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Finanza - Economia Lavoro

Bonanni e Angeletti si sono molto offesi per le nuove misure della manovra finanziaria.

Bonanni e Angeletti, dopo aver trasformato il sindacalismo italiano in una specie di cinghia di trasmissione degli interessi delle imprese verso i lavoratori, dopo essersi alleati col governo contro la CGIL, mandando in frantumi l’unita’ dei lavoratori, dopo essere stati a casa anche oggi, invece che partecipare allo sciopero generale contro le ingiustizie sociali contenute nella manovra finanziaria del Governo, si sono svegliati e, all’unisono, ne hanno cantate quattro sull’ennesimo rimaneggiamento delle norme della manovra.

Vedere per credere. “L’emergenza finanziaria non può giustificare l’aumento dell’Iva, soprattutto delle aliquote più basse, nè l’accelerazione dell’equiparazione dell’età per il pensionamento delle donne” sostiene Luigi Angeletti, segretario generale della UIL.

Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, si dichiara contrario alle modifiche introdotte: “Siamo contrari sia all’aumento dell’età pensionabile per le donne, sia all’aumento dell’Iva. Se il Governo vuole fare un intervento equo e condiviso socialmente, introduca una patrimoniale, escludendo la prima casa e ripristini il contributo di solidarietà a partire da chi non ha la ritenuta alla fonte, facendo pagare chi guadagna di più e possiede di più”.

Che massimalisti! Chissà come l’ha presa Sacconi, il Bava Beccaris dei diritti dei lavoratori italiani. Beh, buona giornata,

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Finanza - Economia Lavoro

Sciopero generale: ecco gli appuntamenti di Roma contro la manovra iniqua e insufficiente.

Oggi 6 settembre a Roma sfileranno due cortei: quello della Cgil alle 9.30 da piazza dei Cinquecento e quello dell’Unione sindacale di base alle 10 da largo Corrado Ricci.

CGIL. Dalle 9,30 alle 12,30 sfilerà il corteo della Cgil Roma e Lazio che partirà da piazza dei Cinquecento e percorrerà via Cavour, piazza dell’Esquilino, via Liberiana, piazza di Santa Maria Maggiore, via Merulana, via Labicana, piazza del Colosseo, via Celio Vibenna e via di San Gregorio fino all’Arco di Costantino, dove si terrà il comizio conclusivo con il segretario regionale Claudio Di Berardino e il segretario generale Susanna Camusso.

USB. Dalle 10 alle 14, da largo Corrado Ricci partirà il corteo organizzato dall’Unione sindacale di base. I manifestanti percorreranno via dei Fori Imperiali, piazza Venezia, via San Marco, via delle Botteghe Oscure, largo di Torre Argentina, corso Vittorio Emanuele, via della Cuccagna e giungeranno in piazza Navona. Beh, buona giornata.

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democrazia Lavoro Leggi e diritto

C’era una volta una Repubblica fondata sul Lavoro.

di Luciano Gallino-la Repubblica.

Se diventano legge, le modifiche all´art. 8 del decreto sulla manovra economica avranno effetti ancor più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali di quanto non promettesse la prima versione. I ritocchi al comma 1 rendono più evidente la possibilità che sindacati costituiti su base territoriale – si suppone regionale o provinciale, e perché no, comunale – possano realizzare con le aziende intese che, in forza del successivo comma 2, riguardano la totalità delle materie inerenti all´organizzazione del lavoro e della produzione. Da un lato si apre la strada a una tale frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali da rendere in pratica insignificante la presenza a livello nazionale dei sindacati confederali; un esito che la maggioranza di governo punta da anni a realizzare.
Dall´altro lato la combinazione dei commi 1 e 2 darebbe origine a veri mostri giuridici. Il comma 2 stabilisce infatti che le intese sottoscritte da associazioni dei lavoratori più rappresentative anche sul piano territoriale valgono per la trasformazione dei contratti di lavoro e per le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro. Come dire che se il sindacato locale accetta che uno possa venir licenziato con tre mesi di salario come indennità e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale clausola. C´è dell´altro. Le eventuali intese tra sindacati e aziende riguardano anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese – si noti bene – le collaborazioni coordinate o a progetto e le partite Iva. Il che significa che il sindacato potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedono l´impiego di lavoratori autonomi, quali sono formalmente i collaboratori e le partite Iva, come lavoratori dipendenti. Finora, se qualcuno cercava di realizzare simile aberrazione, finiva dritto in tribunale. L´art. 8 del decreto trasforma l´aberrazione in legge.
Quanto al nuovo comma 2-bis, esso abolisce di fatto non solo l´art. 18, bensì l´intero Statuto dei lavoratori. E con esso un numero imprecisato di disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2, visto che nell´insieme essi abbracciano ogni aspetto immaginabile dei rapporti di lavoro. Ciò è reso possibile dalla esplicita indicazione che le intese di cui al primo comma operano anche in deroga alle suddette disposizioni ed alle regole contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. A ben vedere, il legislatore poteva condensare l´intero articolo 8 in una sola riga che dicesse “i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro”.
Per quanto attiene alla tutela della parte più debole del contratto di lavoro, sarebbe quindi un eufemismo definire scandaloso il complesso del nuovo articolo 8 del decreto. Ma è giocoforza aggiungere che esso è anche penosamente miope per quanto riguarda il contributo che una riforma delle condizioni di lavoro potrebbe dare ad una ipotetica ripresa dell´economia. Il nostro Paese avrebbe bisogno, per menzionare un solo problema, di cospicui interventi nel settore della formazione continua delle sue forze di lavoro, di ogni fascia di età. È un settore in cui siamo indietro rispetto ai maggiori paesiUe. Questo decreto che punta in modo così smaccato a dividere le forze di lavoro per governarle meglio li rende impossibili. Naturalmente, c´è di peggio: esso rende anche impossibile un significativo recupero mediante la contrattazione collettiva della quota salari sul Pil, la cui caduta – almento 10 punti in vent´anni – è una delle maggiori cause della crisi.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Manovra finanziaria o manovra contro i lavoratori?

CONFERMATO LO SCIOPERO GENERALE DEL SINDACALISMO
CONFLITTUALE IL PROSSIMO 6 SETTEMBRE- Riceviamo e pubblichiamo il comunicato stampa diffuso da USB, Unione Sindacale di Base.

“Le ultime modifiche alla seconda manovra estiva colpiscono in modo ancor più pesante i lavoratori dipendenti ed i futuri pensionati, attraverso un ulteriore peggioramento del sistema previdenziale che di fatto ad oggi elimina la metà delle pensioni di anzianità, cioè quelle derivanti da riscatto di militare ed università”, afferma Fabrizio Tomaselli, dell’Esecutivo Confederale USB.

Prosegue Tomaselli: “Prima le misure che avevano allontanato di un anno il diritto ad usufruire alla pensione; poi l’aumento di 5 anni per le donne, prima del pubblico e poi del privato; poi l’aggancio all’aspettativa di vita e l’ulteriore ritardo di tre mesi per andare in pensione. Ora si attacca la pensione di anzianità, che per oltre la metà deriva da riscatti del militare e dell’università. Se poi, come sembra, tali riscatti non saranno conteggiati neanche per raggiungere i 18 anni al 1995, necessari all’applicazione del regime retributivo invece che contributivo, allora all’aumento dai 4 ai 10 anni di lavoro in più si aggiungerebbe anche un forte salasso economico sulle pensioni”.

“In compenso – ironizza il dirigente USB – si ritira il contributo previsto per gli stipendi oltre 90.000 e 150.000 Euro, si lascia inalterata la politica delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, si continua a tagliare la politica sociale degli enti locali, si bloccano i contratti e si congelano le tredicesime dei pubblici dipendenti, si ammorbidiscono i già limitati tagli ai costi della politica, non si costruisce una lotta seria contro l’evasione e non si applica alcuna patrimoniale”.

“Insomma, altro che lo ‘sgarbo’ di cui parla un incredibile Angeletti – conclude Tomaselli – il governo e la confindustria, con l’appoggio dei sindacati complici hanno scelto la strada della lotta di classe: la loro, quella dei ricchi, contro i lavoratori e i pensionati. Sta a noi ricambiare con gli interessi ed iniziare una lunga e determinata mobilitazione a partire dallo sciopero generale del prossimo 6 settembre”. (Beh, buona giornata)

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Finanza - Economia Lavoro

L’Italia e’ il paese della disoccupazione.

(fonte: ANSA.it)
L’Italia ha il record negativo in Europa per la disoccupazione giovanile: sono 1.138.000 gli under 35 senza lavoro. A stare peggio i ragazzi fino a 24 anni: il tasso di disoccupazione in questa fascia d’eta’ e’ del 29,6%: uno su 3 e’ senza lavoro, rispetto al 21% della media europea. A fotografare la situazione del mercato del lavoro nel nostro Paese e’ l’Ufficio studi della Confartigianato.

Il primato a livello nazionale e’ della Sicilia con una quota di disoccupati under 35 oltre il 28%. E se la media italiana si attesta al 15,9%, va molto peggio nel Mezzogiorno dove il tasso sale a 25,1%, pari a 538.000 giovani senza lavoro. 

Inoltre, tra il 2008 e il 2011, anni della grande crisi – rileva la Confartigianato – gli occupati under 35 sono diminuiti di 926.000 unita’. Nella classifica delle regioni seguono la Campania con il 27,6% di giovani senza lavoro, la Basilicata (26,7%), Sardegna (25,2%). Conviene invece andare in Trentino Alto Adige dove il tasso di disoccupazione tra 15 e 34 anni e’ contenuto al 5,7%, oppure in Valle d’Aosta con il 7,8%, Friuli Venezia Giulia con il 9,2%, la Lombardia con il 9,3%.

Ma non sono solo i giovani le vittime della crisi del mercato del lavoro italiano. Il rapporto di Confartigianato mette in luce un peggioramento della situazione anche per gli adulti. La quota di inattivi tra i 25 e i 54 anni arriva al 23,2%, a fronte del 15,2% della media europea, e tra il 2008 e il 2011 e’ aumentata dell’1,4% mentre in Europa e’ diminuita dello 0,2%.(Beh, buona giornata),

 

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Attualità Dibattiti Finanza - Economia Lavoro

La crisi secondo Marx ed Engels.

Dio è morto, Marx no, da olivero.blogautore.repubblica.it

Il primo segnale che qualcosa di importante stava accadendo da quelle parti è stata una recensione apparsa sul Financial Times, non proprio un Quaderno rosso. Parlando del libro di Eric Hobsbawm Come cambiare il mondo. Perché scoprire l’eredità del marxismo, lo definiva poco meno di un capolavoro di accuratezza, profondità e rigore. Un testo in grado di “diradare le nebbie del Ventesimo secolo”. Nientemeno. Il giornale della City, tempio del capitale, del mercato e del liberismo riconosceva al vecchio nemico comunista qualcosa di più dell’onore delle armi. Forse come accade a certi personaggi dei film che, rimasti senza la loro nemesi, non riescono a rassegnarsi e non possono posare lo sguardo sul campo di battaglia ormai deserto.

Quale che sia la motivazione profonda, il Ft ha ragione: Hobsbawm, uno dei più grandi storici viventi, ha raccolto una serie di saggi sul marxismo che escono dal campo accademico e proiettano quelle dottrine, quelle istanze, quelle parole sull’oggi. Le grandi intuizioni di Engels, per esempio, restano sorprendenti quasi più ora che a metà dell’800 quando le scrisse: l’assorbimento della politica nell’economia; l’amministrazione delle cose che soppianta il governo degli uomini; la capacità di trovare regole quasi scientifiche nell’alienazione degli operai e della società laddove altri vedevano soltanto disordine mentale; l’idea che le crisi a periodicità regolare fossero un aspetto integrante del capitalismo; l’unificazione delle grandi istanze della Rivoluzione francese con quelle del nuovo proletariato britannico che avrebbe generato una dottrina più pura in vista di una contrapposizione sociale più pura, quella tra operai e padroni anziché tra borghesi e aristocratici; le difficoltà pratiche in cui si sarebbe trovato un partito di massa di fronte a decisioni epocali; la fine della famiglia tradizionale a opera del capitalismo (su questo punto il Vaticano potrebbe trovare inaspettati compagni di strada).

Tutto elencato, analizzato e ricostruito da Hobsbawm con chiarezza e metodo, lo stesso metodo mutuato da Marx ed Engels, che rimasero sempre in questo, nonostante le discipline a cui diedero vita, due filosofi. Perché, “solo un individuo libero dalle illusioni della società borghese può essere un valido scienziato sociale”. Infatti mai nelle loro analisi i due autori del Manifesto usarono parole di disprezzo contro i capitalisti o i borghesi, ma sempre contro il grande “ismo”, l’ideologia che trasforma gli sfruttatori in una classe “profondamente immorale, incurabilmente corrotta dall’egoismo, corrosa nel suo essere”. I più scientifici tra i pensatori, ricorda il libro, si sono lasciati andare a profezie da brivido (e con echi che richiamano certe pagine mistiche di Simone Weil) regolarmente avveratesi: “La società borghese ha prodotto mezzi di produzione così potenti che rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate; i rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi prodotta”.

Lo scenario è fin troppo evidente a tutti. Il mercato ha vinto su ogni cosa, la politica si è ridotta a specchio della finanza. Non si produce, si scommette. Non si progetta, ci si indebita. Non si assume, si affitta. Non si costruisce, si rimanda. Non si spera, si consuma. Tutto già detto, tutto già scritto. Tutto finito. Il campo di battaglia è vuoto. Nessun sol dell’avvenir risplende all’orizzonte. Nessuno spettro si aggira per l’Europa. O no? (Beh, buona giornata).

Eric Hobsbawm, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo (tr.it. L. Clausi, Rizzoli, 22 euro)

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democrazia Dibattiti Finanza - Economia Guerra&Pace Lavoro Popoli e politiche

La crisi secondo Piero Ottone: se si spegne la capacità creatività, comincia l’inesorabile declino.

I SEGNI DEL DECLINO, di PIERO OTTONE-la Repubblica

Viviamo tempi duri (i tempi facili sono sempre stati brevi ed effimeri). Per chiarire le idee propongo un breve glossario.

Declino americano. Vediamo ogni giorno i segni del declino americano. È passeggero, di corta durata? Difficile fare previsioni a breve.

Ma a lungo termine è probabile che il declino americano di cui vediamo i sintomi sia irreversibile. Gli americani sono infatti gli esponenti di punta della civiltà occidentale, e la civiltà occidentale è al tramonto.

Perché meravigliarsi? Tutte le grandi civiltà del passato si sono spente: si spegnerà anche la nostra. Numerosi i segni della decadenza: il debito pubblico di cui si parla in questi giorni è solo il più epidermico. La prova irrefutabile del declino è un’altra: la bassa natalità.

E gli europei? La civiltà americana non è isolata: è giusto parlare di civiltà euro-americana. Ma gli europei non stanno meglio degli americani: anzi, stanno un po’ peggio.

Tante sono le analogie con una civiltà antica, anch’essa bicipite come la nostra: la civiltà greco-romana. I greci erano raffinati e colti, come in seguito gli europei; e i romani erano la grande potenza militare, come gli americani del nostro tempo. Un’analogia fra le tante: anche le città greche volevano unirsi l’una con l’altra, e dare vita a un’unica grande potenza. Come le nazioni europee del nostro tempo. Non ci sono mai riuscite. E i cinesi? I cinesi moderni appartengono a quello che chiamiamo, genericamente, il “terzo mondo” (espressione impropria, nata ai tempi della guerra fredda). Non c’è alcuna continuità, né alcuna comunanza, fra i cinesi moderni e l’antica civiltà cinese, che è stata, non meno di quella occidentale, una grande civiltà. Ogni grande civiltà è un’isola fortunata in mezzo a popoli che di quella civiltà non fanno parte, e che possiamo chiamare (senza offesa) “i barbari”, “il terzo mondo,” o in tanti altri modi. I “barbari” talvolta stanno tranquilli nelle loro terre. Altre volte diventano aggressivi. Ma in questi ultimi anni è avvenuto un fatto clamoroso, senza precedenti nella storia: i cinesi, i coreani, gli indiani, tutti barbari secondo la nostra terminologia, invece di attaccare la nostra civiltà hanno deciso di copiarla (ci è andata bene). Impossibile prevedere se i “barbari” del nostro tempo continueranno a convivere pacificamente con noi (e coi nostri discendenti), sicuri che comunque prevarranno perché sono più numerosi, più prolifici, più pazienti, o se diventeranno ostili (la Cina sta rafforzandosi militarmente).

Scontro di civiltà.È sbagliato parlare di scontro di civiltà per definire gli eventi contemporanei. Per scontrarsi, le civiltà devono essere almeno due. Nel nostro tempo c’è invece una sola civiltà, sia pure maturae decadente: la nostra. Gli altri popoli, quelli del Terzo Mondo, cinesi, indiani e così via, non sono i portatori di una nuova civiltà, e non riesumano quelle antiche. Sono semplicemente imitatori della nostra.

E la tecnica? L’affermazione secondo cui la civiltà occidentale è in declino, e si trova nella fase finale, sembra contraddetta dai recenti progressi della tecnologia. Ma lo sviluppo della tecnica è tipico delle fase finale di una grande civiltà. È probabile che abbiamo raggiunto il culmine del progresso tecnico nell’ambito della civiltà occidentale. In questi giorni si parla per esempio della rinuncia alla conquista dello spazio con mezzi di trasporto extra-terrestri. Morte di una civiltà. Che cosa succede quando una grande civiltà muore? Si spegne la sua capacità creativa, nella vita dello spirito (le arti, la filosofia, la letteratura, la religione)e nella vita politica (l’articolazione in classi sociali, la volontà di conquista). Ma le istituzioni create quando la civiltà è vitale, se nessuno le distrugge, sussistono. Per molti secoli la Cina ha continuato a vivere tranquillamente dietro la Grande Muraglia, usufruendo delle istituzioni create dalla civiltà cinese quando era vitale.I cinesi dell’epoca post-civile, quando la loro grande civiltà era ormai spenta, credevano pur sempre di essere al centro del mondo. Altre grandi civiltà, invece, sono morte di morte violenta: è il caso della civiltà pre-colombiana quando arrivarono gli spagnoli.

Ne nasceranno altre? Nessuno lo sa: la nascita delle grandi civiltà nel corso della storia è misteriosa. Tipicamente ottocentesca la visione di un miracoloso filo conduttore che segna, attraverso popoli diversi e in diverse regioni, un progresso costante del genere umano. Oggi ci si crede un po’ meno. La grande civiltà egizia e quella cinese per esempio, non avevano rapporti l’una con l’altra. Ciascuna è nata per conto suo.

Sa il cielo se nascerà una nuova civiltà in avvenire. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia Lavoro

Far pagare la crisi ai meno abbienti e’ anticostituzionale.

Nella seconda perte, l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana c’e scritto: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In realtà gli ostacoli di ordine economico non solo non sono stati rimossi, ma, almeno dal 1985, addirittura sono stati innalzati, diventando una vera e propria barriera di classe.

Il divario tra ricchi e poveri è sempre più marcato in Italia: stando ai dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) il nostro è uno dei Paesi industrializzati con la maggiore disparità dei redditi, al quinto posto tra i 17 che hanno segnato un ampliamento del gap tra il 1985 e il 2008, davanti a Messico, Stati Uniti, Israele e Regno Unito.

In questo contesto, arriva un’ulteriore spinta alle disuguaglianze e all’iniquità, attraverso la manovra economina varata dal governo, che sta andando in discussione nei due rami del Parlamento. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

La manovra ammazza-turismo: la ministra del turismo fa la turista al Consiglio dei Ministri?

Il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca, parla del capitolo “ponti” della manovra come di “un colpo basso per il turismo”. Una cospicua fetta di fatturato per le strutture turistiche, come spiega Bocca: “Le vacanze brevi durante l’anno sono una grossa fonte economica per il settore. Storicamente, i vacanzieri che si muovono per il ponte del 25 aprile così come per quello del 2 giugno restano in Italia”.

E le cifre in ballo sono importanti. “Cancellare questa possibilità”, aggiunge Bocca “significa tagliare di netto un fatturato significativo”.Cifre nel dettaglio.

Sulla base dell’andamento degli ultimi tre anni, Federalberghi rileva come per il ponte del 25 aprile si muovano in media 6 milioni di italiani con un fatturato di due miliardi, per quello del primo maggio altri 6 milioni e mezzo di turisti per un fatturato di un miliardi e mezzo, mentre per quello del due giugno i vacanzieri sono 8 milioni e mezzo per 2 miliardi e 200 di fatturato.

“Pur coscienti che è giusto tirare la cinghia”, aggiunge Bocca, “prevedere per legge una perdita sicura per l’economia del Paese ci sembra quasi come ‘pagare più la salsa che il pesce”.

“L’Italia – conclude Bocca – è un Paese che dovrebbe vivere di turismo, molto spesso ciò non viene tenuto in debita considerazione”. (Beh, buona giornata).

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Lavoro

Per lui il ministero del Lavoro è una copertura.

Il ministro del Lavoro durante la conferenza stampa di presentazione della manovra ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché posticipato l’età dei pensionati.

In verità, Prodi si era trovato di fronte allo “scalone” di Maroni e l’aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.

Il ministro non è nuovo nel dimostrere livore verso il mondo del lavoro, e questo è solo un indizio di che cosa non si farebbe e direbbe per mettersi in mostra in questo governo privo di qualsivolgia auterevolezza sia nel Paese che all’estero.

“Solo chiacchiere e distintivo” di un ministro del Capitale, che, come copertura, usa il ministero del Lavoro? Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

L’affondamento del Titanic, la metafora della manovra secondo Paolo Ferrero.

Tremonti e’ stato di parola: cerca di affondare l’Italia come il Titanic- da paoloferrero.it

Questa volta il governo è stato di parola e ha dato luce ad una manovra che di cerca di affondare l’Italia come il Titanic: un disastro. Del Titanic la manovra rispetta anche i privilegi di classe: Forse non tutti sanno che su 708 passeggeri che si salvarono dalla tragedia, si salvò il 60% dei passeggeri di prima classe (200), il 42% di quelli di seconda classe (120), il 25% di quelli di terza classe (174) e il 24% dei membri dell’equipaggio. La manovra del governo porterà all’affondamento dell’Italia, ma come sul Titanic, quelli di prima classe si salveranno molto di più e i lavoratori avranno la peggio. Per questo contro questa manovra faremo le barricate.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

La manovra varata dal Governo contiene misure «inique», «inadeguate e poco credibili rispetto alla sfida che il paese ha di fronte». Lo dice il Pd che presenta 7 poposte di una contro-manovra.

(Fonte: Il Sole 24 Ore).
La manovra varata dal Governo contiene misure «inique», «inadeguate e poco credibili rispetto alla sfida che il paese ha di fronte». Per questo il Partito Democratico propone un «contro piano, un progetto responsabile e alternativo per il bene del Paese». Un piano articolato in sette punti: da un prelievo sui capitali scudati, alla tracciabilità per importi superiori ai mille euro fino al dimezzamento dei parlamentari, alle liberalizzazioni e alla dismissione di immobili pubblici.

«Per affrontare l’emergenza si prevede un prelievo straordinario una tantum sull’ammontare dei capitali esportati illegalmente e scudati – si legge nel testo presentato dal Pd -, in modo da perequare il prelievo su questi cespiti alla armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie al 20% e di adeguare l’intervento italiano alle medie delle analoghe misure prese nei principali paesi industrializzati.

Gran parte di questi 15 miliardi – si legge nel programma – dovrà essere utilizzata per i pagamenti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese e per alleggerire il patto di stabilità interno così da consentire immediati investimenti da parte dei comuni».

Il partito di Bersani ritiene poi necessario «un pacchetto di misure efficaci e non solo di facciata contro l’evasione fiscale, tali da produrre effetti immediati, consistenti e concreti. Si propongono dunque alcuni interventi, tra i quali figurano le misure anti-evasione che in parte riprendono quelle dolosamente abolite dal governo Berlusconi: tracciabilità dei pagamenti superiori a 1.000 euro (pensare a somme più elevate significa lasciare di fatto tutto come è oggi) ai fini del riciclaggio e soglie più basse, a partire dai 300 euro, per l’obbligo del pagamento elettronico per prestazioni e servizi; obbligo di tenere l’elenco clienti-fornitori, il vero strumento di trasparenza efficiente; descrizione del patrimonio nella dichiarazione del reddito annuo con previsione di severe sanzioni in caso di inadempimento».

Al terzo punto il Pd suggerisce l’introduzione «di una imposta ordinaria sui valori immobiliari di mercato, fortemente progressiva, con larghe esenzioni e che inglobi l’attuale imposta comunale unica sugli immobili, in modo di ricollocare l’Italia nella media e nella tradizione di tutti i maggiori paesi avanzati del mondo». Si deve poi attuare un «piano quinquennale di dismissioni di immobili pubblici in partenariato con gli enti locali (obiettivo minimo 25 miliardi di euro)».

Capitolo liberalizzazioni: il Pd propone «di realizzare immediatamente almeno una parte delle proposte di liberalizzazione che il partito ha già preparato e presentato: ordini professionali, farmaci, filiera petrolifera, RC auto, portabilità dei conti correnti, dei mutui e dei servizi bancari, separazione Snam rete gas, servizi pubblici locali. Il Pd è contro la privatizzazione forzata, ma non contro le gare e la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Tutto questo si può fare immediatamente senza bisogno di riforme costituzionali.

Il sesto punto del progetto è dedicato alle politiche industriali per la crescita. Il Pd propone «di adottare subito misure concrete per alleggerire gli oneri sociali e un pacchetto di progetti per l’efficienza energetica, la tecnologia italiana e la ricerca, con particolare riferimento alle risorse potenziali e sollecitabili del Mezzogiorno.
Sarebbe un errore imperdonabile intervenire sul controllo dei conti pubblici senza mettere in campo, sia pure limitatamente alle risorse disponibili, un pacchetto di stimoli alla crescita e per l’occupazione. In questo contesto rientra anche l’implementazione dei più recenti accordi tra le parti sociali senza intromissioni che ledano la loro autonomia».

Infine la parte dedicata a pubblica amministrazione, istituzioni e costi della politica. «In Italia – spiega il testo – la riduzione della spesa deve riguardare non tanto sulla spesa sociale, ma l’area della Pubblica Amministrazione, le istituzioni politiche e i settori collegati. A Cominciare dal Parlamento: il primo passo è il dimezzamento del numero dei parlamentari. Il Pd ha presentato da tre anni proposte specifiche su questo punto. Su sollecitazione dei gruppi parlamentari del Pd la discussione su questi progetti è stata calendarizzata in Parlamento per settembre. Si agisca immediatamente. Da lì in giù, bisogna intervenire su Regioni, Province, Comuni con lo snellimento degli organi, l’accorpamento dei piccoli comuni, il dimezzamento o più delle province secondo l’emendamento presentato dal Pd e dall’Udc alla manovra di luglio o, in alternativa, riconducendole ad organi di secondo livello, accorpamento degli uffici periferici dello Stato, dimezzamento delle società pubbliche, centralizzazione e controllo stretto per l’acquisto di beni e servizi nella pubblica amministrazione».

Secondo il Partito Democratico si deve inoltre riprendere «un vero lavoro di spending review, interrotto dal governo Berlusconi, dal punto di vista di una politica industriale per la pubblica amministrazione. Il Pd ha proposte specifiche su ciascuno di questi punti. In particolare sui costi della politica il riferimento è il programma contenuto nell’ordine del giorno presentato due settimane or sono in Parlamento». (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Niente rigore, equità e futuro: la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata».

di LUCA RICOLFI- La Stampa

Lì per lì, sentite le prime notizie sulla super-manovra, mi sono detto: saranno pure sacrifici, e sacrifici alquanto impopolari, ma meglio tardi che mai. In fondo erano almeno tre anni, dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, che quasi tutti gli analisti indipendenti scongiuravano il governo di non mettere la testa sotto la sabbia, di smetterla con gli annunci e le dilazioni (vedi l’annacquamento del federalismo), di agire subito e con determinazione. Ora anche Berlusconi e Tremonti l’hanno capita, e si apprestano ad affrontare i gravissimi problemi della nostra economia. Spiace riconoscerlo, ma ai mercati è riuscito quello che alle menti illuminate dei riformisti di destra e sinistra non era mai riuscito: convincere un governo immobilista (come gli ultimi cinque, dal ‘98 a oggi) che non si può restare oltre con le mani in mano, paralizzati dalle divisioni e dagli interessi privati del premier. Poi però, accanto a questo sentimento di relativa soddisfazione, se ne è installato un altro, di segno opposto. Che cosa mi ha fatto cambiare atteggiamento?

In primo luogo, la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che – dopo aver per anni disprezzato e sbeffeggiato chiunque osasse mettere in dubbio la solidità dei conti pubblici italiani – ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata», la tempesta che ha investito borse e titoli di Stato «non era prevedibile», e via cadendo dalle nuvole.

Eh no, tutto si può dire ma non che non foste stati avvertiti. La stragrande maggioranza degli studiosi, in questi anni, mesi, settimane e giorni era assolutamente concorde sulla diagnosi di base: i conti pubblici italiani non sono affatto in sicurezza, l’entità del nostro debito pubblico ci rende permanentemente vulnerabili, la manovra varata un mese fa era una presa in giro dei mercati e delle istituzioni europee, perché rimandava l’85% dell’aggiustamento al 2013-14, quando non si sa nemmeno chi governerà, né di conseguenza si può avere la minima garanzia che rispetterà gli impegni presi oggi.

Ricordate lo «scalone» delle pensioni? Anche allora, eravamo nel 2004, Tremonti lo varò per legge rimandandone però l’applicazione al 2008, e il governo successivo – come si poteva facilmente prevedere – se lo rimangiò in un sol boccone. E anche per quanto riguarda la manovra di luglio, che il governo si è finalmente deciso ad anticipare di un anno, vorrei ricordare quello che Roberto Perotti e Luigi Zingales scrivevano più di un mese fa, quando era già del tutto evidente che i mercati non credevano alle vaghe promesse del nostro governo: «Esiste quindi una sola via d’uscita, che ci metta al riparo dalla volatilità del mercato: raggiungere il pareggio di bilancio nell’arco diciamo di un anno».

Se anziché accontentarsi della solidarietà e dell’approvazione dei colleghi europei, i nostri governanti avessero preso un po’ più sul serio i mercati, avrebbero agito molto prima, e oggi il prezzo che sono costretti a chiedere ai cittadini sarebbe minore. Insomma, aver rimandato i sacrifici significa averli aggravati. Questa è una gravissima responsabilità, un errore che una classe dirigente degna di questo nome non avrebbe fatto. Anche se va aggiunto, per amore di verità, che la timidezza del governo è anche il risultato dell’immaturità dell’opposizione: se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizioni e parti sociali li avrebbero massacrati.

E’ paradossale, e duro da accettare, ma la lezione di questi giorni è anche questa: la paura suscitata dai mercati rende possibili oggi al governo scelte che – senza quella paura – sarebbero state semplicemente impraticabili, perché avrebbero richiesto un’opposizione seria, disponibile al dialogo sulle riforme economico-sociali anziché ossessionata dall’incubo della democrazia in pericolo.

Ma non è solo la sfrontatezza del governo che mi ha fatto cambiare atteggiamento sulla manovra. E’ la lettura dei suoi contenuti che mi ha lasciato alquanto perplesso. E questo sotto almeno tre profili: equità, rigore, futuro.

Equità. Ci sono anche cose ragionevoli, per non dire sacrosante, ma la misura centrale, il «contributo di solidarietà» sui redditi superiori a 90 mila euro, è profondamente ingiusta. Essa infatti colpisce una minoranza di cittadini (poco più dell’1%) che ha due sole colpe: guadagnare più di 4000 euro netti al mese, e pagare le tasse. A parte l’ipocrisia della parola solidarietà (la solidarietà non può essere coatta), un prestito semantico necessario per ingraziarsi i sindacati e nascondere che si tratta – né più né meno – di un innalzamento dell’aliquota marginale Irpef, la misura è iniqua perché i ricchi «nominali» sono una piccola frazione (tra il 5% e il 10%) dei ricchi «reali».

Bastano pochi elementari confronti – ad esempio sui consumi di lusso, o sui patrimoni finanziari e immobiliari – per capire che almeno il 90% dei veri ricchi sono evasori fiscali, che vivono nell’abbondanza ma dichiarano redditi da ceto medio. Meglio, molto meglio anche sotto il profilo del gettito, sarebbe stato agire con una piccolissima imposta sul patrimonio (tipo il 5 per 10.000). Almeno avrebbero pagato anche gli evasori.

Così, sempre sotto il profilo dell’equità, sarebbe stata doverosa una esplicita differenziazione fra territori-formica, che producono molto ed evadono poco, e territori-cicala, che producono poco ed evadono molto. Alle amministrazioni più virtuose, proprio perché hanno già razionalizzato la spesa, non si possono imporre gli stessi tagli che si chiedono alle amministrazioni che hanno ancora un lungo cammino di risanamento da compiere.

Rigore. Qui le obiezioni sarebbero moltissime, per cui mi limito a quattro esempi: manca un piano di dismissioni del patrimonio pubblico; manca un intervento incisivo sulla previdenza (in particolare su chi è andato in pensione prima dei 50 anni); diverse misure, a partire dal contributo di solidarietà, non hanno carattere strutturale; l’idea di togliere le tredicesime ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche che spendono troppo è peregrina in assenza di obiettivi di budget ben studiati e se prima non si ristabilisce il «comando» nei pubblici uffici, due precondizioni che mancano del tutto.

Futuro. Ma è soprattutto sulle prospettive future del Paese che la manovra, così come si profila in queste ore, appare più deludente. Il nostro problema centrale, la nostra palla al piede, è il debito pubblico. Pensare di risolvere questo problema senza accelerare la crescita, senza portarla dallo stentato 1% attuale ad almeno il 2%, è pura illusione. Se non torneremo a crescere a un ritmo decente non ci saranno né posti di lavoro per i giovani e per le donne, né soldi per completare il nostro stato sociale, che è ipertrofico dal lato delle pensioni ma rachitico su tutto il resto.

Ma nella manovra, per riconoscimento unanime, quel che manca sono proprio le due misure fondamentali per la crescita: riduzione della pressione fiscale sui produttori, abbattimento del numero di adempimenti per le imprese. E al loro posto, incredibilmente, compaiono ulteriori aggravi per lavoratori autonomi e società: dalla «rimodulazione» degli studi di settore per i primi, alla riduzione – per le seconde – della possibilità di abbattimento delle perdite.

Può darsi che quel che non si vede oggi spunti domani dalla delega fiscale. Può darsi che il governo si decida ad alzare l’Iva sui beni di lusso, a ridurre la selva delle esenzioni ed agevolazioni dei regimi fiscali. Ma se una parte cospicua di questi risparmi non verrà usata per dare ossigeno all’Italia che produce e che compete, se – come purtroppo è avvenuto finora – ogni centesimo di gettito recuperato andrà a finire nel calderone del bilancio pubblico senza alleggerire la pressione fiscale sui produttori, allora temo che anche i sacrifici che ora ci vengono richiesti finiranno per essere stati vani. (Beh buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

E’ inefficace, inutile, dannosa, classista: ecco la “manovra-schifezza” secondo Eugenio Scalfari.

di EUGENIO SCALFARI-laRepubblica
Sintesi della manovra per Berlusconi: “Il mio cuore gronda sangue, ma ho dovuto farlo per il bene del Paese”.

Sintesi della manovra per Tremonti: “La mia coscienza è tranquilla perché ho operato per il bene del Paese”.

Sintesi della manovra per noi commentatori cattivi secondo il ministro Sacconi: “È una tardiva e inutile schifezza”.

Queste sono le sintesi, ma ora andiamo alle analisi. Questo decreto-manovra che modifica dopo appena due settimane il decreto approvato in tre giorni dal Parlamento, rappresenta il combinato disposto d’un asprissimo conflitto tra Berlusconi e Tremonti nel corso del quale l’uno e l’altro si sono paralizzati a vicenda. Il primo aveva come sponda e come scusante Mario Draghi e la Bce, il secondo combatteva da solo e con un braccio legato da una catastrofe incombente da lui non prevista.

Berlusconi avrebbe voluto aumentare l’Iva di uno o due punti, Tremonti gliel’ha impedito dimostrandogli che il gettito sarebbe stato insufficiente e il rischio di inflazione elevato.

Tremonti voleva un’imposta di scopo sulla ricchezza, analoga a quella che fu varata da Prodi per l’entrata nell’euro. Berlusconi gliel’ha impedito. Berlusconi voleva sbloccare 15 miliardi che i concessionari di beni pubblici erano in grado di mobilitare subito per investimenti in infrastrutture a cominciare dalle autostrade, porti, aeroporti, ferrovie. Tremonti gliel’ha impedito.

Tremonti voleva tassare la prima casa. Berlusconi gliel’ha impedito. Bossi, terzo incomodo,

non voleva che fossero manomesse le pensioni d’anzianità. In parte c’è riuscito ed ora ne mena vanto.

Il decreto esce oggi in “Gazzetta Ufficiale” ed è il risultato di questa singolarissima collaborazione tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia. Una collaborazione perversa che non è mai avvenuta in nessun Paese del mondo dove, quando si manifestano dissidi e versioni così contrapposte uno dei due contendenti (di solito il ministro) rassegna le dimissioni. Da noi no, dimettersi non si usa, c’è sempre uno Scilipoti a tenerli a galla.

Domani in tutto il mondo riaprono i mercati perché il ferragosto è una vacanza solo italiana. Noi commentatori cattivi speriamo di tutto cuore che questo aborto di manovra sia preso sul serio a Francoforte, a Parigi, a Londra, a Wall Street. Ma se così non sarà, saranno guai terribilmente seri.

* * *

C’è stato un preludio alla manovra-schifezza. Il ministro dell’Economia era profondamente offeso da come i giornali della famiglia regnante (ma non solo loro) l’avevano trattato. E ancor più offeso dal fatto che il presidente del Consiglio aveva pubblicamente assunto come sua guida il governatore Draghi che lui vive come un trave in un occhio. Chiese perciò, a tutela della sua reputazione, l’immediata nomina di Vittorio Grilli, attuale direttore generale del Tesoro e suo fidato seguace, a governatore della Banca d’Italia. Berlusconi chiamò Letta e l’incaricò di darsi da fare: voleva evitare che Tremonti si dimettesse in uno dei suoi sempre più frequenti attacchi di rabbia.

Letta non trovò di meglio che chiedere l’aiuto di Bersani, ma aveva scelto molto male l’eventuale aiutante o forse l’aveva scelto benissimo. Bersani fece quello che onestamente riteneva giusto: informò Napolitano di quanto gli veniva chiesto. La nomina del governatore è un atto complesso e il presidente della Repubblica ne è uno degli attori principali. Perciò dal Quirinale avvertirono Letta che una richiesta del genere in un momento così agitato sarebbe stata respinta. Come preludio alla manovra non c’è male.

Ma ci fu anche un altro preludio, passato quasi sotto silenzio benché gravido di presagi: la Banca d’Italia diramò venerdì la notizia che il nostro debito sovrano aveva toccato la sua punta massima, pari a 1.900 miliardi, un rapporto del 120 per cento rispetto al Pil valutato per quest’anno all’1,1. Se il Pil dovesse ulteriormente scendere come probabilmente avverrà, quel rapporto sarà ancor più elevato.

* * *

Di buono nel decreto-schifezza c’è una sola cosa e ci sembra doveroso darne atto: l’abolizione d’una trentina di Provincie e dei relativi Prefetti e Questori, più i loro cospicui “indotti”. E l’accorpamento dei Comuni piccoli e piccolissimi.

Era un progetto da tempo allo studio, dall’epoca del governo Prodi del ’96, ma mai approdato in Parlamento. È stato tirato fuori dal ministro Calderoli col forcipe dell’emergenza. Si tratta d’una riforma vera e strutturale. Bravo Calderoli. A sentirlo ieri nella conferenza stampa con Tremonti e Sacconi, sembrava uno statista al punto da farci dimenticare il ministro che disse d’aver abolito 476mila leggi semplificando lo Stato. Di quella semplificazione nessuno si è accorto, nessun cittadino, nessun contribuente, nessun utente e nessuna istituzione. Il ministro che ieri parlava da statista ha avuto la dabbenaggine di ricordarcelo. Dia retta: non ne parli mai più, consideriamolo un videogame e cerchiamo di scordarci tutti di quella pagliacciata.

Una parola viene qui acconcia a proposito del ministro Sacconi il quale durante la conferenza stampa di ieri ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché postergarla l’età dei pensionati. Mancava però il contesto in cui quell’attacco andava collocato. Prodi si era trovato di fronte allo “scalone” di Maroni e l’aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.

Egregio ministro, lei appartiene ad un governo di cui c’è solo da vergognarsi. Ma noi, commentatori cattivi, cerchiamo di collocare nel contesto perfino lei. Pensi dove arriva la nostra pietà cristiana e cerchi – se può – di fare altrettanto.

* * *

La manovra-schifezza per anticipare il pareggio del bilancio ha bisogno di almeno 20 miliardi subito e li ha trovati in questo modo: 8 miliardi e mezzo di tagli ai ministeri nel biennio 2011-12; 10 miliardi e mezzo di tagli a enti locali e Regioni; 1 miliardo dalle rendite tassate al 20 per cento, un altro miliardo dal contributo dei redditi oltre i 90mila e i 150mila euro. Il totale fa 21 miliardi, dei quali 19 da ministeri ed enti locali. Questi ultimi significano semplicemente altre tasse locali e/o azzeramento dei servizi.

Non parliamo della macelleria sociale, per altro notevole; parliamo del fatto che, dopo questi 21 miliardi ne restano ancora da reperire 27 per arrivare al totale dell’operazione. Dove andarli a cercare? La risposta c’è: nella delega assistenziale, nello sfoltimento delle detrazioni, nelle pensioni di invalidità, di reversibilità, nei costi della Sanità.

Tutto spremuto e ridotto all’osso si arriva sì e no a 7-8 miliardi. Ne restano altri 20, sui quali c’è il buio assoluto.
Schifezza perché pagano solo i meno abbienti e i soliti noti. Insufficienza perché questa schifezza non basta. E infine non c’è assolutamente niente che finanzi provvedimenti di crescita. Il Tremonti della conferenza stampa rispondendo alla domanda di un giornalista ha detto: “Io sto alle previsioni dell’Istat: il Pil crescerà quest’anno dell’1,1 per cento. Le liberalizzazioni che faremo potranno aumentare questa cifra dello 0,1 nel breve periodo. E poi la crescita non dipende da noi ma dall’America e dall’Europa”.

Questa è l’analisi della manovra.

* * *

La sorpresa di ieri è il contropiano di Bersani. Fatti salvi i suoi giudizi politici su un governo irresponsabile, sugli errori macroscopici di previsione, sul mancato ascolto di quanto da molti mesi propongono le opposizioni e le parti sociali, giudizi sui quali coincidono quelli dei cattivi commentatori, il contropiano si articola così:

1) prelievo “una tantum” sui capitali illecitamente esportati e poi rientrati in Italia con uno scudo fiscale ottenuto pagando soltanto il 5 per cento dell’ammontare. Negli altri paesi europei che fecero analoghe operazioni il prelievo fu mediamente del 30 per cento. Il Pd propone ora una tassa del 20 per cento che frutterebbe all’erario 15 miliardi.

2) Una lotta all’evasione seguendo lo schema che fruttò, quando Visco era ministro delle Finanze, 30 miliardi in un anno, basati sulla tracciabilità dei pagamenti e sull’elenco dei fornitori.

3) Una descrizione del patrimonio da effettuare ogni anno come allegato alla dichiarazione dei redditi.

4) Un’imposta ordinaria sui cespiti immobiliari ai valori di mercato, con ampie esenzioni sociali e inglobando le imposte comunali relative agli immobili.

5) Dimezzamento dei parlamentari dalla prossima legislatura.

Questi sono solo alcuni dei punti ai quali si affiancano liberalizzazioni negli ordini professionali, della Rc auto, dei mutui e dei conti correnti bancari, dei servizi pubblici locali (acqua esclusa) nonché la separazione della Rete gas dalla Snam.

Il pacchetto poggia interamente sul presupposto che debbano esser messi a contributo i ricchi e gli evasori e non le famiglie, i lavoratori e le imprese che sono già oberati oltre misura.

* * *

Sarà interessante assistere al confronto tra queste due filosofie. Berlusconi ha fatto molte aperture all’opposizione. È la prima volta. Se accettasse di ritassare i “patrimoni-scudati” sarebbe una vera bomba.

L’accetterebbe anche Tremonti? E come l’accoglierebbero i mercati?

Maledetti benedetti mercati. Avete svegliato i dormenti, ridato l’udito ai sordi e la vista ai ciechi. Ma purtroppo non possedete la magia di evitare la recessione ed è questa la vera minaccia che grava su tutto l’Occidente e non solo.

Sta calando la domanda globale e il rigore che i mercati pretendono aggraverà quel calo. Della crescita questo governo se ne infischia. A noi sanguina il cuore. A Sacconi no, lui sogna di poter mandare la Camusso in galera e solo allora si addormenterebbe in pace nella convinzione d’aver operato per il bene del paese. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Ancora Mario Monti sul Corsera a palle incatenate contro il governo: «tassa per i ritardi italiani malgrado l’Europa» e non certo «tassa dell’Europa».

di MARIO MONTI-Il Corriere della Sera

Venerdì il governo ha preso decisioni che avranno notevole impatto sull’economia e la società italiana e questa volta, come era atteso da tempo, anche sul settore pubblico. Le singole misure sono analizzate e commentate in altre parti del giornale. Qui vorrei mettere in luce una scelta di fondo di cui non si è parlato, ma che non deve essere stata facile per il Presidente del Consiglio. Una scelta che, per le sue implicazioni, potrebbe cambiare l’impostazione di politica economica del governo Berlusconi nella parte restante di questa legislatura.
Di fronte alle perentorie richieste dell’Europa e dei mercati, il governo ha dovuto scegliere tra la via dell’irredentismo e la via della redenzione.

Avrebbe potuto cercare di sottrarsi alle indicazioni del «podestà forestiero» (l’articolo di domenica scorsa, 7 agosto, ha dato luogo a un dibattito sul quale tornerò prossimamente) e rivendicare con spirito irredentista un maggiore spazio, quello che l’Unione Europea normalmente riconosce, per le scelte politiche nazionali. Invece ha deciso, con lucidità e rapidità, di imboccare una strada di redenzione o, in termini più asettici, di modifica di alcuni connotati di fondo che avevano caratterizzato, fin dall’inizio, l’impostazione di politica economica del governo.

E’ comprensibile che l’inversione di rotta venga ora attribuita per intero all’aggravamento, innegabile, della crisi internazionale. Ma quei limiti – di natura politica, non tecnica – erano evidenti da molto tempo ed erano stati segnalati da più commentatori.

Il ministro dell’Economia, di cui molti tendono oggi a dimenticare il merito di aver saputo mantenere un certo rigore di bilancio con un governo e una maggioranza poco inclini a tale virtù, non ha affrontato, né forse valutato, adeguatamente i problemi della competitività, della crescita, delle riforme strutturali indispensabili per rimuovere i vincoli alla crescita (il federalismo fiscale, oggi oggetto di dibattiti accesi, è stato spesso presentato come la riforma strutturale introdotta da questo governo).

Il Presidente del Consiglio, da parte sua, non ha mai mostrato di considerare l’economia – tranne l’agognata riduzione delle tasse – come una vera priorità del suo governo, né ha mai assunto un visibile ruolo di coordinamento attivo e di impulso della politica economica, come fanno da tempo gli altri capi di governo. Essi lo esercitano soprattutto nel promuovere la crescita, assistiti da un ministro dell’economia reale o dello sviluppo di alto profilo, oltre che nel garantire copertura politica al ministro finanziario, nella sua azione rivolta prioritariamente alla disciplina di bilancio. Negli ultimi tempi, invece, Berlusconi pareva spesso infastidito dall’arcigno Tremonti e dai suoi «no» agli altri ministri, più che dedicarsi alla guida strategica dello sviluppo, in raccordo con l’Europa (due responsabilità a lungo lasciate scoperte di titolari).

Negli ultimi giorni, tutto pare cambiato. Il Presidente del Consiglio ha preso visibilmente la guida. Si è schierato, per amore o per forza, dalla parte del rigore. Almeno su questo, non dovrebbero più esserci contrapposizioni con il ministro dell’Economia.
Entrambi, dopo avere prestato scarsa attenzione alle raccomandazioni rivolte loro per anni dalla Banca d’Italia, si premurano di seguire ora le indicazioni – molto simili! – della Banca Centrale Europea.

È una svolta positiva e importante, pur se avvenuta nella precipitazione e perciò con due conseguenze negative. Le misure adottate, che potrebbero ben chiamarsi «tassa per i ritardi italiani malgrado l’Europa» e non certo «tassa dell’Europa», non hanno potuto essere studiate con il dovuto riguardo all’equità e gravano particolarmente sui ceti medi. Inoltre, la priorità crescita, pur sottolineata dalla Commissione europea e dalla Bce, rischia di essere vissuta come «meno prioritaria», nella situazione di emergenza in cui l’Italia, soprattutto per sua responsabilità, è venuta a trovarsi.

Crescita ed equità. Come molti osservatori hanno notato, è ora su questi due grandi problemi, trascurati nei primi tre anni della legislatura, che l’azione del governo, delle opposizioni e delle parti sociali dovrà concentrarsi, con un comune impegno come auspica il Presidente Napolitano. E ciò, ben inteso, non a scapito della finanza pubblica, ma anzi per rendere duraturi i progressi realizzati in quel campo.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

L’Unione Sindacale di Base a testa bassa contro la manovra.

(riceviamo e pubblichiamo)
USB: LEONARDI: RESPINGERE LA PIU’ PESANTE MANOVRA DEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI
SCIOPERO DI DUE ORE DI TUTTO IL PUBBLICO IMPIEGO IL 9 SETTEMBRE, POI SCIOPERO GENERALE NAZIONALE.

Leonardi USB: “Una vera e propria manovra contro la gente comune, i lavoratori, il Paese. Dentro c’’ e’di tutto meno quello che davvero servirebbe, cioè sganciare l’Italia dalla morsa della speculazione finanziaria e dai diktat dell’Europa. 79 Miliardi di euro a luglio, 45 ad agosto e non è detto che ci si fermi qui riuscendo a non toccare i veri ricchi, quel 10% delle famiglie che detiene oltre il 50% della ricchezza del Paese e quelli che evadono per oltre 120 miliardi di euro l’’anno.”

“Il Governo se la prende ancora con i lavoratori a reddito fisso- – prosegue Leonardi- come i lavoratori pubblici che saranno chiamati a pagare con le loro scarne tredicesime ( quelle con cui si paga il mutuo!) l’’inettitudine di una dirigenza lottizzata ed incapace, che saranno ridotti (licenziati?) in ragione del 10% del personale delle amministrazioni centrali e che vedranno il proprio TFR, scampato grazie ad una forte resistenza alla trappola dei fondi pensione, erogato dopo due anni.

I nuovi enormi tagli, dopo quelli di luglio, agli enti locali e il via libera alle privatizzazioni di ogni servizio pubblico produrranno un aumento esponenziale della tassazione locale e un attacco mortale a ciò che rimane del welfare.

L’’attacco definitivo e per legge al contratto nazionale di lavoro è un altro regalo ai padroni che potranno così disporre, assieme ai sindacati complici, della vita dei lavoratori nei luoghi di lavoro”.

USb CHIAMA IMMEDIATATAMENTE TUTTI I LAVORATORI ALLA MOBILITAZIONE E INDICE UN PRIMO SCIOPERO DI DUE ORE PER TUTTO IL PUBBLICO IMPIEGO IL 9 SETTEMBRE E RINNOVA L’APPELLO ALLE FORZE DEL SINDACALISMO CONFLITTUALE A COSTRUIRE AL PIU’ PRESTO ASSIEME LO SCIOPERO GENERALE E GENERALIZZATO
Roma, 13 agosto 2011 (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

I tagli al welfare infiammano gli animi, gli incendi di Londra potrebbero facilmente dilagare in tutta Europa.

“La gente non decide da un giorno all’altro di appiccare le fiamme. È un lungo processo. Sono tutti gli abusi subiti, tutto il malcontento covato per anni a scoppiare. Ecco cosa succede quando una comunità viene abbandonata a se stessa, quando la politica non se ne fa carico. Condanno le violenze, ma solo in parte. Condanno molto di più la violenza economica: la disoccupazione, la mancanza di opportunità che nega ai giovani un futuro. È una violenza che non viene riconosciuta. Ci si sofferma sul sintomo e non sulla patologia: il sintomo sono le violenze di sabato, ma la patologia è l’alienazione di un’intera comunità lasciata a se stessa”. (Lee Jasper, attivista per i diritti delle minoranze in UK-dichiarazione raccolta da Rosalba Castelletti per la Repubblica)- Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia Lavoro Media e tecnologia Popoli e politiche

Proteste e movimenti in tutta Europa:”è indispensabile comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi.”

di ALAIN TOURAINE (traduzione di Elisabetta Horvat) -la Repubblica.

TRA i movimenti sorti in vari Paesi europei, il più importante è quello degli indignados, dal titolo del pamphlet di Stephane Hessel, pubblicato in Francia con un successo eccezionale, che si misura in milioni di copie. La loro protesta non è rivolta contro la politica di un governo, ma contro i sistemi politici in quanto tali. I giovani che manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che ai loro occhi non rappresentano più l’ opinione pubblica, e quindi svuotano la democrazia di ogni suo significato.

In questo grande movimento per una risurrezione democratica alcuni gruppi mettono addirittura in discussione la stessa democrazia, come sempre avviene nelle frange più radicali dei movimenti che si oppongono alle istituzioni politiche. Ma finoraè preminente la volontà di dar vita a una democrazia diretta, assembleare, all’ insegna delle assemblee generali delle università francesi nel maggio 1968. In Spagna questo movimento ha provocato la massiccia sconfitta dei socialisti alle elezioni, soprattutto in Catalogna.

In Grecia l’ opposizione nazionalista ha contestato con più forza gli accordi proposti dall’ Europa e dall’ Fmi per scongiurare il fallimento del Paese. Alla fine però questi accordi sono stati approvati, evitando alla Grecia una situazione catastrofica, che avrebbe messoa repentaglio l’ esistenza stessa dell’ euro. Se è vero che l’ opinione pubblica è stata largamente informata della loro esistenza, di fatto questi movimenti, sorti innanzitutto grazie alla comunicazione diretta attraverso le reti sociali quali Facebook o Twitter, non sono stati definiti con sufficiente chiarezza dai media, e in particolare dalla televisione.

È indispensabile invece comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi. Ciò che mettono in discussione è innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri termini, respingono l’ idea, insita nella rappresentazione classica della vita politica in Europa, che le rivendicazionie le proteste sociali e culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’ espressione più o meno completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo dei partiti politici.

Ecco perché dobbiamo porre la domanda più generale sollevata da questi movimenti: quale può essere oggi la base di legittimità dell’ azione politica? La sola formulazione di questa domanda ci getta nella confusione e nell’ inquietudine, anche perché tutti riconoscono che i partiti, i sindacati e le altre organizzazioni politiche hanno perduto gran parte della loro legittimità. La situazione è particolarmente inquietante in un Paese come la Spagna, entrato nella vita democratica solo dopo la morte di Franco, nel 1975 – anche se qui i timori non sono del tipo classico, dato che nessuno immagina la preparazione di un colpo di stato militare o di qualche altra azione antidemocratica.

Si può incominciare a comprendere meglio la natura e l’ importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una gioventù che si sente privata della propria qualità di cittadini ad opera dei politici, in particolare di sinistra – i quali a loro volta si considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto globale. Si spiega così la forza della carica emotiva di questi movimenti, e dell’ impegno dei partecipanti, che solo in misura minore fa riferimento al conflitto di interessi aperto tra i cittadini e una logica economica che rifiuta qualsiasi intervento degli attori, accusandoli di essere impotenti a livello mondiale. Per gli ideologi della globalizzazione tutto-e in modo particolare la vita politica – deve assoggettarsi alla logica del progetto economico mondiale.

Nel riconoscere la propria impotenza, i partiti tradiscono gli interessi, e soprattutto le esigenze e i progetti di chi ha perso ogni fiducia in loro, e nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Il razionalismo politico che animava le idee e le prassi della democrazia rappresentativa è al tracollo; i giovani non credono ormai più nella capacità d’ azione delle istituzioni politiche. È qualcosa di più di una crisi economica e persino politica. Siamo in presenza di una crisi più generale, di perdita di senso, non di una politica, ma della politica stessa.

Questa crisi della politica mette in discussione più particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’ intendono come i difensori dei diritti e delle libertà della popolazione. Al di là del problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile, non siamo più nell’ ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità del sistema sociale.

Nel caso italiano, la lotta si concentra innanzitutto su Silvio Berlusconi, sia come individuo che come capo del governo; e ciò spiega il suo carattere meno radicale,a confronto col livello raggiunto in breve tempo dal movimento spagnolo. Ma in Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori, delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un potere autoritario. Non ho parlato di movimenti rivoluzionari: ho forse sbagliato?

Sappiamo che una crisi politica può diventare rivoluzionaria se si verifica un incidente, una scintilla, come nei casi dei manifestanti uccisi dalle forze armate o dalla polizia, o di chi si è immolato per rovesciare il potere costituito con le sue insopportabili imposizioni. Di fatto però, i movimenti attuali sono lontani dall’ essere rivoluzionari, data l’ estrema distanza tra le motivazioni dei partecipanti e le categorie delle azioni politiche possibili. Ma andiamo oltre: i movimenti attuali possono avere in sé alcuni elementi di debolezza, se non addirittura di autodistruzione, dato che il rifiuto dell’ azione dei partiti può ridurli a trovare il proprio dinamismo soltanto nel timore della repressione e delle lotte interne. L’ azione fondata sulla paura può indurre i movimenti ad anteporre la propria unità a qualunque altro obiettivo. Con come conseguenza il rischio di scissionia catena,o al contrario quello di un nuovo orientamento in senso autoritario. La primavera araba potrà far rinascere in quei Paesi la capacità d’ azione politica solo se ad animarla non sarà la paura del nemico, ma la volontà di affermare i diritti di tutti, al disopra di qualunque obiettivo propriamente politico.

In generale, le rivoluzioni conducono in brevissimo tempo a nuovi regimi autoritari, imposti con la forza. Una soluzione democratica non può venire che da una separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le ricostituite forze politiche. Quanto più un movimento è forza di liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità di far rinascere una democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto.

Se i Paesi occidentali sognano di istituire nel mondo arabo democrazie di tipo occidentale, assegnando la priorità ai partiti politici, non faranno che contribuire alla decomposizione dei movimenti. Al contrario, solo proteggendo i movimenti da tutti gli attacchi, e in particolare da quelli provenienti dai regimi autoritari, si potranno rafforzare le opportunità della democrazia; in altri termini, qui la priorità va data ai movimenti, a fronte di ogni tentativo di ricostruzione di attori propriamente politici.

Se anche in futuro il movimento sarà animato dalla volontà di far riconoscere le libertà politiche, vedrà rafforzate le sue opportunità di democratizzazione, mentre al contrario, quanto più la sua lotta tenderà a politicizzarsi, o addirittura a militarizzarsi, tanto più il suo futuro sarà incerto e minacciato. In Libia l’ iniziativa europea (e in misura minore quella americana) è stata indispensabile per fermare la controffensiva di Gheddafi con le sue prevedibili, brutali conseguenze; ma è urgente che essa si autoimponga dei limiti, per non condurre un movimento di liberazione a trasformarsi in guerra ideologica, e a farsi strumento di un nuovo potere autoritario.

Lo stesso ragionamento porta ad auspicare il rafforzamento del movimento degli indignados in Spagna e in Italia, e la sua trasformazione in Grecia, come forza di difesa dell’ opinione pubblica e non come forza propriamente politica. Sembra che i greci l’ abbiano compreso, dato che il loro parlamento ha finito per decidere di non lanciarsi in un’ azione di rottura col sistema europeo. (Beh, buona giornata).

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Cinema democrazia Lavoro Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media Teatro

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece una spinta dal basso, attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti?

Avevamo intuito che il Teatro Valle occupato sarebbe potuto presto diventare una piccola fucina incandescente di idee. In effetti, le assemblee e i dibattiti sembrerebbero contribuire a una sorta di consapevolezza, una specie di senso di appartenenza alla classe dei lavoratori cognitivi. E come tali, col tempo sentire di essere al centro di un attacco sociale strategico per la sopravvivenza della casta dei capitalisti finanziari europei, che, per difendere i loro interessi, hanno scatenato una guerra civile senza esclusione di colpi contro la cultura, l’istruzione e la scuola pubblica, l’università e la ricerca, il cinema e il teatro d’autore costringendo milioni di persone, nel miglior periodo della loro stessa vita alla schiavitù del precariato.

L’obiettivo è pagare le idee creative il meno possibile, spingere i talenti verso forme di intrattenimento, utili a generare profitti per i grandi media. L’intrattenimento è il nuovo oppio dei popoli. È stato giustamente definito la più potente arma di distrazione di massa: dopo la catastrofe finanziaria globale del 2008 e la immediata ripercussione sull’economie locali, la crisi economica pesta duro le classi sociali più deboli, e premia e arricchisce e fa sempre più proterve le classi dominanti e i sodali dei poteri forti.
Lo stato sociale è ridotto a un colabrodo dalle pervicaci politiche neoliberiste, la sinistra, geneticamente modificata nel centrosinistra si è indebolita, nello spirito e nel corpo elettorale, dunque non assolve più la funzione di spingere verso la redistribuzione controllata della ricchezza prodotta.

È vero, come sostiene qualcuno, che in Europa e in Nord Africa sta prendendo forma la coscienza collettiva di dover essere autonomi dalle istituzioni e dai partiti. È vero che le grandi proteste di massa che hanno attraversato il Vecchio Continente sono i prolegomeni di una insurrezione di massa contro le misure economiche imposte dagli organismi europei ai governi nazionali. Esse risultano sempre più inadeguate alla difesa dei redditi più bassi, mentre appare come una intollerabile provocazione di classe il fatto che sia cominciata la ripresa economica, mentre i salari continuano a scendere e la disoccupazione a salire.

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre i milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece, in barba al televoto, una spinta dal basso, autonoma e organizzata attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti, per dare vita a un nuovo ordine, a una nuova società europea, a nuovi principi economici e finalità produttive? Si riuscirà a combinare correttamente la produzione autonoma di energie rinnovabili con la produzione di nuove e promettenti idee di socialità e produzione di ricchezza?

Riusciranno la cultura, il sapere, le arti, la ricerca, la creatività a diventare il propellente di un potente motore di cambiamento, capace di spingere l’Europa a superare il Capitalismo? In Europa il capitalismo è nato, e dunque giusto sarebbe che qui se ne celebrasse il funerale.
(Beh, buona giornata).

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Appello di Giorgio Cremaschi e altri: 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.

Dobbiamo fermarli
5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.
Ci incontriamo il 1° ottobre a Roma

E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.

A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.

Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.
Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile.

La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.

Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale.

L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati.

L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.

Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.

La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.

Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.

Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.

Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.

Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:
1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.
2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.
3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.
4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.
5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.

Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.

Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.
Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.

Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.

Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.

Vincenzo Achille (studente AteneinRivolta Bari)
Claudio Amato (segr. Gen. Fiom Roma Nord)
Adriano Alessandria (rsu Fiom Lear Grugliasco)
Fausto Angelini (lavoratore Comune di Torino)
Davide Banti (Cobas lavoro privato settore igiene urbana)
Imma Barbarossa (femminista, docente di liceo in pensione)
Giovanni Barozzino (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Giovanna Bastione (disoccupata)
Alessandro Bernardi (comitato acqua, Bologna)
Sergio Bellavita (segr. naz. Fiom)
Sandro Bianchi (ex dirigente Fiom)
Ugo Bolognesi (Fiom Torino)
Salvatore Bonavoglia (Rsu Cobas scuola normale superiore Pisa)
Laura Bottai (impiegata, Filt-Cgil Arezzo)
Massimo Braschi (rsu Filctem TERNA)
Paolo Brini (Comitato Centrale Fiom)
Stefano Brunelli (rsu IRIDE Servizi)
Fabrizio Burattini (direttivo naz. Cgil)
Sergio Cararo (direttore rivista Contropiano)
Carlo Carelli (rsu Unilever, direttivo naz. Filctem Cgil)
Massimo Cappellini (Rsu Fiom Piaggio)
Francesco Carbonara (Rsu Fiom Om Bari)
Paola Cassino (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Stefano Castigliego (Rsu Fiom Fincantieri Marghera – Venezia)
Francesco Chiuchiolo (rsa ARES)
Eliana Como (Fiom Bergamo)
Danilo Corradi (dottorando Università “Sapienza” – Roma)
Gigliola Corradi (Fisac Verona)
Giuseppe Corrado (Direttivo Fiom Toscana)
Giorgio Cremaschi (pres. Comitato centrale Fiom)
Dante De Angelis (ferroviere Orsa)
Riccardo De Angelis (rsu Telecom Italia coord. lav. autoconvocati Roma)
Paolo De Luca (FP Cgil Comune di Torino)
Daniele Debetto (Pirelli Settimo Torinese)
Emanuele De Nicola (segr. Gen. Fiom Basilicata)
Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani)
Francesco Doro (Rsu OM Carraro Padova, CC Fiom)
Valerio Evangelisti (scrittore)
Marco Filippetti (Comitato Romano Acqua Pubblica)
Andrea Fioretti (rsa Flmu Cub Sirti coord. lav. autoconvocati Roma)
Roberto Firenze (rsu Usb Comune di Milano)
Eleonora Forenza (ricercatrice universitaria)
Delia Fratucelli (direttivo naz. Slc Cgil)
Ezio Gallori (macchinista in pensione, fondatore del Comu)
Evrin Galesso (studente AteneinRivolta Padova)
Giuliano Garavini (ricercatore universitario)
Michele Giacché (Fincantieri, Comitato Centrale Fiom)
Walter Giordano (rsu Filctem AEM distribuzione Torino)
Federico Giusti (Rsu Cobas comune di Pisa)
Paolo Grassi (Nidil)
Simone Grisa (segr. Fiom Bergamo)
Franco Grisolia (CdGN Cgil),
Mario Iavazzi (direttivo nazionale Funzione Pubblica Cgil)
Tony Inserra (Rsu Iveco, Comitato Centrale Fiom)
Antonio La Morte (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Massimo Lettieri (segr. Flmu Cub Milano)
Francesco Locantore (direttivo Flc Cgil Roma e Lazio)
Domenico Loffredo (delegato Fiom Pomigliano)
Pasquale Loiacono (rsu Fiom Fiat Mirafiori)
Francesco Lovascio (sindacalista Usb Livorno)
Mario Maddaloni (rsu Napoletanagas, direttivo naz. Filctem Cgil)
Eva Mamini (direttivo naz. Cgil)
Anton Giulio Mannoni (segr. Camera del lavoro di Genova)
Maurizio Marcelli (Fiom nazionale)
Gianfranco Mascia (giornalista)
Armando Morgia (Roma Bene Comune)
Antonio Moscato (storico)
Massimiliano Murgo (Flmu Cub Marcegaglia Buildtech, coord. lav. uniti contro la crisi Milano)
Alessandro Mustillo (studente universitario, Roma)
Stefano Napoletano (rsu Fiom Powertrain Torino)
Antonio Paderno (rsu Fiom Same Bergamo)
Alfonsina Palumbo (dir. Fisac Campania)
Alberto Pantaloni (rsu Slc Cgil Comdata, assemblea lav. autoconvocati Torino)
Marcello Pantani (Cobas lavoro privato Pisa)
Massimo Paparella (segreteria Fiom Bari)
Emidia Papi (esecutivo naz. Usb)
Pietro Passarino (segr. Cgil Piemonte)
Matteo Parlati (Rsu Fiom Cgil Ferrari)
Angelo Pedrini (sindacalista Usb Milano)
Licia Pera (sindacalista Usb Sanità)
Alessandro Perrone (Fiom-Cgil, coord. cassintegrati Eaton Monfalcone)
Marco Pignatelli (lavoratore Fiom licenziato Fiat Sata Melfi)
Antonio Piro (rsu Cobas Provincia di Pisa)
Ciro Pisacane (ambientalista)
Rossella Porticati (Rsu Fiom Piaggio)
Pierpaolo Pullini (Rsu Fiom Fincantieri Ancona)
Mariano Pusceddu (rsu Alenia Caselle-Torino, direttivo Fiom Piemonte)
Stefano Quitadamo (Flmu Cub Coordinamento cassintegrati Maflow di Trezzano S/N – Milano)
Margherita Recaldini (rsu Usb Comune di Brescia)
Giuliana Righi (segr. Fiom Emilia Romagna)
Bruno Rossi (portuale, in pensione, Spi-Cgil)
Franco Russo (forum “diritti e lavoro”)
Michele Salvi (rsu Usb Regione Lombardia)
Antonio Saulle (segreteria Camera del Lavoro Trieste)
Marco Santopadre (Radio Città Aperta)
Antonio Santorelli (Fiom Napoli)
Luca Scacchi (ricercatore università, segreteria FLC Valle d’Aosta, direttivo reg. Cgil VdA)
Massimo Schincaglia (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Yari Selvatella (giornalista)
Giorgio Sestili (studente AteneinRivolta Roma)
Giuseppe Severgnini (Fiom Bergamo)
Nando Simeone (coord. lav. autoconvocati, direttivo Filcams Cgil Lazio)
Luigi Sorge (Usb Fiat Cassino)
Francesco Staccioli (cassintegrato Alitalia, esecutivo Usb Lazio)
Enrico Stagni (direttivo Cgil Friuli Venezia Giulia)
Antonio Stefanini (direttivo FP Cgil Livorno)
Alessia Stelitano (studente AteneinRivolta Reggio Calabria)
Alioscia Stramazzo (rsa Azienda Gruppo Generali)
Antonello Tiddia (minatore Sulcis Filctem-Cgil)
Fabrizio Tomaselli (esecutivo naz. Usb)
Luca Tomassini (ricercatore precario Cpu Roma)
Laura Tonoli (segreteria Filctem-Cgil Brescia)
Cleofe Tolotta (Rsa Usb Alitalia)
Franca Treccarichi (direttivo FP Cgil Piemonte)
Arianna Ussi (coordinamento precari scuola Napoli)
Luciano Vasapollo (docente università La Sapienza)
Paolo Ventrice (rsu IRIDE Servizi)
Antonella Visintin (ambientalista)
Emiliano Viti (attivista Coord. No Inceneritore Albano – RM)
Antonella Clare Vitiello (studente Ateneinrivolta Roma)
Nico Vox (Rsu Fp-Cgil Don Gnocchi, Milano)
Pasquale Voza (docente Università di Bari)
Anna Maria Zavaglia (insegnante, direttivo nazionale Cgil)
Riccardo Zolia (Rsu Fiom Fincantieri Trieste)
Massimo Zucchetti (professore Politecnico Torino)

Per adesioni mail a:
– g.cremaschi@fiom.cgil.it
– burattini@lazio.cgil.it
– marco.santopadre1@tim.it

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