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Uno strano caso di product placement sulla carta stampata.

Il giorno dopo che a Secondigliano un commando ha aperto il fuoco su un gruppo di ragazzini, ferendoli alle gambe all’interno di una sala giochi, il quotidiano La Repubblica dà conto di un’ intervista con il pm Raffaele Cantone, titolare delle indagini anti-camorra nella zona di Scampia.

A pagina 2, in taglio basso, Antonio Tricomi firma l’intervista intitolata “Una volta il quartiere era sicuro, ora a Scampia di notte regnano i killer”. Per poter arrivare al punto della questione che qui sollevo, devo citare un brano dell’intervista.

Dopo aver ricordato ai lettori che Raffaele Cantone ha appena pubblicato “Solo per giustizia”,un libro sulla manovalanza giovanile della camorra, Tricomi chiede al pm:
-Sembra averla colpita in modo particolare la morte di un giovane killer delle “case celesti” di Scampia, episodio a cui dedica pagine molto significative. Può spiegarcene il motivo?

Cantone risponde:-Ci stavamo recando sul luogo del delitto. Con me c’era un capitano dei carabinieri, mi stava raccontando nel dettaglio le vicende di cui la vittima era stata protagonista: si era trovato a essere prima un killer del clan Di Lauro e poi degli “Scissionisti”. Era stato protagonista di numerose azioni di fuoco.

Tricomi chiede:- Il capitano non aveva fatto in tempo a dirle l’età?
Cantone risponde:- No. E dai suoi racconti tutto mi aspettavo tranne che di trovare sull’asfalto un ragazzo di diciannove anni. Notai che portava un paio di Hogan (…).

Interrompo questa citazione, per arrivare subito al punto. Infatti, anch’io tutto mi sarei aspettato, tranne che di trovare un annuncio pubblicitario a piè di pagina del quotidiano: tecnicamente si chiama piedone, perché l’annuncio confinava perfettamente con l’intervista, che come ho già detto era in taglio basso della seconda pagina.

Era un annuncio pubblicitario della Hogan.

Si tratta di un macabro episodio di product placement, come si chiama l’inserimento nelle fiction di prodotti, la cui marca è appositamente resa visibile?
Francamente credo si tratti di un banale incidente di percorso nella confezione del giornale.
Ciò non toglie che cose del genere fanno accapponare la pelle, oltre proprio a non giovare alla testata, all’inserzionista, né ai lettori. Beh, buona giornata.

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Meno pubblicità in tv, più comunicazione a tu per tu.

E’ stato un duro attacco alla qualità della televisione italiana. Secondo quanto riferisce l’agenzia Ansa, è stato un vero e proprio atto di accusa:  la televisione italiana per “livelli di banalità e volgarità (come i tanti reality che affollano i palinsesti delle tv in prima serata)'” è al disotto di altre televisioni europee e il divario rispetto alle emittenti Ue “é crescente”.

E’ quanto ha affermato Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che ha annunciato che “l’Autorità ha in animo di avviare uno studio specifico che analizzi la programmazione televisiva in Italia (e l’uso dei media vecchi e nuovi), verifichi il suo grado di qualità e se essa possa produrre effetti sui cosiddetti ‘comportamenti sociali’.

Non è nelle possibilità dell’Agcom cambiare il modo di fare televisione, spiega il presidente Calabrò, ma “fino a quando le trasmissioni sono dominate dall’assillo dei ricavi pubblicitari e questi sono connessi esclusivamente all’audience – aggiunge il presidente – i tentativi saranno inefficienti”.

Il fatto è che così, dice Calabrò “si innesca una spirale perversa che diseduca il gusto dei telespettatori e degrada il livello delle trasmissioni”.

 

Sappiamo tutti quanto la televisione sia centrale nei piani media, cioè nella distribuzione dei pesi di spesa della pubblicità italiana. E quanto sia diventata ingombrante, ne fanno le spese gli altri media, primi fra tutti la carta stampata. Quel divario crescente rispetto alla emittenti europee di cui parla Calabrò sta proprio nel predominanza assoluta della tv rispetto a tutto il resto della filiera della comunicazione commerciale.

 

Sappiamo anche che questa predominanza alimenta sé stessa più che dare linfa alla propensione verso i consumi: già in forte calo, nonostante la pressione esercitata dalla tv i consumi hanno subito un ulteriore spinta verso il basso a causa della sfavorevole congiuntura economica.

 

Sappiamo che siamo in un periodo di forte sofferenza per il settore economico della pubblicità, chi non ha già tagliato i budget pubblicitari sta pensando di farlo.

 

E’ il momento delle scelte, quelle che bisogna fare proprio durante i momenti di difficoltà: liberiamo la tv dalla troppa pubblicità, distribuiamo i budget verso altri media, verso altre attività di relazione con i clienti dei clienti.

 

Liberemo nuove energie a favore del successo delle marche: la crisi ci impone di fare scelte meno invise all’opinione pubblica, meno invasive dei telespettatori, meno onerose per le aziende. E molto più efficaci, come dimostrano le esperienze di altri paesi, che in Italia si fa fatica a prendere seriamente in considerazione.

 

Lo slogan è: meno pubblicità in tv, più comunicazione a tu per tu. Beh, buona giornata.

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Riceviamo e pubblichiamo.

Associazione 6i

“Per non subire più l’informazione”

Appello

 

 

 

Siamo un gruppo di giornalisti impegnati nello sforzo di rinnovamento della professione, oltre che sul fronte del rinnovo del contratto come tanti altri nostri colleghi.

In questa Italia, tra conflitto di interessi e redazioni invase dalla criminalità organizzata, come ha ribadito Roberto Saviano riprendendo denunce che facciamo da anni, ormai abbiamo poche chance di sopravvivenza. Serve una riflessione approfondita e uno slancio verso una vera svolta nella professione e nei modelli di informazione. Se non ora quando?

Gli editori fino ad oggi hanno tirato a campare senza investire una lira nell’innovazione. Ma il redde rationem è alle porte. Impreparati saremo più deboli. Vanno sperimentate altre strade.

La crisi dei giornali della sinistra è solo la punta dell’iceberg. Quelli che vanno meglio si mantengono grazie ai gadgets. La verità è che la stampa italiana ha perso in credibilità ed autorevolezza. L’opinione pubblica quando non è allisciata dai tuttologi dell’”infotaiment” è preda del modello unico di pubblicità.

Noi crediamo che per “voltar pagina” nei giornali, nel verso senso della parola, non bastano proclami e patti scritti sulla carta. Non basta cavarsela dicendo che in Italia non ci sono lettori o che i giovani non vogliono leggere. Il primo capitolo della nuova fase si scrive con la ricerca attiva di un nuovo dialogo con i lettori, gli utenti, i cittadini. Soprattutto con i giovani se vogliamo realmente costruire qualcosa.

Un dialogo non di forma ma di sostanza, creando nuovi percorsi mediali e favorendo gli strumenti per l’affermarsi di nuovi linguaggi e nuove grammatiche. Va riconquistato un confine netto tra fatti e opinioni, pubblicità e notizie, informazione e comunicazione.

Certamente la premessa è che tutta l’informazione deve tornare a godere di spazi pubblici. 

Facciamo appello a quanti, tra i colleghi, i cittadini, i rappresentanti del mondo politico e sindacale, credono in questi punti di riferimento.

Facciamo appello a chi crede ancora che l’informazione sui fatti possa rappresentare la premessa indispensabile della convivenza civile e il libero confronto di idee e di opinioni. A quanti vedono nella pluralità dell’informazione non un’emozione da telecomando ma il valore di riferimento perché tutti possano essere liberi dentro e fuori. A quanti non pensano che l’informazione sia comunicazione di immagine o dittatura degli uffici stampa.

 

Associazione 
6i to be media

 

 

Comunicato Stampa

 

Il 27 e 28 settembre si svolgerà il primo “press festival”, “Ultime le notizie, infoblocknotes per non subire più l’informazione”.

 

Informazione pubblica come bene primario, autoinchiesta nelle redazioni, ricerca sociale permanente attraverso l’articolazione dei laboratori giornalistici nelle scuole e nel territorio, nuovo patto con i lettori e la società civile e, infine, contaminazioni dei codici giornalistici con i linguaggi delle arti emergenti. In poche parole, “Essere informazione”, invece che subirla.

Sono queste solo alcune delle provocazioni che l’associazione “6ì/to be media” intende lanciare nel corso della due giorni di incontri e dibattiti a Roccasecca, in provincia di Frosinone.

 

Come a Genova quando i mille occhi delle telecamere “in movimento” hanno raccontato la verità sui tragici fatti, così è possibile attivare nella società una catena virtuale che torni a costruire e a scambiare senso attraverso i fatti reali e non quelli inventati. Perché l’informazione garantisca conoscenza e quindi democrazia e partecipazione. Solo da qui può nascere una vera e propria multimedialità, e non da una stanca riproposizione sul web di testate giornalistiche cartacee.

 

Si tratta di un appuntamento “aperto”, un vero e proprio laboratorio, che è il primo tentativo di una associazione di giornalisti di “rompere il ghiaccio” con i cosiddetti lettori, utenti, cittadini; e di provare a far “irrompere” il bisogno di molti di noi di svincolarsi dal grigiore di redazioni asfittiche e noiose. <E’ arrivato il momento di indagare cosa accade veramente lì dentro – sottolinea il presidente di 6i, Fabio Sebastiani – provando a produrre un’autoinchiesta>.

 

Tante presenze importanti anche tra gli operatori dell’informazione: Roberto Morrione, di Rainews, che ha collaborato per il dibattito su mafia e giornali locali, Saverio Lodato, Pino Maniaci, Riccardo Orioles, Luca Bonaccorsi, editore di left, Riccardo De Gennaro, Francesco Piccinini di Agoravox, Lucio Varriale, di “Julie news”, e tanti altri. All’iniziativa interverranno anche alcuni artisti impegnati nel sociale, come Giulio Cavalli e i “24 Grana”, gruppo napoletano che per la prima volta si esibiranno in un concerto acustico, e i Chattanooga, nell’ambito della “Settimana della musica” di Rai1.

 

Il programma completo sul sito www.6media.info

 

 

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La chiamerei “Pubblicità italiana”.

E’ stata scoperta una stella pigra, ma così pigra che non riesce a brillare da sola, perché ha bisogno dell’aiuto della sua compagna.

L’ha scoperta un gruppo italiano dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. La stella pigra appartiene a un sistema doppio, composto da due pulsar che emettono raggi X.

Una delle due pulsar emette raggi X solo grazie all’aiuto della compagna, che periodicamente la investe con un intenso flusso di particelle e le fornisce così l’energia necessaria per brillare.

Come ogni scoperta che si rispetti, bisognerebbe dargli un nome a questa nuovo stella, che brilla di luce altrui. La chiamerei: “Pubblicità italiana”.

Sono aperte le iscrizioni all’albo di quelli che hanno da obiettare che è “un po’ lungo”. Beh, buona giornata.

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Chi urla in tivvù è uno scimmione.

Perché gli uomini parlano e le scimmie urlano? La spiegazione sarebbe nella presenza di un fascio nervoso del cervello. Secondo la mappa del Genoma, abbiamo il 99% del Dna in comune, riusciamo a comunicare attraverso i gesti, ma mentre noi umani usiamo il linguaggio parlato, gli scimpanzé emettono solo grida e grugniti.

Grazie a una nuova tecnica diagnostica, i ricercatori dello Yerkes National Primate Research Center, parte dell’Università Emory di Atlanta, hanno scoperto che nel cervello umano il fascicolo arcuato è diverso da quello del cervello degli scimpanzé, una differenza in grado di spiegare perché agli scimpanzé manca la parola.

Secondo questa nuova tecnica diagnostica, si è scoperto che il fascicolo arcuato è un fascio di fibre nervose che connette due aree del cervello fondamentali per il linguaggio, l’area di Broca e l’area di Wernicke.
La prima si trova nel lobo frontale della corteccia cerebrale e ha un ruolo importante nell’articolazione motoria delle parole.
L’area di Wernicke si trova nel lobo temporale della corteccia cerebrale e contiene le memorie uditive necessarie per la comprensione del linguaggio ascoltato.
I ricercatori hanno ora scoperto che nell’uomo il fascicolo arcuato è più sviluppato e collega le due aree con una traiettoria più ampia, tanto che si proietta anche al di fuori dell’area di Wernicke.

“Nel cervello umano non solo si sono sviluppate regioni più ampie che presiedono al linguaggio – ha spiegato James Rilling, coordinatore del progetto di ricerca – ma anche una rete di fasci nervosi adatta a collegarle meglio tra di loro”. La proiezione fuori dall’area di Wernicke del fascicolo arcuato servirebbe infatti a raggiungere una zona che è coinvolta nell’analisi del significato delle parole.

Questa nuova tecnica si chiama “la tecnica della DTI”, cioè Diffusion Tension Imaging e appare come un’evoluzione della risonanza magnetica, particolarmente efficace proprio nel produrre immagini dettagliate della ricostruzione dell’orientamento delle fibre nervose.

La tecnica è non invasiva e questo ha consentito ai ricercatori di poter mettere a confronto numerose immagini del cervello di esseri umani e di scimpanzé e macachi (Rhesus machacus). “La DTI ha reso possibile capire in che modo l’evoluzione ha mutato la struttura del cervello umano per renderci in grado di pensare, parlare e agire in modo diverso da altri animali, che pure sono così simili a noi”, ha commentato Todd Preuss, uno dei coautori dello studio, uscito su Nature Neuroscience.

È dunque scientificamente provato che chi alza il volume della voce, credendo di aumentare lo spessore del suo ragionamento è uno scimmione. Test clinici, infatti, hanno chiaramente dimostrato che spararla grossa è sintomo di avercelo piccolo (il cervello, quindi il ragionamento).

E per concludere, andare in tivvù a urlare e gesticolare è la dimostrazione di deficit di quell’1 per cento mancante, dimostrato dalla differenza di Dna tra uomini e scimmie.

Ogni riferimento ai talk-show in generale, e ai dibattiti politici in campagna elettorale è assolutamente intenzionale. Beh, buona giornata.

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I furbetti del lay-out-tino.

La scorsa domenica, Eugenio Scalfari ha scritto che il problema del cinema italiano è la perdita di un linguaggio comune e condivisibile. L’affermazione ha la sua importanza, poiché cade durante il festival di Venezia. Ma il suo ragionamento è estendibile a altri settori della comunicazione, come si definiscono oggi tutte le discipline, i mestieri, le professioni che hanno a che fare col comunicare un idea, un pensiero, un punto di vista.

Non è una caso, che Eugenio Scalari citi il giornale di cui è stato il fondatore come un esempio di innovazione del linguaggio della carta stampata.

Le riflessioni di Scalfari hanno provocato un piccolo ragionamento sul linguaggio della pubblicità italiana. Il ragionamento è questo.

1) La pubblicità italiana è tra le più mediocri del mondo occidentale, dal punto di vista creativo: lo dicono tutti i più importanti appuntamenti di confronto tra le diverse culture della comunicazione commerciale;

2) la pubblicità italiana è tra le più eccellenti del mondo occidentale dal punto di vista economico, con particolare riferimento alla pubblicità televisiva: chi possiede un network televisivo fa e disfa a suo piacimento;

3) la pubblicità italiana è la più politica del mondo occidentale: il sistema televisivo, mezzo principe in Italia è regolato da alchimie di tipo politico, dunque anche l’accesso a budget di questa o quella azienda si muove rispetto a queste regole. Basti pensare all’equazione tra il maggiore partito rappresentato in Parlamento, sia pur attualmente all’opposizione e il maggiore network televisivo commerciale, attualmente maggioritario nella raccolta pubblicitaria;

4) la pubblicità italiana oggi non ha un linguaggio culturale, ma economicista, lobbysta, spartitorio, furbastro: basta leggere i comunicati stampa che si vantano di questa o quella acquisizione di budget pubblicitari, di cui sono pieni i news-magazine del settore, ogni giorno.

Non c’è un linguaggio unitario, condivisibile, formativo, innovatore della creatività italiana per il semplice motivo che le idee sono l’ultima ruota del carro, nella santa processione del business della pubblicità italiana.

A questo contribuiscono, in piena flagranza del reato di eccesso colposo di buona volontà molti creativi pubblicitari italiani. Tra loro c’è chi eccelle nel cinismo della loro mediocrità, professionale e culturale. Di quella umana, boh!

Sono coloro che furono allievi di grandi maestri dell’advertising italiano, ma che del loro maestro hanno creduto di imitare gli aspetti esteriori, non quelli intrinseci, che ne hanno fatto, giustamente, punti di riferimento professionali per più di una generazione di creativi. Anzi, candidandosi ad esserne epigoni, dicono in giro del loro disturbo psicanalitico: uccidi il padre è il loro leit-motive.

Ben presto dimentichi degli insegnamento più preziosi, tra cui l’onestà intellettuale che accompagna ogni minuto la creazione di una campagna pubblicitaria, per il semplice fatto che va sotto gli occhi di milioni di persone, i nostri furbetti del lay-out-ino inanellano sciocchezze: si vantano di una campagna scema e già vista, non distinguono il buono dal marcio, ascoltano il suono delle loro parolette e si credono di alta statura professionale, scambiando il sistema metrico decimale con lo spessore professionale.

Ai tempi dell’odiato Gavino Sanna, che li apostrofava con la dicitura “piscia-letto”, nascosti tra la piccola folla del popolo dei creativi fischiavano in platea i suoi successi.

Oggi che “il popolo dei creativi”, come Pirella definì la moltitudine di copy e art che negli Ottanta entrarono nel mondo della pubblicità italiana, attirati, appunto da quel linguaggio che oggi non sembra più esserci, ecco che i furbetti del lay-out-ino sono feroci come caporali napoleonici, al tempo di Sant’Elena.

I furbetti del lay-out-tino non rispettando i loro maestri, non rispettano il loro lavoro, quindi non sanno del rispetto verso i lettori, gli ascoltatori, i telespettatori.

In ultima analisi, essi non sanno nulla del rispetto che si deve al committente, alla disciplina umana e professionale che si deve a chi paga il conto della creatività. Li prendono in giro con la loro prosopopea e con l’altisonanza dei titoli sui biglietti da visita, magari, come bagarini, con la promessa di un posto comodo per godersi la partita.

I furbetti del lay-out-ino sono come cavallette che distruggono, per via della loro ingordigia, dell’ansia di fama, del loro ego, magari di un bonus di fine anno, che distruggono reputazioni delle persone prima e delle marche poi, con il sorriso ammiccante dalla fotina che per piaggeria campeggia sull’articoletto del giornaletto di settore.

Ignari, o forse cinicamente noncuranti, addirittura consapevoli, che tanto di questa o quella testata non gliene frega un bel niente, gli si può raccontare ogni fandonia, che tanto quelli la pubblicano, che se no, magari, gli togliamo l’abbonamento. E così si chiude il circolo vizioso della mancanza di rispetto del lavoro degli altri.

Lo sappiamo tutti che la fretta (di apparire) passa, ma la merda (di certi comportamenti) rimane. Ma a loro che gliene importa. Sono i furbetti del lay-out-ino. Beh, buona giornata.

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The show must go off.

Il Natale della pubblicità italiana è triste e un po’ scemo. E’ lo specchio di una classe imprenditoriale che forse legge i dati Auditel, forse, ma non legge i dati economici.

La ripresa economica è ricominciata: sono aumentati i valori della produzione industriale, sono aumentati gli indici della propensione ai consumi.

Ma la pubblicità è rimasta indietro, molto indietro, arretrata come i testicoli del cane. E’ al palo della tv, sirena incantatrice della passata gestione della cosa pubblica e finanziaria, di quel governo che credeva bastasse fare spot in cui uno diceva “grazie” a chi comprava qualcosa.

Sciocca mossa propagandistica del governo Berlusconi, cui si accodò Upa, l’unione pubblicitari associati, la “confindustria” delle aziende che investono in pubblicità, guidata da Giulio Malgara, che è anche il presidente di Auditel, e che fu addirittura candidato a presidente Rai..

E allora succede che la spettacolarizzazione della pubblicità produce effetti scemi: non basta più un testimonial, ce ne vogliono un tot per spot. Esemplare, nella sua triste apparizione sugli schermi della nostre tv, il caso Tim: quattro testimonial, tutti insieme disperatamente.

Tra cui spicca, malgrado lei, o almeno si spera, Sophia Loren, vestita da suora, ma gravemente deturpata da una regia senza scrupoli e da un serial killer della fotografia, che dice quello che pensano tutti quelli che hanno visto quel triste spettacolino natalizio: è proprio una schifezza.

Metafora della pubblicità italiana? O più semplicemente autoironia involontaria, maldestra (più destra che mal) e per questo sublime nella sua inconfessabile verità, che, come l’erba sotto l’asfalto, salta agli occhi di ha dovuto subire la serialità ossessiva della sua ripetizione televisiva.

Qui non si tratta di parlare male della pubblicità, cosa che fanno in molti, in troppi, per vile compiacenza a un luogo comune. Qui si tratta di sottolineare che se una delle più importanti aziende italiane fa pessima pubblicità c’è qualcosa che non va.

Non solo fa rima, ma fa anche pensare al fatto che la creatività pubblicitaria italiana merita interlocutori più intelligenti, meno legati al carro della tv spazzatura, e più attenti all’etica della comunicazione di massa.

Il che è un altro modo per dire che “the show must go off”. Beh, buona giornata.

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Air Adv.

Lele Panzeri ha lanciato con successo e divertimento Air Guitar, chi vuole può vedere un brano della serata suYouTube.

Cosa è successo? Che creativi di ogni ordine e grado, dalla pubblicità ai mestieri limitrofi, ma forse è proprio la pubblicità a essere oramai diventata limitrofa alla creatività, si sono esibiti facendo finta di suonare la chitarra.

Ne è uscita fuori una storia piena di sano divertimento, uno sberleffo, uno sghignazzo. Una serata forte, ritmica, epilettica. Vedere per credere: http://www.youtube.com/watch?v=0jnatde_uw0

La qual cosa ha assunto, forse inconsapevolmente, e qui sta il bello, il significato di una metafora: da qualche tempo a questa parte, i creativi pubblicitari fanno air-advertising.

Mettono le mani sulla tastiera del computer, ma la strategia è stata già pensata, mettono le mani sul layout, ma l’art direction viene dettata, prendono la penna e fanno finta di scrivere titoli già predefiniti, suggeriti, per non dire imposti.

La differenza è che l’air guitar di Lele Panzeri è stato un evento sorprendente, quello che succede tutti i giorni nei reparti creativi è invece noioso, banale, convenzionale, conservativo, alquanto deprimente.

Perché alla fine è air-fritta. Beh, buona giornata.

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Troppa tv stroppia pure la pubblicità.

L’Italia dei media corre e Internet ha raggiunto il 38% della popolazione, ma gli altri Paesi d’Europa sono già molto lontani. L’Italia resta comunque in coda nell’uso generale dei media. Lo dice il sesto rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione presentato a Roma a fine Ottobre.

Negli ultimi anni ci siamo accostati a più media per assolvere ai nostri bisogni, ma non siamo ancora vicini ai grandi Paesi europei. Resta forte la dipendenza dal modello televisivo tradizionale analogico terrestre.
Se questi sono i dati fatto, sembra che il quadro della situazione non sia molto chiaro ai soggetti economici coinvolti nello sviluppo dei media.

Prendiamo ad esempio la posizione di Giulio Malgara, presidente di Upa, l’associazione che raggruppa le aziende che investono in pubblicità, come è stata riportata da una intervista di Matteo Vitali per advexpress.it, il 18 ottobre scorso.

Sostiene Malgara: “Per quanto riguarda la ridistribuzione degli investimenti su altri mezzi, questo potrebbe avvenire, ma non è cosa certa- dice Malgara- Ad ogni modo, ritengo del tutto ingiusto che una legge (il ddl Gentiloni, ndr) influisca forzatamente nelle strategie di comunicazione e nella gestione dei budget di una azienda. Esistono, oggi, degli investitori che si affidano esclusivamente al mezzo televisivo, pur essendo del tutto liberi di pianificare sugli altri. Ciò significa che la scelta è fatta con cognizione di causa, e che i loro investimenti, una volta ridotti gli spazi televisivi, andranno del tutto, o in gran parte persi.”

Il giudizio del presidente di Upa, che anche il presidente di Auditel sulla Gentiloni è del tutto negativo: “Confermo tutto ciò che ho detto in questi giorni – ha affermato Malgara – il disegno di legge Gentiloni è negativo soprattutto perché, attraverso l’abbassamento del tetto pubblicitario al 45%, la riduzione dell’affollamento orario al 18% (comprese le telepromozioni, ndr) e il passaggio forzato di una rete Rai e una Mediaset sul digitale terrestre entro il 2009, causa una immediata diminuzione degli spazi pubblicitari in un momento in cui, vista la stagnazione o la scarsa crescita dei consumi, il mercato deve essere stimolato.”

La posizione di Malgara appare conservatrice dell’esistente panorama dei media in Italia, nega che lo sviluppo dei media sia un bene anche per gli investitori, nega che l’arrivo di nuovi soggetti possa favorire un migliore rapporto qualità-prezzo degli spazi pubblicitari.

Non vede, Malgara, la possibilità che nuovi soggetti diventino essi stessi utenti di pubblicità, nuovi investitoti, capaci di usare la pubblicità come strumento di una nuova concorrenza.

C’è anche un altro aspetto singolare nelle tesi sostenute da Malgara: egli sostiene che c’è un pericolo di riduzione degli spazi televisivi, in un momento nel quale le aziende hanno invece bisogno di più spazi. Però le nuove norme sul digitale terrestre dovrebbero entrare in vigore nel 2009, fra tre anni.

E poi, c’è da notare che il grande affollamento di questi anni non ha favorito la pubblicità, se è vero, come lo stesso Malgara sostiene, che i consumi languono: a tanta pubblicità televisiva non ha affatto corrisposto la tenuta né dei consumi, né delle quote di mercato.

Questo sistema dei media italiani, che vede una concezione “tolemaica” dei media, la tv ferma al centro dell’universo dei mezzi di comunicazione di massa, allora, non è solo retrogrado, ma palesemente inefficace alle esigenze, non solo dei telespettatori-consumatori, ma anche delle aziende-utenti di pubblicità.

Senza contare, che la posizione dominante delle tv, in particolare di Mediaset ha determinato una politica dei prezzi, tale per cui le aziende hanno cominciato a fare economie sui costi della creatività e sulle percentuali per l’acquisto e la pianificazione dei mezzi, con il risultato di un impoverimento delle idee, che a sua volta ha determinato una omologazione dei messaggi, che ha allontanato i telespettatori-consumatori dagli standard di gradimento dei messaggi. E la creatività italiana dai circuiti internazionali.

Strana la posizione di Lorenzo Strona, presidente di Unicom.

Dopo aver detto che la posizione dominante della tv è colpa della stampa (!?) che non è in grado di soddisfare le esigenze dei piccoli e medi investitori, a proposito del ddl Gentiloni dice ad advexpress.it, il 17 ottobre: “Stante questa situazione, appare di tutta evidenza l’inopportunità dell’iniziativa di porre artificialmente barriere alla naturale evoluzione delle dinamiche di mercato. Le nostre imprese, le medie soprattutto, per tentare di ovviare all’apatia del mercato, hanno necessità di aumentare la loro visibilità e di proporre ogni giorno nuovi stimoli al consumatore. Penalizzarne -continua Strona- la capacità di comunicare significa deprimerne ulteriormente la capacità di competere, con danni rilevanti a carico dell’intero sistema economico del Paese”.

Strana la posizione di Strona, dicevamo: più concorrenza tra media e all’interno degli stessi media penalizzerebbe il mercato. Il problema italiano, per Strona è poco spazio in tv per gli investitori. Per Strona, l’affollamento non esiste, è “una naturale evoluzione delle dinamiche del mercato”.

Pubblicità Italia Today, news letter del settore della pubblicità, il 16 ottobre scorso pubblica una sintesi delle posizioni espresse dai responsabili dei centri media, cioè da quelle agenzie che acquistano spazi televisivi per conto degli investitori. Il quadro che ne emerge è di un gran timore che la situazione del mercato muti.

Vediamo brevemente: “Le centrali chiedono tempo prima di dare un giudizio più dettagliato- scrive Pubblicità Italia-, ma non possono fare a meno di manifestare qualche motivo di perplessità circa gli aspetti più sostanziali del progetto di riforma della Gasparri.”

Secondo la testata di settore, Walter Hartsarich di Aegis lamenta da un lato la decisione di colpire una grande azienda italiana (Mediaste, ndr), sottolineandone il problema occupazionale, e dall’altro la limitazione che ne deriva a una pianificazione libera e di massimo rendimento. Ernesto Pala di Zenith ritiene che le risorse liberate dalla raccolta di Publitalia (la concessionaria di Mediaste, ndr) potrebbero andare perse, non ridistribuirsi cioè sul mercato a causa della mancanza di altre audience interessanti e del tetto di raccolta di Sipra (la concessionaria della Rai, ndr).
P
ositivo invece sulla riforma Auditel, ma con la speranza che si estenda a tutto il sistema “Audi”. Marco Muraglia di Muraglia Calzolari & Associati si esprime invece sulla possibilità che ad una apertura del mercato delle frequenze non corrisponda un’offerta di contenuti nuovi e di qualità. Alessandro Mandelli di Mpg preannuncia un innalzamento dei prezzi dovuto alla contrazione dell’offerta di spazi, che costringerà i centri media a cercare alternative al mezzo televisivo.

Fabio Ferrara (Starcom) è più positivo sulla riforma, ma indica come la vera rivoluzione la stia in realtà già facendo il mercato, anche con il calo di ascolti della tv generalista.

Come è possibile constatare, siamo all’eccesso colposo di cautela, come se ci si muovesse in campo minato, la qual cosa la dice lunga sulla predominanza delle concessionarie delle tv sulle decisioni dei centri di acquisto degli spazi.

Per fortuna dei telespettatori-consumatori e delle aziende-utenti di pubblicità, non tutti la pensano così.
Marcella Bergamini, media group director di Danone ha detto a Claudia Albertoni di advexpress.it, il 24 ottobre scorso . “In Danone pensiamo che stia iniziando un’era di grande cambiamento: tutti gli attori della comunicazione dovranno adottare un approccio diverso, ma questo non significa automaticamente che gli effetti saranno a priori negativi o penalizzanti.”

“ Non crediamo- ha aggiunto Bergamini- sia tanto importante guadagnare più o meno spazi, ma ottenere campagne visibili ed efficaci. A questo proposito, oggi in tanti riportiamo numeri che attestano una minore efficacia della tv imputabile anche all’eccessivo affollamento. Quindi, perché non pensare in positivo? Vedo piuttosto un incentivo all’eccellenza, dato che altre tv e media diversi – in particolare quelli che oggi lamentano difficoltà di affermazione per le logiche dell’attuale sistema – dovranno mettersi in gioco e provare a esprimere le loro potenzialità.”

Dalle agenzie di pubblicità, quelle creative, quelle che studiano e realizzano le campagne, i cui spot sono al centro del dibattito sull’affollamento e l’efficacia del mezzo televisivo arriva un pesante silenzio.

Come se lo stato dei media italiani non fosse cosa che riguarda chi inventa i messaggi, come se non riguardasse proprio i veicoli su cui i messaggi creativi viaggiano, in quel tragitto che va dalle aziende ai consumatori, passando per tutti i media, ma che in Italia trovano un via obbligata: la tv.

Per prudenza o per timorosa compiacenza, si fa finta di non sapere, o comunque si evita accuratamente di dire che la qualità dei messaggi ha necessità di qualità dei mezzi per divulgarli. Che la morte della creatività è nell’invadenza, nella disapprovazione, nella noia che la ripetitività provoca presso il telespettatore-consumatore. Che l’anomalia del sistema televisivo italiano è la causa principale della perdita di autorevolezza dei pensieri, dei concetti, delle idee che caratterizzano l’advertising made in Italy.

Quando vedono una campagna pubblicitaria italiana, la cosa più carina che fanno i creativi di Londra, di Parigi, di Barcellona, di Amsterdam, di New York, ma ormai sempre più spesso anche di Santiago del Cile, di San Paolo del Brasile, per non dire Shanghai o di Sidney è scuotere, sconsolatamente scuotere la testa.

E lo fanno anche gli imprenditori italiani, che quando vanno all’estero, la creatività se la scelgono in loco, mica se la portano da casa. Beh, buona giornata.

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Non basta più cambiare canale, bisogna cambiare la tv.

Secondo i dati Auditel, Circus di Canale 5 è andato intorno al 17 per cento, Miss Italia di RaiUno al 21. Poco, pochissimo. Pare che quelli che si occupano di tv non riescono a crederci.

Il fatto è che sembra che il pubblico rifiuta molto più di prima di essere passivo spettatore delle scelte dei palinsesti, infarciti di reality show. E quello che appare è che la nuova stagione dei reality in onda per ora è un fiasco. Secondo Dipollina di Repubblica, mentre “domenica una buona fiction di Italia 1(Doctor House) aveva battuto sia Bonolis che il reality della Parietti, lunedì è stata una serata d´ecatombe, la gente ha cercato rifugio ovunque: perfino nella milionesima replica del Marchese del Grillo con Alberto Sordi, su La7, volato quasi al 6 per cento, un risultato altissimo per la rete.”

Insomma, i reality che non vanno, come dimostra “Unan1mous” con la De Filippi che è stato portato a conclusione in fretta e furia; Bonolis o Parietti non tirano più la carretta come una volta.
Se alla Rai sono un poco frastornati, a Mediaste fanno i furbetti, e diffondono solo i dati d’ascolto della fascia 15-64 anni. Ma questo non salva sempre la situazione degli ascolti, che sono in fuga.

Secondo Dipollina, la sensazione più diffusa è che in tv non c’è niente da vedere.

La realtà è che così come è oggi la nostra tv, pubblica e commerciale, delude gli spettatori e tradisce le aspettative degli inserzionisti pubblicitari. Il duopolio si è avviluppato su se stesso.

Così, se i nodi tardano a venire al pettine, cioè tarda la riforma del sistema televisivo italiano, capace come dovrebbe di permettere l’ingresso di nuovi soggetti, succede che il pettine viene ai nodi, cioè la fuga degli ascolti diventa la giusta e sacrosanta punizione per una tv che sta perdendo il contatto con la realtà.

Il ministro Gentiloni ha promesso una nuova legge entro Settembre. Sarà terreno di scontro tra maggioranza e opposizione. Cioè tra rendite di posizione, che si annidano sia in Rai che a Mediaset e necessità di cambiare le regole del gioco.

La necessità di un deciso cambio di direzione non è solo più una necessità della politica, dei cittadini, del pubblico: coincide con l’interesse del mercato televisivo. Incredibile, ma vero. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

Trash de vie

Deve essere stato un lavoro sporco, ma qualcuno lo doveva pur fare. La giuria delle Netturbiadi, le olimpiadi degli spazzini italiani, ha attribuito il ‘premio trash’ a Simona Ventura per l’Isola dei famosi.

La decisione è stata comunicata durante la cerimonia conclusiva della manifestazione, che si è svolta a Riccione e a Misano Adriatico. Al secondo posto della classifica si è piazzato Vittorio Emanuele.

Una giuria ha scelto, tra le decine e decine di segnalazioni, quelle che avevano riscosso più voti e ha stilato un elenco di nomination.

Data la situazione dell’inquinamento delle menti ad opera dell’ informazione spazzatura, della tv trash, del gossip usa-e-getta, gli spazzini italiani devono aver fatto un lavoro ciclopico, per smaltire tonnellate di immondizie della comunicazione. Che pattumiera e che stomaco!

E pensare che non c’era ancora stata la trasmissione, appena andata in onda in cui la prima classificata ha invitato Moggi, senza contraddittorio, né erano ancora note le rivelazioni del secondo classificato circa l’assoluzione al processo per la tragica sparatoria nell’isola di Cavallo. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

Speriamo che nessuno inventi la tv che profuma.

E’ nata la radio che profuma, si chiama Kaoru Radio, radio profumata, in giapponese. Il debutto del servizio firmato NTT, un grande compagnia di telecomunicazioni in Giappone e FM Tokyo, famosa emittente radiofonica è fissato per il 2 ottobre. Bisogna dotarsi di un congegno da collegare al PC che costa più o meno 350 euro.

Il servizio funziona mediante una internet-radio che fornisce file musicali con annessa “ricetta del profumo”, cioè un aroma che, secondo gli ideatori, dovrebbe armonizzarsi con la melodia in riproduzione. L’ascoltatore, dopo aver scaricato il file, riproduce la fragranza ‘allegata’ alla musica mediante un’apposita periferica esterna, collegata al computer via cavo USB.

Questo dispositivo è in grado di riprodurre 6 aromi di base e da questi generare numerose combinazioni di fragranze, che, assicurano gli inventori, sono sempre diverse e perfettamente “a tempo di musica”, seguendo le indicazioni della radio su internet. “Si potrà godere contemporaneamente di musica e profumo, per un’esperienza sensoriale senza precedenti”, hanno dichiarato i responsabili del progetto.

Non è escluso che questa novità arrivi anche da noi. Ma si spera rimanga nella radio e, per l’amor di dio non venga adottata anche dalla tv. Se fosse adottata per i reality, sentiremmo il pessimo odore di copiato. Se fosse adottato dai talk show, sentiremmo il cattivo odore delle segreterie di partito. Se fosse adottato dai tg, sentiremmo il tanfo della lottizzazione. Immaginate, poi, se fosse possibile sentire i profumi delle trasmissioni di Gigi Marzullo: la vita è un profumo o i profumi aiutano a vivere meglio? Roba da Guinness dei primati per l’apnea. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

Il processore del lunedì.

Non è fantascienza. Nel 2050 la squadra campione del mondo di calcio giocherà contro una squadra di robot umanoidi.

E’ il progetto svedese ‘RoboCup’. L’Università di Oerebro sta sviluppando infatti dei robot che gareggiano in modo autonomo nel gioco del calcio.

Silvia Coradeschi, docente all’università svedese, ha spiegato che: “uno degli obiettivi principali rimane quello di puntare a una maggior integrazione fra l’uomo e il robot, e diffondere l’utilizzo di umanoidi in tutti i campi”.

Iniziativa intrigante e per certi versi lodevole: e robot e computer hanno cambiato profondamente il mondo, anche quello del lavoro.

Quindi un domani potremo avere professionisti del pallone che giocano al pallone, e quindi non danno capocciate, non sputano, non ci rompono le scatole con i loro noiosi flirt con le veline, che non ci scassano i telecomandi, passando come testimonial da un spot a una telepromozione: insomma meglio robot che umanoidi, come spesso ci appaiono e, purtroppo, in qualche caso sembra proprio siano.

Come per tutte le innovazioni, all’inizio non riusciremo a distinguere quelli veri da quelli artificiali.

Ma poi ci abitueremo e assisteremo a un robot Biscardi di ultima generazione che condurrà il programma: “Il processore del lunedì”. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

Puniti e impuniti.

Una legge sul conflitto di interessi serve ma “credo che debba essere messa da parte ogni volontà punitiva”. Così arrivando a Telese Terme, nel terzo giorno della festa dei Popolari Udeur, il presidente del Senato Franco Marini risponde ai giornalisti dopo che ieri sera era già stato affrontato dal premier, Romano Prodi, il tema del conflitto di interessi.

“Credo che debba essere messa da parte ogni volontà punitiva perché le leggi dello Stato non si fanno per punire ma per risolvere i problemi”. Per il presidente del Senato “il problema di avere un quadro più preciso e magari con un confronto molto serio rispetto al rapporto comunicazione e politica e quindi dei conflitti che possono sorgere è una necessità”.

Guardi, caro presidente che se c’è qualcuno che è stato punito dal conflitto d’interessi sono i cittadini, i telespettatori italiani, la stessa reputazione della nostra democrazia agli occhi del mondo.

Le vendette le teme chi ha goduto di impunità e fatto dell’impudenza il proprio stile, imprenditoriale e politico.

Sono i satrapi del mercato che hanno messo le mani nella politica a temere le regole democratiche.

Il compito da svolgere è semplice: rimettere a posto le lancette dell’orologio del pluralismo dell’informazione, della libertà creativa nelle tv, nei giornali. Stiamo aspettando e non abbiamo più molta pazienza. Beh, buona giornata.

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Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia

Gli sfruttati della comunicazione.

Crea imbarazzo nel governo e nella maggioranza il caso Atesia, una delle principali società italiane di call center, alla quale l’Ispettorato del lavoro ha imposto di assumere con contratto a tempo indeterminato 3200 lavoratori attualmente “a progetto”.

Prudente il commento del ministro del Lavoro Cesare Damiano: “Mi riservo di esaminare i documenti su Atesia, ma per cò che concerne i call center in generale, 250 mila persone occupate in 700 aziende, l’obiettivo è di regolarizzare tutto il settore”.

Il presidente dell’associazione di categoria Assocontact (Fita-Confindustria), Umberto Costamagna, avverte: “Se la decisione fosse estesa si minerebbe l’intero settore, mettendo in ginocchio le aziende e obbligandole a fare a meno di 50-60 mila collaboratori e mettendo a rischio altri 20-30 mila addetti assunti a tempo indeterminato”.

Giorgio Cremaschi, membro della segreteria della Fiom, dice che “è necessario che il governo assuma ed estenda queste interpretazioni in tutto il settore dei call center”. Il gruppo Cos-Almaviva di cui fa parte Atesia (che lavora per Tim e Wind), ma anche per altre società (Alicos con Alitalia e InAction con Fiat) è una creazione dell’imprenditore Alberto Tripi.

Alberto Tripi, è un sostenitore dell’Ulivo della prima ora, vicino alla Margherita e in particolare al vicepremier Francesco Rutelli. Tripi nel 2005 ha fatto il salto di qualità acquistando da Telecom la società di software Finsiel, cambiandole il nome in Almaviva. Oltre a servire le principali aziende private, si è aggiudicato commesse con ministeri e società pubbliche come i Monopoli di Stato.
Lo Stato produce precariato? E’ atipico. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

La comunicazione commerciale i diritti di cittadinanza del consumatore.

Recentemente il Ministro per le Comunicazioni, Paolo Gentiloni ha chiesto alla Rai di abbassare il sonoro degli spot pubblicitari. La Rai ha risposto che provvederà. L’impressione è che questa sia una iniziativa che non serve proprio a niente. Attualmente il problema non pare tanto il volume dei break pubblicitari, quanto piuttosto la qualità dei programmi televisivi.

La bassa qualità dei programmi tv, trasmessi dalla tv pubblica è stata negli scorsi anni giustificata dalla necessità di produrre trasmissioni televisive che catturassero il numero più alto possibile di spettatori, tanto da convincere gli investitori a finanziare con la pubblicità il servizio pubblico, in concorrenza con la tv commerciale. I risultati sono stati deprimenti dal punto di vista della funzione del servizio publico, ma sono stati poco utili anche al mercato della pubblicità, tanto da chiedersi se il gioco valesse la candela. Ovviamente qui si prende il considerazione il rapporto tra spot e spettatori televisivi.

Perché se il metro di misura è la raccolta di budget pubblicitari, in realtà la Rai ha tirato la volata agli ottimi fatturati che Mediaset ha registrato in questi anni, che hanno coinciso con la presidenza del consiglio dei ministri del fondatore, tanto da riuscire a far approvare una legge come la Gasparri che ha ulteriormente rafforzato la posizione dominante di Mediaset.

E allora, quanta e quale efficiacia hanno ancora gli spot pubblicitari, trasmessi in televisione?

A ben vedere come stanno le cose, sembrerebbe che le marche e i consumatori vorrebbero volersi bene, se non fosse che non si capiscono più. E’ come quei matrimoni che vanno in crisi per ‘incompatibilità del carattere’. L’esempio calza anche per quello che riguarda l’inconsistenza degli intermediari: pubblicitari, ricercatori, centri media, agenzie ed emittenti sembrano come i consulenti matrimoniali, gli avvocati, e parenti che si affannano alla ricerca di una riconcigliazione, peggiorando le cose.

Ciò vuol dire che in un mondo non più di massa, ma di persone si deve trovare il modo di toccare il desiderio personale. La crisi si è portato via il consumatore-massa, semplice obiettivo (target) da colpire con raffiche di messaggi (misurabili in grp’s). L’efficacia degli spot cala di anno in anno. Si dovrebbero trovare altri mezzi da utilizzare oltre alla televisione, per generare immagini, nonché l’anima della marca. Oggi non ci possono più essere agenzie specializzate solo sul mestiere della pubblicità, i creativi pubblicitari dovrebbero perseguire la contaminazione con altre forme di creatività, provenienti dai media, per estendere la visione della comunicazione.

Le agenzie dovrebbero aprire lo spettro della comunicazione pubblicitaria, per fare uscire la marca dalla via tradizionale. Le aziende dovrebbero assecondare questo processo di rinnovamento. Perché con il rafforzamento dei movimenti che criticano la società attuale, la pubblicità viene rifiutata da molti, come simbolo appunto di questa società consumistica.

Dunque, bisogna sapere misurare e dosare la pubblicità, che non ha alternative se non nell’essere sempre più creativa, e avere un’etica sempre più ferma, rispettando il consumatore. Il paradosso italiano sta nello straordinario volume di fuoco pubblicitario prodotto dalle televisioni. Con il risultato che i consumatori non amano le aziende, attualmente non comprano i loro prodotti, subiscono la tv, sono scettici sul valore della comunicazione commerciale.

Poco meno di dieci anni fa, in ‘Disruption’ (John Wiley&sons, Inc 1996) Jean-Marie Dru sosteneva la necessità di rompere le regole, superare l’idea della difesa della quota di mercato per riscoprire un idea di quota di futuro, con cui le grandi marche, attraverso il linguaggio della pubblicità avrebbero potuto riconquistare il dialogo con i tanti pubblici, raggiungibili attraverso lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, sviluppo favorito dalla globalizzazione.

Chi abbia letto con attenzione ‘No logo’ di Naomi Klein (Baldini&Castoldi, 2001), si è accorto che la critica alle grandi marche globali e alle loro campagne pubblicitarie, era in realtà una richiesta precisa, affinché i diritti di cittadinanza fossero sempre ben presenti nelle strategie di marketing.

In ‘Copywriter, mestiere d’arte'( Il saggiatore, 2001), Emanuele Pirella scrive che la pubblicità deve far acquistare le merci ‘per amore, per desiderio, per affetto, per amicizia’.

Kalle Lasn, leader di Adbuster (vedi ‘Errore di sistema’, di Bifo Berardi ed altri, Feltrinelli, 2003) non nega la pubblicità, la critica, la manipola per impedirle di essere invadente nel territorio ed invasiva nella mente dei cittadini-consumatori.

Intervistato da Ilaria Myr per www.advexpress.it, (24.06.2004) durante il 51 festival della Pubblicità a Cannes, Jacques Séguéla dice: ‘Ma sarà evidente che la pubblicità del 21mo secolo non avrà niente a che fare con quella precedente, e questo sarà evidente dai Festival che verranno. Il primo grande cambiamento riguarda la fiducia dei consumatori. All’inizio degli anni quaranta bastava il prodotto a creare fiducia. Dagli anni ottanta è stato necessario aggiungere la marca per rafforzare la fiducia. E oggi c’è di nuovo banalizzazione del prodotto e del valore. Sarà necessario passare dal duo prodotto+ marca a prodotto+ marca+ azienda. Il secondo cambiamento riguarda il desiderio. Prima il desiderio era comune, perché il consumatore stesso era comune, così come i media. Oggi siamo in un mondo non più di massa, ma di persone, e si deve dunque trovare il modo di toccare il desiderio personale. La terza evoluzione riguarda i media. È il tempo dell’advertainment, la pubblicità farà parte interamente dell’entartainment. I media saranno nel 21mo secolo il vero motore del nostro mestiere. Perché l’efficacia degli spot cala di anno in anno. Si devono trovare altri mezzi da utilizzare oltre alla televisione, per generare immagini, nonché l’anima della marca. ‘

Per altro, Séguéla sostiene essere giunto il momento in cui creativi della pubblicità e creativi degli altri media, a cominciare dalla tv, imparino a lavorare insieme, perché i contenuti, le idee, i pensieri espressi dalle aziende siano il più vicino possibile ai desideri delle persone.

Al superamento dell’idea del consumatore-massa, all’abbandono della pratica del ‘target’ da colpire con raffiche di spot si era avvicinato Marco Benatti, excountry manager del gruppo Wpp, la più potente holding di pubblicità del mondo, il quale in una intervista a Prima Comunicazione di Ottobre 2003, a firma di Umberto Brunetti ha detto: “Facciamo un esempio, facciamo il caso che lei sia un grande produttore di surgelati. Finora cosa farebbe? Compra spazio alla televisione e scarica in faccia al consumatore italiano una dose terrificante di spot a favore dei surgelati. Più o meno colpisce il target giusto, ma con una dispersione di messaggio e di soldi spaventosa.

E’ interessante notare che Wpp ha recentemente acquisito quote di AGB Group, la società che ha inventato e gestisce il meterpeople, il sistema su cui si basano le rilevazioni condotte da Auditel.

Mi pare che questo sia lo scenario ideale per immaginare il superamento dei parametri di valutazione proposti da Auditel. La cui presenza è diventata ingombrante, non tanto per i dubbi relativi alla trasparenza dei dati, ma proprio come nume tutelare di quella idea di consumatore-massa che i mercati globali stanno mettendo fortemente in discussione.

‘Ma noi segmentiamo ben sessanta pubblici’, ha detto il dott. Pancini, direttore generale di Auditel durante ‘Controcorrente’ su Sky news 24, il 29 settembre u.s. E’ proprio questo il punto: Auditel compra gradimento all’ingrosso e rivende target al dettaglio. Questa stagione è finita, tutto ciò è stato superato dai mercati globali: nonostante le anomalie e i paradossi del nostro sistema radiotelevisivo, il cambiamento lo si può ritardare, come è stato fatto finora, ma fermarlo e impossibile.

‘La globalizzazione ha due volti: uno è quello dell’ordine imperiale, delle sue gerarchie, dell’omologazione; l’altro è la possibilità di nuovi circuiti di informazione e collaborazione che attraversano le nazioni e i continenti, facilitando un illimitato numero di incontri’ (Moltitudine, di Micheal Hart e Antonio Negri, Rizzoli, 2004).

E’ tempo che tra la comunicazione commerciale e i diritti di cittadinanza dei consumatori si stabiliscano mille occasioni di incontro e che i professionisti della comunicazione agiscano da volano per un continuo feedback positivo. Che possa anche essere illuminante per l’azione del Governo, che deve rimettere mani sul riassetto del sistema radiotelevisivo italiano. In questo senso il ministro Gentiloni non ha davvero un compito facile. Forse gli sarebbe utile guardare oltre il mercato italiano: gli esempi non mancano.

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Media e tecnologia

Comunico ergo sum.

Albert-Laszlo Parabasi della University of Notre Dame (Indiana, Usa), autore dello studio ”The Dynamics of Information Access on the Web”, ha pubblicato sulla rivista ”Physical Review’ dell’American Physical Society uno studio che ha evidenziato che, al giorno d’oggi, le notizie pubblicate online si mantengono per ben 36 ore, molto più di quelle impresse sulla carta.

Prendendo in esame i clic effettuati dai lettori-navigatori su una nota testata online ungherese, lo studioso è così arrivato a stimare una vita di ben 36 ore per le notizie sul web. Per quel che riguarda le notizie, Albert-Laszlo Parabasi ha quindi evidenziato un vantaggio davvero notevole di Internet sulla carta stampata.

Pur tra momenti di maggiore e altri di minore interesse, le 36 ore sulla rete sono un obiettivo impossibile da centrare per i quotidiani, soprattutto se si considera il fatto che, salvo in rari casi, il lettore perde completamente d’interesse per l’edizione sulle pagina del giornale del giorno precedente.

Per arrivare a calcolare il ”ciclo di vita” di una notizia, lo studioso ha considerato il lasso di tempo che passa tra il clic con il mouse da parte del primo lettore e quello del fruitore della notizia che si trova esattamente a metà del totale degli utenti che avranno avuto modo di leggere quel determinato articolo.

Ciò che Parabasi non considera è il fatto che i lettori attenti dei giornali spesso strappano la pagina che considerano importante e la conservano per una lettura successiva, dunque svincolata dal concetto del “quotidiano”.

La qual cosa ha a che vedere meno con lo strumento, cioè con il “veicolo” (stampa, tv, radio, giornale, internet), quanto sui contenuti.

I contenuti che viaggiano sui “veicoli” hanno una vita più lunga dei mezzi che li trasportano verso i destinatari finali.

Il che dimostra, contrariamente alle tesi sostenute da McLuhan, che non è affatto vero che il medium è il messaggio: è il messaggio che ha una tale forza propulsiva che spinge verso la nascita di nuovi media.

Non importa che sia un messaggio scritto, fotografato, dipinto, telecinemato, radioraccontato, chattato, tracciato con la vernice sul muro, o semplicemente tramandato di bocca in bocca.

Non sono i mezzi di comunicazione che fanno la comunicazione, è la comunicazione che incessantemente cerca e trova sempre nuovi rivoli, canali, torrenti, fiumi per mettere in contatto gli individui, le loro idee.

Le idee sono fatti materiali, tangibili, concreti. Non amano, non hanno mai amato i recinti: il tizzone per tracciare, il piombo per stampare, il microfono per irradiare, la telecamera per riprendere, il mouse per navigare.

Ci si possono costruire sopra fortune economiche, politiche, militari, religiose. Ma prima o poi l’argine si colma, tracima, smotta, crolla: è la storia della circolazione delle idee, è la storia della forza del messaggio sul medium. Beh, buona giornata.

p.s: giorni or sono ho visto un cartello scritto a mano sul lunotto posteriore di un’automobile molto usurata.

C’era scritto “Euro 4”. Niente di eccezionale: molti automobilisti italiani si fanno da soli cartelli come questi, per rivendicare la categoria omologata dalla Ue, dunque con un basso (presunto) livello di inquinamento, tale da poter circolare (forse) durante la chiusura nei centri cittadini alle auto private.

Ciò che mi ha colpito, però è stata una piccola scritta tra parentesi. Per cercare di leggerla, mi sono avvicinato molto.

Sotto “Euro 4” c’era scritto: “trattabili”.

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Media e tecnologia Società e costume

E’ stato inventato il computer da polso.

E’ una invenzione tutta italiana, è stata messa a punto dall’azienda Eurotech, specializzata nella produzione di computer miniaturizzati.
Pesa meno di 300 grammi, due etti e nove, si connette in rete e ha un cinturino rigido per agganciarlo al polso, in modo da lasciare le mani libere a chi lavora in situazioni difficili, come vigili del fuoco e medici.
“I computer indossabili ci regaleranno nuova libertà di movimento, rivoluzionando le nostre abitudini”, ha detto Roberto Siagri, presidente dell’Eurotech. Vero. Sarà come avere un orologione, sul quale digitare con un mano sola. E mentre si fanno cose con le mani, l’orologione sarà sempre a portata di coda dell’occhio.
Questo nuovo pc da polso ha un display da 65k 72 x 55 mm da 65.000 colori TFT, e grazie ad una penna apposita applicata al laccio (che è flessibile e disponibile in diversi modelli anche a seconda che siate destrorsi o mancini) è possibile interagire con il touchscreen. Il nuovo pc da polso include un ricevitore GPS, Bluetooth v1.1 e, grazie alla tecnologia wireless, può essere tranquillamente connesso senza cavi ad un qualsiasi computer centrale. Le batterie hanno una durata di sei ore in utilizzo continuo.
Secondo gli uomini della Eurotech, il pc da polso è stato studiato per le attività di logistica (magazzinieri), per la sanità (paramedici), per i vigili del fuoco, per la polizia e, immancabilmente, per le forze armate. Come per tutte le innovazioni, questo pc da polso ha senza dubbio il suo fascino, non solo legato al suo desing, ma per fatto che sancisce, è proprio il caso di dirlo, l’avvento dell’informatica pret a porter. Con quel tanto di attrattiva “fantascientifica” che ci restituisce la tecnologia miniaturizzata: dal calcolatore ai pc, dal pc al portatile, dal palmare al pc da polso prosegue imperterrita la corsa della fantatecnologia, come dire che le grandi idee diventano sempre più piccole, più comode, più maneggevoli.
Rimane il problema dell’uso che se ne fa, esso dipende da larghe vedute, ampie intuizioni, grandi idee umane. Che si scontreranno sempre con la mediocrità e la pochezza di chi crede che la tecnologia risolve tout court tutti i problemi umani. Mettete un computer miniaturizzato al poso di un microcefalo e avrete la certezza che sta per succedere un grosso guaio. (Beh, buona giornata)

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