di minimizzare. E’ sembrata la barzelletta del medico che chiama il suo paziente per annunciargli una brutta notizia e una pessima: “ la brutta notizia è che lei ha ventiquattro ore di vita, la pessima è che mi sono dimenticato di telefonare ieri.” Per una volta,  nello spazio di poche settimane, realtà e percezione della realtà sono arrivate in perfetta sincronia alle feste natalizie.

La seconda cosa che il tonfo dei consumi ha dimostrato è che le misure anticrisi si sono rivelate del tutto tardive e inefficaci. L’attitudine “compassionevole” ha deluso e preoccupato. Non si è avuto il coraggio di operare scelte coraggiose, come in altri paesi della Ue si è fatto per tempo. Bonus figli e social card sono scivolate via come l’acqua.  In proporzione, ha fatto meglio il cardinale Tettamanzi a Milano che il capo del governo a Roma. Chi diceva che il pacchetto anti-crisi era vuoto aveva ragione. Chi sosteneva e sostiene ancora la necessità di un forte intervento del welfare (Obama docet) ha visto per tempo la portata della crisi economica. Le ragioni dello sciopero generale indetto dalla Cgil, dai sindacati di base e dall’Onda degli studenti c’erano tutte. Avrebbero, per altro, fermato la tendenza alla messa in cassa integrazione generalizzata, nonché ai tagli pesanti e generalizzati degli occupati, scelte spesso proditorie, più politiche che economiche assunte da Confindustria per forzare la mano degli aiuti alle imprese. Ostinarsi a non favorire salari e stipendi, chiudere gli occhi di fronte al precariato ha materialmente depresso i consumi, oltre che frustrato i livelli economici delle famiglie, impoverendole sia di soldi che di futuro.

Il tonfo dei consumi ha un terzo risvolto, che riguarda l’inefficacia dimostrata della pubblicità durante questa crisi. La tv ha fallito. In Italia circa il 70% delle risorse pubblicitarie sono investite in televisione, a danno della carta stampata e degli altri mass media, compreso internet. Dunque, il fallimento della tv è ancora più clamoroso. C’è una vera e propria emergenza che colpisce la comunicazione commerciale in Italia. Allo strutturale ritardo nello sviluppo di forme più moderne e articolate di comunicazione pubblicitaria si è aggiunta la cecità di chi crede ancora che prendere a ceffoni il telespettatore con una gragnola di spot e di telepromozioni sia sufficiente per superare il crollo della propensione alla spesa di milioni di italiani.

Il comune denominatore dei tre significati del tonfo dei consumi natalizi è che le cure si sono rivelate peggiori del male. Bisogna cambiare medico (infermieri compresi).  Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

La crisi economica e il modo migliore per affrontarla.

La crisi come occasione
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

La parola crisi è tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: più che una parola, è albero dai rami incessanti. In greco antico significa un gran numero di cose tra cui: separazione, scelta, giudizio. Il verbo, krino, vuol dire anche decidere. In medicina si parla di giorno critico o di giorni critici: per Ippocrate (e per Galeno nel secondo secolo dC) è l’ora in cui la malattia si decide: o precipita nella morte o s’affaccia alla ripresa. È il punto di passaggio, di svolta. Il termine riapparve nei sommovimenti enormi del ’700: nella rivoluzione francese, in quella industriale. La vera crisi, per Burckhardt, non cambia solo i regimi: scompone i fondamenti della società, come avvenne nelle migrazioni germaniche. Quel che la caratterizza è la straordinaria accelerazione del tempo: «Il processo mondiale d’un tratto cade in preda a una terribile rapidità: sviluppi che solitamente mettono secoli a crescere, passano in mesi e settimane come fantasmi in fuga» (Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale).

Il concetto di crisi fu evocato con affanno sempre più frequente dopo il primo conflitto mondiale. Lo storico Reinhart Koselleck la chiama «cataratta degli eventi» e sottolinea il suo volto ambiguo: è una condanna, ma anche un’occasione che ci trasforma. Nel Vangelo di Giovanni (5, 24) Gesù la raffigura come temibile: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita». Nella versione greca, andare incontro al giudizio è letteralmente «entrare nella krisis», nel processo. Al tempo stesso crisi è intelletto all’opera, che redime: «L’uomo che non ha alcuna krisis non è in grado di giudicare nulla», scrive Johann Heinrich Zedler nell’Universal-Lexikon del 1737.

Anche la crisi che traversiamo oggi è «vera crisi»: momento di decisione, climax d’un male, e se ne abbiamo coscienza, occasione. Uscirne è possibile, purché non manchi la diagnosi: secondo Galeno, i giorni critici sono valutabili solo se l’inizio del male è definito con precisione.
Gli economisti non bastano a tale scopo, e ancor meno i politici. Spesso vedono le cose più da vicino i letterati, i filosofi, gli storici, i teologi, i medici. Se la società è un corpo – dagli esordi è la tesi dei filosofi – questi sono i suoi giorni critici: può morire o guarire, mutando forma e maniere d’esistere.

Pietro Citati individua la radice del male nella passione dei consumi: frenesia che descrive con parole deliziose, ironiche, sgomente, evocando la telecamera americana che nel 1952 riprese una massaia che s’aggirava nel supermercato (Repubblica, 3 dicembre 2008). La camera registra i movimenti delle sue palpebre ed ecco d’un tratto i battiti crollano davanti agli scaffali, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto, da trentadue che erano: «Una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli». Sono decenni che nuotiamo come pesci, gli occhi sbarrati, consumando senza fiutare la crisi: scriteriati. Questo ci ha cambiati profondamente. In America ha distrutto il risparmio.

Ovunque, politici e responsabili finanziari sbigottiscono davanti all’incanto spezzato (alla bolla scoppiata). Vorrebbero che la stoffa di cui è fatto – l’illusione – non si strappasse mai: perché le campagne elettorali son cucite con quei fili, vivono della chimera d’un progresso ineluttabile, senza costi. L’America dopo il Vietnam respingeva le guerre: le voleva «a zero morti». Poi ricominciò a volerle, ma «a zero tasse». Importante nell’ipnosi è accaparrare sempre più, anche se mancano i mezzi: l’ipnosi, restringendo la coscienza, è il contrario della crisi. In America finanza e politica estera sono «entrate nella crisi» simultaneamente. Il 7 agosto inizia la guerra georgiana, e pure i ciechi scoprono che Washington non può alcunché: ha aizzato Saakashvili, ma senza mezzi per sostenerlo. Esattamente un mese dopo, fra il 7 e il 16 settembre, scoppia la bolla finanziaria (salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, poi bancarotta di Lehman Brothers, poi salvataggio di Aig). Per decenni si è sentito dire: ci sono compagnie troppo grosse per fallire. Era menzogna: non erano troppo grandi né Lehman, né l’impero Usa. Le bolle esistono nella finanza, in politica, nelle teste. Sono i giorni critici della nostra mente.

La trance ipnoide ha stravolto modi di vivere, di convivere con l’altro in casa e nel mondo. Ci ha chiusi nella sfiducia. Lo storico Andrew Bacevich lega tutte queste esperienze, e racconta come dall’impero della produzione l’America sia passata, ancor prima di Reagan, all’impero dei consumi (The Limits of Power, Metropolitan Books 2008). Nel tragitto si son perse (specie in America) nozioni fondanti: la nozione del debito, che nella nostra cultura non è senza colpa ed è divenuto un fine positivo in sé, incondizionato. La nozione della fiducia, senza cui ogni debito degrada. La nozione del limite. Il Padre nostro dice, in Luca 11, 2-4: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». In ebraico peccato e debito sono un’unica parola. La poetessa Margaret Atwood ricorda come il concetto di debito – essenziale nel romanzo dell’800: Emma Bovary si suicida perché un creditore non ripagato minaccia di rivelare il suo adulterio – sia oggi vanificato (Payback: Debt and the Shadow Side of Wealth, Toronto 2008). Soprattutto in America, le banche spingono all’indebitamento, più che a prudenza e risparmio. Scrive Zygmunt Bauman che un debitore che vuol restituire puntualmente (che «pensa al dopo») è sospetto: è «l’incubo dei prestatori». Non è «di alcuna utilità», perché il debito riciclato è fonte prima del loro profitto costante.

Ma il debito sconnesso da fiducia non è pungolato solo da banche o Wall Street. È un ottundersi generale dei cervelli, è l’ebete pensare positivo che il governante invoca con linguaggio sempre più pubblicitario, sempre meno politico. Main Street – che poi siamo noi, cittadini e consumatori – è vittima tutt’altro che innocente di Wall Street. Come nel Grande Crollo del ’29 descritto da John K. Galbraith, siamo affetti da una follia seminale (seminal lunacy) che accomuna potenti e milioni d’impotenti. Per questo è così vacuo il politico che incita a ricominciare i consumi come se niente fosse. Il suo dichiarare, i linguisti lo definiscono performativo: basta dire «la crisi non c’è», e la crisi smette di essere (le dichiarazioni performative sono predilette da Berlusconi). I politici sono responsabili, avendo ceduto a un mercato senza regole. Ora intervengono, ma senza curare la fonte del male. La crisi, cioè la svolta trasformatrice, è rinviata.

Naturalmente hanno le loro ragioni: il crollo dei consumi farà male. Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley Asia, ricorda che comporterà disoccupazione dilatata, ulteriori cadute dei redditi e del valore delle case, aumento dei debiti, credito scarso. Ma qualcosa di non negativo può nascerne: un rapporto col debito più realistico e leale, una fiducia riscoperta, un consumo adattato alle possibilità (New York Times, 28 novembre).
Crisi vuol dire decidere, a occhi non sbarrati come la massaia del ’52 ma aperti: sul peggio sempre possibile, sulle bugie del pensare positivo, sulla duplice responsabilità verso la Terra che roviniamo, e verso i figli cui addossiamo i nostri debiti. Terra e figli sono i nostri discendenti: ignorarli perché i loro tempi son più lunghi dei nostri e perché non abiteremo il loro mondo (un mondo con meno petrolio, meno automobili) è senza dignità e chiude speranze altrui. Crisi è sottoporsi al giudizio, al processo. È ora che il processo cominci. (Beh, buona giornata).

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