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Attualità Finanza - Economia Lavoro

La cena che si è fatta beffe dei lavoratori di Alitalia.

In gran spolvero, l’altra sera a Villa Madama sono convenuti i nuovi padroni della Cai, la cordata dei “patrioti”, come sono stati definiti dal presidente del consiglio gli industriali italiani che hanno rilevato Alitalia. Ignari anche del solo senso della decenza, auto di lusso con autisti e scorte al seguito sono sfilate di fronte a un paio di centinai di lavoratori, andati lì a protestare contro questo sfoggio di ottimismo sulla loro pelle, questa sfacciata esibizione di potere politico ed economico. Un pessimo esempio di tracotanza, in periodo di crisi che consiglierebbe, almeno, un poco di sobrietà. Uno schiaffo umiliante sulla faccia di undicimila lavoratori, ai quali si stanno recapitando le lettere di messa in cassa integrazione a zero ore.

Mentre si procrastina di data in data la partenza della nuova compagnia e quindi le lettere di assunzione ancora non sono state spedite, la condizione materiale e psicologica dei lavoratori di Alitalia è molto vicina al dramma. Proprio mentre si alzavano i calici a Villa Madama, migliaia di persone si stanno chiedendo che razza di Natale passeranno loro, i loro figli, i loro famigliari.

Ho parlato al telefono con Paolo Maras, segretario di Sdl, uno dei sindacati di base che si è opposto al famigerato “Lodo Letta”. Mi ha detto cose che mi hanno messo di cattivo umore: mi parlava di uomini fatti e di donne con figli a carico visti piangere lacrime di rabbia e impotenza, agitando quelle lettere, come fossero tante sentenze di condanna definitiva all’ espulsione dal mercato del lavoro.

Mentre il capo del governo prometteva ai suoi ospiti tanti futuri guadagni dall’operazione Cai, e forse ha calcato la mano proprio perché qualcuno di loro non si sfili all’ultimo momento, come pare sia intenzionato a fare, ai piloti, agli assistenti di volo, ai tecnici, agli impiegati, agli operai e agli addetti aeroportuali non rimane che prendere atto di essere stati le cavie di un laboratorio, il cui esperimento politico e sociale rischia di essere esportato anche in altri settori imprenditoriali.

Alitalia era un azienda a partecipazione statale, la nuova compagnia è una azienda a “partecipazione governativa”, che ha violentato le relazioni industriali, ha messo alla gogna il sindacato, ha spazzato via diritti acquisiti dai lavoratori, compreso il riconoscimento dell’anzianità del servizio prestato in Alitalia. Se in tutto il mondo l’economia globalizzata sta cercando di uscire dalla crisi economica, riformando, in tutto o in parte il teorema “meno stato, più mercato”, in Italia si sperimenta una nuova formula: “meno stato, più Berlusconi”. Questo laboratorio politico e sindacale si è avvalso di una enorme macchina propagandistica, di complicità oggettive di gran parte dei media, di un tacito, quando non smaccatamente esplicito consenso trasversale, fin dentro le forze dell’opposizione parlamentare per far passare i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali come corresponsabili e complici del fallimento della compagnia.

Oggi che quei lavoratori sono stati decimati dal plotone d’esecuzione di norme e regole del nuovo contratto, che non si sono neppure volute discutere con i sindacati, alla maggioranza degli esclusi non si riconosce nemmeno l’onore di aver fatto per anni il loro dovere di professionisti, di essere stati il vero legame con la clientela di Alitalia. Quella clientela che verrà trattata con la stessa moneta con cui si sono trattati i dipendenti, come dimostrano le deboli raccomandazioni dell’Antitrust in materia di tariffe e di tratte.

Nella cena di Villa Madama si è consumato un pasto macabro, il conto salato lo pagheranno i cittadini, i passeggeri, i futuri dipendenti della nuova compagnia. Ma soprattutto il conto lo pagherà la democrazia sindacale del nostro paese, l’intero movimento dei lavoratori italiani. In un paese che vanta più di mille morti sul lavoro nel 2008, si è voluto aggiungere il sovrapprezzo della pulizia etnica contro i lavoratori del trasporto aereo, i lavoratori precari in prima fila.

Il presidente del consiglio ha detto ai suoi ospiti di Villa Madama che la Cai sarà un nuovo asset capace di intercettare lo sviluppo del turismo da e verso l’Italia: parole “patriottiche” che nascondono, neanche poi tanto, l’augurio che l’esperimento Cai tracci la nuova rotta che dovranno prendere in futuro le relazioni tra Capitale e Lavoro. Si tratta di un piano di volo che prevede una precisa rotta di collisione, dalla quale i lavoratori ne escano con le ossa rotte, la dignità offesa, il futuro inesistente.

Alla cena di Villa Madama si è inaugurata in Italia la teoria della lotta di classe al contrario. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Perché il governo di destra non è all’altezza della crisi.

Pubblico un ampio stralcio di un articolo del fondatore de La Repubblica, tratto da repubblica.it. Mi sembra la fotografia molto nitida dell’atteggiamento politico del governo italiano di fronte alla crisi economica attuale. La domanda è: perché l’attuale governo non è all’altezza della crisi? Credo la risposta sia: chi è politicamente figlio del neoliberismo, chi ha creduto fermamente nel paradigma “meno stato, più mercato”, chi praticato la “finanza creativa”, chi ha osannato il susseguirsi delle “bolle speculative” come contributo alla crescita economica, chi ha fatto degli stilemi del capitalismo senza regole la sua idea-forza non può guidare il Paese fuori dalla crisi, senza creare ulteriori disastri politici, sociali ed economici. Chi è parte del male, può essere la medicina contro la malattia? Beh, buona giornata.

Campane d’allarme
e trombe stonate
di EUGENIO SCALFARI

NON c’è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.

Due hanno dimensioni nazionali e sono l’allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell’economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.

La stampa americana parla ormai correntemente di “great depression, part 2” riferendosi a quella del ’29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l’Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l’industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell’Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.

Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.

L’effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull’occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un’accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.

Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l’apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.

Tra tanti germi negativi che l’America ha già disseminato nel resto dell’Occidente, l’effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?

Joseph Stiglitz in un’intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.

Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all’opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.

Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all’interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.

Ricordo a chi non lo sapesse o l’avesse dimenticato che fu l’allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un’imposta unica basata sui consumi e un’imposta patrimoniale di successione che al di là d’una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un’aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?

* * *

Il nostro governo e il nostro ministro dell’Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici “sono in sicurezza”. Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.

Quest’ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l’euro senza il quale staremmo da tempo sott’acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.

Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell’evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l’abolizione dell’Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l’anno; l’Alitalia tricolore è costata all’erario 3 miliardi (se basteranno).

Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un’elemosina di 6 miliardi “una tantum” alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all’Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).

Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po’ meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).

Il peggio deve venire dice Tremonti e ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c’è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell’Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all’opposizione. Per Tremonti la via d’uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

La crisi e le imprese. Allegato 3° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

Un primo concreto passo avanti.

Di Alberto Orioli, da sole24ore.com

 

Se l’algido linguaggio legislativo lasciasse spazio ai sentimenti, il decreto varato ieri si intitolerebbe: «Disposizioni urgenti sulla fiducia e l’ottimismo di Stato». Almeno questo è l’obiettivo del progetto neo-keynesiano messo a punto da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Ma i fatti e il contesto rendono molto difficile forzare le cose dell’economia e tantomeno le emozioni collettive anche per chi, con tenacia, persegue la politica della positività (e del consumo).
L’Europa ha scelto la via di un semi-bluff, ben presto smascherato. Il piano Ue, un agglomerato di fondi nazionali – il cui totale rischia di diventare meno della somma degli addendi – invece di creare speranza rischia di indurre l’effetto contrario e di innescare una guerra tra poveri nei Paesi di Eurolandia. La scelta di Londra di abbattere l’Iva e la tentazione di Berlino di aiutare l’auto tedesca rischiano di dare un pericoloso segnale di “liberi tutti” proprio mentre servirebbe una politica coordinata per gestire la svolta verso quella green economy che diventerà, invece, il vero cantiere dell’America di Obama. Una possibile crisi nella crisi di cui l’Europa porta tutta la responsabilità.Il Governo di Roma, con l’annuncio fatto a Washington di un maxi-piano da 80 miliardi che univa passato, presente e futuro, ha reagito d’impulso con una risposta mediatica a uso del G-20 (dove peraltro Sarkozy ha esibito dati su una crescita del Pil assai “sospetta”). Per coerenza ieri Berlusconi e Tremonti l’hanno ricordato, anche se hanno dovuto spiegare che si tratta di interventi diversi e non direttamente sommabili. Il decreto, in realtà, più pragmatico e consono a questi tempi di economia della sobrietà, mette in campo 6 miliardi “reali” immediati e ne promette 25-30 per grandi interventi entro il 2013 se andrà a buon fine l’operazione (storica) di riprogrammazione dei fondi per le aree sottoutilizzate. Con il piano Barroso se ne rimettono in gioco ancora 5, altrimenti persi.

Il Governo ha rinunciato a forzare i margini sul deficit che la Ue comunque ci consentirebbe: risorse in più per mezzo punto di Pil (pari a 8 miliardi) non avrebbero destato scandalo e non è certo che avrebbero nemmeno causato i paventati contraccolpi sugli spread dei titoli di Stato. Ma tant’è. Tremonti, con coerenza da uomo delle istituzioni tanto più rispettabile perchè scomoda, rimane attestato sul deficit zero nel 2011. E disegna il canone aureo dell’economia sociale di mercato cui, da qualche tempo, si ispira: un mix tra misure assistenziali e per la famiglia (3,6 miliardi), programmi di sviluppo e investimenti (16,5 miliardi) e azioni fiscali per le imprese (2,4 miliardi).

Il Governo ritiene di avere risorse sufficienti. È augurabile che sia nel giusto, altrimenti ci troveremo presto senza benzina. L’Iva è in calo e anche il gettito Ires prevedibilmente fletterà; la Robin Hood tax non ha portato nelle casse pubbliche tutto il gettito previsto, ma probabilmente la metà. Il decreto promette sconti sull’Irap e limature agli acconti Ires (non Irpef), un sistema di recupero dei crediti delle imprese verso lo Stato e risparmi virtuali dovuti a un nuovo pacchetto di semplificazioni burocratiche. Non c’è molto di più. Tantomeno la detassazione degli utili reinvestiti in ricerca e tecnologia: sarebbe stato un altro importante segnale di sistema su quale dovrà diventare il modello di sviluppo dell’Italia. Forse arriverà in futuro, forse no.

L’evidente sbilanciamento a favore del capitolo infrastrutture – scelta comunque positiva – sarà anche il campo di sperimentazione del nuovo ruolo dello Stato. Il motore principale è la Cassa depositi e prestiti che cambia natura e capacità di azione perché userà senza vincoli il risparmio postale. La Cdp, poi, è stata candidata a diventare fondo di garanzia pubblica per l’azione calmieratrice sul credito e, forse in un secondo tempo, anche testa di ponte nelle partecipazioni ex bancarie al capitale della Banca d’Italia. La Repubblica diventerà poi compratore di ultima istanza per i bond delle banche necessari a riportare su ratio più competitivi il patrimonio degli istituti italiani. È chiara la nuova impronta interventista, ma nella visione tremontiana c’è un’idea di fondo di un soggetto pubblico di supporto e di correzione, senza interferenze (apparenti) nella gestione di mercato delle imprese, senza esercizio diretto (apparente) di poteri operativi. Come dire: una moral suasion “armata” o “spintanea”, come quella che sarà esercitata – parola di Tremonti e Calderoli – per fermare la dinamica delle tariffe.

L’accelerazione delle procedure di investimento per le grandi infrastrutture è una delle novità più rilevanti. Ci hanno provato in tanti, con poco successo. Si vedrà se l’aggiramento dei ricorsi blocca-opere, previsto dal decreto, andrà a buon fine. È più che auspicabile.
È comunque anche questa la via migliore per ritrovare la fiducia smarrita; per paradosso infatti non sono i provvedimenti eccezionali a infondere l’ottimismo dei comportamenti (anzi confermano l’idea dell’emergenza e lasciano scorie di ansia) ma i segnali di una nuova ordinarietà prosperosa. Per tradurre poi la fiducia in consumi (non sono la stessa cosa) serve il reddito, che passa anche da investimenti pubblici e privati e dalle aspettative positive sull’occupazione. E si alimenta anche con i bonus e le elargizioni strettamente assistenziali – pure presenti nel provvedimento – anche se non è chiaro se queste finiranno a risparmio o a consumo. L’impatto più duro della crisi si dovrebbe sentire nella prima metà del prossimo anno. Per quell’evenienza dovrebbero essere attivati gli ammortizzatori sociali rifinanziati: se però le conseguenze saranno mezzo milione di posti di lavoro persi, anche il nuovo sforzo si rivelerà poca cosa. Sarà allora, probabilmente, che il cosiddetto “fondo Sacconi” dovrà essere rabboccato o con parte dei fondi per il Sud o con nuove risorse. Magari tentando un’ulteriore riforma che porti finalmente a un sistema di ammortizzatori sociali universali, non più legati a scelte discrezionali politico-sindacali e semmai ancorati a reali programmi di riqualificazione e reinserimento.
Sarebbe un’altra di quelle riforme “normali” che permettono a un Paese di generare fiducia duratura. Per non parlare di quale effetto tonificante potrebbe avere la firma dell’accordo sulla riforma della contrattazione, unico strumento adatto ad accrescere e redistribuire la produttività, vera lacuna di sistema dell’Italia. È fondamentale, a questo scopo, l’arricchimento della dote finanziaria destinata agli sgravi fiscali per il salario di secondo livello per i quali è stato fatto un primo passo.

Si riapre – ed è un bene – il capitolo sull’evasione fiscale. Le risorse, in effetti, sono lì, sommerse da sempre. Ci sono 100 miliardi su cui esercitarsi. In attesa di risultati a sei zeri magari si può cominciare vigilando sulla social card: sarebbe grave se una tessera destinata ai più poveri finisse ai più furbi. (Beh, buona giornata).

 

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

La crisi e il sindacato di base. Allegato 2° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

IL TEMPO STRINGE: OCCORRE ACCELERARE IL

PROCESSO UNITARIO DEI SINDACATI DI BASE!

di Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale SdL.

 

Il processo di lento avvicinamento delle posizioni delle più rappresentative organizzazioni sindacali di

base, (Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale) in atto da tempo, ha subito una positiva

accelerazione con l’Assemblea nazionale del maggio 2008 a Milano.

I delegati ed i rappresentanti dei tre sindacati che hanno promosso l’Assemblea hanno di fatto

avviato dal basso un processo di lavoro unitario che deve necessariamente portare ad un percorso

che veda progressivamente avvicinarsi le tre sigle sindacali e tenda alla costruzione di un sindacato

unitario e di massa che rappresenti una reale e concreta alternativa a Cgil, Cisl, Uil e Ugl.

Una volontà che come SdL intercategoriale abbiamo raccolto con convinzione.

Il bilancio che facciamo, a sei mesi dall’Assemblea di Milano, è solo parzialmente positivo. Se è vero

che in questi mesi si sono moltiplicati i momenti di confronto e di iniziativa comune, sia a livello

nazionale che territoriale, nei diversi comparti del mondo del lavoro, mancano strumenti di

elaborazione e di intervento comuni.

La grande partecipazione alla manifestazione nazionale di Roma del 17 ottobre dimostra che

l’attrattiva e le potenzialità che le tre organizzazioni esprimono in situazioni promosse e costruite

unitariamente è ben più ampia della sommatoria delle singole sigle e ciò rappresenta un

incoraggiante segnale verso la ricerca di luoghi e di interventi unitari sempre più stretti e

complessivi.

E’ evidente che i tempi e le modalità di tale percorso devono essere ben ponderati e che il processo

di avvicinamento deve risultare graduale: le tre organizzazioni hanno infatti storie e prassi diverse

ed anche al loro interno presentano sensibilità non sempre omogenee.

Il permanere di organizzazioni sindacali oggettivamente ancora in concorrenza tra loro, tuttavia,

riduce l’impatto della nostra azione e amplifica la consapevolezza di quanto uno strumento

realmente unitario potrebbe giovare alla causa che ci siamo prefissati.

Qualsiasi processo non è e non può essere immutabile e deve adattarsi alla situazione che lo richiede

o che lo condiziona.

Se è quindi vero che non sarà possibile dare vita a breve ad un unico soggetto, ma se è a questo

che dobbiamo tendere per dare risposte concrete alle necessità dei lavoratori, è indispensabile

considerare lo scenario che si sta delineando in questi ultimi mesi e soprattutto le tendenze di

carattere economico, politico e sociale che stanno investendo l’Italia ed il mondo intero.

La crisi economica ormai conclamata, insieme al contesto politico, sociale e sindacale degli ultimi

mesi impongono, infatti, un salto di qualità nel nostro agire.

Posizioni ed analisi che sino a pochissimo tempo fa erano considerate indiscutibili oggi mostrano la

corda. E così le contraddizioni tra capitale e lavoro, che da sempre le nostre organizzazioni sindacali

hanno individuato come elementi decisivi su cui fare leva nell’azione quotidiana, stanno tornando

drammaticamente di attualità ed è proprio il venir meno dei margini di mediazione su cui la

concertazione dei sindacati confederali aveva potuto ancora parzialmente contare che richiede con

urgenza la messa a disposizione delle lavoratrici e dei lavoratori di uno strumento alternativo

adeguato, per quantità e qualità, a raccogliere la sfida.

La crisi mondiale è soltanto al suo inizio: dopo aver investito la finanza ora sta destabilizzando anche

la cosiddetta economia reale, con conseguenze severe sulle condizioni di centinaia di milioni di

lavoratori in tutto il mondo che già vivono da decenni una realtà di estrema precarietà.

In questo panorama cambia in Italia, come in molti altri Paesi, il rapporto tra lavoratore e sindacato

e tra sindacato e azienda. Flessibilità della manodopera e salario, utilizzati come variabile dipendente

dall’aumento della produttività – dello sfruttamento si sarebbe detto in altri tempi – sono i

fondamentali su cui padroni e governo vogliono costruire un sistema di relazioni industriali/sindacali

del tutto asservito alle necessità/compatibilità aziendali.

Una prospettiva a cui Cisl, Uil e Ugl hanno già dato il loro assenso e che la Cgil, per ragioni

contingenti, oggi dichiara di voler contrastare. Un verbalismo senza progetto, la strumentalità

evidente di chi, dopo aver contribuito a smantellare pezzo dopo pezzo conquiste, tutele e strumenti

di contrattazione esigibili, oggi vede messo in discussione il ruolo del suo stesso apparato. Un

apparato che freme dalla voglia di tornare al tavolo con Governo e Confindustria perché le regole

sulla rappresentanza che la Cgil stessa ha contribuito a definire negli anni, negano fondamentali

diritti sindacali a chi non firma i contratti.

Al “sindacato dei servizi” si accompagna ora il “sindacato notaio” chiamato semplicemente a

ratificare contratti ritagliati sulle esigenze delle aziende.

Il conflitto non è compatibile con il consociativismo cui fanno appello le imprese: le esigenze di chi

lavora devono sottostare a quelle dell’impresa e del mercato. Al sindacato viene offerto al massimo

di entrare con il suo apparato nel business degli enti bilaterali e dei gestori di fondi pensione.

E’ in questo contesto che anche noi dobbiamo ripensare strumenti della rappresentanza che non

siano fini a se stessi, che non prevedano semplicemente l’estrema difesa di un indifendibile

esistente.

Lo strumento principe in mano ai lavoratori è ancora il Sindacato nella sua più nobile accezione. Ma

la conquista di condizioni di vita dignitose necessita di un sindacato in grado di costruire conflitto

reale e non proclami velleitari.

E’ indispensabile mettere da parte le alchimie “organizzative” e ragionare con estrema concretezza a

partire dal fatto che le nuove generazioni entrate nel mondo del lavoro a partire dagli anni ’80,

hanno conosciuto solo il lato arrendevole, burocratico e concertativo dei grandi apparati sindacali e

ne hanno giustamente disgusto. La mutata composizione sociale del lavoro dipendente, la

frantumazione/contrapposizione alimentata ad arte tra i vari segmenti del mondo del lavoro (stabili e

precari, nativi e migranti, operai e impiegati, pubblici e privati …) non può non costringerci a

sperimentare nuove forme organizzative e nuovi strumenti informativi che partano dal denominatore

comune che a noi piace definire come “intercategorialità”.

Per questo motivo crediamo sia indispensabile cogliere l’occasione, forse l’ultima in questo Paese per

i prossimi anni, per accelerare il processo unitario tra SdL intercategoriale, Cub e Confederazione

Cobas, a partire da un lavoro comune nei territori, per arrivare ad una nuova grande Assemblea

nazionale che coinvolga nuovi settori di lavoratori, anche al di là delle aree già organizzate nei tre

sindacati di base.

E’ necessario farlo rapidamente: è indispensabile farlo con il rigore necessario ma senza riserve

mentali, perseguendo con determinazione l’obiettivo, pena la distruzione certa di qualsiasi ipotesi di

alternativa sindacale per i prossimi anni! Proviamoci qui ed ora! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male.

Il pacchetto anticrisi varato in dieci minuti dal governo italiano venerdì scorso è irritante, più che deludente. Di fronte a una crisi finanziaria ed economica di dimensioni ciclopiche, il governo ha fatto quello che gli è riuscito meglio fare: ha fatto finta. C’è una sproporzione spaventosa tra la realtà reale e la realtà raccontata durante la conferenza stampa del capo del governo e del ministro del Tesoro, dopo la riunione lampo del consiglio dei ministri. Basta confrontare nel concreto quello che succede nel mondo dell’economia globale per rendersi conto di come e quanto il governo italiano non si è dimostrato all’altezza della crisi.

Barak Obama si appresta a prendere la guida degli Usa, e già sappiamo qual è la sua visione della politica economica e delle misure che la sua amministrazione intende adottare per fronteggiare la crisi. Abbiamo visto la mole e la complessità delle misure adottate dal governo cinese. Abbiamo guardato come ha immediatamente operato il primo ministro inglese Gordon Brown. Abbiamo ascoltato la cancelliere Merkell e il premier Sarkozy indirizzare la Ue al superamento dei rigidi parametri, al fine di recuperare risorse da immettere nelle economie. Si vede che quando i nostri vanno in giro per summit politici ed economici mondiali proprio non capiscono quello che sentono dire dagli altri capi di stato e di governo, sono troppo occupati a fare cucù, a divellere leggii, a fare le corna o a confezionare gaffe di dubbio gusto. Prestare attenzione ai contenuti, quello non è il loro forte.

Se prendiamo in esame le cosiddette misure ci sarebbe da ridere, sembrano la parodia di uno di quei cominci di cui tanto ci si lamenta. Ma c’è poco da ridere: provate a dividere i bonus per le famiglie per i componenti e poi per 365 giorni: a ciascuno rimane in tasca neanche la somma per prendere un caffè al giorno al bar. E’così che si rilanciano i consumi? O attraverso la social card, tanto compassionevole, quanto insultante e umiliante? I versamenti dell’Iva solo a fattura pagata non è una misura, è una proposta che deve essere approvata dalla Commissione europea. Il finanziamento delle grandi opere: quanto è rimasto in cassa di quegli stanziamenti europei accantonati? E fra quanti anni partiranno quei cantieri? Il 5% calcolato su uno stipendio mensile di bonus una tantum per i lavoratori precari che hanno perso il lavoro è un ammortizzatore sociale o una beffa ai danni di chi ha gli stipendi più bassi d’Europa? Il tetto del 4% per i mutui al tasso variabile rischia di essere virtuale, visto che già è al 3,25 e ci aspetta una altro taglio di mezzo punto dalla Bce. E quelli a tasso fisso, che sono la maggioranza?

Non può apparire fuori luogo che il più importante sindacato italiano abbia confermato lo sciopero generale: il pacchetto anticrisi, paradossalmente ne ha rafforzato le ragioni. Mentre ne escono nettamente indebolite le confederazioni che si erano dimostrate più disponibili col governo: oggi sono semplicemente spiazzate dalla pochezza del pacchetto. Anche Confindustria sembra delusa e scettica che queste misure siano un volano per resistere ai morsi della crisi. C’è da aspettarsi che le lame del saving incidano ancora più in profondità nelle aziende italiane, con dure conseguenze occupazionali, oltre che sulle strategie di espansione dei mercati.

Le organizzazioni sindacali di base, forti in alcuni settori, come i trasporti, la scuola e il pubblico impiego hanno già annunciato l’adesione allo sciopero generale. E’facile prevedere che anche l’Onda, il nuovo movimento degli studenti confluirà nelle piazze il 12 dicembre, giorno dello sciopero generale. Non potrebbe essere altrimenti: il pacchetto del governo, che arriva dopo i tagli, rischia di essere una palese conferma dello slogan degli studenti: la crisi non la paghiamo noi. Sarà forse una manifestazione episodica, ma molto fa pensare che si verificherà una saldatura tra lavoratori dipendenti, studenti, operai e ceti medi impoveriti: una risposta politica alla politica che non sa dare risposte sociali alla crisi.

Il combinato disposto dagli avvenimenti mette ancora più sotto i riflettori l’incapacità dell’opposizione parlamentare e del Pd, il partito più numeroso tra i banchi del Parlamento: incapaci di prefigurare uno scenario che guardi oltre la pochezza del governo nel gestire la crisi, si dimostra allo stesso tempo incapace di immaginare una sintesi politica delle proteste contro la politica economica del governo.

Patetici sono i peana all’ottimismo dei consumatori e alla fiducia nel mercato. Suonano poco convincenti, sembrano sermoni fideistici, soprattutto quando vengono pronunciati come chiosa del pacchetto anticrisi, già vuoto di suo e, in questo modo, incartato male dalla demagogia.
Se non si spendono soldi per far girare l’economia, vuol dire che non si ha fiducia nella ripresa economica. La domanda è: se il governo non si fida del mercato, perché dovrebbero fidarsi i consumatori? Non è che uno va in un negozio paga il conto col proprio ottimismo.

Ci sono limiti oltre i quali la propaganda perde la sua efficacia: i sorrisi del governo diventano presto il ghigno del potere. Il fatto è che chi è stato eletto ha pensato di andare al potere, più che di andare al governo. Confondere le due cose è facile e divertente quando le vacche sono grasse. Ma se è vero come è vero che questa non è una crisi ciclica ma è la crisi verticale del neo-liberismo su scala globale, accorgersi di non saper governare la crisi rischia di diventare di colpo un’esercitazione autoritaria, inversamente proporzionale all’inefficacia dell’azione di governo. L’arroganza non colma l’impreparazione. Semplicemente la peggiora. Dalla Storia vengono brutti esempi per la democrazia, bisogna stare attenti quando non si tengono in conto le sofferenze dei ceti medi.

La linea di confine tra disagio sociale e furore collettivo è sottile come un capello, ha scritto John Steinbeck, in “Furore”, romanzo ambientato negli anni della Grande Depressione, che gli valse il Nobel per la letteratura. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro

Alitalia: i frutti amari del lodo Letta.

Un gruppo di dipendenti Alitalia, duecento, probabilmente preda di un livello alto di emotività, suggestionati dalla piega che ha preso la vertenza, ha deciso il blocco dei voli. La parola blocco girava da giorni, come riportavano i giornali, ma finora era prevalsa l’idea di un confronto duro, ma dentro la dialettica delle posizioni. E invece, alle 17 di lunedì si vota uno sciopero con partenza alle 18, della durata di ventiquattrore, fuori dalle regole.

Le agenzie di stampa ci dicono che a nulla sono servite le parole del cosiddetto “fronte del no”: essi sono stati scavalcati dall’esasperazione, dalla rabbia, dalla frustrazione di un gruppo di dipendenti.

E così, sono stati cancellati, senza preavviso molti voli, soprattutto nella tratta Roma-Milano, con il conseguente disappunto dei passeggeri.

Si è arrivati a questo dopo che con il “lodo Letta” si è voluta chiudere ogni possibilità di trattativa sulla stipula dei nuovi contratti di lavoro in capo a Cai, la nuova compagnia che prenderà il posto di Alitalia nel trasposto aereo italiano.

Il governo, invece che essere terzo tra le due parti, si è schierato sbrigativamente dalla parte di Cai.

Da parte sua Cai ha rincarato la dose, scrivendo alle organizzazioni sindacali di base che non avrebbe riaperto nessuna trattativa.

Agli occhi dei dipendenti, Cai è apparsa essere una sorta di spin-off del governo. E questo non ha davvero giovato alla ricerca di una soluzione.

Le organizzazioni sindacali confederali che prima emettono un comunicato congiunto con tutte le nuove sigle, di fronte al lodo Letta capitolano, accettano di firmare, ratificano la spaccatura del fronte sindacale. Forse Cgil non è molto convinta, ma alla fine firma ugualmente.

Governo, Cai e confederali, come hanno pensato di gestire la situazione che si è venuta a creare col lodo Letta? Speravano la protesta si spegnesse da sola? O qualcuno contava su qualche gesto inconsulto, come appare essere a tutti gli effetti il blocco improvviso?

Perché proprio di un gesto inconsulto si tratta: non ha respiro, provoca la precettazione, aliena la simpatia dei cittadini. Se una vertenza, basata su elementi di legittimità che si possono discutere ma non negare, diventa invece una mera questione di ordine pubblico, sono i dipendenti in lotta i primi a rimetterci.

Infatti, il ministro dei trasporti, invece che farsi carico di una vertenza che riguarda il suo dicastero, ha chiesto apertamente la precettazione dei dipendenti in sciopero selvaggio.

E poi, il ministro del lavoro, invece che fare il ministro del lavoro, cioè tentare di tenere insieme, con il paziente esercizio della mediazione le esigenze delle aziende e quelle dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali, ha rilanciato l’idea di restringere i limiti del diritto di sciopero.

Entrambi i ministri, che avrebbero dovuto dare all’opinione pubblica qualche spiegazione del perché quella di lunedì 10 è stata una giornata terribile per il trasporto in Italia, del perché non si è messo mano per tempo alla vertenza sulla mobilità, che avrebbe evitato la paralisi contemporaneamente del trasporto pubblico, delle linee metropolitane e dei treni, trovano invece una occasione insperata: all’unisono chiedono sanzioni. Le sanzioni, si sa, sono sempre un bel trucco per chi non vuole trovare soluzioni.

Quando saranno passati i fumi dell’irrazionalità, anche i partecipanti allo sciopero selvaggio si renderanno conto di aver preso una pericolosa cantonata. Che cosa portano a casa, dopo aver provocato questo casino? Hanno solo colto il frutto amaro del lodo Letta, con il rischio serio di avvelenare tutti i prossimi passi di una vertenza che non è né facile, né di breve durata.

Qualcuno, tornando tra i compagnetti della sua parrocchietta potrà anche vantarsi di aver vinto una assemblea e fatto votare a maggioranza la sua bella mozione “dura”. Bravo, bel tiro, peccato sia stato un autogol.

Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

La recessione? Tranquilli che “mo’ viene Natale”.

Domenica scorsa, a borse chiuse, la Cina ha tirato fuori 586 miliardi di dollari di risorse statali per i prossimi due anni, l’equivalente del 20% del Pil cinese. Secondo Federico Rampini di Repubblica il paragone non va fatto coi 700 miliardi del piano Paulson destinati a ricapitalizzare le banche, ma coi 200 miliardi di dollari di sostegno alla crescita varati quest’anno negli Usa. Secondo Pino Longo, corrispondente Rai da Pechino, la cifra stanziata dal governo cinese, paragonata al tenore di vita dei cittadini cinesi, equivarrebbe a 2000 miliardi di dollari.

 “Negli ultimi due mesi – si legge nel comunicato diffuso ieri a Pechino – la crisi finanziaria globale ha avuto un’accelerazione giorno dopo giorno. Di fronte a questa minaccia dobbiamo aumentare gli investimenti pubblici in modo energico e rapido”.

Si  preannuncia una “politica fiscale aggressiva” fatta di maggiore spesa pubblica e sgravi d’imposte, insieme con una “politica monetaria espansiva” (nuovi tagli dei tassi, dopo che la banca centrale ha già ridotto per ben tre volte il costo del denaro da metà settembre). La terapia shock sarà mirata anzitutto a “migliorare le condizioni di vita della popolazione, perché possa aumentare i consumi”.

 

La terapia d’urto includerebbe nuovi investimenti pubblici nell’edilizia popolare, l’accelerazione della costruzione di ferrovie e aeroporti; investimenti nelle energie rinnovabili; spese sociali a favore delle fasce più indigenti; prestiti alle piccole e medie imprese; detassazione sugli acquisti di macchinari industriali. Insomma, un vero e proprio New Deal, in salsa cinese.

Mentre negli Usa si contano i giorni dell’insediamento di Barak Obama, e nel frattempo si cerca di capire se anche la sua nuova amministrazione vorrà e saprà prendere di petto la situazione economica, come il neo presidente ha già detto nella sua apparizione pubblica dopo la vittoria elettorale, il resto del mondo sembra intontito, come la lepre abbagliata dai fari di un’auto. L’ubriacatura neoliberista sembra dura da digerire.

E’ il corso il G20, ma finora l’unica notizia degna di nota è il richiamo in patria del ministro dell’economia cinese domenica scorsa, per varare appunto il piano cinese anti-recessione.

In Italia? A parte tagli alla spesa pubblica, che stanno facendo protestare il mondo della scuola e i dipendenti pubblici; a parte la vicenda Alitalia, che caricherà il contribuente di ulteriori enormi oneri, e che al contempo ha creato una situazione libanese tra i dipendenti; a parte i tagli alla sicurezza e alla giustizia; insomma, a parte i tagli che scopriremo quando la Finanziaria sarà varata,  il governo italiano sembra imbambolato.

Cala la produzione industriale, calano i consumi, si stanno perdendo migliaia di posti di lavoro, si stanno abbandonando al loro destino migliaia e migliaia di lavoratori precari, proprio mentre il Parlamento si accinge all’esame della legge Finanziaria discussa in nove minuti e mezzo al Consiglio dei ministri, nove settimane e mezzo fa, prima della crisi dei mutui, prima dell’arrivo della recessione, prima della misure straordinarie prese negli Usa e in Cina.

Il ministro Tremonti ha detto: “Da qui a Natale tutti i paesi europei prenderanno i loro provvedimenti”. Ci fa piacere.

Nel frattempo, per ingannare la recessione, potremmo metterci  a cantare: “Mo’viene Natale, nun tengo denare, me leggo ‘o giurnale e me vaco a curcà! . Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro

Alitalia: ricevo e pubblico “al volo”.

COMUNICATO   STAMPA

 

ALITALIA/CAI:        ONDA ANOMALA, CIELI ANOMALI.

Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia, SDL Intercategoriale denunciano la gravissima situazione che si è venuta a creare con il perpetuarsi dell’atteggiamento di rigida chiusura adottato dalla CAI, fortemente sostenuta dal Governo.

Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia, SDL Intercategoriale informano l’opinione pubblica e le istituzioni che CAI con la complicità di CGIL, CISL, UIL e UGL ha stravolto e disatteso i Contratti Collettivi di Lavoro già concordati e sottoscritti nel mese di settembre a Palazzo Chigi da tutte le sigle sindacali e dal Governo.

La firma del “Lodo Letta” apposta il 31 ottobre scorso da parte di CGIL, CISL, UIL e UGL rappresenta il punto più basso mai raggiunto sia in termini di rispetto della democrazia e della rappresentanza, sia rispetto al ruolo primario del sindacato che così riconosce implicitamente la propria incapacità di tutelare i lavoratori, consegnando all’insindacabile giudizio di una terza parte governativa l’avallo allo stravolgimento di Contratti Collettivi di Lavoro già sottoscritti.

Quanto sopra ulteriormente aggravato dalla definizione di criteri di assunzione iniqui, socialmente inaccettabili e non rispettosi delle anzianità aziendali maturate dai lavoratori.

Inoltre il rifiuto posto dalla CAI ad utilizzare il part-time nelle assunzioni, senza oneri aggiuntivi per l’azienda, e l’inscindibilità dell’offerta fatta al Commissario che di fatto esclude offerte già pervenute per Volare e per Alitalia Express ma senza fornire le medesime garanzie occupazionali per i lavoratori coinvolti, ingigantisce il numero delle eccedenze di personale  generando ulteriori quanto evitabili disastri sociali oltre che costi aggiuntivi a carico della collettività. Il tutto mentre CAI beneficierà di enormi vantaggi in materia di decontribuzione previdenziale e defiscalizzazione.

L’operazione CAI, quindi, genererà paradossalmente un costo per i contribuenti superiore a quello della vecchia Alitalia indebitata ed inefficiente.

Per questi motivi, Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia, SDL Intercategoriale, costantemente riunite in una Unità di Crisi e consapevoli della convergenza che si sta generando e concretizzando con altre categorie sociali oggi in situazioni di grave conflitto nel Paese, annunciano  che le iniziative già dichiarate nei giorni scorsi si inaspriranno ulteriormente.

Non sono in gioco le singole vertenze, si sta tentando di costituire una nuova “santa alleanza” che intende escludere le voci non allineate anche quando fortemente rappresentative.

 Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia, SDL Intercategoriale preannunciano che, a partire dallo sciopero del 25 novembre prossimo, sono già state individuate le seguenti date che verranno interessate da ulteriori azioni di sciopero che verranno opportunamente proclamate nel rispetto della normative vigente: 6 dicembre 2008, 7, 16, 27 Gennaio 2009 – 9, 20 Febbraio 2009 – 3, 16, 27 Marzo 2009 – 7, 20 Aprile 2009 – 4, 15, 26 Maggio 2009.

Roma, 9 novembre 2008

 

                               ANPAC – UNIONE PILOTI – ANPAV – AVIA – SDL Intercategoriale

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Attualità Lavoro

Vertenza Alitalia: “Per battere l’arroganza di Cai e Governo dobbiamo volare alto”

Intervista a Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale di Sdl Intercategoriale.

 

 

Fabrizio Tomaselli non ha la faccia né i modi di un estremista, ha gesti gentili e, dietro quei grandi occhiali da vista,  uno sguardo pulito. Parla in modo pacato, a tratti caldo, a volte duro. C’è tensione tra i lavoratori di Alitalia, la stessa che Tomaselli sembra aver interiorizzato.  Il suo lavoro è assistente di volo, il suo ruolo è coordinatore nazionale di Sdl intercategoriale, una delle sigle del “fronte del no”, come la stampa ha definito quelli che non accettano gli accordi  sanciti dal “lodo Letta”

Tomaselli, che cosa è il lodo Letta?

Un trucchetto, un sotterfugio escogitato a Palazzo Chigi lo scorso venerdì 29. Le trattative erano state improvvisamente interrotte da Sabelli, l’ad di Cai il mercoledì precedente. Venerdì 29 siamo stati convocati dal Governo. Invece di spiegarci il perché della unilaterale sospensione della trattativa, il Governo, nella persona di Gianni Letta ci presenta un paio di fogli di carta e ci chiede di firmarli: c’era scritto che tutto quello che non è stato ancora definito dalla trattativa lo garantisce lui, come rappresentante del Governo. Una cosa mai vista.

In che senso?

Facciamo un esempio. Lei va a comprare un macchina nuova. Lei fa le domande che si fanno a un concessionario:  che cilindrata? Quanti chilometro per litro? Quali optional? Qual è l’anticipo? Quante rate? Quello si spazientisce e ti dice: adesso basta, firmi il contratto. Tutto quello che sarà difforme dal contratto lo garantisco io che sarà conforme. Lei che farebbe?

Gli girerei le spalle, e me ne andrei pensando che gli manca qualche rotella.

E’quello che abbiamo pensato tutti. Però, senza un vero perché Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno firmato. Hanno comprato una macchina nuova senza sapere niente di quello che avevano sottoscritto. All’incontro erano presenti tutte le nove sigle che rappresentano i lavoratori di Alitalia, e hanno firmato solo quelle che meno rappresentano le categorie interessate.

Sì, ma qual è il punto?

Semplice. Gli accordi di settembre prevedevano che si sarebbero contrattati i dettagli. Mercoledì  27, alle 23,45, dopo 7 ore di trattativa, Sabelli di Cai si è alzato e se ne andato, interrompendo il dialogo. Venerdì 29 il Governo, invece che mediare tra le parti, ha voluto imporre la volontà di una parte, la Cai. Letta, invece che una crostata, ha cucinato un pasticcio, come ha detto l’on. Casini.

Se questa è la verità, allora perché i sindacati confederali hanno invece firmato il lodo Letta?

Hanno sottoscritto un placet politico al progetto Cai, perché è certo che i contenuti degli accordi contrattuali non si sono voluti prendere in esame. La domanda è: rappresentano i lavoratori presso la Cai, o la Cai presso i lavoratori? Perché il Governo garantisce tutto a Cai e invece niente ai lavoratori? Perché è possibile che si garantisce che la Cai non dovrà restituire il prestito ponte, come chiede l’Europa, e in cambio non si vogliono sottoscrivere garanzie ai lavoratori in cassa integrazione, ai precari, alle madri lavoratrici e neppure ai lavoratori che hanno familiari disabili in famiglia? Perché a Cai si danno garanzie di “immunità” sulla norme antitrust, italiane e europee e invece ai lavoratori si nega anche il solo diritto di discutere, attraverso i loro rappresentanti, punto per punto la stesura del nuovo contratto di lavoro? Abbiamo letto che Tremonti ha detto: “Dobbiamo puntare di più sui valori e sull’etica e meno sugli interessi economici”. Belle parole. Fatto sta che il lodo Letta punta tutto sugli interessi di Cai e nulla sui valori del lavoro, né sull’etica di Cai.

Lunedì 3 avete tenuto un’assemblea a Fiumicino. C’era molta tensione e molto nervosismo. C’è chi ha parlato di blocco totale.

I lavoratori sono esasperati, non solo dai contenuti del lodo Letta, ma anche dal modo di condurre questa vicenda da parte di Cai e del governo, che non media, si schiera smaccatamente. L’assemblea ha deciso di rigettare il lodo Letta, nella forma e nella sostanza, ha dichiarato lo stato di agitazione permanente dei lavoratori e ha dato mandato alle sigle che li rappresentano di dare vita a tutte le iniziative necessarie per sbloccare la vertenza.

L’assemblea ha chiesto alla Cgil di ritirare la sua adesione al lodo Letta. Perché?

La straordinaria gravità della vertenza Alitalia impone una riflessione generale su come nel nostro Paese si stanno rapidamente modificando in modo negativo le  relazioni tra aziende, organizzazioni sindacali e lavoratori.

Siamo di fronte ad una situazione nella quale un’azienda (CAI) non rispetta gli accordi sottoscritti ed i più elementari principi etici, ricatta in modo strumentale lavoratori che già si trovano in uno stato di estremo disagio e di profonda incertezza per il proprio futuro, infrange e ridicolizza riconosciuti criteri di solidarietà sociale e calpesta le più basilari regole di democrazia e rappresentanza sindacale. Chiediamo alla Cgil di essere coerente con la posizione presa da Epifani in occasione della rottura delle trattative con Confindustria sul nuovo modello di contratto, sulla vertenza nell’impiego pubblico, del contratto del commercio, coerente con la decisione che vedrà i metalmeccanici in sciopero il prossimo 12 dicembre.

Colaninno, presidente di Cai ha detto che la trattativa è conclusa. Prendere o lasciare.

Colaninno si sente fortemente spalleggiato dal Governo. La Cai è appena nata e già si sente favorita dal Governo, in ogni senso. Sa di poter contare su soldi pubblici (i famosi trencento milioni), sa di poter contare sulla macchina propagandistica della maggioranza che appoggia il governo, che minaccia i lavoratori di non poter godere della cassa integrazione se non accettano le condizioni di impiego in azienda.

Alitalia è ormai per Governo e Confindustria un banco di prova per far passare modelli contrattuali e meccanismi di rappresentanza sindacale più penalizzanti e più autoritari: in tale scenario i lavoratori sono trattati come cavie di tale “sperimentazione”. Questo modo di immaginare le relazioni industriali è autoritario.

La logica che  Confindustria vuole imporre è quella del “prendere o lasciare”, senza neanche percorrere la strada del reale confronto: questo è un metodo sindacalmente inaccettabile ed eticamente censurabile.

Colaninno ha detto che bisogna mettere la parola fine alla logica dei veti incrociati. Non vuole cogestione col sindacato, come è avvenuto negli anni passati in Alitalia.

L’idea-forza di Colaninno:è comanda l’impresa, non gli accordi. Però poi trova comodo che la cogestione si sia spostata dall’azienda a Palazzo Chigi, come dimostra il lodo Letta. La nostra idea-forza è semplice: noi facciamo sindacato, ne abbiamo legittimità, sia dal punto di vista giuridico, perché nel nostro paese fare sindacato è legale; sia dal punto di vista del consenso, perché rappresentiamo, assieme ad altri soggetti sindacali, la maggioranza schiacciante dei lavoratori. Li rappresentiamo e li consultiamo frequentemente. La cogestione l’hanno tentata di fare le sigle confederali. Colaninno ha due scelte: o tratta con noi, che siamo agguerriti, ma leali nei confronti degli accordi presi. Oppure cercare una sponda con sigle compiacenti, ma inaffidabili, perché hanno poco peso e credito tra le categorie del trasporto aereo. Nel primo caso ci troverà pronti alla trattativa, nel secondo è lui stesso che crea una nuova cogestione. Se ha a cuore il futuro della sua impresa,  e non solo i ricavi che conta di gestire, sa quello che deve fare.

Tomaselli, Sdl è un sindacato di base, con radici nel sindacalismo alternativo alle sigle storiche. Come vi trovate insieme a sindacati, che spesso di autodefiniscono associazioni professionali, ma che in genere vengono chiamati autonomi, per non dire corporativi?

Ciò che ci unisce è uno scenario completamente nuovo nel panorama delle relazioni industriali e sindacali. Il modello autoritario che si sta sperimentando in Alitalia non può che unire tutte le categorie che si sentono minacciate nella loro professionalità, ma anche nel loro modello sociale di riferimento.

Prendiamo i piloti. Sono professionisti di alto profilo, erano considerati facente parte la classe dirigente del Paese. Hanno nutrito anche simpatie politiche per le forze che  rappresentano un governo che oggi vorrebbe anche solo negargli voce in capitolo.

L’attacco della crisi colpisce tutti gli strati: quelli più deboli, come gli operai aeroportuali; quelli medio-bassi, come i tecnici e gli assistenti di volo; quelli medi, come i piloti, arrivando a colpire anche i comandanti, il cui tenore di vita era, fino a poco tempo fa, medio-alto. Se alla crisi si associa l’arroganza e l’autoritarismo della Cai e del Governo, la coscienza di essere maltrattati unisce. E’ la condizione materiale che prende atto del proprio stato, al di là dei retaggi politici o ideologici. Non va dimenticato, che al contrario degli industriali della cordata, Sdl e Anpac, al pari delle altre sigle, il trasporto aereo lo conoscono, lo vivono sia negli aspetti tecnici che in quelli commerciali, vale a dire la relazione con i clienti, cioè i passeggeri.

Come pensate di sostenere la grande pressione che vi stanno esercitando contro per costringervi a sottoscrivere il lodo Letta?

Barak Obama ha detto: “Non siamo una collezione di individui, siamo un nazione”. Parafrasando le sue parole, mi viene da dire che  quella di Alitalia è una situazione e una vertenza gravissima che coinvolge ormai tutti i lavoratori italiani e che deve essere affrontata saldando in un unico obiettivo tutti i lavoratori, i precari, gli studenti e le forze sociali del Paese: battere l’autoritarismo e l’arroganza della Confindustria e del Governo e rendere possibile un’ampia, collettiva e democratica risposta di tutte le forze sane di questo Paese.

Insomma, avete intenzione di volare alto.

Sì. Per battere l’arroganza di Cai, del Governo e di Confindustria dobbiamo volare alto. D’altronde, volare alto è il nostro lavoro. No? (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia Lavoro Scuola Società e costume

La crisi economica? Prima le donne e i bambini.

Nel suo intervento al convegno celebrativo la giornata del risparmio, Giulio Tremonti ha detto: “Dobbiamo portare al primo posto l’etica e puntare sui valori e non sugli interessi”. Bello a dirsi, però in Italia sta succedendo l’esatto contrario.

 

La legge 133, “la legge Gelmini” taglia fondi e personale alla scuola primaria. Sordi a ogni istanza non solo di modifica, ma nemmeno di dibattito il governo ha deciso, il Parlamento ha ratificato. Considerando che la stragrande maggioranza delle maestre, costrette a diventare “maestro unico” sono appunto donne, ecco chi sono le prime vittime del taglio del personale docente. Contemporaneamente, altre donne, cioè le mamme lavoratrici  subiranno il taglio da 40 a 24 le ore scolastiche nelle elementari. I loro bambini, a parte la decurtazione delle ore dedicate alla loro istruzione,  dunque alla qualità della loro crescita, subiranno il prevedibile scompaginamento della loro vita: chi lo va a prendere a scuola? Chi me lo tiene nel primo pomeriggio? Quanto mi costa una baby sitter? Ecco che in un colpo solo, a maestre, mamme e ai loro bambini è stata rovinata la vita, oltre che colpita la loro economia. Dunque, si è puntato sugli interessi di bilancio, niente affatto su l’etica e sui valori.

 

Nel comparto dell’editoria e della pubblicità soffiano venti di crisi, a causa proprio della crisi, che riduce copie vendute, raccolta pubblicitaria, come conseguenza del taglio della spesa nella comunicazione commerciale. In questi settori le donne sono in maggioranza, anche se, come è noto, con ruoli quasi mai dirigenziali. Chi sta lasciando il posto di lavoro, o si appresta ad essere costretto a farlo, per via dei tagli al personale? Loro, le donne, con buona pace dell’etica e dei valori.

 

La Cai, la compagnia aerea italiana, quella cordata di industriali italiani che ha “coraggiosamente” salvato Alitalia, secondo i dettami delle promesse elettorali del governo in carica, ha in animo di non procedere all’assunzione delle donne con prole, perché, proprio per questo,  avrebbero l’esenzione dal lavoro notturno. Ancora una volta, le prime vittime degli interessi economici sono le donne e i loro bambini. Ancora una volta gli interessi prevalgono, senza curarsi degli aspetti più odiosi, quelli che contrastano palesemente con l’etica e i valori.

 

Secondo Giuliano Amato, politico italiano di lungo corso, già presidente del consiglio e più volte ministro, grazie alla recessione avremo presto un milione di disoccupati, contemporaneamente la cassa integrazione guadagni è in riserva, per non dire a secco. Quante saranno le donne coinvolte?

 

Dovrebbe potercelo dire il ministero delle pari opportunità, ma  la ministra competente non può, ha altro da fare e da pensare.  Si deve occupare della sua immagine, deve fare la portavoce di un governo di neodestra, neodecisionista e neoliberista, che aiuta banche e grandi imprese, oltre che se stesso e i propri interessi e abbandona piccole imprese, famiglie e lavoratori dipendenti al ruolo di agnelli sacrificali della recessione economica. A cominciare proprio dalla donne e dai bambini. Caro signor ministro dell’economia, invece che a un consesso di banchieri, glielo vada a dire a loro che “dobbiamo portare al primo posto l’etica e puntare sui valori e non sugli interessi”. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Alitalia: oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri.

Dopo mesi in cui la “cordata” ha giocato al tiro alla fune, finalmente Cai, compagnia aerea italiana ha  presentato il 31 ottobre la sua offerta di acquisto al Commissario straordinario di Alitalia. Tra le condizioni dell’esecuzione sono indicate (fonte: Agenzia Ansa del 1 novembre):

 

1) L’ottenimento da parte della competente Autorità Antitrust di un provvedimento che confermi la compatibilità dell’operazione notificata ai sensi della normativa vigente, ovvero che non abbia prescritto impegni o misure diversi da quelli proposti dall’Acquirente o che risultino sostanzialmente incompatibili con il piano industriale presentato dall’Acquirente o che comportino una sostanziale variazione delle pattuizioni del contratto;

 

(*) Traduzione: sono le norme antitrust che si devono piegare alle esigenze della Cai, non Cai che deve comportarsi secondo le norme antitrust.

 

2) L’ottenimento di provvedimenti da parte della Commissione europea con cui si attesti che eventuali aiuti di Stato, istituiti a beneficio del Gruppo AZ prima della stipula del contratto, non comportino a carico dell’Acquirente alcun obbligo di restituzione;

 

(*) Traduzione: la restituzione del prestito ponte di 300 milioni di euro non è a carico di Cai

 

3) Nessun elemento di aiuto, sia riconducibile alle previsioni e/o esecuzione del contratto;

 

(*) Traduzione: tutto quello che il governo ha promesso a Cai, a cominciare dalla decontribuzione per la riassunzione dei dipendenti in cassa integrazione, non va imputato a Cai come aiuto alla nascita della nuova compagnia.

 

4) A seguito dell’eventuale nomina da parte della Commissione europea di un Monitoring Trustee non venga sollevata alcuna contestazione, obiezione o riserva nei riguardi dell’operazione oggetto del contratto o di sue specifiche modalità o condizioni, tale da comportare un significativo pregiudizio per l’Acquirente”.

 

(*) Traduzione: il governo protegga Cai dalle nuove regole che stanno per essere varate in materia di trasparenza sulle tariffe.

 

Se tutto questo è vero, la rottura delle trattative con i sindacati avvenuta lo scorso mercoledì è stata una messa in scena, per drammatizzare la situazione e spingere il governo ad assumere ulteriori impegni a tutela di Cai.

 

La pantomima dell’ennesimo ultimatum di venerdì a palazzo Chigi altro non era che forzare la mano: e infatti, il piano, che in un primo momento si diceva sarebbe stato ritirato da Cai è stato invece presentato, dopo una telefonata tra Colaninno, presidente Cai e Berlusconi, presidente del consiglio.

La storia dei soliti  sindacati autonomi che non vogliono firmare l’accordo è stata un’invenzione teatrale.

 

Le organizzazioni sindacali confederali, che avevano probabilmente mangiato la foglia, essendo intercorsi incontri informali, ai quali non hanno preso parte le altre organizzazioni, hanno siglato non un accordo, ma una lettera di intenti del sottosegretario alla presidenza del consiglio, passato alla cronaca con il nome di “lodo Letta”, con la quale si faceva garante di accordi futuri, con l’impegno personale che  avrebbe vigilato sulla corrispondenza con le intese già sottoscritte nelle faticosa vertenza dei mesi scorsi.

 

Quella dei sindacati confederali, dunque è apparso più un placet politico all’operazione Cai-Governo, che un accordo sindacale.

 

Scrivono le cinque sigle che non hanno firmato “il Lodo Letta”, in un comunicato congiunto diffuso il 1 novembre:

1) Le sigle che non hanno sottoscritto non sono rappresentative soltanto di piloti e assistenti di volo come qualcuno vuol far credere, ma sono fortemente presenti anche tra il personale di terra.

 

2) E’ assolutamente falso che il No sia motivato da pretese riguardanti i permessi/distacchi sindacali ed è bene chiarire che proprio Cgil, Cisl, Uil e Ugl “godono” di un trattamento speciale in termini di diritti sindacali. Rispetto a questa strumentalizzazione diffidiamo chiunque a continuare con tali calunnie, passibili di denuncia per diffamazione.

 

3) Le motivazioni sono invece tutte concentrate sul numero enorme di esuberi previsti, sulle condizioni di stesura contrattuale che penalizzano i lavoratori oltre quanto era stato concordato a settembre a Palazzo Chigi, sulla condizione dei precari, sulle incertezze per il futuro di migliaia di lavoratori che dopo l’utilizzo degli ammortizzatori sociali si troveranno senza lavoro e senza pensione: questa condizione riguarda tutti i lavoratori coinvolti nel progetto CAI, personale di terra, piloti, comandanti ed assistenti di volo.

 

4) Sui criteri di “esclusione” dalle assunzioni c’è da sottolineare che essi godono di una eccessiva discrezionalità che non tiene in conto neanche delle consuete previsioni di legge, nonostante CAI usufruisca di ingenti finanziamenti dallo Stato anche in termini di decontribuzione per l’assunzione di personale in cassa integrazione.(circa 200 milioni in tre anni). Oltre quindi a “pretendere” di operare come azienda privata con i soldi dello Stato, CAI non vuole assumere neanche chi è gravato da condizioni sociali particolari o di evidente disagio (Legge 104, astensione facoltativa per maternità, esonero da lavoro notturno).

 

5) E’ assolutamente falso che il confronto tra azienda e sindacato si sia sviluppato in questo ultimo mese in modo coerente con gli impegni sottoscritti a settembre insieme al Governo: l’azienda non è mai entrata in una vera e concreta stesura tecnica ed ha sistematicamente stravolto tali impegni, producendo un risultato finale del tutto diverso dalle condizioni contrattuali che erano state concordate e sottoscritte.

Nello specifico, mentre a Palazzo Chigi gli accordi prevedevano il recepimento della disciplina contrattuale vigente in AirOne, integrata da quanto concordato in quella sede, CAI ha “imposto” una soluzione che non recepisce tale contratto di riferimento e lo peggiora sostanzialmente in molti istituti contrattuali fondamentali, contravvenendo quindi a quanto pattuito e garantito dal Governo.

 

Se questa è la situazione, c’è poco da rallegrarsi per la nascita di Cai, come compagnia di bandiera, sorta sulla macerie di Alitalia.

 

L’operazione era, è, e quel che è peggio sarà una mera operazione propagandistico-politico-affaristica, con costi alti per le casse dello Stato, da cui verranno sottratte molte risorse, altrimenti impiegabili per sostenere stipendi, consumi e piccole imprese.

 

L’operazione ha anche altri risvolti: permette di forzare le regole del mercato (vedi le condizioni poste da Cai); consente insensate relazioni industriali (vedi quanto denunciato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative del personale);  non dà alcuna garanzia di correttezza nei confronti della clientela futura della nuova compagnia (vedi il punto 4 delle garanzie chieste da Cai al Governo).

 

Perché è chiaro che quando si trattano male i dipendenti, si tratteranno male anche i clienti, cioè i passeggeri. A cominciare dal semplice fatto che sono previsti pesanti tagli di aeromobili e di tratte, senza contare la scomparsa della concorrenza sui prezzi delle tariffe tra due compagnie, Alitalia e AirOne, confluite in un una sola azienda, la cui somma è invece una sottrazione di uomini e mezzi, ma non di prezzi.

 

A questo punto, ci sono tre domande: riuscirà il governo italiano a far passare in Europa questo modo di fare una compagnia aerea, nonostante il prevedibile appoggio del Commissario ai trasporti Eu, che è un italiano e molto amico di Palazzo Chigi? Riuscirà Cai ad essere all’altezza del know-how del prossimo partner europeo, avendo scarse conoscenze in tema di trasporto aereo, non che dimostrando nei fatti poca responsabilità ed etica d’impresa? E, infine, non appaia paradossale, siamo sicuri che criminalizzare le organizzazioni sindacali di base dei piloti, degli assistenti di volo, dei tecnici e degli operai aeroportuali, al di là delle convenienze politiche e sindacali, non sia uno spreco di talenti, non solo in tema di capacità professionali acquisite in anni di esperienza, ma anche di relazione con la clientela, cioè dei passeggeri, vera grande risorsa di ogni azienda?   Beh, buona giornata.

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Lavoro

Dal welfare allo Stato asociale. Come contrastare le politiche neoliberiste del governo Prodi. Di Fabrizio Tomaselli.

Ospito su questo blog un intervento di Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale di Sdl, sindacato dei lavoratori. I temi trattati, il welfare e i diritti dei lavoratori sono di grande attualità.

Sdl è un sindacato di base e come tale ha grande difficoltà ad accedere ai media.

Dunque, più che aderire alla proposta di un Referendum che ripristini i contenuti delle Stato sociale, aderisco all’idea che le opinioni di Tomaselli e di Sdl debbano essere conosciute, magari anche solo per confutarle. Beh, buona giornata.

Dal welfare allo Stato asociale. Come contrastare le politiche neoliberiste del governo Prodi.
Di Fabrizio Tomaselli.

L’accordo del 23 luglio scorso tra Governo e sindacato confederale non ha fatto altro che evidenziare, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che la deriva liberista che in questi anni ha travolto l’Europa, non ha ancora dispiegato tutti i suoi nefasti effetti.
Nonostante le privatizzazioni e le liberalizzazioni non abbiano di fatto avuto alcun effetto benefico nei confronti dello sviluppo economico, come anche delle tasche e delle condizioni di vita del cittadino, abbiamo assistito e vissuto una “sbornia da mercato” alimentata in modo artificioso da una valanga di informazioni false che hanno a loro volta foraggiato aspettative ancor più distorte.
Il falso mito del “mercato che tutto risolve al suo interno, che si autoregola e che assicura sviluppo infinito” si è infranto contro una realtà che sbatte violentemente in faccia a tutti, da una parte la contraddizione di uno sviluppo infinitesimale del continente europeo e dell’Italia rispetto a Paesi come Cina ed India che stanno rapidamente sconvolgendo ogni “regola” commerciale imposta dal club dei “ricchi” paesi occidentali e dall’altro la distruzione dell’ambiente, il rapido ed incontrollato aumento del disagio sociale, della precarietà, dell’abbandono di ogni riferimento al welfare quale elemento di emancipazione e giustizia sociale.

Il mondo della politica e quello sindacale sono sempre più lontani dal ruolo che dovrebbero svolgere: la massima e spesso unica preoccupazione, oltre a quella di perpetuare se stessi ed il proprio ruolo, diventa il tentativo di convincere il cittadino ed il lavoratore dell’ineluttabilità dei processi sociali ed economici che lo coinvolgono e lo travolgono.
Senza più indicare valori alternativi, senza individuare alcuna via di uscita da un meccanismo che tutto comprime, senza esprimere e sollecitare alcuna pulsione che vada quanto meno verso una ricerca collettiva di ipotesi diverse.

A questo punto, per superare la “sbornia da mercato” e tentare una analisi sobria che possa però rappresentare una iniezione di entusiasmo, di valori ed obiettivi concreti e condivisi, si deve necessariamente operare una semplificazione ed una sintesi.

Le privatizzazioni non hanno prodotto benefici rilevanti alle casse dello Stato, hanno distrutto interi settori industriali, hanno creato disoccupazione e dilapidato un patrimonio di professionalità acquisite, spesso hanno consegnato ad avventurieri della finanza le chiavi di parti importanti dell’economia nazionale che hanno semplicemente applicato la regola per nulla industriale del “prendi i soldi e scappa”.

Le liberalizzazioni, sbandierate anche in quest’ultimo anno come la panacea per tutti i mali della società, hanno di fatto relegato il cittadino a spettatore inerme di giochi che avevano tutt’altro scopo che quello di tutelarli. I costi dei prodotti e dei servizi, salvo poche eccezioni pagate però in altro modo, non sono diminuiti e l’unica cosa che ha registrato un reale calo è stata la qualità e l’efficienza dei servizi, a cominciare da quelli relativi alla salute, all’istruzione, ai trasporti, ecc.

I salari sono diminuiti sia in termini diretti, cioè il valore reale della busta paga, sia indiretti, cioè per tutti quei servizi che sino a ieri, proprio perché vissuti e gestiti come valore sociale, rappresentavano un concreto valore aggiunto al 27 di ogni mese.

Le pensioni sono state falcidiate e rese “complementari” alla rendita attraverso i fondi pensione, il lavoratore obbligatoriamente dovrebbe assicurarsi la vecchiaia giocando in borsa parte della busta paga.

La precarietà, infine, sta subendo una mutazione genetica, assumendo sempre più le sembianze della normalità, piuttosto che della straordinarietà. Vecchi giovani che devono convivere ormai stabilmente con uno stato di disagio complessivo ed economico che porta al degrado morale, alla desolazione sociale e distrugge spesso gli stimoli al cambiamento.

Per fare tutto ciò si è spinto l’acceleratore non soltanto dal punto di vista della forzatura legislativa ed economica, non soltanto agendo su rapporti di forza sociali sempre meno equilibrati, ma anche e soprattutto imprimendo una svolta “culturale” che ha investito in modo violento ed avvolgente l’intero corpo sociale del Paese.

E così, ad esempio, nessuno si stupisce più quando si afferma che “aumentare l’età pensionabile favorisce l’occupazione dei giovani” ! Ma come è possibile ? Il buon senso e la matematica ci dicono l’esatto contrario e cioè che se un anziano va in pensione il suo posto deve essere preso da un giovane e se invece rimane al lavoro per più tempo avremo più disoccupati e più precarietà !

Nessuno registra in modo critico che le liberalizzazioni non hanno prodotto alcun beneficio al cittadino, neanche alle sue tasche, ma si continua a credere alla favola della ineluttabilità di questo processo economico che invece è finalizzato alla destrutturazione dei rapporti di lavoro, all’aumento della precarietà e alla riduzione del costo del lavoro, a tutto beneficio del profitto di pochi.

E che cosa dire dell’altra “buona novella” delle privatizzazioni. Pur criticando tutti gli effetti che hanno avuto sulla quasi totalità delle aziende che hanno vissuto questo processo di trasformazione, si continua ad assorbire la logica per la quale “il pubblico non funziona e privato è meglio”.

A tutto ciò è necessario opporsi in modo concreto, oltre che teorico e culturale. Le contraddizioni della grande bugia del “dio mercato” sostenuta dai “grandi sacerdoti politici e finanziari” custodi della sua fede, sono ormai evidenti: non resta che renderle ancor più esplicite ed iniziare a proporre, uno dopo l’altro, una serie di elementi e di iniziative concrete che indichino la strada da seguire per uscire dal tunnel.

Per questi motivi il Sindacato dei Lavoratori avanza la proposta di un insieme omogeneo di QUESITI REFERENDARI che parta dalla PRECARIETA’ e dalla LIBERTÀ SINDACALE, che potrebbe interessare altri argomenti quali la previdenza, la salute, l’istruzione, i servizi pubblici, ecc., e che ponga all’attenzione dell’intera opinione pubblica e dei lavoratori, del mondo politico e sindacale, della società civile, l’estrema necessità di un cambiamento, di una svolta radicale che indichi un nuovo modello di sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale ed ecologico e che al tempo stesso spazzi via i falsi miti di questi ultimi anni.

IL Referendum diventerebbe quindi uno strumento:
1. per accendere i riflettori su un problema, su un processo sociale, su un sistema economico;
2. per far discutere il cittadino sulla sua condizione sociale, sul modello di vita al quale si raffronta ed al quale aspira, sulla sua busta paga, sulla sua pensione, sulla condizione di suo figlio precario;
3. per evidenziare che i servizi che non funzionano sono troppo spesso quelli che sono stati liberalizzati e privatizzati;
4. per capire tutti insieme che una strada diversa è possibile, oltre che auspicabile;
5. per provare a vincere una battaglia importante che coinvolge tutti.

Il problema da affrontare e risolvere non è tanto quello dei costi della politica e del sindacato di cui si parla in questi ultimi mesi, quanto quello della efficacia della politica e dell’azione sindacale, intesi come strumenti che devono ridiventare onesti e trasparenti, e che devono perseguire ed assicurare emancipazione, sviluppo e cambiamento, ma anche e soprattutto giustizia sociale.

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Lavoro

I fotogrammi mancanti dallo spot Fiat.

Marchionne, amministratore delegato di Fiat Auto si è vantano di essere stato artefice e creativo dello spot pubblicitario per il lancio della nuova 500.

E’ stata un’occasione per suggellare il rilancio di tutta l’azienda automobilistica italiana.

Tutto bene se non avessimo appreso che la nuova 500 viene prodotta in Polonia e in Slovenia. Se non avessimo appreso che gli operai polacchi e sloveni guadagno 380 euro al mese. E che se volessero comprare una delle vetture che sono il nuovo orgoglio del made in Italy dovrebbero lavorare due anni e mezzo (trenta mesi in totale apnea, cioè senza spendere un euro di quello che guadagnano).

“Appartiene a tutti noi”, dice lo spot di Marchionne. Mai la pubblicità fu più veriteria: a tutti noi appartiene una stile di vita e di consumi che ci fa apprezzare il frutto del basso costo del lavoro degli altri, gli alti profitti dei più forti.

Mentre ci sgrugnamo su pensioni e scaloni, scopriamo che un metalmeccanico polacco o sloveno prende meno della più bassa delle nostre pensioni sociali.

Viva l’euro, viva l’Europa: “appartiene a tutti noi”. Beh, buona giornata.

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Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia

Gli sfruttati della comunicazione.

Crea imbarazzo nel governo e nella maggioranza il caso Atesia, una delle principali società italiane di call center, alla quale l’Ispettorato del lavoro ha imposto di assumere con contratto a tempo indeterminato 3200 lavoratori attualmente “a progetto”.

Prudente il commento del ministro del Lavoro Cesare Damiano: “Mi riservo di esaminare i documenti su Atesia, ma per cò che concerne i call center in generale, 250 mila persone occupate in 700 aziende, l’obiettivo è di regolarizzare tutto il settore”.

Il presidente dell’associazione di categoria Assocontact (Fita-Confindustria), Umberto Costamagna, avverte: “Se la decisione fosse estesa si minerebbe l’intero settore, mettendo in ginocchio le aziende e obbligandole a fare a meno di 50-60 mila collaboratori e mettendo a rischio altri 20-30 mila addetti assunti a tempo indeterminato”.

Giorgio Cremaschi, membro della segreteria della Fiom, dice che “è necessario che il governo assuma ed estenda queste interpretazioni in tutto il settore dei call center”. Il gruppo Cos-Almaviva di cui fa parte Atesia (che lavora per Tim e Wind), ma anche per altre società (Alicos con Alitalia e InAction con Fiat) è una creazione dell’imprenditore Alberto Tripi.

Alberto Tripi, è un sostenitore dell’Ulivo della prima ora, vicino alla Margherita e in particolare al vicepremier Francesco Rutelli. Tripi nel 2005 ha fatto il salto di qualità acquistando da Telecom la società di software Finsiel, cambiandole il nome in Almaviva. Oltre a servire le principali aziende private, si è aggiudicato commesse con ministeri e società pubbliche come i Monopoli di Stato.
Lo Stato produce precariato? E’ atipico. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro Sport

Lo show biz-zarro dei Mondiali.

“La situazione italiana – ha detto il commissario europeo agli Affari finanziari Joaquin Almunia – sembra stia volgendo al meglio e speriamo che la vittoria dell’Italia darà una spinta alla crescita economica e renderà ancora più raggiungibile l’obiettivo di riportare il deficit sotto il 3% entro il 2007”.

Per l’Italia vincere la coppa dei Mondiali non è stata solo la conferma del valore sportivo e neppure una riscossa morale rispetto allo scandalo tutto nazionale di Calciopoli. Vincere potrebbe significare addirittura dare uno slancio alla crescita economica del Paese.

Anche se, secondo il rapporto dello Svimez, riguardo al 2005, la situazione è piuttosto grave. E i dati parlano chiaro: nello scorso anno il Sud è peggiorato rispetto al 2004 in Pil e occupazione, crescendo per il secondo anno consecutivo meno del Centro-nord. Il pil per abitante è rimasto a 16.272 euro, pari al 60,3% del Centro-nord (26.985 euro). La riduzione dell’occupazione si è ripercossa negativamente sui redditi da lavoro e quindi sulla spesa per consumi delle famiglie meridionali (-0,3%); il calo si è fatto particolarmente sentire nei beni primari : i consumi non durevoli si sono ridotti per la prima volta dopo molti anni. Il quadro mantiene tinte fosche anche per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, che nel 2005 rappresentano in Italia appena l’ 1,2% del Pil, contro valori medi nell’Ue del 5%.

Sempre secondo l’indagine della Svimez, l’associazione “vittoria ai mondiali-ripresa economica”, sembra prendere sempre più piede. Per il sottosegretario all’Economia Mario Lettieri, lo “spot” dato dal successo mondiale, varrebbe oltre mezzo punto di Pil: “Potremmo certamente dire che vale più di un mezzo punto di prodotto interno lordo, anche se – ha commentato – non possiamo fare una previsione precisa perché sarebbe imprudente”.

Mentre per Lorenzo Bini Smaghi, membro del consiglio esecutivo della banca centrale europea, sostiene dice “La vittoria ai mondiali di calcio sul Pil? Non bisogna darci troppa importanza, credo che l’Italia avesse bisogno di questo indipendentemente dalla situazione economica”.
Il dibattito è aperto. Esponenti di governo ed economisti discutono su un possibile miglioramento del Pil derivante dalla vittoria mondiale a Berlino. Il ragionamento è semplice: la vittoria mondiale infonde ottimismo nella società, i consumi hanno una spinta e quindi l’economia riparte. La domanda è: riparte per dove? Beh, buona giornata.

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Lavoro Leggi e diritto

Quando i numeri sono neri.

Siamo talmente abituati al valzer delle cifre, delle percentuali, delle ricerche e delle statistiche che non ci rendiamo conto della gravità di certe notizia. Prendiamo, come esempio una recentissima indagine sul lavoro nero nell’edilizia.

Gli immigrati impiegati nell’edilizia sono sempre di più, spesso lavorano in nero e sono retribuiti peggio dei colleghi italiani. Così li fotografa l’ultima indagine Cgil-Fillea, il sindacato dei lavoratori edili che denuncia un aumento del lavoro nero: nel 2005 le posizioni di lavoro irregolari sono state quasi sei milioni, 286 mila in più rispetto all’anno precedente, pari al 16% dei lavoratori dipendenti. Gli extracomunitari, che guadagnano il 24% in meno degli italiani, sono quadruplicati nell’ultimo periodo.

Bene, cioè molto male: sappiamo quanto guadagnano in meno rispetto agli altri (24%,) sappiamo quanto il fenomeno sia in aumento (16%). Sappiamo che sono quasi 6 milioni, cioè tanti quanto sono gli abitanti di Roma e Milano messi insieme. Adesso che sappiamo tutto questo, c’è da chiedersi: il lavoro nero è una moda o un reato? E se è un reato che va di gran moda, visto che sappiamo tutto, che si aspetta a perseguirlo?

Insomma, se ne conosciamo così bene le caratteristiche, tanto da trarne numeri e percentuali, vuol dire che sappiamo anche dove si consumano questi reati e chi li compie. Che si aspetta a perseguirli, l’aggiornamento delle prossime tabelle?

Tutta questa storia ha dell’incredibile, se si pensa che, fino a non molto tempo fa, c’era nel governo precedente chi sosteneva che il lavoro nero e il guadagno sommerso era da considerarsi come una ricchezza per il paese. Però, fa anche riflettere che, come ebbe a dire un giornalista tedesco tempo fa, in Italia gli scandali non sono fatti, sono opinioni. Tanto è vero che, invece che tenerli nascosti, censurando, come si sarebbe fatto un tempo, oggi il modo migliore per occultare la verità è fare statistiche, snocciolare cifre e percentuali.

Così, attratti dal fascino dei numeri, perdiamo di vista che a ognuna di quelle cifre corrispondono persone in carne e ossa, alle quali si negano diritti, si comminano frustrazioni, si assegnano umiliazioni.

Una volta si diceva che la matematica non è un’opinione. In realtà, nella comunicazione moderna, la matematica è diventata una pessima abitudine.
Beh, buona giornata.

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Lavoro

La diaspora delle idee.

Scrive Science, la famosa rivista scientifica, che eminenti cervelli costretti a emigrare in Paesi sviluppati vorrebbero aiutare i loro Paesi d’origine a emergere dal sottosviluppo. Però c’è un però: il loro desiderio si scontra con il vuoto di programmi congiunti tra Paesi occidentali e in via di sviluppo. Scienze riferisce quanto è emerso da un’indagine condotta su un cospicuo gruppo di ‘cervelli in fuga’, compiuta presso l’ateneo di Toronto e intitolata ‘Diaspora scientifica’. Bello il concetto di diaspora scientifica. Brutto che il fenomeno riguardi anche il nostro paese, più avvezzo a occuparsi di veline e calciatori che di ricercatori.

Ma perché i ricercatori se ne vanno all’estero? Ce lo dice una ricerca del Censis. In Italia sono circa 2 milioni e mezzo i lavoratori precari, più di uno ogni dieci occupati. Lo afferma il Censis, sulla base di dati Istat. Si tratta dell’11% del mercato del lavoro, fra contratti occasionali, a progetto e a tempo determinato. I lavoratori atipici sono giovani (il 57,4% ha meno di 34 anni), in maggioranza donne (il 14,7% contro l’8,7%) e con livelli di istruzione elevati (il 14,1% ha la laurea, l’11% il diploma) e si concentrano soprattutto al centro (11,5%) e al sud (13,9%).

Insomma, in Italia c’è un ben di dio di intelligenze sottovalutate, frustrate e sottopagate. Infatti, si vede come vanno le cose, quando carriera la fanno i mediocri: basta guardare la qualità delle persone che fanno politica, televisione, pubblicità. Dice: sono i risultati che contano. Rispondo: ma è proprio di quelli che stavo parlando. Beh, buona giornata.

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