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Decreto ammazza blog: viva Venezia.

Il Comune di Venezia ha aderito alla protesta del web contro il comma 29 del Ddl Alfano sulle intercettazioni. Si tratta del cosiddetto “ammazza blog”, che equipara i blog ai siti di informazione e prevede multe di 12 mila euro per mancate rettifiche a notizie.

“Si tratta di un vero e proprio attacco alla libertà di comunicazione portato fino al cuore dei social network e, quindi, al cuore della moderna libertà di espressione”, si legge in un comunicato dell’assessore alla Cittadinanza digitale Gianfranco Bettin.

“Il Comune di Venezia – continua la nota – ritiene un diritto fondamentale l’accesso alla Rete e la libertà di espressione attraverso di essa. Per questo aderisce alla protesta contro ogni ottusa e prepotente limitazione alla piena libertà di espressione”. Venezia è davvero una gran bella città. Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Potere Pubblicità e mass media

Informazione, stampa e televisione nella globalizzazione.

Mentre, come è giusto che sia, ci si occupa del ruolo di Al Jazira nel mondo arabo e ci interroga sui condizionamenti che gli Usa gli avrebbero imposto in questi anni, mentre tutto questo succede, dunque, bisognerebbe fare due conti con la realtà dell’informazione ai tempi della globalizzazione.

Perché se il rapporto tra stampa e potere è sempre stato problematico, in questa epoca l’informazione, soprattutto televisiva, ha assunto un ruolo sproporzionato, sempre più spesso incentrato su una funzione di supplenza della politica, per non dire di alcuni casi in cui il maistream ha letteralmente surrogato partiti, governi, cancellerie.

Se la gestione imperiale dell’Amministrazione Bush impose al modo la guerra preventiva al terrorismo, questo fu possibile per un atteggiamento “patriottico” della stampa americana, un atteggiamento che sorprese un po’ tutti. Ci si è chiesti più di una volta: ma dov’è finito lo spiritaccio indipendente del giornalismo made in Usa, quello che non guarda in faccia a nessuno, men che meno se si tratta dell’inquilino della Casa Bianca?

Negli anni dell’amministrazione Bush, la stampa americana, consapevole della ferita provocata dall’Attacco alle Torri Gemelle ha avuto una condotta, diciamo così, morbida. Cominciavano le grandi difficoltà economiche strutturali della carta stampata, il grande sorpasso informativo della tv su quella che fino allora era stata la supremazia della stampa, cioè l’approfondimento, il commento, la formazione dell’opinione, il dialogo con l’opinione pubblica. Mentre il governo Bush faceva il bello e il cattivo tempo, praticamente senza contraltare, la tv lo ha sostenuto nella sua strategia mediatica. Non dimentichiamo che proprio la tv, la Fox in particolare, ebbe un ruolo strategico per la prima elezione di Bush, ai danni dello sfidante Al Gore.

Dunque non stupisce che Rumsfeld, allora ministro della Difesa degli Usa in guerra contro il terrorismo in Afghanistan e in Iraq, cercasse di addomesticare Al Jazira, visto che c’era riuscito in patria. Né che l’attuale amministrazione Obama, attraverso il ministro degli Esteri, la signora Clinton, cerchi un megafono in Al Jazira per supportare le rivolte della così detta primavera araba.

Non stupisce neppure che l’emiro del Qatar usi Al Jazira per accreditarsi verso gli Usa. Succede regolarmente nel modo occidentale, come dimostra lo scandalo che ha coinvolto Murdoch e Camerun in Uk, perché non nei paesi arabi?

Insomma, per portare avanti i suoi piani di sviluppo, la globalizzazione usa il mainstream, e la tv in particolare, per ridefinire quegli assetti finanziari, quegli equilibri geopolitici, quegli sbocchi ai mercati, quelle politiche commerciali sovrannazionali che la politica ci metterebbe troppo tempo a mettere in atto.

E per stare al passo coi tempi scanditi dal commercio globale, dalla finanza sovrannazionale la politica deve trovare alleanze coi media globali. I quali, a loro volta, rinunciano a porzioni consistenti di indipendenza verso i loro lettori e telespettatori, a favore di un autorevolezza e un accreditamento presso i nuovi poteri forti globali.

Se questo è quanto sta succedendo, ancora più comica è la funzione della tv in Italia rispetto al morente berlusconismo. La tv italiana sembra non vedere altre prospettive che il passato politico dei Berlusconi. Uno come Minzolini, per esempio, è più vicino alla disperazione professionale di un giornalista libico che va in onda e dice che va tutto bene e che Geddafi vincerà, di quanto egli stesso non si renda conto. Se ne accorgono però i telespettatori del TgUno, che continuano a abbondare in massa la rete ammiraglia della tv pubblica italiana. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

I dolori finanziari di Mediaset.

di GIULIANO BALESTRERI-repubblica.it

Fine settimana di fuoco per Mediaset che tra mercoledì e oggi ha lasciato sul parterre di Piazza Affari oltre il 16% con una capitalizzazione crollata a 2,4 miliardi, 2 euro per azione: solo venerdì sono stati bruciati 100 milioni di euro. Sintomo di un malessere profondo. Che si intreccia con la politica, la congiuntura economica e il piano industriale del gruppo di Cologno.

Gli analisti sono convinti che il governo guidato da Silvio Berlusconi sia vicino al capolinea. Una sensazione diffusa anche tra gli investitori che stanno iniziando a riposizionarsi. Mediaset gode oggi di un primato ineguagliabile sul fronte della raccolta: grazie all’aggressiva strategia di Publitalia e alla forte riduzione dei prezzi, la tv assorbe metà degli investimenti in pubblicità. Con Mediaset che raccoglie il 63% degli introiti della tv. Come dire che al Biscione va il 31,5% di tutta la raccolta pubblicitaria del paese.

“C’è una sorta di sudditanza nei confronti di Mediaset. E’ un fatto ciclico che si ripete quando Berlusconi è al governo” spiega un ex dirigente di Sipra, la concessionaria della Rai che aggiunge: “Gli investitori cercano di compiacere il premier. Danneggiando la Rai. Anche il governo cerca di non pagare gli spot al servizio pubblico”. Un sistema che senza Berlusconi al governo non avrebbe ragione d’esistere.

A tutto questo si aggiunge la congiuntura economica. I timori di recessione rallentano gli investimenti per tutti. Anche per Publitalia che continua a rendere più del mercato, ma non riesce a tenere il passo con la performance scorso anno (in realtà solo La7 e Cairo riescono a fare meglio).

Sullo sfondo del crollo del titolo anche i dubbi sull’efficacia del piano industriale. Ieri Mediaset Premium si è aggiudicata i diritti tv per i prossimi tre campionati di Serie A sul digitale terrestre versando 268 milioni di euro l’anno contro i 210 dell’ultimo contratto. Il Biscione si è aggiudicato l’esclusiva per le migliori 12 squadre di Serie A, quelle che garantiscono il 90% degli ascolti, a un prezzo inferiore rispetto alla concorrenza: Mediaset paga 1,2 milioni a partita contro l’1,4 di Sky e l’1,4 che viene chiesto per ogni match tra le 8 squadre fuori dal pacchetto Mediaset (le partite che garantiscono meno del 10% di share). Il problema è che gli abbonati Mediaset pagano in media 10,5 euro al mese contro i 43 euro di Sky. Certo il trend è in crescita rispetto ai 9,6 euro del 2009, ma con questi numeri servono 2,1 milioni di abbonati solo per pagare i diritti sportivi. Esclusa la Champions League. E a fine giugno gli abbonati erano 2 milioni con 4,4 milioni di tessere attive. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Test clinici hanno dimostrato che i testimonial non vendono.

(apparso su advexpress.it)

Stando alle ricercatrici Vicki G.Morwitz, della New York University, ed Edith Shalev, dell’Israel Institute of Technology, attualmente a spingerci all’acquisto non sarebbe affatto il desiderio di emulazione, quanto, piuttosto, la paura di essere guardati dall’alto in basso da chi giudichiamo sotto di noi e la necessità così di rafforzare il nostro ego, pareggiando l’acquisto. Va così in pezzi, ed era ora, la logica “aspirazionale” che per troppo tempo ha condizionato la creatività italiana. La qual cosa è da salutare positivamente.

Perché dovrebbe finalmente convincere tutti a porre fine alla lunga stagione dei testimonial famosi, e molto costosi, e, diciamocelo, alquanto noiosi.

Ne dà conto Simona Marchetti, che dalle pagine de Il Corriere della Sera cita un paio di esempi. Le due ricercatrici hanno sottoposto alcuni studenti newyorkesi a test mirati su alcuni prodotti. Con il risultato che questi ragazzi hanno dimostrato molto più interesse per l’acquisto di un riproduttore digitale di musica perché glielo consigliava un garzone di un negozio di alimentari, che si è dimostrato più credibile di un uomo d’affari.

Oppure, il caso di una elegante t-shirt griffata che, indossata da un commesso, invece che da uno studente di un college prestigioso, ha fatto venire loro il desiderio di acquistarla.

Insomma, se torniamo a fare cose semplici e a utilizzare persone normali nelle nostre campagne pubblicitarie, la pubblicità torna a essere credibile, i prodotti appetibili, nonostante la crisi dei consumi che attanaglia le aziende italiane.

Signori clienti e amici pubblicitari, capìta l’antifona? Beh, buona giornata.

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Attualità Cinema Media e tecnologia Pubblicità e mass media Teatro

La rivincita del fumetto d’autore: menzione speciale al Premio Giancarlo Siani.

La giuria del Premio Giancarlo Siani – edizione 2011 – ha assegnato una menzione speciale per il fumetto “Il mistero del pescatore” al settimanale 3DNews, inserto culturale del quotidiano Terra.
3DNews, ideato e diretto da Giulio Gargia, ha riscoperto il fumetto come strumento giornalistico di indagine e approfondimento dei fatti di cronaca.

Da circa due anni a questa parte, 3DNews approfondisce tematiche legate alla comunicazione, ai mass media, al cinema e al teatro. Va dato merito alla giuria del premio Siani di aver individuato una innovazione nel panorama della carta stampata.

Un’innovazione che reca i nomi di Giulio Gargia, Paco Desiato, Tommaso Vitiello, Nico Piro. La cerimonia di premiazione sinterrà il prossimo 22 settembre alle ore 11,30 presso la sala Siani del quotidiano “Il Mattino”, a Napoli. Beh, buona giornata.

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business Finanza - Economia Pubblicità e mass media

Aumenta l’IVA, si salvi chi può.

Il preannunciato, smentito, riannunciato e, alla fine, forse, decido aumento dell’IVA arriva come una maledizione sulla persistente crisi dei consumi, che affligge le aziende produttrici, le aziende distributrici, i punti vendita, e la pubblicità. Dai giocattoli, ai televisori, auto e moto, abbigliamento e calzature, taglio e piega dal parrucchiere, caffè, vino e cioccolato. È su una lunga lista di prodotti e servizi che va a pesare l’aumento di un punto dell’aliquota ordinaria Iva del 20%.

Molte voci riguardano le spese per la casa, detersivi per pulire compresi, anche il turismo viene toccato con la previsione di un aumento per stabilimenti balneari e pacchetti vacanza. Facile immaginare – sottolineano le associazioni dei commercianti – le conseguenze negative sui consumi per le famiglie italiane già alle prese con la difficile congiuntura economica. Per Confcommercio il rischio è che «l’Italia paghi, tutta insieme, un conto davvero troppo pesante». «Ogni aumento dell’Iva – sottolinea da parte sua Confesercenti – si va tra l’altro a sommare ai recenti rialzi delle materie prime che a sua volta stanno surriscaldando l’inflazione».

Per il Codacons la decisione di aumentare l’Iva è «da irresponsabili» e va a a colpire anche le famiglie più povere.

L’aumento dell’Iva – sottolinea Federalimentare – riguarda un terzo dei prodotti alimentari abitualmente acquistati e, considerato che si viene già da cinque anni di flessione nei consumi alimentari domestici, frena ogni possibilità di rimbalzo della spesa e incentiva l’inflazione.

L’eventuale incremento dell’aliquota ordinaria Iva fa salire tra l’altro l’Italia in testa alla classifica dei vari regimi di aliquote ordinarie praticati dai maggiori Paesi europei. In Germania è infatti al 19,6%, in Francia al 19,6%, in Spagna al 18%, e in Gran Bretagna si attesta al 20%. Per la pubblicità italiana di prevedono tempi più cupi: la diminuzione delle vendute e’ direttamente proporzionale ai budget pubblicitari. Beh, buona giornata.

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business Finanza - Economia Pubblicità e mass media

Sono dolori per la pubblicità italiana: -4,2%.

Secondo le rilevazioni Nielsen, nel primo semestre dell’anno si registra un calo degli investimenti pubblicitari. Particolarmente negativo il dato di giugno. Infatti, da una parte il confronto con il giugno 2010, mese nel quale si disputavano i mondiali di calcio, dall’altra i primi sentori delle difficoltà finanziarie che hanno investito l’Italia nel corso dell’estate, hanno prodotto una contrazione dell’advertising che, nel singolo mese, ha coinvolto tutti i settori trainanti del mercato pubblicitario con l’eccezione di cura persona (+5,1%) e farmaceutici/sanitari (+10,8%).

Considerando il semestre la variazione rispetto al 2010 è stata del -4,2% considerando anche le tipologie commerciale locale, rubricata e di servizio. Il valore complessivo dell’advertising nei primi sei mesi del 2011 è stato di poco superiore ai 4,5 miliardi di euro. Gli eventi di questa estate che hanno portato Ocse e Fondo Monetario a rivedere al ribasso le precedenti stime di crescita del Pil freneranno molto probabilmente anche la ripresa del mercato pubblicitario auspicata per la seconda parte dell’anno.

I mezzi

La televisione, considerando anche i marchi Sky e Fox e le tv digitali rilevate da Nielsen, chiude i primi sei mesi in calo (-4,7%), con una raccolta superiore a 2,5 miliardi di euro. Le emittenti televisive hanno pagato, in particolare a giugno, il confronto con l’anno precedente, ma trova conferma la crescita in termini di audience e raccolta pubblicitaria delle emittenti trasmesse in digitale terrestre.

Gli investimenti su internet, superando i 300 milioni di euro senza considerare il search, continuano a crescere a doppia cifra (+14,1%) rispetto al 2010, ma anche il web a giugno ha subito un rallentamento. Il +4,7% rispetto al giugno 2010 è una delle crescite più basse degli ultimi anni a livello mensile.

L’out of home tv è l’unico altro mezzo che vede crescere la raccolta pubblicitaria nel semestre (+6,2%) mentre si registrano variazioni negative per tutti gli altri. La radio in particolare, oltre alla congiuntura del mercato, paga l’assenza di dati condivisi e realistici dovuta alla liquidazione di Audiradio.

Per quanto riguarda la stampa, ancora in forte calo la free press (-49,9%), i quotidiani a pagamento seguono sostanzialmente il trend del mercato (-5,1%), mentre i periodici limitano i danni (-1,5%). Variazione leggermente negativa per il direct mail (-0,9%). Esterna e cinema chiudono la prima parte dell’anno con cali più consistenti.

I settori

I primi quattro settori del mercato pubblicitario, ovvero alimentari, automobili, telecomunicazioni e abbigliamento hanno registrato nel mese di giugno una contrazione dell’advertising compresa tra il -9% e il -20%. Considerando il primo semestre, tra i primi dieci settori in termini di spesa hanno investito più del 2010 solo le aziende dei comparti automobilistico (+2,8%) media/editoria ( +2,2%), cura persona (+10,1%), farmaceutici/sanitari (11,7%). (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

La nebbia informativa.

(fonte: Ansa.it)

“Siamo di fronte ad una nebbia informativa, una cortina impenetrabile di notizie ed informazioni in eccesso che non ci permette di sapere cosa c’e’ oltre. Siamo in una modernita’ di bambagia che ci impedisce di fare cio’ che vogliamo, sviluppa in noi un senso di ignoranza, di inadeguatezza e di frustrazione, uno stato di impotenza e di instabilita”, Zygmunt Bauman dixit (al Festival della Mente di Sarzana). Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media Società e costume

Milano, Anno XVII dell’Era Videocratica.

(pubblicato su 3DNews-Terra)

Gabriele Paolini e’ uno che farebbe di tutto pur di apparire. La sua tecnica e’, appunto, apparire alle spalle del “nostro inviato” in diretta tv e fare qualcosa che attiri l’attenzione su di se’.

Così facendo, ovviamente, oltre che l’attenzione dei telespettatori, attira le ire degli addetti ai lavori. A chiunque sia capitato di assistere a una performance del Paolini, e’ successo di subire una sensazione da cortocircuito celebrale, come quando l’acqua della doccia diventa fredda, o nel caffè ci sia finito il sale, anziché lo zucchero.

Paolini e’ un guastafeste professionale: ci sbatte in faccia che la tv e’ fasulla. Intendiamoci, noi lo sappiamo che tutto quello che vediamo in tv non e’ sempre vero, giusto, condivisibile.

Fatto sta che Paolini in tv svela il trucco che ognuno di noi e’ disposto a concedere a se stesso, cioè ci fa vedere che quello che sappiamo benissimo: che la tv e’ bugiarda.

Lo accettiamo se si tratta di un telefilm, di un quiz, di un reality. Poi, pero’ ce ne dimentichiamo davanti al tg. E, zac!, arriva Paolini e rompe le uova nel paniere di chi aveva preparato tutto perché tutto sembrasse irresistibilmente vero.

In questi anni la tv ha reso possibile un primo ministro con i tacchi, il cerone e il riporto posticcio alla Mascagni. Vi pare possibile lasciar correre che il Paolini si presenti in tv e dica che il premier usa la pompetta? E che poi osi farsi fotografare mentre da’ fuoco a una gigantografia fotografica di Berlusconi?

Il Prefetto di Milano ha comminato al Paolini la sanzione del foglio di via. Qualcuno ha detto che e’ una misura punitiva che ricorda il Ventennio. Ma va la: nell’ Anno XVII dell’ Era Videocratica al Paolini e’ andata di lusso. Beh, buona giornata.

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Dibattiti Media e tecnologia Pubblicità e mass media

E’ finito il postmoderno. Non se ne poteva più.

di EDWARD DOCX-la Repubblica

(Traduzione di Anna Bissanti) © 2011 Prospect magazine Distributed by The New York Times Syndicate – EDWARD DOCX

Ho delle buone notizie per voi. Il 24 settembre potremo ufficialmente dichiarare morto il postmoderno. Come faccio a saperlo? Perché in quella data al Victoria and Albert Museum si inaugurerà quella che viene definita la “prima retrospettiva globale” al mondo intitolata Postmoderno – Stile e sovversione 19701990. Un momento…. Vi sento urlare. Perché dichiarano ciò? Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l’ ho mai capito.

Come è possibile che sia finito? Non siete gli unici. Se esiste una parola che confonde, irrita, infastidisce, assilla, esaurisce e contamina noi tutti è “postmoderno”. E nondimeno, se lo si capisce, il postmodernismo è scherzoso, intelligente, divertente, affascinante.

Da Madonna a Lady Gaga, da Paul Auster a David Foster Wallace, la sua influenza è arrivata ovunque e tuttora si espande. È stata l’ idea predominante della nostra epoca. Allora: di che cosa si è trattato, esattamente?

Beh, il modo migliore per iniziare a capire il postmodernismo è facendo riferimento a ciò che c’ era prima: il modernismo.

A differenza, per esempio, dell’ Illuminismo o del Romanticismo, il postmodernismo racchiude in sé il movimento che si prefiggeva di ribaltare. A modo suo, il postmodernismo potrebbe essere considerato come il tardivo sbocciare di un seme più vecchio, piantato da artisti quali Marcel Duchamp, all’ apice del modernismo tra gli anni Venti e Trenta. Di conseguenza, se i modernisti come Picasso e Cézanne si concentrarono sul design, sulla maestria, sull’ unicità e sulla straordinarietà, i postmoderni come Andy Warhol e Willem de Kooning si sono concentrati sulla mescolanza, l’ opportunità, la ripetizione.

Se i modernisti come Virginia Woolf apprezzarono la profondità e la metafisica, i postmoderni come Martin Amis hanno preferito l’ apparenza e l’ ironia. In altre parole: il modernismo predilesse una profonda competenza, ambì a essere europeo e si occupò di universale. Il postmodernismo ha prediletto i prodotti di consumo e l’ America, e ha abbracciato tutte le situazioni possibili al mondo.

I primi postmodernisti si legarono in un movimento di forte impatto, che mirava a rompere col passato. Ne derivò una permissività nuova e radicale. Il postmodernismo è stato una rivolta apprezzabilmente dinamica, un insieme di attività critiche e retoriche che si prefiggevano di destabilizzare le pietre miliari moderniste dell’ identità, del progresso storico e della certezza epistemica. Più di ogni altra cosa il postmodernismo è stato un modo di pensare e di fare che ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio da qualsiasi carattere particolare e di sconfessare il consenso del gusto. Come tutte le grandi idee, è stato una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico.

Come ha detto il filosofo egiziano-americano Ihab Hassan, nella nostra epoca si è affermato un “forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’ individuo, l’ intero territorio del dibattito occidentale”.

Il postmodernismo apparve per la prima volta come termine filosofico nel libro del 1979 dell’ intellettuale francese JeanFrancois Lyotard intitolato ” The Postmodern Condition “, nel quale si affermava che gruppi diversi di persone utilizzano il medesimo idioma in modi differenti e ciò implica che possano arrivare a vedere il mondo con occhi alquanto differenti e personali. Così, per esempio, il sacerdote utilizza il termine “verità” in modo assai diverso dallo scienziato, che a sua volta intende la medesima locuzione in modo ancora diverso rispetto a un artista. Di conseguenza, svanisce completamente il concetto di una visione unica del mondo, di una visione predominante. Se ne deduce – sostenne ancora Lyotard – che tutte le interpretazioni convivono, e sono su uno stesso piano.

Questo confluire di interpretazioni costituisce l’ essenza del postmodernismo. Purtroppo, il 75 per cento di tutto ciò che è stato scritto su questo movimento è contraddittorio, inconciliabile, oppure emblematico della spazzatura che ha danneggiato il mondo accademico della linguistica e della filosofia “continentale” per troppo tempo. Non tutto però è da buttar via. Due sono gli elementi importanti.

Il primo è che il postmodernismo è un’ offensiva non soltanto all’ interpretazione dominante, ma anche al dibattito sociale imperante. Ogni forma d’ arte è filosofia e ogni filosofia è politica. Il confronto epistemico del postmodernismo, l’ idea di de-privilegiarne un significato, ha pertanto condotto ad alcune conquiste utili per il genere umano. Se infatti ci si impegna per sfidare il ragionamento prevalente e predominante, ci si impegna altresì per dare voce a gruppi fino a quel momento emarginati.

Così il postmodernismo ha aiutato la società occidentale a comprendere la politica della differenza e quindi a correggere le miserabili iniquità ignorate fino a quel momento.

Il secondo punto va maggiormente in profondità. Il postmodernismo mirava a qualcosa di più che pretendere semplicemente una rivalutazione delle strutture del potere. Affermava che noi tutti come esseri umani altro non siamo che aggregati di quelle strutture. Sosteneva che non possiamo prendere le distanze dalle richieste e dalle identità che tali discorsi ci presentano. Adios Illuminismo. Bye bye Romanticismo.

Il postmodernismo, invece, afferma che ci muoviamo attraverso una serie di coordinate su vari fronti – classe sociale, genere, sesso, etnia – e che queste coordinate di fatto costituiscono la nostra unica identità. Altro non c’ è. Questa è la sfida fondamentale che il postmodernismo ha portato al grande convivio delle idee umane, in quanto ha cambiato il gioco, passando dall’ autodeterminazione alla determinazione dell’ altro.

Eccoci però giunti alla domanda trabocchetto, la più subdola di tutte: come sappiamo che il postmodernismo è alla fine, e perché? Prendiamo in considerazione le arti, la linea del fronte. Non si può affermare che l’ impatto del postmodernismo sia minore o in via di estinzione. Anzi, il postmodernismo è esso stesso diventato il sostituito dell’ ideologia dominante, e sta prendendo posto nella gamma di possibilità artistiche e intellettuali, accanto a tutte le altre grandi idee. Tutti questi movimenti in modo impercettibile plasmano la nostra immaginazione e il modo col quale creiamo e interagiamo. Ma, sempre più spesso, il postmodernismo sta diventando “soltanto” una delle possibilità che possiamo utilizzare.

Perché? Perché tutti noi siamo sempre più a nostro agio con l’ idea di avere in testa due concetti inconciliabili: che nessun sistema di significato possa detenere il monopolio sulla verità, e che nondimeno dobbiamo riformulare la verità tramite il nostro sistema scelto di significati. Forse, il modo migliore per spiegare le ragioni di questo sviluppo è usare la mia forma d’ arte, il romanzo. Il postmodernismo ha influito sulla letteratura sin da quando sono nato. In effetti, il modo stesso col quale ho scritto questo articolo – mescolando parzialmente a livello di consapevolezza tono formale e tono informale – è in debito verso le sue stesse idee. Stile alto e stile basso coesistono allo scopo precipuo di creare occasioni di stupore, sorpresa, introspezione.

Il problema, però, è quello che potremmo definire il paradosso del postmodernismo. Per qualche tempo, quando il Comunismo crollò, la supremazia del capitalismo occidentale parve messo a dura prova proprio ricorrendo alle tattiche ironiche del postmodernismo. Col passare del tempo, però, si è presentata una nuova difficoltà: tenuto conto che il postmodernismo se la prende con qualsiasi cosa, ha iniziato ad affermarsi una sensazione di confusione, finché negli ultimi anni è diventata onnipresente.

Una mancanza di fiducia nei dogmi e nell’ estetica della letteratura ha permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è.

Pertanto, in assenza di criteri estetici attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai guadagni che esse assicuravano. Così, paradossalmente, siamo arrivati a una fase nella quale la letteratura stessa è ormai minacciata, prima dal dogma artistico del postmodernismo, poi dagli effetti involontari di tale dogma, l’ egemonia dei marketplace.

Esiste inoltre un paradosso parallelo, in politica e in filosofia. Se deprivilegiamo tutte le posizioni, non possiamo affermare alcuna posizione, pertanto non possiamo prendere parte alla società e quindi, in definitiva, un postmodernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo.

La soluzione postmoderna non servirà più da risposta al mondo nel quale ci ritroviamo a vivere. In quanto esseri umani, noi non desideriamo esplicitamente essere lasciati in compagnia del solo mercato. Perfino i miliardari vogliono essere collezionisti di opere d’ arte. Certo, internet è quanto di più postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto più immediato in Occidente pare essere stato la nascita di una generazione che è maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale.

Tuttavia, se sappiamo guardare oltre scopriamo un secondo effetto negativo indesiderato: una smania a conseguire una sorta di veridicità offline. Desideriamo essere riscattati dalla volgarità dei nostri consumi, dalla simulazione del nostro continuo atteggiarci.

Se il problema per i postmodernisti è stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell’ attuale generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare.

Questo crescente desiderio di una maggiore veridicità ci circonda da tutte le parti. Lo possiamo constatare nella specificità dei movimenti food local, per i cibi a chilometro zero.

Lo possiamo riconoscere nelle campagne pubblicitarie che ambiscono ardentemente a raffigurare l’ autenticità e non la ribellione. Lo possiamo vedere nel modo col quale i brand stanno cercando di prendere in considerazione un interesse per i valori dell’ etica. I valori tornano ad avere importanza.

Se andiamo ancor più in profondità, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dello scultore che sa scolpire e del romanziere che sa scrivere. Jonathan Franzen ne è un esempio calzante: uno scrittore encomiato in tutto il mondo perché si sottrae alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca.

Ciò che conta, dopo tutto, non è soltanto la storia, ma come è raccontata. Queste tre idee – specificità, valori, autenticità – sono in aperto conflitto con il postmodernismo. Stiamo dunque entrando in una nuova era. Potremmo provare a chiamarla “l’ Età dell’ Autenticità”. Vediamo un po’ come andranno le cose. (Beh, buona giornata).

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business Potere Pubblicità e mass media Società e costume

Io ti pago, tu patteggi, così le indagini si chiudono e le intercettazioni non diventano pubbliche.

di Guido Ruotolo- La Stampa

Questa è la storia di un grande ricatto che ha come protagonista, nel ruolo di vittima, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Che – stando alla ricostruzione dell’accusa – per non vedere le sue scabrose telefonate di sesso pubblicate sui giornali, versa mezzo milione di euro a un imprenditore, Gianpi Tarantini, perché, essendo lui indagato per induzione e favoreggiamento della prostituzione, si sacrifichi e chieda il patteggiamento. E il presidente del Consiglio lo paga attraverso un faccendiere editore, Valter Lavitola, che le cronache di un anno fa hanno visto protagonista dell’affaire Montecarlo, la vicenda della casa intestata al cognato di Gianfranco Fini.

Gianpi Tarantini e la escort Patrizia D’Addario. Sembra un secolo fa quando Patrizia la escort , avendo registrato quell’incontro di sesso con il presidente del Consiglio, al pm barese, Pino Scelsi, confermò tutto consegnando la colonna sonora di quella notte d’amore. E raccontò dei suoi protettori, di quel Max Verdoscia e di Gianpi Tarantini che la preparò per la serata di Palazzo Grazioli. Un imprenditore certamente sui generis, quello al centro di questa vicenda, che aveva trovato un mix davvero unico per battere la concorrenza. Il giovane rampollo di una famiglia di imprenditori nel settore della sanità si era fatto le ossa con gli appalti e le commesse nella sanità pugliese quando in Regione c’era Raffaele Fitto (centrodestra). E poi, con l’avvento di Nichi Vendola aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco vedendosela con l’assessore alla Sanità, Alberto Tedesco (Pd), che aveva lasciato i figli a gestire le sue aziende sanitarie.

Coca e sesso. Era questo il mix vincente di Gianpi. Con il sesso ci era cascato anche l’assessore dalemiano Sandro Frisullo, finito in carcere, e dirigenti della sanità pubblica e primari ospedalieri.

Correva, Gianpi. E non si accontentava più di quel territorio ristretto, la Puglia. Puntava in alto. E arrivò l’estate della svolta, l’agosto del 2008. La villa presa in affitto a Capriccioli, Costa Smeralda. Con l’investimento in seicento grammi di cocaina e poi le feste da sballo e le serate al Billionaire.

Fino a quando, prima di ferragosto, grazie all’Ape Regina, al secolo Sabina Began, Gianpi Tarantini e la sua corte entrano a Villa Certosa. E fu amore a prima vista tra Gianpi e il Presidente.

Per capire fino in fondo il personaggio Tarantini, bisogna sentire, leggere una sua intercettazione: «…che io a vent’anni stavo in barca con D’Alema e gli altri a novant’anni ancora dovevano fare quello che io avevo fatto in due anni da diciotto a vent’anni. A trenta stavo a dormire a casa di Berlusconi io, a trenta».

Ne esce male anche la vittima, Silvio Berlusconi, tormentato dalla paura di essere intercettato, senza un consigliere fidato, un uomo degli apparati che gli spieghi che anche una scheda telefonica Wind panamense è intercettabile a casa nostra.

Tarantini, già finito in disgrazia per via delle inchieste sulla malasanità pugliese, e per la droga, agli arresti domiciliari per undici mesi, senza soldi e con debiti, tentenna, prende tempo, con Lavitola diventa una sanguisuga il cui unico obiettivo è il salasso del presidente del Consiglio. Mezzo milione di euro e poi un appannaggio mensile di quasi 20 mila euro (quattordicimila euro mensili, oltre affitto della casa di Roma) ed in più tutte le spese legali e straordinarie pagate.

Aveva tirato un sospiro di sollievo, pensava di aver finito con il carcere e i domiciliari. C’è un colloquio molto istruttivo, tra Tarantini, la moglie Nicla (che è anche amante di Lavitola) e il faccendiere editore: Nicla: «Mo tutto un caos… oggi è uscito un articolo di Laudati che Scelsi gli ha fatto una denuncia perché dice che ha rallentato…». Tarantini: «Perché i giornali di oggi… perché Laudati ha rallentato le indagini sulla prostituzione nei confronti di Berlusconi.. dai miei miei rapporti che lui è a conoscenza con Berlusconi». Commento di Lavitola: «Benissimo, questo è buono… invece di fa ‘na festa…».

Tarantini: «Dopo che è venuto Nicola… poi dice che queste informative sono bruttissime… sia quella sulle puttane che quella sulla bancarotta…».(Beh, buona giornata)

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Finanza - Economia Pubblicità e mass media

Crollo della fiducia dei consumatori: non si vede luce in fondo al tunnel della crisi.

La fiducia dei consumatori è crollata ad agosto ai minimi da marzo 2009. L’indice calcolato dall’Istat si è attestato a 100,3 punti, in forte calo dai 103,7 di luglio, e ben sotto i 102 punti previsti mediamente dagli analisti. La flessione, diffusa a tutte le componenti, è particolarmente marcata per il clima economico, il cui indice diminuisce da 74,9 a 70,0. La fiducia sulla situazione personale scende da 118,8 a 116,2, quella sul quadro corrente passa da 116,5 a 112,8. L’indice sul complesso delle attese a breve termine segna un calo più limitato, passando da 87,8 a 87,5.

Peggiorano marcatamente, in particolare, i giudizi sulla situazione economica del Paese e sul mercato dei beni durevoli. Si deteriorano invece con minore intensità le valutazioni presenti e di prospettiva sul risparmio e le attese sull’evoluzione del Paese e del mercato del lavoro. Migliorano lievemente, per contro, quelle sulla situazione personale e sul bilancio familiare. I giudizi sulla dinamica dei prezzi al consumo restano stabili rispetto a luglio, mentre le previsioni sull’evoluzione futura dell’inflazione registrano una flessione rispetto al mese precedente. La fiducia peggiora in tutte le ripartizioni e il deterioramento è particolarmente intenso nel Nord-Est. Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media

Dopo 10 anni, No Logo e’ così attuale che sembra ancora in anticipo sui tempi.

No logo dieci anni dopo, di NAOMI KLEIN – The Guardian, Gran Bretagna.

La cultura delle multinazionali non governa solo i centri commerciali. Detta legge a Washington e alla Casa Bianca. E ha creato un presidente-marchio che produce gadget e false speranze. Il cambiamento deve venire dal basso.

Nel maggio del 2009 la vodka Absolut ha lanciato una nuova serie limitata: no label, senza etichetta. Kristina Hagbard, la responsabile delle pubbliche relazioni dell’azienda, ha spiegato: “Per la prima volta abbiamo il coraggio di affrontare il mondo completamente nudi. Presentiamo una bottiglia senza etichetta e senza logo per veicolare l’idea che l’aspetto esteriore non conta, l’importante è il contenuto”.
Qualche mese dopo anche la catena di caffetterie Starbucks ha inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo 15th Avenue E Coffee and Tea.

Questo “Starbucks nascosto”, come lo chiamavano tutti, era arredato in uno stile “originale e unico”. I clienti erano invitati a portare la loro musica preferita da trasmettere nel locale e a far conoscere le cause sociali a cui tenevano di più: tutto per contribuire a creare quella che l’azienda ha definito “una personalità collettiva”. I clienti dovevano sforzarsi per riuscire a trovare la scritta in piccolo sui menù: “Un’idea di Starbucks”. Tim Pfeiffer, uno dei vicepresidenti dell’azienda, ha spiegato che, a differenza dello Starbucks che occupava prima gli stessi locali, quello era “proprio un piccolo caffè di quartiere”. Dopo che per vent’anni aveva cercato di mettere il suo logo su sedicimila punti vendita in tutto il mondo, Starbucks stava cercando di sfuggire al suo marchio.

Sono passati dieci anni da quando ho scritto No logo: nel frattempo le tecniche di branding sono cambiate e si sono evolute, ma ho scritto molto poco su questi cambiamenti. Il perché l’ho capito leggendo il romanzo di William Gibson L’accademia dei sogni. La protagonista, Cayce Pollard, è allergica ai marchi, in particolare a Tommy Hilfiger e all’omino Michelin. Questa “insofferenza morbosa e a volte violenta alla semiotica del mercato” è così forte che Cayce fa raschiare i bottoni dei suoi jeans Levi’s per cancellare il logo.

Quando ho letto queste parole, ho capito subito di soffrire della stessa malattia di Cayce. Non è un disturbo congenito, ma una malattia che insorge con il tempo a causa di una sovraesposizione prolungata. Da bambina e da adolescente ero attratta dai marchi in modo quasi ossessivo. Ma per scrivere No logo mi sono immersa completamente nella cultura della pubblicità per quattro anni: quattro anni passati a studiare gli spot del Super bowl, a sfogliare Advertising Age in cerca delle ultime idee per migliorare le sinergie aziendali, a leggere deprimenti libri di marketing sul valore del personal brand, a frequentare seminari aziendali e a girare per le Niketown e i centri commerciali.

Per certi versi è stato divertente. Ma alla fine mi sembrava di aver varcato una soglia e, come Cayce, ho sviluppato una specie di allergia ai marchi. I marchi hanno perso gran parte del loro fascino ai miei occhi, ed è stato un bene perché, quando No logo è diventato un bestseller, se avessi bevuto una Diet Coke in pubblico sarei finita subito nella rubrica di gossip di qualche quotidiano locale.

L’insofferenza si è estesa anche al marchio che io stessa avevo involontariamente creato: No logo. Dopo aver studiato marchi come Nike e Starbucks, conoscevo bene le tecniche del brand management: trovare il messaggio, brevettarlo, proteggerlo e ripeterlo fino alla nausea facendo interagire mezzi di comunicazione diversi. Ho deciso di infrangere queste regole ogni volta che mi si presentava l’occasione. Ho rifiutato le offerte per alcuni progetti basati su No logo (un lungometraggio, una serie tv, una linea di abbigliamento) e gli inviti delle multinazionali e delle agenzie pubblicitarie a tenere seminari sull’odio contro le multinazionali (stavo imparando che si può costruire una carriera sul personaggio della dominatrice sadomaso antiaziendalista, e far felici i manager strapagati spiegandogli quanto sono cattivi). Contro il parere di tante persone, sono rimasta fedele al proposito di non registrare il titolo del libro come un marchio (non ho percepito diritti d’autore dalla linea di prodotti alimentari italiani No logo, ma mi hanno mandato del delizioso olio d’oliva in omaggio).

Il programma di disintossicazione a cui mi sono sottoposta si può riassumere in due parole: cambiare argomento. Quando non era ancora passato un anno dall’uscita di No logo, ho smesso di parlare di marchi. Nelle interviste e negli incontri pubblici, invece di discutere delle ultime frontiere del marketing virale e del nuovo superstore di Prada, parlavo del movimento di resistenza al dominio delle multinazionali che si era fatto conoscere in tutto il mondo protestando contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a Seattle. “Ma non sei un marchio anche tu?”, mi chiedevano i giornalisti furbi. “È probabile”, rispondevo io. “Ma mi sforzo di essere un pessimo marchio”.

Cambiare argomento – passare dai marchi alla politica – non è stato un grande sacrificio, perché era stata la politica a farmi avvicinare al marketing. I miei primi articoli denunciavano le scarse opportunità di lavoro per me e per i miei coetanei, la diffusione dei contratti a breve termine e lo sfruttamento della manodopera per produrre la merce che ci viene venduta. Da brava “giovane opinionista”, denunciavo il modo in cui la cultura del marketing si espandeva anche fuori dalle aziende in luoghi un tempo protetti come le scuole, i musei e i parchi. Intanto le idee e le parole d’ordine che io e i miei compagni consideravamo radicali venivano assorbiti nelle nuove campagne pubblicitarie della Nike, di Benetton e della Apple.

Imprese vuote
Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che queste tendenze apparentemente distinte erano unite da un’idea: che le aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l’idea di comunità. Ma qui sul pianeta Terra, queste intuizioni hanno avuto conseguenze concrete.

Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea. Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono “l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto, dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico, affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow corporations, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di gestione aziendale Tom Peters: “È da stupidi possedere cose!”.

Mi piaceva studiare i marchi come Nike o Starbucks perché in un attimo ti ritrovavi a parlare di tutto tranne che di marketing: la deregolamentazione della produzione globale, l’agricoltura industriale, i prezzi delle materie prime. E da qui arrivavi al legame tra politica e denaro, che si era cementato in regole da far west grazie a una serie di accordi di libero scambio e al sostegno della Wto, al punto che attenersi a quelle regole è diventato il requisito indispensabile per ricevere i prestiti dal Fondo monetario internazionale. In poche parole, finivi per parlare di come funziona il mondo.

Il governo all’asta
Quando è uscito No logo, il movimento si era già schierato davanti ai cancelli delle istituzioni che diffondevano il corporativismo nel mondo. Migliaia di dimostranti protestavano fuori dai summit sul commercio internazionale e dalle riunioni del G8, a Seattle come a Nuova Delhi, e in molti casi riuscivano a fermare sul nascere i nuovi accordi. Quello che i mezzi d’informazione istituzionali continuavano a definire “il movimento contro la globalizzazione” non era niente del genere. L’ala riformista del movimento si opponeva alle grandi aziende, l’ala radicale era anticapitalista. Ma a renderlo unico era l’insistenza sull’internazionalismo. Tutto questo per dire che mentre facevo il tour promozionale del libro c’erano cose più interessanti dei loghi di cui parlare: per esempio da dove veniva quel movimento, cosa voleva e se esistevano alternative a quella spietata difesa di interessi particolari che andava sotto l’innocuo pseudonimo di “globalizzazione”.

Negli ultimi anni, tuttavia, mi sono ritrovata a fare una cosa che avevo giurato di non fare più: rileggere i grandi esperti di branding citati nel mio libro. Mi sono serviti per capire cosa stava succedendo non nei centri commerciali, ma alla Casa Bianca, sia durante la presidenza di George W. Bush sia oggi con Barack Obama, il primo presidente statunitense che è anche un supermarchio.

Gli anni di Bush sono stati odiosi e violenti per molti motivi: le invasioni, le guerre, la difesa di metodi violenti come la tortura, il tracollo dell’economia globale. Ma l’eredità più pesante lasciata dall’amministrazione Bush è il modo in cui ha sistematicamente fatto al governo statunitense quello che i dirigenti fissati con il branding avevano fatto alle loro aziende dieci anni prima: l’ha svuotato, assegnando al settore privato molte funzioni essenziali, dalla difesa dei confini alla protezione civile all’intelligence. Questo svuotamento non è stato un progetto secondario dell’amministrazione Bush, ma una missione centrale, che ha riguardato ogni ambito della sfera governativa. E anche se il clan di Bush è stato spesso preso in giro per la sua incompetenza, l’impresa di mettere all’asta lo stato, riducendolo a un guscio vuoto – o a un marchio – è stata condotta con un impegno e una dedizione straordinari.

Oggi molti servizi fondamentali sono forniti dalla Lockheed Martin, la più grande azienda privata del mondo nel settore della difesa. “La Lockheed Martin non governa gli Stati Uniti”, scriveva il New York Times nel 2004, “ma contribuisce a governarne una percentuale enorme. Smista la vostra corrispondenza e calcola le tasse che dovete pagare. Stacca gli assegni di previdenza sociale e organizza il censimento. Gestisce i voli spaziali e controlla il traffico aereo. Per fare tutto questo, scrive più codice informatico della Microsoft”.

Nessuno si è impegnato con più zelo a mettere all’asta il governo degli Stati Uniti del tanto vituperato segretario di stato di Bush, Donald Rumsfeld. Avendo lavorato per più di vent’anni nel settore privato, Rumsfeld era imbevuto di cultura del branding e dell’esternalizzazione. E aveva molto chiaro qual era il marchio che il suo dipartimento doveva promuovere: il dominio globale. La competenza chiave era combattere. Per tutto il resto, diceva Rumsfeld con un tono che lo faceva somigliare a Bill Gates, “dobbiamo cercare fornitori che implementino le attività secondarie”.

Questa visione radicale è stata sperimentata in Iraq durante l’occupazione statunitense. Fin dall’inizio Rumsfeld ha pianificato la dislocazione delle truppe come un vicepresidente di Walmart che cerca di risparmiare sul personale. I generali volevano 500mila soldati, lui ne offriva 200mila, con i contractor e i riservisti a colmare le lacune secondo necessità. Seguiva la filosofia industriale del just in time: produrre solo quello che è già stato venduto o che si venderà immediatamente. Nella pratica, mentre la situazione irachena sfuggiva al controllo degli Stati Uniti, l’industria privata della guerra cresceva sempre di più per sostenere un esercito ridotto all’osso.

La Blackwater, che originariamente doveva limitarsi a fornire guardie del corpo al diplomatico statunitense Paul Bremer, presto si è assunta altri compiti, compresa una battaglia contro l’esercito del Mahdi nel 2004. Quando la guerra si è spostata nelle prigioni, piene di migliaia di iracheni rastrellati dai soldati americani, i contractor si sono occupati di interrogare i prigionieri, e in alcuni casi sono stati accusati di torture. Nel frattempo, la gigantesca Green zone era amministrata dalla Halliburton come una città-stato aziendale. Se la Nike e la Microsoft sono state le prime imprese vuote, la guerra in Iraq in molti sensi è stata una guerra vuota. E quando uno degli appaltatori ha commesso un errore grave – per esempio quando nel 2007 gli uomini della Blackwater hanno aperto il fuoco in piazza Nisour a Baghdad uccidendo diciassette civili – l’amministrazione Bush, come tante imprese vuote prima di lei, ha potuto negare ogni responsabilità, scaricando la colpa sui contractor. La Blackwater, la Disney delle compagnie mercenarie, aveva perfino la sua linea di abiti e orsacchiotti con il logo. E sapete come ha risposto agli scandali? Con un rebranding. Oggi si chiama Xe Services.

L’America rinata
L’amministrazione Bush ha deciso di imitare le imprese vuote, che tanto ammirava, anche nel modo di reagire alla rabbia suscitata in giro per il mondo. Invece di cambiare davvero la sua politica, o anche solo di aggiustare il tiro, ha lanciato una serie di sfortunate campagne per un rebranding degli Stati Uniti di fronte a un mondo sempre più ostile.

Osservando quegli imbarazzanti tentativi, mi sono persuasa che avesse ragione Price Floyd, l’ex direttore dell’ufficio stampa del dipartimento di stato. Dopo essersi dimesso per la frustrazione, Floyd ha dichiarato che gli Stati Uniti erano il bersaglio di tanta rabbia non a causa di una campagna di comunicazione sbagliata, ma a causa di una politica sbagliata. “Partecipavo a riunioni con altri funzionari del dipartimento di stato e della Casa Bianca”, ha raccontato Floyd al magazine online Slate. “Dicevano: ‘Dobbiamo dare più visibilità ai nostri sui mezzi d’informazione’. Io ribattevo: ‘Il problema non è l’apparenza, ma la sostanza’”. Una potenza imperialista non è come un hamburger o una scarpa da jogging. Il problema dell’America non era il marchio, ma il prodotto. Un tempo la pensavo così, ma a un certo punto ho pensato che forse mi ero sbagliata.

Quando Barack Obama è diventato presidente, il marchio statunitense era ai minimi storici: Bush era per il suo paese quello che la New Coke era per la Coca-Cola, o quello che il cianuro era stato per il Tylenol. Eppure Obama, con una delle campagne di rebranding più efficaci della storia, è riuscito a invertire la tendenza. Kevin Roberts, l’amministratore delegato della Saatchi & Saatchi, ha voluto illustrare graficamente quello che il nuovo presidente rappresentava. In un’immagine a tutta pagina pubblicata sulla rivista patinata Paper Magazine, ha messo la statua della libertà a gambe aperte che partorisce Barack Obama. L’America rinata.

Sembrava che il governo degli Stati Uniti potesse risolvere i suoi problemi di reputazione con il branding: servivano solo una buona campagna promozionale e un testimonial abbastanza giovane e alla moda per riuscire a competere nel difficile mercato del momento. E il testimonial è stato trovato in Barack Obama, un uomo dotato di un istinto naturale per il marketing, che si è circondato di una squadra di grandi esperti di pubblicità.

Come coordinatore della sua campagna sui social network ha scelto Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook. E come responsabile degli eventi sociali della Casa Bianca ha preso Desirée Rogers, un’affascinante laureata in gestione d’impresa ad Harvard ed ex responsabile del marketing di alcune aziende private. David Axelrod, il principale consigliere di Obama, è stato socio della Ask Public Strategies, una società di pubbliche relazioni che ha organizzato campagne per aziende come Cablevision e At&t.

Questa squadra di consulenti ha sfruttato tutte le risorse del moderno arsenale del marketing per lanciare e far crescere il marchio Obama: un logo perfettamente calibrato (un sole che sorge sopra la bandiera a stelle e strisce); un uso attento del marketing virale (suonerie a tema Obama); il product placement (spot a favore di Obama nei videogiochi); uno spot tv da trenta minuti (che rischiava di apparire melenso, ma che invece è stato definito da tutti “autentico”); e alleanze strategiche con altri marchi (Oprah Winfrey per ampliare al massimo il bacino d’ascolto, la famiglia Kennedy per darsi un tono serio; e un mucchio di star dell’hip-hop per costruirsi un’immagine al passo con i tempi).

Quando ho visto per la prima volta il video di Yes we can, quello prodotto da will.i.am (il cantante dei Black Eyed Peas), in cui alcune celebrità parlano e cantano sul sottofondo di un discorso di Obama in stile Martin Luther King, ho pensato: ecco finalmente un politico che trasmette in tv uno spot fico come quello della Nike. Le agenzie pubblicitarie erano d’accordo con me. Poche settimane prima di vincere le elezioni, Obama ha battuto la Nike, la Apple, la Coors e la Zappos aggiudicandosi il premio dell’Associazione nazionale dei pubblicitari. Di sicuro è stata una svolta. Negli anni novanta i grandi marchi rubavano completamente la scena alla politica, oggi le aziende fanno a gara per salire sul carro di Obama – basta pensare alla campagna Choose change (scegli il cambiamento) della Pepsi-Cola, allo slogan Embrace change (accogli il cambiamento) dell’Ikea e ai biglietti Yes you can offerti dalle linee aeree Southwest.

In effetti, ogni cosa sfiorata da Obama o dalla sua famiglia si trasforma in oro. Il valore di mercato della J.Crew è cresciuto del 200 per cento nei primi sei mesi della presidenza Obama, anche grazie alla nota predilezione di Michelle per quel marchio di abbigliamento. La passione di Obama per il Blackberry ha fruttato vantaggi simili al produttore Research In Motion. Il modo più sicuro per vendere giornali e riviste in questi tempi difficili è mettere Obama in copertina, e per vendere a quindici dollari un cocktail a base di vodka e succo di frutta basta chiamarlo Obamapolitan o Barackatini.

Secondo la rivista Portfolio, a febbraio del 2009 la “Obama economy” – il turismo generato dal presidente e i gadget a lui ispirati – valeva 2,5 miliardi di dollari. Niente male, in piena crisi economica. Desirée Rogers si è messa nei guai con alcuni colleghi quando ha parlato con troppa franchezza al Wall Street Journal: “Abbiamo il marchio migliore del mondo: il marchio Obama”, ha detto. “Le nostre possibilità sono infinite”.

Bush aveva usato il suo ranch di Crawford, in Texas, come fondale per la sua interpretazione del Marlboro Man, che passa il tempo a sfrondare cespugli e a preparare barbecue con gli stivali da cowboy ai piedi. Obama si è spinto molto più in là, trasformando la Casa Bianca in una specie di reality show senza fine che ha per protagonista l’adorabile clan Obama. Anche questo ha a che fare con la mania per il branding, quella esplosa a metà degli anni novanta, quando gli esperti di marketing si sono stancati dei limiti della pubblicità tradizionale e hanno cominciato a creare “esperienze” tridimensionali: dei templi delle griffe dove i clienti potevano esplorare la personalità dei loro marchi preferiti. Desirée Rogers somigliava molto a quei guru quando ha definito la Casa Bianca il “fiore all’occhiello” del marchio Obama, uno spazio fisico in cui il governo può incarnare i valori di trasparenza, innovazione e diversità che hanno portato alle urne tanti elettori.

La Coca-Cola e la tisana
Il problema non è che Obama usa gli stessi trucchi dei grandi marchi. Oggi chiunque voglia influenzare la società deve farlo. Il problema è che, come è successo prima di lui a tanti altri marchi legati agli stili di vita, quello che fa non è minimamente all’altezza delle aspettative. È presto per emettere un verdetto sulla sua presidenza, ma sappiamo questo: Obama preferisce sempre il gesto simbolico grandioso al cambiamento strutturale profondo.

Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via libera all’allargamento del carcere di Bagram in Afghanistan e si oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le torture. Nomina la prima giudice latinoamericana alla corte suprema e intanto fa approvare un nuovo giro di vite sull’immigrazione. Investe nell’energia pulita ma appoggia la favola del “carbone pulito” e rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di Wall street. E, soprattutto, promette di mettere fine alla guerra in Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore ”, mentre in Afghanistan e in Pakistan i conflitti ispirati da quella logica s’intensificano.

Questa predilezione per i simboli a scapito della sostanza, e la riluttanza a tenere fede a un’etica cristallina quando questa comporta scelte impopolari, sono i punti su cui Obama si allontana decisamente dai movimenti politici rivoluzionari a cui tanto si è ispirato (i poster di pop art che ha preso dal Che, il modo di parlare alla Martin Luther King, lo slogan yes we can che richiama il Sí, se puede degli agricoltori immigrati). Le richieste di quei movimenti erano molto chiare: la distribuzione delle terre, l’aumento dei salari, programmi sociali ambiziosi. Quelle richieste avevano costi elevati, e per questo i movimenti avevano non solo militanti convinti ma anche nemici agguerriti.

Invece Obama, a differenza non solo dei movimenti ma anche di presidenti innovatori come Franklin D. Roosevelt, segue la logica del marketing: offrire uno schermo invitante su cui ognuno è chiamato a proiettare i suoi desideri più profondi, e farlo in modo abbastanza vago da non lasciare indietro nessuno, a parte i più radicali (che peraltro sono un segmento non irrilevante di popolazione negli Stati Uniti). Advertising Age aveva ragione quando scriveva che il marchio Obama “è grande abbastanza da poter rappresentare qualunque cosa, ma anche abbastanza personale da guadagnarsi il sostegno di chiunque”. E poi, la lode più sperticata: “Obama è riuscito, chissà come, a essere sia una Coca-Cola sia una tisana naturale: è un megamarchio conosciuto e distribuito in tutto il mondo e allo stesso tempo un outsider che si è fatto da solo”.

In altri termini: Obama ha interpretato il ruolo del guastafeste pacifista e nemico di Wall street agli occhi della sua base. L’ha fatta sentire protagonista di una rivolta contro il monopolio politico dei due grandi partiti americani condotta grazie a un’organizzazione perfetta e a colpi di donazioni raccolte vendendo limonata e racimolando spiccioli tra i cuscini del divano. Contemporaneamente, ha preso più soldi da Wall street di qualsiasi altro candidato alla presidenza. Dopo aver sconfitto Hillary Clinton, prima ha divorato in un sol boccone la dirigenza del partito democratico e poi, una volta insediato alla Casa Bianca, ha imboccato la strada del dialogo con i fanatici repubblicani.

Le regole del gioco
Il fatto che Obama non si sia rivelato all’altezza del suo nobile marchio lo ha danneggiato? All’inizio no. Cinque mesi dopo l’ingresso di Obama alla Casa Bianca il Pew’s global attitudes project ha chiesto a un campione significativo di persone in tutto il mondo se pensavano che Obama avrebbe fatto “la cosa giusta in politica estera ”. Anche se c’erano già molti indizi del fatto che Obama stava proseguendo sulla linea di Bush (con uno stile meno arrogante), la maggioranza degli intervistati approvava le scelte di Obama: in Giordania e in Egitto la percentuale di consensi era quattro volte superiore a quella dell’era Bush. In Europa l’inversione di rotta era drastica: il 91 per cento degli intervistati francesi e l’86 per cento dei britannici aveva fiducia nelle scelte di Obama, rispetto al 13 e 16 per cento dell’era Bush. Secondo Usa Today, il sondaggio dimostrava che “Obama ha restituito credibilità all’immagine degli Stati Uniti dopo otto anni di amministrazione Bush”. Secondo David Axelrod era successa una cosa molto semplice: l’antiamericanismo non andava più di moda.

Questo era sicuramente vero, e ha avuto conseguenze molto concrete. Obama è stato eletto – e il mondo si è innamorato della sua nuova America – in un momento cruciale. Nei due mesi prima delle elezioni, la colpa della crisi finanziaria che scuoteva i mercati mondiali veniva giustamente attribuita non solo alle cattive scommesse di Wall street, ma all’intero modello economico di deregolamentazione e privatizzazione (chiamato “neoliberismo” in gran parte del mondo) che era stato osannato da istituzioni controllate dagli Stati Uniti, come il Fondo monetario internazionale e la Wto.

Se gli Stati Uniti non fossero stati guidati da una superstar globale, il loro prestigio avrebbe continuato a colare a picco, e la rabbia nei confronti del modello economico responsabile della crisi globale si sarebbe probabilmente trasformata nella richiesta pressante di nuove regole per imbrigliare (e tassare sul serio) la finanza speculativa.

Quelle regole avrebbero dovuto essere all’ordine del giorno all’incontro del G20 a Londra nell’aprile del 2009, nel pieno della crisi economica. Invece, mentre i giornalisti erano impegnati a riferire gli avvistamenti della coppia Obama, i leader mondiali si mettevano d’accordo per tirare fuori dalla crisi il Fondo monetario internazionale – uno dei principali colpevoli di quei guai – con finanziamenti per quasi mille miliardi di dollari. In poche parole, Obama non ha solo restaurato l’immagine degli Stati Uniti, ha anche resuscitato quel progetto economico neoliberista che aveva già un piede nella fossa. Solo Obama, a torto considerato un nuovo Roosevelt, poteva riuscire in quest’impresa.

Eppure, rileggere No logo dopo dieci anni ci ricorda anche che il successo nel branding può essere effimero, e che nulla è più transitorio della moda. Molti grandi marchi e personaggi griffati che fino a poco tempo fa sembravano intramontabili, oggi appaiono sbiaditi o sono in piena crisi. Il marchio Obama potrebbe fare la stessa fine.

Certo, molte persone hanno sostenuto Obama solo per motivi strategici: era il candidato migliore per cacciare i repubblicani dal governo. Ma cosa succederà quando le folle dei fedelissimi di Obama si renderanno conto di aver donato il cuore non a un movimento che condivideva i loro valori più profondi, ma a un partito sottomesso a interessi particolari, che si preoccupa più dei profitti delle aziende farmaceutiche che di creare un sistema sanitario sostenibile, che tutela Wall street e le sue bolle finanziarie invece dei milioni di cittadini che avrebbero potuto salvare la casa e il posto di lavoro con una ricapitalizzazione più prudente?

Il rischio – ed è un rischio reale – è che la reazione sia un’ondata di profondo cinismo, soprattutto tra i più giovani, per i quali la campagna elettorale di Obama è stata il primo assaggio della politica. Più che cambiare partito, la maggior parte di loro farà quello che hanno sempre fatto i giovani durante le elezioni: restare a casa e infischiarsene. Nella migliore delle ipotesi, l’obamamania finirà per diventare quella che i consulenti del presidente chiamano “un’occasione per imparare”. Obama è un politico di talento, molto intelligente e più interessato alla giustizia sociale di ogni altro leader democratico nella storia recente. Se non riesce a cambiare il sistema per mantenere le sue promesse elettorali, è perché il sistema stesso è marcio.

Era di questo che discutevamo in quel breve periodo tra le proteste contro la Wto a Seattle, nel novembre 1999, e l’inizio della cosiddetta guerra al terrore. Forse era un suo limite, ma il movimento che i mezzi d’informazione insistevano a chiamare “noglobal” si preoccupava poco dei partiti. La nostra attenzione era focalizzata sulle regole del gioco e su come erano state distorte per servire gli interessi delle grandi aziende a tutti i livelli: dagli accordi internazionali sul libero mercato a quelli locali per la privatizzazione dell’acqua. Quello che apprezzavo di più era la spudorata secchionaggine di tutti noi.

Nei due anni successivi alla pubblicazione di No logo ho partecipato a decine di conferenze e incontri, a volte con migliaia di persone (decine di migliaia, nel caso del World social forum) che avevano l’obiettivo di informare l’opinione pubblica sui meccanismi della finanza e del mercato globale. Era come se all’improvviso le persone avessero capito che raccogliere quelle informazioni era cruciale per la sopravvivenza non solo della democrazia, ma del pianeta. Sì, era complicato, ma accettavamo questa complessità perché finalmente potevamo studiare dei sistemi, non solo dei simboli.

Richieste concrete
In certe parti del mondo, in particolare in America Latina, quel movimento si è diffuso e rafforzato. In alcuni paesi è diventato talmente forte che ha fatto accordi con i partiti, vincendo le elezioni e avviando la creazione di un sistema regionale di commercio equo. Ma altrove, e sicuramente negli Stati Uniti, il movimento è stato annientato dall’11 settembre. È stato come se avessimo dimenticato quello che sapevamo sulla complessità del corporativismo globale: cioè che tutte le ingiustizie del mondo non possono essere colpa di un solo partito di destra o di una sola nazione, per quanto potente.

Se mai c’è stato un momento giusto per ricordare le lezioni che abbiamo imparato alla svolta del millennio, quel momento è ora. Una conseguenza positiva dell’impossibilità di regolare la finanza internazionale, anche dopo il suo catastrofico collasso, è che il modello economico dominante si è rivelato per quello che è: non un “libero mercato”, ma un “capitalismo clientelare”, in cui i politici cedono a dei privati la ricchezza pubblica in cambio del loro sostegno. Quello che prima era tenuto discretamente nascosto è venuto alla luce. Di conseguenza la rabbia dell’opinione pubblica per l’avidità delle aziende ha raggiunto livelli altissimi. Molte idee che gli attivisti dei movimenti gridavano nelle strade dieci anni fa, oggi sono date per scontate nei talk show delle tv e negli editoriali dei grandi quotidiani.

Eppure, oggi manca quello che dieci anni fa cominciava a emergere: un movimento capace non solo di rispondere all’indignazione dei singoli, ma anche di avanzare delle richieste concrete per un modello economico più equo e sostenibile. Negli Stati Uniti e in molte parti d’Europa, invece, la rabbia contro gli interessi particolari si esprime attraverso i partiti di estrema destra e perfino con il neofascismo.

Personalmente, nulla di tutto questo mi fa sentire tradita da Barack Obama. Provo piuttosto un sentimento ambivalente, simile a quello che provavo nei confronti della Nike e della Apple quando hanno cominciato a usare l’iconografia della rivoluzione nelle loro campagne pubblicitarie. Dalle loro costose ricerche di mercato era emerso che le persone desideravano qualcosa di più dello shopping: il cambiamento sociale, lo spazio pubblico, l’eguaglianza, il diritto alla diversità.

Certo, i marchi hanno cercato di cavalcare quel desiderio solo per vendere caffè e computer portatili. Eppure mi sembrava che noi di sinistra, in un certo senso, dovevamo essere grati ai pubblicitari: le nostre idee non erano antiquate come ci avevano detto. E poiché i grandi marchi non avevano saputo esaudire i desideri profondi che risvegliavano, ai movimenti sociali è venuta voglia di riprovarci.

Forse dovremmo pensare a Obama proprio in questi termini. Anche stavolta, c’è una ricerca di mercato già bella e fatta. La vittoria di Obama e l’entusiasmo per il suo marchio hanno dimostrato che c’è un’enorme fame di cambiamento in senso democratico: moltissime persone non vogliono conquistare i mercati con la forza delle armi, disprezzano la tortura, credono nelle libertà civili, vogliono che le aziende stiano fuori dalla politica, pensano che il riscaldamento globale sia la grande battaglia del nostro tempo e vogliono far parte di un progetto politico più grande.

Trasformazioni come queste si potranno ottenere solo quando i movimenti avranno i numeri e la forza per pretendere delle risposte dalle élite. Obama ha vinto le elezioni perché ha saputo sfruttare la nostra profonda nostalgia per quei movimenti. Ma era solo un’eco, un ricordo. Il nostro compito ora è costruire un movimento che sia – per rubare un vecchio slogan alla Coca-Cola – the real thing, un vero movimento. Come diceva Studs Terkel, un grande storico dell’oralità: “La speranza non è mai discesa dall’alto, è sempre spuntata dal basso”.(Beh, buona giornata),

Internazionale, numero 906, 15 luglio 2011

Naomi Klein è una giornalista canadese, nata a Montréal nel 1970. Questo articolo è un estratto dell’introduzione alla nuova edizione di No logo, pubblicata in Italia da Rizzoli. In Italia sono usciti anche Recinti e finestre e Shock economy.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Dopo aver fatto passi da gigante, nell’informatica e nell’advertising, Steve Jobs fa un passo indietro.

di Piergiorgio Odifreddi- repubblica.it

Steve Jobs si è dimesso da amministratore delegato della Apple. Sembra, dunque, che stia perdendo la battaglia contro il male che lo sta divorando da tempo, e che l’ha reso ormai quasi evanescente come un fantasma, soprattutto se paragonato al florido ragazzo che era quando ha dato inizio all’avventura dei computer user friendly.

Interessante paragonare la sua carriera con quella parallela dell’altro enfant prodige dell’informatica, Bill Gates. Naturalmente, nessuno dei due è responsabile nè dell’invenzione del computer, nè dello sviluppo della sua tecnologia di base. Siamo dunque lontani anni luce dai contributi cruciali di Charles Babbage, Alan Turing e John von Neumann, tanto per limitarci alla Santissima Trinità.

Volendo mantenere la metafora profana, Gates e Jobs sono però i Pietro e Paolo della diffusione del vangelo del computer. Cioè, gli uomini del marketing, che hanno provveduto a diffondere il verbo informatico tra le genti, incarnato nel silicio invece che nelle valvole.

Agli inizi, Gates predicava il vangelo canonico dei fondatori, quello della programmazione e dei sistemi operativi. Il suo colpo di genio, come racconta lui stesso nella sua autobiografia La strada che porta a domani, fu di comprare (non di sviluppare!) l’ormai storico Dos, e di regalarlo all’Ibm, senza permetterle però l’esclusiva. L’adozione del Dos da parte dell’Ibm, e la costruzione dei cloni che potevano utilizzarlo grazie all’uso pubblico, ruppe il monopolio del colosso e diede inizio alla rivoluzione dell’informatica prêt-à-porter.

Jobs tradì la vocazione iniziale dell’informatica, di essere una religione per il solo popolo eletto in grado di programmare, e la diffuse tra i gentili: cioè, tra la gente comune, che non voleva saperne della te(cn)ologia. La teoria sparì dietro le icone, e rimase soltanto la pratica: come le vecchiette russe che pregano di fronte alle immagini di Andrei Rublev, completamente ignare dei dogmi che queste occultano, così i giovanotti occidentali si sono convertiti alla nuova religione, completamente ignari di cosa sia l’informatica. Come d’altronde, già era successo per le auto e la meccanica.

Analogamente all’originale evangelico, anche nel remake informatico ad avere la meglio è stato appunto Paolo-Jobs. E Pietro-Gates ha da tempo dovuto riconoscerne la vittoria e adattare la sua visione a quella dell’amico-rivale. Oggi il frontedi conversione della tecnologia digitale passa per l’Iphone, l’Ipod e l’Ipad, in attesa dei prossimi Iped, Ipud e Ipid: cioè, per i prodotti Apple, alla cui filosofia si è da tempo convertita anche la tecnologia Microsoft.

La consolazione per Gates è che tutti questi aggeggi ci portano sempre più avanti lungo La strada che porta a domani tracciata nel suo libro. Verso l’ormai prossima meta, cioè, di un’unica macchina versatile, portatile e in grado non soltanto di calcolare, ma di riunire in sè tutti i possibili flussi di informazione digitalizzabile (telefono, giradischi, radio, televisione, macchina fotografica, videocamera e, naturalmente, computer).

Che Jobs pssa riuscire a vedere realizzato l’obiettivo finale, alla cui realizzazione ha tanto contribuito. (Beh, buona giornata).

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Una bella idea dello Herald Tribune: poter inviare da iPad articoli via e- mail. Qualcosa che i nostri giornali dovrebbero subito imitare.

Invece l’idea che con una campagna pubblicitaria si possa combattere l’evasione fiscale in Italia e’ un pessimo esempio di come si possa usare la pubblicita’. Sarebbe molto meglio fare pubblicita’ ai fatti, piuttosto che alle intenzioni. La pubblicita’ alle intenzioni e’ pura propaganda, e come tale rischia di trasformare un gesto inutile in un’azione sbagliata. Secondo i dati ufficiali “ogni anno in Italia abbiamo 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione, e 350 miliardi di economia sommersa, pari ormai al 20% della ricchezza nazionale”. Lo ha scritto Nunzia Penelope, in “Soldi rubati” (Adriano Salemi Editore, Milano 2011). Un libro da leggere, proprio di questi tempi, per sapere che “60 miliardi di corruzione e 120 miliardi di evasione ogni anno, moltiplicati per 10 anni sarebbero 1800 miliardi: esattamente quanto l’intero stock del debito pubblico”. Beh, buona giornata.
E adesso ecco la buona notizia: qui di seguito l’articolo dello Herald Tribune inviato tramite e-mail da iPad. Alla fine trovere i links pet scarcera l’applicazione da Apple Store. Sto facendogli pubblicita’? Si’, ma questo e’ un fatto concreto, proprio quello che serve alla pubblicità” per essere concreta e, se permettete, onesta con i lettori.

From The International Herald Tribune:

Italy hopes ads will cast tax cheats in a harsh light

BY ELISABETTA POVOLEDO
ROME — An advertising campaign for Italy’s revenue agency that starts Tuesday has set itself a lofty goal: to get Italians to pay taxes.

In the television and print campaign, created by Saatchi & Saatchi, tax evaders are described as parasites that live at the expense of others, undermining the foundation of the social state.

Coming as Italy has been called on to make significant sacrifices to weather the debt crisis that has stormed European financial markets, the campaign’s message may actually hit home in a country where little social stigma has ever been attached to evading taxes.

‘‘The point is to increase tax compliance by changing the mentality,’’ said Antonella Gorret, spokeswoman for the revenue agency, the Agenzia Delle Entrate. ‘‘It used to be that tax evaders were seen as crafty, but in a moment of economic crisis, demands have increased for more effective crackdowns to avert the possibility of taxes being raised.’’

‘‘We want to get through the idea that tax evaders are a parasite to society and that to pay taxes is to guarantee services,’’ Ms. Gorret added. ‘‘We hope that we will be able to get through to people and make them more aware of the consequences’’ of tax evasion.

Italians have been accused by some of making tax evasion a national sport. But now that the country must finance the national debt and is likely to cut pensions and services like health care so that the budget can be balanced, calls have grown to ensure that every citizen pay his or her way.

A poll commissioned by the association of Italian Banking Foundations and Savings Banks, released in October, found that 48 percent of Italians said that fighting tax evasion should be the country’s priority for stimulating growth, more important than reducing public spending or lowering taxes.

The ad campaign was conceived this year as part of the revenue agency’s long-running battle against tax cheats, which has netted about €37 billion in the past five years. On Monday, Luigi Magistro, the director of tax assessment for the revenue agency, estimated that increased controls would yield an additional €11 billion in taxes in 2011.

‘‘The numbers so far this year have been encouraging,’’ Mr. Magistro told the news agency ANSA.

Saatchi & Saatchi was chosen, Ms. Gorret said, because it had designed an campaign for the Agenzia del Territorio, the Italian agency that monitors properties and real estate. It sought to convince Italians to register undeclared homes in the land registry so that taxes could be levied on them.

‘‘The Agenzia del Territorio said that every time the ad was aired many people would go to their Web site, so we decided to use the same advertising agency because it was an effective campaign,’’ she said.

Though this is the first time the internal revenue agency had invested in an ad campaign, it had been actively working to teach fiscal responsibility for some time. Each year, Ms. Gorret said, officials from the revenue agency visit some 1,200 schools to teach elementary and middle school children the basics of fiscal responsibility

The campaign, created with the Italian Government’s publications department, will run on national state television and radio until the end of August. Print ads will begin in September, when tax returns for self-employed Italians are due. That month, ads will also be placed in airports and rail stations in Rome and Milan.

‘‘People will be returning from their holidays,’’ and will begin thinking about more serious matters, Ms. Gorret said. ◼

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Riuscirà l’intrattenimento a distrarre milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece una spinta dal basso, attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti?

Avevamo intuito che il Teatro Valle occupato sarebbe potuto presto diventare una piccola fucina incandescente di idee. In effetti, le assemblee e i dibattiti sembrerebbero contribuire a una sorta di consapevolezza, una specie di senso di appartenenza alla classe dei lavoratori cognitivi. E come tali, col tempo sentire di essere al centro di un attacco sociale strategico per la sopravvivenza della casta dei capitalisti finanziari europei, che, per difendere i loro interessi, hanno scatenato una guerra civile senza esclusione di colpi contro la cultura, l’istruzione e la scuola pubblica, l’università e la ricerca, il cinema e il teatro d’autore costringendo milioni di persone, nel miglior periodo della loro stessa vita alla schiavitù del precariato.

L’obiettivo è pagare le idee creative il meno possibile, spingere i talenti verso forme di intrattenimento, utili a generare profitti per i grandi media. L’intrattenimento è il nuovo oppio dei popoli. È stato giustamente definito la più potente arma di distrazione di massa: dopo la catastrofe finanziaria globale del 2008 e la immediata ripercussione sull’economie locali, la crisi economica pesta duro le classi sociali più deboli, e premia e arricchisce e fa sempre più proterve le classi dominanti e i sodali dei poteri forti.
Lo stato sociale è ridotto a un colabrodo dalle pervicaci politiche neoliberiste, la sinistra, geneticamente modificata nel centrosinistra si è indebolita, nello spirito e nel corpo elettorale, dunque non assolve più la funzione di spingere verso la redistribuzione controllata della ricchezza prodotta.

È vero, come sostiene qualcuno, che in Europa e in Nord Africa sta prendendo forma la coscienza collettiva di dover essere autonomi dalle istituzioni e dai partiti. È vero che le grandi proteste di massa che hanno attraversato il Vecchio Continente sono i prolegomeni di una insurrezione di massa contro le misure economiche imposte dagli organismi europei ai governi nazionali. Esse risultano sempre più inadeguate alla difesa dei redditi più bassi, mentre appare come una intollerabile provocazione di classe il fatto che sia cominciata la ripresa economica, mentre i salari continuano a scendere e la disoccupazione a salire.

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre i milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece, in barba al televoto, una spinta dal basso, autonoma e organizzata attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti, per dare vita a un nuovo ordine, a una nuova società europea, a nuovi principi economici e finalità produttive? Si riuscirà a combinare correttamente la produzione autonoma di energie rinnovabili con la produzione di nuove e promettenti idee di socialità e produzione di ricchezza?

Riusciranno la cultura, il sapere, le arti, la ricerca, la creatività a diventare il propellente di un potente motore di cambiamento, capace di spingere l’Europa a superare il Capitalismo? In Europa il capitalismo è nato, e dunque giusto sarebbe che qui se ne celebrasse il funerale.
(Beh, buona giornata).

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Vanno male i consumi, scende il livello di fiducia dei consumatori. La tempesta perfetta non accenna a diminuire: l’online non salva la pubblicità.

Secondo i risultati della ricerca “Nielsen Global Online Consumer Confidence” nel secondo trimestre 2011 la fiducia dei consumatori globali è scesa al minimo in sei trimestri. “Non ci sono state sufficienti notizie positive per ispirare fiducia nei consumatori online a livello mondiale nel secondo trimestre”, ha affermato Venkatesh Bala, Chief Economist The Cambridge Group, Nielsen. “Dati economici deboli, inflazione e performance produttive rallentate in Asia, l’intensificazione del debito in Europa e la continua instabilità politica in Medio Oriente, oltre all’aumento delle spese domestiche negli US, hanno influenzato la già scarsa fiducia dei consumatori. Le speranze di una piena ripresa economica nei prossimi 12 mesi si sono indebolite nel secondo trimestre e i consumatori di tutto il mondo sono rimasti legati a una mentalità di recessione.”

Il Nielsen Global Consumer Confidence Index, dal 2005 misura la fiducia di oltre 31.000 consumatori internet in 56 Paesi del mondo, le maggiori preoccupazioni e le intenzioni di spesa. Livelli di fiducia sopra e sotto 100 indicano il livello di ottimismo e pessimismo. Nell’ultima ricerca condotta tra il 20 maggio e il 7 giugno 2011, a livello mondiale la fiducia dei consumatori online è scesa di tre punti indice, da 92 a 89 – il livello più basso dal quarto trimestre 2009. Negli Stati Uniti la fiducia è scesa di cinque punti indice posizionandosi a 78, di due punti inferiore agli 80 registrati nel primo semestre del 2009, al culmine della recessione globale. Il livello di fiducia in Europa (74 punti indice) è rimasto sostanzialmente immutato rispetto al trimestre precedente anche se i consumatori europei rimangono i più pessimisti al mondo con differenze nei vari Paesi.

In Italia l’indice di fiducia ha subito una leggera flessione, 55 punti indice rispetto ai 57 del trimestre precedente, dopo la diminuzione importante verificatasi proprio nel primo trimestre 2011 (-14 punti indice). I principali fattori sono legati ad un trend negativo in termini di prospettive di lavoro e di finanze personali per i prossimi 12 mesi. Il 42% dei consumatori italiani (rispetto al 39% del trimestre precedente) ritiene infatti che le prospettive di lavoro del Paese saranno in peggioramento nei prossimi 12 mesi; per quanto riguarda invece le proprie prospettive finanziarie la percentuale passa dal 21 al 23%. Economia e posto di lavoro rimangono per gli italiani le maggiori preoccupazioni mentre il timore della guerra, che aveva subito un picco nel secondo trimestre (8% +7 punti percentuali rispetto al 4^ trimestre 2010) torna a preoccupare in misura minore (2%). La già modesta percentuale di coloro che nel trimestre precedente pensavano di poter uscire dalla recessione si è ulteriormente ridotta. Oggi solo il 15% degli italiani pensa che il nostro Paese uscirà dalla recessione nei prossimi 12 mesi. Si consolida la percentuale di chi non riesce più a risparmiare (circa ¼ della popolazione) e per cercare di rimanere all’interno del proprio budget di spesa gli italiani continuano a spostarsi sull’acquisto di prodotti grocery più economici.

Anche se ancora al di sotto della media europea (74), l’aumento di 8 punti dell’indice di fiducia in Francia (da 61 a 69), è stato il risultato della crescita economica dell’1% nel primo trimestre, la crescita più significativa per il Paese dal secondo trimestre 2006. Lo scatto della crescita economica in Francia all’inizio dell’anno ha superato le aspettative e il governo prevede una crescita del 2% entro la fine dell’anno. Questa fiducia ha contagiato i consumatori francesi: uno su tre (il 33%) si aspetta che le proprie finanze personali per il prossimo anno siano buone/ottime, rispetto al 25% del primo trimestre 2011. In Grecia, la crisi economica, la crescita del debito e le diffuse proteste interne hanno determinato un ulteriore calo della fiducia dei consumatori di quattro punti nel secondo trimestre 2011 posizionando così il Paese come il più pessimista del mondo con un livello di fiducia pari a 41 punti.

Rispetto al trimestre precedente le regioni del Medio Oriente, Africa e dell’Asia Pacifico hanno registrato il massimo declino, rispettivamente di 12 e 9 punti indice, confermando il trend di un anno fa. I più grandi cali di fiducia nel secondo trimestre sono stati registrati in Egitto (-10) e Arabia Saudita (-11), che avevano goduto dei maggiori incrementi nel primo trimestre 2011, ma che mostrano trend coerenti con lo scorso anno. “In Egitto, l’ottimismo post-rivoluzione è stato sostituito da una visione più realistica della situazione del Paese e da una maggiore consapevolezza delle condizioni economiche del periodo”, ha affermato Ram Mohan Rao, Managing Director, Nielsen Egitto. “In Arabia Saudita l’ondata di ottimismo del primo trimestre, dovuta all’introduzione di denaro aggiuntivo nel mercato da re Abdullah, è stato attenuato in quanto i consumatori hanno subito l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e dell’inflazione immobiliare dovuti alla maggiore liquidità sul mercato” ha dichiarato Arslan Ashraf, Managing Director, Nielsen Arabia Saudita.

I consumatori indiani (126 punti indice), nonostante un calo di cinque punti su base trimestrale, sono i più positivi rispetto alle prospettive di lavoro e alle finanze personali e il loro livello di fiducia è sempre stato il più alto dal 2005. “Una serie di fattori stanno influenzando i consumatori indiani: nonostante siano i più ottimisti del mondo, la crescita dell’inflazione, l’aumento dei prezzi del carburante e un clima di incertezza dell’economia mondiale influenzano una visione positiva”, ha affermato Justin Sargent, Managing Director, Nielsen India.

8 su 14 mercati in Asia Pacifico hanno registrato un calo nel secondo trimestre, con valori più alti in Australia (-8 punti) e Singapore (-6 punti). L’indice di fiducia in Australia è in diminuzione dal terzo trimestre 2010. “Le famiglie australiane sono state colpite duramente da un aumento generale dei prezzi ” ha dichiarato Chris Percy, Managing Director, Nielsen Pacifico. “Le inondazioni dello scorso gennaio inoltre hanno limitato la raccolta di frutta e verdura e hanno avuto effetti sui costi di produzione causando un aumento dei prezzi degli alimentari. L’aumento dei prezzi erode i bilanci famigliari e stringere la cinghia è la norma per molte famiglie australiane.”

Malesia, Nuova Zelanda, Filippine e Corea del Sud registrano un aumento di fiducia mentre Hong Kong rimane stabile. La fiducia dei consumatori cinesi è scesa di tre punti su base trimestrale posizionandosi a 105 ed è di quattro punti al di sotto della percentuale registrata un anno fa (109). “Il lieve calo della fiducia dei consumatori in Cina è dovuto all’inflazione, che rimane un problema importante nella mente dei consumatori. Nonostante l’inflazione in aumento negli ultimi tre mesi, non ci sono segnali di rallentamento dei consumi anche quelli discrezionali. La continua forza dei consumi interni è un riflesso del continuo ottimismo generale dell’economia trainato dalla crescita dei livelli di reddito”, ha dichiarato Karthik Rao, Managing Director, Nielsen Gretear China.

“I dati del secondo trimestre evidenziano che i consumatori pensano ancora alla recessione, stanno stringendo la cinghia e contenendo le spese dopo gli ultimi 12 mesi di lento miglioramento” ha affermato Bala. “Secondo l’ultima ricerca, le intenzioni di allocazione di consumo sono diminuite rispetto a tre mesi fa a livello globale in tutti gli ambiti discrezionali: investimenti in borsa, acquisto di abbigliamento, vacanze e aggiornamento della tecnologia”.

Il 58% dei consumatori a livello globale ritiene di essere ancora in una fase di recessione e di questi, più della metà (il 51%) pensa che lo sarà ancora tra un anno. In Asia Pacifico la percentuale di coloro che ritengono di essere ancora in recessione è del 45% rispetto al 37% del primo trimestre 2011. In Medio Oriente e Africa la recessione economica è un dato di fatto per il 74% degli intervistati online – con un incremento di nove punti rispetto a tre mesi fa.

Dodici mesi fa, il 35% dei consumatori online a livello mondiale riteneva che fosse un buon momento per comprare le cose di cui avevano bisogno, nel secondo trimestre del 2011 però questa percentuale è scesa al 27%. In America si è passati dal 27 al 20% e in Asia Pacifico dal 40 al 32%. A livello mondiale un numero sempre maggiore di consumatori si sente a corto di liquidi. L’aumento dei prezzi alimentari è stato ancora una delle principali preoccupazioni dei consumatori globali, superando l’economia come la preoccupazione principale per il secondo trimestre consecutivo. Il 31% dei consumatori ha dichiarato di non avere denaro rimanente dopo aver coperto le spese essenziali, il 25% in Medio Oriente, Africa e il 22% in Europa.(Beh, buona giornata).

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Ancora a proposito dei simili destini dello Squalo e del Caimano.

Intercettazioni illegali. “Tramonti incrociati” dello Squalo Murdoch e del Sultano Berlusconi, di Gianni Rossi-articolo21.com

Entrambi sono tra gli uomini più ricchi al mondo, anche se la classifica della rivista americana Forbes li inserisce al 118° e al 122° posto per quest’anno. E comunque Berlusconi e Murdoch hanno molte cose in comune. Sposati più volte, amanti delle belle donne possibilmente giovani, con una nidiata di figli e problemi di successione alla guida dei rispettivi imperi, il Sultano di Arcore viaggia tra i 9 e i 7,8 miliardi di dollari come ricchezza personale, mentre lo Squalo australo-americano si aggira tra i 6,3 e i 7,6 miliardi di dollari. Anche se, sempre secondo Forbes, Murdoch (13° posto) è ritenuto più potente di Berlusconi (14° posto) nel ranking speciale sulle capacità di influenzare il mondo degli affari e quello della politica. Le altre similitudini non finiscono qui: entrambi sono feroci populisti, neo-conservatori, operano spregiudicatamente con i media, influenzano i mercati e la politica. Non amano essere contraddetti, non si scusano mai (la colpa è sempre degli altri, dei loro collaboratori e, comunque, loro non sapevano né erano stati messi a conoscenza dei fatti, tutt’al più non ricordano), si ritengono immortali e non delegano in realtà il proprio potere aziendale. Qui finiscono le somiglianze e si entra nel paludoso terreno dei conflitti di interessi. Meno apparenti per lo Squalo, macroscopici per il Sultano!

Murdoch appartiene alla “scuola anglosassone”, per la quale chi sceglie la strada di fare l’imprenditore non può diventare un politico di professione, ma certo può influenzare prepotentemente l’azione dei politici con finanziamenti più o meno occulti, ne determina ascese e cadute con le campagne mediatiche e anche con “armi sporche”, tipo intercettazioni, dossier e corruzione di agenti speciali della polizia, come sta uscendo fuori dalle inchieste giudiziarie sul gruppo News Corporation in Gran Bretagna (ma anche negli Stati Uniti e ora in Australia).

Murdoch, il più potente uomo sulla terra nel campo dei media ora dovrà rispondere delle azioni dei suoi più stretti collaboratori in giro per tre continenti, sottoporsi alla “gogna mediatica”, con le riprese TV delle sue audizioni, come è successo a Londra davanti ai parlamentari della Commissione Interni della Camera dei Comuni. Lo Squalo è stato “denudato”, i suoi balbettii infiorettati di “non so, non mi ricordo” hanno rivelato l’altra faccia dello strapotere di colui che, da oltre 30 anni, ha condizionato le elezioni dei premier britannici, dalla conservatrice Thatcher al neo-laburista Blair, al neo-conservatore Cameron; ma ha anche influito sulle sorti dei governi in Australia e negli Stati Uniti.

Un “imperatore” senza confini che ha fomentato le velleità bellicose di potenti dell’Occidente contro “la civiltà islamica”, portandoci a distruggere città, società, culture ed esseri umani ovunque ci fossero “tesori energetici” da riportare sotto il controllo di alcune multinazionali. Uno Squalo che è riuscito a condizionare i mercati finanziari americani ed europei, contrastando con tutte le sua potenza di fuoco informativa la nascita e l’affermarsi dell’Euro, determinando l’opinione pubblica inglese a schierarsi contro l’ingresso di Londra nell’Eurozona, agitando le peggiori menzogne nei confronti del presidente degli Stati Uniti Obama, fino a spingere i Repubblicani più oltranzisti dei “Tea Party” a contrastarlo sul piano del risanamento del debito pubblico, rischiando così il fallimento di Washington.

Da una parte il suo dogma dell’ Euroscetticismo, che si va estendendo come un virus nei paesi del Nord e dell’Est Europa, dove ha messo radici con i suoi media; dall’altro la sua doppia morale capitalistica, con la difesa ad oltranza delle regole neo-liberismo monetarista, ma furbescamente facendone carta straccia utilizzando sotterfugi illegalità. Ora ci si attende che la giustizia inglese arrivi presto alla scoperta delle responsabilità dirette dei vertici di News Corporation, dopo gli arresti dei big e le dimissioni dei responsabili di Scotland Yard. Soprattutto, però, dovrebbero battere un colpo le Autorità di garanzia europee e le istituzioni dell’Unione Europea contro l’uso distorto dei media.

Una lezione viene comunque da Londra. Una lezione di civiltà, di senso delle responsabilità e di garantismo. I sospettati dello scandalo si sono dimessi dai loro incarichi e sono stati arrestati, poi rilasciati su cauzione, non hanno aspettato di essere rinviati a giudizio. Un capo del governo ha dovuto sostenere un duro confronto alla Camera dei Comuni con l’opposizione, senza sottrarsi alle accuse più dirette. La sua poltrona ora traballa, ma l’opinione pubblica britannica è giudice degli eventi grazie ad una “copertura mediatica”, ad una stampa libera che non strilla e starnazza come accade in Italia contro la “giustizia politica…sommaria…a tempo”, contro “il tintinnare di manette” o “le toghe rosse” che vorrebbero rovesciare la volontà popolare espressa con il voto. Non si attendono, insomma, che le sentenze arrivino in giudicato, per poter esprimere giudizi etici sui comportamenti degli uomini e delle donne “del potere”. Ma è proprio così che si difendono le regole della democrazia!

E’ una lezione che la sinistra dovrebbe prendere ad esempio, quando si affrontano casi inquietanti come le varie cricche, da quella del G8 alla P3 e alla P4, che da decenni all’ombra del regime berlusconiano stanno spolpando lo Stato e imponendo la propria “politica amorale”. Altro che leggi bavaglio contro le intercettazioni, che invece hanno aiutato a scoprire il marciume di questo regime (da ultimo quelle relative al caso di “Annozero”, che è costata a Berlusconi l’iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Roma per abuso d’ufficio). Quelle dei giornali di Murdoch erano, va ricordato, intercettazioni illegali, pagate dalla casa editrice e operate da detective privati, con la probabile collaborazione di forze di polizia. Nessun magistrato le aveva autorizzate.

Cosa succederebbe in Italia se si seguissero le procedure inglesi ed americane? Tutti gli esponenti indagati per gli ultimi scandali si sarebbero dovuti dimettere dai rispettivi incarichi parlamentari, di governo o aziendali. Subito si sarebbero dovute tenere dei confronti parlamentari tra il capo del governo, così come una Commissione parlamentare avrebbe dovuto aprire un’inchiesta parallela a quella della magistratura. Ecco, mentre nella patria di “Alice nel Paese delle meraviglie” le reincarnazioni de lo Stregatto e del Cappellaio Matto vengono inseguite e portate davanti alla giustizia, nel paese dove regnano “pizza, pasta e quacquaraquà”, guai a mettere in dubbio, anche in Parlamento, che Ruby Rubacuori non sia stata la nipote dell’ex-presidente egiziano Mubarak, come stragiurato dal Sultano di Arcore!

Sta qui, purtroppo, tutta la differenza tra società di “Serie A”, come Gran Bretagna e Stati Uniti, e un paese come il nostro, che è al 167° posto su 170 nella speciale e degradante classifica sull’evasione fiscale e, per l’autorevole Freedom House, al 75° posto per la libertà di stampa (Gran Bretagna al 29° e Stati Uniti al 22°). (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Tempi duri per lo Squalo e il Caimano.

Sarà il gioco beffardo delle coincidenze, ma sembrerebbe proprio che, quasi all’unisono, lo Squalo globale e il Caimano nazionale si trovino in pessime acque.

Sia a Murdoch che a Berlusconi è andata liscia per troppo tempo: uno coltivava il sogno di diventare il capo di una compagnia potente e influente come lo sono nel mondo globalizzato colossi del calibro di Microsoft, di Apple, di Google. Berlusconi contava di riuscire a diventare il prossimo presidente della Repubblica Italiana e, salendo al Quirinale, garantirsi l’indulgenza plenaria totale. E invece no.

Lo scandalo del News of the World, vale a dire la corruzione di politici e poliziotti per ottenere informazioni coperte da segreti d’ufficio e poterle utilizzare per produrre scoop e tenere alte vendite e introiti pubblicitari, non ha solo mandato in fumo un affare da 8,1 miliardi di dollari, che era l’obiettivo della scalata della News Corp per il controllo totale di BskyB: quello che è davvero grave per Murdoch è che lo scandalo ha messo a nudo davanti agli azionisti e all’opinione pubblica mondiale il modo di fare affari.

Quanto a Berlusconi, si registra un grave guasto alla sua macchina da soldi, perché il traino della “discesa in campo”, cioè del protagonismo politico in prima persona per tutelare e sviluppare gli affari si è rotto: va male la pubblicità, va male l’editoria, va male la tv, va malissimo anche Endemol.

E come se non bastasse, arriva la batosta dei 560 milioni da pagare all’odiato De Benedetti, l’editore de la Repubblica, il nemico pubblico numero uno, secondo la religione berlusconista. E’ vero che a entrambi, sia allo Squalo che al Caimano è successo più di una volta di passare brutti momenti, ma tutti e due si sono poi risollevati e hanno saputo manovrare per riprendere il vento in poppa. Ma stavolta è diverso. Non di solo di affari, ma di reputazione personale, si tratta.

In Uk e negli Usa ormai si dice ormai ad alta voce che “il metodo News of the World” è il metodo News Corp. Dunque,il problema non è tanto lo scandalo in sè, quanto il durissimo giudizio politico e finanziario che si è levato contro l’impero di Murdoch. In Italia, la motivazione della sentenza della Corte d’Appello con cui la Mondadori dei Berlusconi è stata condannata a risarcire la Cir dei De Benedetti è suonata come una severissima e inappellabile sentenza di condanna al modo con cui Berlusconi ha condotto gli affari che gli hanno permesso di costruire il suo impero mediatico.

D’altra parte, attualmente la sua credibilità in politica si è estinta, come dimostrano gli avvenimenti di questi giorni. Tanto sono sembrati uguali il “metodo News of the World” di Murdoch e il “metodo Boffo” di Berlusconi, tanto sembrano uguali i rispettivi destini personali. Nessuno dei due riuscirà a perseguire fino in fondo i rispettivi sogni.

C’è da augurarsi che alle disgrazie dei due satrapi corrisponda il crollo dei rispettivi imperi monopolistici a favore di una circolazione globale dell’ informazione, meno manipolabile a fini speculativi, sia finanziari che politici. Lo Squalo e il Caimano imponevano che il medium da messaggio diventasse il loro strapotere mediatico.

Per una volta, pare che il messaggio sia pronto a riprendersi il medium: e già pare di sentire un’aria che sa di libertà di stampa e di diritto all’informazione, come fossero beni comuni.Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Citazioni colte o citazioni giudiziarie? I giornali italiani di fronte allo sfacelo del ceto politico.

I grandi filosofi farebbero fatica a essere pubblicati sui nostri giornali-di Piero Ostellino-Il Corriere della Sera.

«L’ ideale che canta nell’ anima di tutti gli imbecilli… è quello di una sorta di Areopago, composto di onest’ uomini, ai quali dovrebbe affidarsi gli affari del proprio paese (…) È strano che, laddove nessuno, quando si tratta di curare i propri malanni o sottoporsi a un’ operazione chirurgica, chiede un onest’ uomo e neppure un onest’ uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurghi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia… nelle cose della politica si chiedono non uomini politici ma onest’ uomini (…) Le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politici, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere, non già nella politica». Chi l’ avrebbe detto: Benedetto Croce complice della Casta e delle allegre serate di Arcore!

«Da un legno storto come quello di cui è fatto l’ uomo non si può fare nulla di completamente dritto (…) Non pare possibile una storia sistematica come ad esempio quella delle api e dei castori (…) Il mezzo di cui la natura si serve per portare a compimento lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro (degli uomini) antagonismo nella società».

Incredibile: Immanuel Kant non solo teorizza l’ immoralità ma, elogiando «l’ insocievole socievolezza» degli uomini, è contro la stabilità collettiva! «In ogni sistema di morale con cui ho avuto finora a che fare, ho sempre notato che l’ autore procede per un po’ nel modo ordinario di ragionare e stabilisce l’ esistenza di un bene, oppure fa delle osservazioni circa le faccende umane; quando all’ improvviso mi sorprendo a scoprire che, invece di trovare delle proposizioni rette come di consueto dai verbi è e non è, non incontro che proposizioni connesse con dovrebbe e non dovrebbe… Poiché questi dovrebbe e non dovrebbe esprimono una relazione o affermazione nuova, è necessario che… si adduca una ragione di ciò che sembra del tutto inconcepibile, cioè del modo in cui questa nuova relazione può essere dedotta dalle altre, che sono totalmente diverse da essa».

Inconcepibile: David Hume nega la possibilità razionale di produrre «svolte epocali»! Temo che Croce, Kant, Hume incontrerebbero qualche difficoltà a pubblicare i loro scritti sui nostri media. Ogni giorno, la storia del Pensiero finisce in quella «Tomba del pensiero» che è il giornalismo. Trionfa il nulla, che oscilla fra l’ anatema da curva Sud contro l’ avversario e la banalità del «politicamente corretto». E ha una sola attenuante: di ignorare la storia intellettuale di duemila anni. Etica, Politica, Diritto finiscono in una sorta di insalata russa; si diffonde il lessico dell’ «anima di tutti gli imbecilli»; che nega che l’ uomo sia una miscela di bene e di male e prefigura una storia tutta Bene, scritta dalle Procure, o tutta Male, scritta dai politici; che attribuisce alla Giustizia il compito di trasformare gli uomini in angeli; che salta senza costrutto dalla realtà effettuale a quella che si vorrebbe che fosse. A quando un editoriale, finalmente equilibrato, ma anche forte: «Non ci sono più le mezze stagioni»?
(Beh, buona giornata).

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