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Finanza - Economia Media e tecnologia

La crisi c’è e pesta duro: il finto clima di fiducia su presunti segnali di ripresa coincide con la scomparsa del termine “crisi”dai titoli dei giornali.

LA CRISI SULLA STAMPA
di Francesco Daveri da lavoce.info
Sembra tornare l’ottimismo tra gli imprenditori italiani, almeno secondo l’indagine Isae. E’ vero che la Borsa va meglio, ma l’indagine trimestrale sull’andamento della capacità produttiva mostra che nel primo trimestre 2009 le imprese manifatturiere hanno ulteriormente ridotto l’utilizzo degli impianti e segnalato maggiori difficoltà produttive. E allora da dove nasce il ritrovato clima di fiducia? Coincide con la scomparsa del termine crisi dai titoli dei quotidiani. Per valutare le prospettive economiche future conviene attenersi ai dati.

Secondo l’indagine condotta dall’Isae nei primi giorni di aprile su quattromila imprese, il clima di fiducia del settore industriale mostra un netto miglioramento e sale dal valore di 60,9 di marzo al 64,2 di aprile (+5 per cento rispetto al mese precedente), ritornando dunque a un valore superiore anche a quello registrato nel mese di febbraio.

IL RITORNO DELLA FIDUCIA

Le imprese sono diventate meno pessimiste sull’andamento di ordini e produzione e soprattutto relativamente ai livelli di produzione futura. In parallelo, procede il decumulo delle scorte di magazzino che invece si sono accumulate nei periodi di magra. Migliorano anche i giudizi delle imprese sulle condizioni di accesso al mercato del credito; rimane stabile la quota di imprese che si considerano razionate, con un aumento di coloro che ritengono di essere fortemente razionati e una diminuzione di coloro che hanno rifiutato il finanziamento a causa di condizioni più onerose.
Il pessimismo si va attenuando in modo piuttosto generalizzato, anche se con qualche differenza: particolarmente più fiduciosi sono i produttori di beni intermedi, rispetto ai produttori di beni di investimento, più duramente colpiti dalla crisi nei mesi scorsi, e quelli di beni di consumo, finora meno coinvolti. Anche a livello territoriale le valutazioni delle imprese migliorano ovunque: un po’ di più nel Nord Est, un po’ meno nel Nord Ovest e nel Centro-Sud.
Ci si può chiedere da dove venga tutto questo ottimismo. È vero che la Borsa va molto meglio rispetto al picco negativo di inizio marzo. Ma le Borse hanno previsto undici delle ultime sette riprese del ciclo; insomma, non sono certo immuni da quelle che nelle gare dei100 metri si chiamano “false partenze”. Per ora non abbiamo i dati sul Pil del primo trimestre: saranno pubblicati a metà maggio e tutti si aspettano un dato molto negativo. A conferma di questo, l’indagine trimestrale sull’andamento della capacità produttiva mostra che nel primo trimestre 2009 le imprese manifatturiere hanno ulteriormente ridotto l’utilizzo degli impianti e segnalato maggiori difficoltà produttive. Come minimo, ci sono ragioni di grande cautela sulle prospettive economiche future.

LA CRISI NEI TITOLI

Ventate di ottimismo in presenza di dati ancora molto incerti: chi ci capisce è bravo. Una possibilità è che le aspettative degli imprenditori sul futuro siano influenzate da quello che leggono sui giornali. A parità di quello che succede nella loro azienda, se leggono che le cose vanno male, tendono ad aspettarsi il peggio; se invece leggono che le cose vanno meglio, diventano ottimisti. Di questo, del resto, si lamentava il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nei mesi scorsi, quando i titoli dei quotidiani erano pieni di notizie allarmanti sulle prospettive dell’economia. E ora? Cosa sta succedendo al modo in cui la crisi viene trattata sui media? Esiste una correlazione tra il modo in cui si parla di crisi sui giornali e la ventata di ottimismo che pervade gli imprenditori?
Per provare a capire, si può guardare la frequenza con cui ricorre la parola “crisi” nei titoli dei cinque principali quotidiani italiani: Corriere della sera, La Repubblica, Il Sole 24Ore, La Stampa, Il Giornale. (1)
Il grafico “La crisi sui giornali” riporta in un riassunto un po’ rozzo, ma istruttivo, il numero di volte che la parola “crisi” è stata citata ogni settimana sulle cinque testate indicate, a partire dal fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008) fino a oggi. Anzi, fino al 20 aprile, il giorno in cui l’Isae ha chiuso la sua indagine sulle aspettative degli imprenditori. Nella tabella allegata, sono riportati i dati settimanali alla base del grafico, testata per testata e in totale.
Dalla figura e dalla tabella emergono varie indicazioni utili, certo meritevoli di approfondimento. Il numero di citazioni varia notevolmente di settimana in settimana, con due picchi (pari a più di 50 citazioni) quando è stato approvato il piano Paulson nella prima settimana di ottobre 2008 e quando il governatore della Fed Ben Bernanke ha azzerato i tassi di interesse sui Fed Funds. Il grafico mostra anche quando il numero di citazioni ha raggiunto il minimo: nelle settimane tra il 6 e il 19 aprile, in corrispondenza con l’enorme spazio attribuito dai media al terremoto. Più in generale, il grafico indica un marcato trend decrescente nel numero di citazioni tra il picco (locale) di 40 citazioni nelle settimane precedenti il G20 e le settimane seguenti, in cui il numero di citazioni settimanali scende, rispettivamente, a 32, 34, 29, 16 e 12. (2)
Insomma, tre delle otto settimane dal 15 settembre 2008 nelle quali la “crisi” è stata citata meno di 30 volte sono esattamente le settimane (1-20 aprile) in cui l’Isae ha effettuato la sua ultima rilevazione. In febbraio e fino all’inizio di marzo, invece, quando gli imprenditori si erano mostrati così pessimisti, anche a causa del cattivo andamento delle Borse, la media delle citazioni settimanali è stata di 32 e 35 rispettivamente, contro circa 20 nelle tre settimane antecedenti il 20 aprile.
Per quanto riguarda i singoli giornali, la tabella indica che il Giornale ha dato alla crisi mediamente meno enfasi delle altre testate all’incirca dalla fine di novembre fino all’inizio di marzo: 5,3 citazioni alla settimana contro 7,5 degli altri quattro giornali. Il Corriere e Repubblica hanno mantenuto alta l’attenzione dei loro lettori sull’argomento fino alla fine di dicembre. Più di recente, l’argomento crisi è tornato a apparire nei titoli abbastanza uniformemente su tutte le testate nelle settimane precedenti al G-20.

ATTENERSI AI DATI

I pochi dati qui riassunti sono certo insufficienti per trarre conclusioni definitive sulla relazione tra il modo in cui la crisi è trattata sui media e l’evolversi dell’umore degli imprenditori.
I dati riportati sono parziali perché non includono i giornali locali e, più in generale, perché non includono le citazioni dei Tg. Certamente, i lettori dei quotidiani si stancano di leggere tutti i giorni le stesse cose. Questo può spiegare perché la crisi – come mostra il grafico – ciclicamente scompare dai titoli. Un osservatore malizioso potrebbe vedere nel preponderante spazio mediatico assegnato al terremoto il più recente esperimento nell’applicazione di tecniche di distrazione di massa, care a tutti i governi. Ma il presidente del Consiglio possiede o controlla le Tv e solo uno dei cinque giornali considerati. In generale, rimane che la coincidenza tra il ritorno dell’ottimismo tra gli imprenditori e la scomparsa della crisi dai titoli dei quotidiani del mese di aprile suggerisce l’importanza di attenersi il più possibile ai dati, anziché alle opinioni politiche, nel seguirne l’andamento. (su lavoce.info sono disponibili grafici esplicativi che qui non sono stati riprodotti. Beh, buona giornata)

(1) La fonte è la Rassegna stampa della Camera dei Deputati. Ricerca dati a cura di Davide Baldi e Ludovico Poggi.
(2) Occorre precisare che individuare un trend con una serie così limitata di osservazioni è un esercizio certamente controverso dal punto di vista statistico. Con il tempo, sarà possibile raffinare l’analisi. È tuttavia importante cominciare a esaminare alcuni dati su un tema così ampiamente dibattuto.

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Finanza - Economia

Per il Papa la crisi è grave, per il papi è solo pessimismo.

(Fonte: Agi)
CRISI: PAPA, SITUAZIONE MONDIALE VERAMENTE PREOCCUPANTE
“Il mondo intero sta lottando con una situazione economica veramente preoccupante”. Ricevendo in Vaticano i membri della “Papal Foundation” che in Usa raccoglie fondi per le attivita’ caritative della Santa Sede, Benedetto XVI oggi ha descritto cosi’ la crisi economica, sottolinenando che “nei momenti come questi si e’ tentati di non considerare coloro che sono senza voce e pensare solo alle nostre difficolta'”. “Come cristiani – invece – siamo consapevoli, tuttavia, che specialmente quando i tempi sono difficili dobbiamo lavorare ancora piu’ duramente per assicurare che il messaggio consolatore del nostro Signore sia ascoltato”. “Piuttosto che ripiegarsi su noi stessi – ha spiegato – dobbiamo continuare a essere portatori di speranza, sostenere gli altri, specialmente coloro che non hanno nessuno e assisterli”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

Toh, il ministro Tremonti si è accorto che l’Italia è nella crisi fino al collo.

(da sole24ore.com)

Anno nero per l’economia italiana nel 2009. Il Pil è previsto in calo del -4,2%, ben oltre le ultime previsioni e in linea con il recente Word Economic Outlook del Fondo monetario internazionale.

È quanto stima il Tesoro nella Relazione unificata sulla finanza pubblica. Timidi segnali di ripresa solo l’anno prossimo, quando la crescita del Prodotto interno lordo tornerà positiva a +0,3%. «Nel 2009 – si legge nel documento – il Pil è stimato contrarsi del 4,2%, 2,2 punti percentuali in meno rispetto alla stima indicata nell’Aggiornamento del programma di stabilità dello scorso febbraio (-2%). Il profilo trimestrale prospetta una modesta ripresa a partire dal secondo trimestre del prossimo anno. Nel periodo 2010-2011 il Pil è proiettato crescere dello 0,7%».

Secondo la relazione del Tesoro è destinato a salire, come previsto, anche il debito pubblico: si attesterà quest’anno al 114,3% del Pil, per poi salire ancora al 117,1% l’anno prossimo e a 118,3% nel 2011. Il Tesoro ha rivisto quindi le stime in aumento: secondo le previsione contenute nell’Aggiornamento del Patto di stabilità interno, pubblicate a febbraio, il debito/Pil era visto quest’anno al 110,5%, l’anno prossimo a 112% e nel 2011 a 111,6 per cento.

In aumento, ovviamente, anche il rapporto deficit/Pil. Nel 2009, secondo le previsioni contenute nella Relazione unificata sulla finanza pubblica, il disavanzo si attesterà al 4,6% del Pil, superiore di 0,9 punti percentuali rispetto alla stima elaborata a febbraio nell’Aggiornamento del Patto di stabilità interno (3,7%). Il livello di indebitamento nel 2010 si attesterà sullo stesso livello del 2009, per iniziare a scendere a partire dal 2011, anno in cui dovrebbe collocarsi al 4,3 per cento.

Le prospettive economiche globali, si legge nel documento, «si sono deteriorate negli ultimi mesi», ma allo stesso tempo «sono aumentati gli sforzi tanto dei governi nazionali quanto degli organismi e delle sedi sovranazionali». Ora, quindi, «si guarda con qualche speranza alla possibilità di rallentamento dell’attuale fase di crisi». Il rallentamento della crisi – spiega ancora il ministero – «dipende da fattori numerosi e variabili: dal ristabilimento di un’adeguata crescita a livello mondiale alla conservazione del commercio mondiale; dal miglioramento della situazione occupazione fino a una nuova spinta verso il progresso sociale». (Beh, buona giornale).

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Società e costume

La sconcertante intervista alla fanciulla che chiama “il papi” il presidente del Consiglio dei Ministri del Governo italiano.

di Angelo Agrippa da corrieredelmezzogiorno.it

Il suo motto è «Amali tutti, ma non sposar nessuno». Noemi Letizia è una statuaria ragazza, di scintillante bellezza, figlia di un dipendente comunale di Napoli e di una bella signora di Portici, ex miss Tirreno, titolare di un negozio di cosmetici a Secondigliano che le fa da assistente-ombra. È per i diciotto anni di Noemi che Silvio Berlusconi è atterrato in gran segreto a Capodichino domenica sera e ha raggiunto il locale sulla circumvallazione di Casoria dove la festeggiata aveva radunato un centinaio di invitati.

Nell’appartamento di via Libertà a Portici Noemi ci accoglie in cucina, benché si faccia trovare già pronta, in abito lungo e capelli sistemati a boccoli dal parrucchiere, per la trasmissione tv «Stelle emergenti», condotta da Francesca Rettondini, che tutti i martedì su TeleA la impegna come ballerina-valletta-showgirl. «È stata la sorpresa più bella, quella di papi Silvio».

Noemi, lei chiama ‘‘Papi’’ il presidente Berlusconi?
«Sì, per me è come se fosse un secondo padre. Mi ha allevata».

Ha mai conosciuto qualcuno dei figli del Cavaliere?
«No, mai. Anche se lui mi ripete che gli ricordo Barbara, sua figlia. Che ora studia in America».

Com’è nata la vostra amicizia?
«È un amico di famiglia. Dei miei genitori». «Diciamo», interviene mamma Anna, «che l’ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista. Ma non possiamo dire di più».

Non capita a tutte le belle ragazze di ritrovarsi il presidente del Consiglio alla festa di compleanno?
«Infatti, io alla mia non l’aspettavo. È stata una vera sorpresa. Né ho mai raccontato in giro di questa amicizia così forte con Papi Silvio. Nessuno mi avrebbe creduta. Ora, invece, l’hanno visto tutti…»

Cosa le ha regalato?
«Una collana d’oro con un ciondolo».

Berlusconi è sempre stato presente alle sue feste di compleanno?
«No, ma non mi ha mai fatto mancare le sue attenzioni. Un anno, ricordo, mi ha regalato un diamantino. Un’altra volta, una collanina. Insomma, ogni volta mi riempie di attenzioni».

Suo padre non è geloso?
«Assolutamente no. È devotissimo di Papi Silvio».

E la mamma?
«Assolutamente no», risponde la signora Anna, «e poi gelosi di chi, di Silvio?». In cameretta, incorniciata, anche una foto con dedica del premier: “Ad Anna con gli auguri più affettuosi – 20 novembre 2008 – Silvio Berlusconi».

Noemi, lei frequenta il quarto anno della scuola per grafici pubblicitari?
«Sì, la Francesco Saverio Nitti di Portici e sono la prima della classe. La mia insegnante di italiano dice che ho inventato il ‘‘metodo letiziano’’: ho una grande capacità espressiva. Mi piace molto studiare».

Sa chi fu Nitti?
«Nitti…Nitti… Lo abbiamo anche studiato a scuola».

Fu un grande meridionalista e presidente del Consiglio.
«Ah, sì».

Cosa vorrà fare da grande?
«La showgirl. Ho studiato danza, ho iniziato a 6 anni. Ora sto seguendo un corso per guida turistica: al Maggio dei Monumenti sarò impegnata nel Duomo di Napoli. Mi interessa anche la politica. Sono pronta a cogliere qualunque opportunità, a trecentosessanta gradi. Ma non scenderò mai a compromessi».

Sa che ha provocato una fiammante polemica il fatto che Berlusconi vorrebbe candidare letterine e donne dello spettacolo alle europee?
«Fa bene, vuole ringiovanire. E poi se Papi pensa di fare così, stia certo che non sbaglia. Sceglie queste ragazze perché intelligenti e capaci. Non solo perché belle. Il mio motto in politica sarà: ‘‘Meno tasse, più controlli’’. Basta con i furbi che non rispettano le regole».

Lei vuole diventare showgirl e avviarsi all’attività politica. E lo studio?
«Papi Silvio mi ripete sempre che la prima cosa è studiare. Lo sa che ha fondato una università a Milano? L’anno prossimo vorrei frequentarla. Mi iscriverò a scienze politiche».

Noemi, lei ha girato anche un cortometraggio?
«Si chiama Scaccomatto. È stato presentato a Venezia a dicembre scorso. Io interpreto il ruolo della fidanzata di un politico. È tutta una storia di mafia, di intrighi, di caccia ad un diamante».

Insomma, una trama di grande attualità. Torniamo a Berlusconi?
«Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo. Resto ad ascoltarlo. Ed è questo che lui desidera da me. Poi, cantiamo assieme».

Quali canzoni?
«Non ricordo il titolo della sua preferita: aspetti che vedo sui suoi cd. Li ho tutti. Ma come fa quella… ‘‘Mon amour, lalalala’’»

Lei quali canzoni preferisce?
«A me piace la musica italiana. Non le canzoni classiche. I miei cantanti preferiti sono Laura Pausini, Tiziano Ferro, Nek. E poi c’è la colonna sonora di Scugnizzi, che io canto spesso con Papi Silvio al pianoforte o al karaoke».

Mi racconta qual è la sua barzelletta preferita tra le tante che il premier le racconta?
«Vi sono due ministri del governo Prodi che vanno in Africa, su un’isola deserta, e vengono catturati da una tribù di indigeni. Il capo tribù interpella il primo ostaggio e gli propone: ‘‘Vuoi morire o bunga-bunga?’’. Il ministro sceglie: ‘‘bunga-bunga’’. E viene violentato. Il secondo prigioniero, anche lui messo dinanzi alla scelta, non indugia e risponde: ‘‘Voglio morire!’’. Ma il capo tribù: ‘‘Prima bunga-bunga e poi morire».

Nei momenti di relax, Berlusconi cosa le confida?
«Fa tanto per il popolo. È il politico numero uno. Non dorme mai. Io non riuscirei a fare la sua stessa vita. Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte. Dice che vorrebbe mettersi su una barca per dedicarsi alla lettura. Talvolta è deluso dal fatto che viene giudicato male. Io lo incoraggio, gli spiego che chi lo giudica male non guarda al di là del proprio naso. Nessuno può immaginare quanto Papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore».

Perché?
«Ho perso un fratello, Yuri, sette anni fa. A causa di un incidente stradale. Ora è il mio angelo custode».

Noemi, per quale squadra tiene?
«Sono patriottica, tifo Napoli. Poi, la mia seconda squadra è il Milan».

Noemi, quando la vedremo in politica, alle prossime regionali?
«No, preferisco candidarmi alla Camera, al parlamento. Ci penserà Papi Silvio».

(Beh, buona giornata).

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Natura Popoli e politiche Salute e benessere

La rivista “Nature” conferma le affermazione del principe Carlo: “Ci restano solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno. Poi la storia ci giudicherà. E se non agiremo, i nostri nipoti non potranno mai perdonarci”.

“Se non si agisce subito
tra 20 anni sarà catastrofe”
Sull’ultimo numero della rivista “Nature” le ricerche di autorevoli istituti che danno base scientifica alle affermazioni fatte qualche giorno fa a Roma dal principe Carlo di ANTONIO CIANCIULLO da repubblica.it

Il principe Carlo lo aveva detto pochi giorni fa in maniera un po’ esoterica: “Ci restano solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno. Poi la storia ci giudicherà. E se non agiremo, i nostri nipoti non potranno mai perdonarci”. Qualcuno ha alzato il sopracciglio considerando questo nuovo campanello d’allarme sul cambiamento climatico un vezzo reale. E invece la base scientifica – pur con qualche approssimazione sulle date – c’è. Lo dimostra l’ultimo numero della rivista Nature che in The Climate Crunch mette assieme le ricerche di istituti molto autorevoli (dal Potsdam Institute for Climate Impact Research all’università di Oxford). Conti alla mano, risulta che se non si agisce immediatamente, nel giro di un paio di decenni subiremo un danno di portata catastrofica. Le lancette del count down vanno spostate: l’ora X non scatta più nel 2050 ma tra 20 anni.

E’ un risultato a cui si arriva seguendo due percorsi logici diversi e convergenti. Partiamo dal primo: le emissioni di carbonio. Gli scienziati hanno calcolato che, per contenere l’aumento di temperatura entro i 2 gradi (il livello oltre il quale il prezzo per l’umanità diventa altissimo), bisogna stare ben al di sotto del tetto complessivo di mille miliardi di tonnellate di carbonio. Dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo consumato quasi metà di questi mille miliardi. Al ritmo attuale di aumento delle emissioni ci giocheremmo la dote restante in una ventina di anni.

Quest’ordine di grandezza torna seguendo un altro ragionamento. Prendiamo la concentrazione delle emissioni di anidride carbonica: in atmosfera c’erano circa 280 parti per milione di CO2 all’alba della rivoluzione industriale, oggi abbiamo superato quota 385 e l’incremento è sempre più veloce: ormai ha superato le due parti per milione l’anno e si avvia verso le 3 parti per anno. Con un incremento di 3 parti per milione l’anno per arrivare a una concentrazione di 450 parti, che è il tetto da considerare invalicabile, ci vorrebbero per l’appunto una ventina di anni.

Tutto ciò ha dei risvolti pratici molto concreti perché l’analisi scientifica lascia aperte due opzioni. O supponiamo che un virus sconosciuto si sia impossessato dei migliori climatologi del mondo portandoli ad affermazioni prive di senso, oppure li prendiamo sul serio e tagliamo subito le emissioni serra che sono prodotte dal consumo di combustibili fossili e dalla deforestazione. La rivista Nature, poco incline a credere all’esistenza del virus che colpisce gli scienziati, arriva a questa conclusione: “Solo un terzo delle riserve economicamente sfruttabili di petrolio, gas e carbone può essere consumato entro il 2100, se vogliamo evitare un aumento di temperatura di 2 gradi”.

E non è detto che anche la stima dei 20 anni non risulti troppo generosa. James Hansen, che per anni ha guidato il Goddard Institute della Nasa, sostiene che il tetto va abbassato e bisognerebbe restare molto al di sotto delle 450 parti per milione. “Anch’io credo che bisognerebbe partire subito e mettere il mondo in sicurezza nell’arco di un decennio perché le capacità di recupero degli ecosistemi stanno arrivando al limite di rottura”, precisa il climatologo Vincenzo Ferrara. “Gli oceani e le foreste che finora hanno assorbito circa una metà del carbonio emesso dalle attività umane sono sempre meno in grado di continuare a svolgere questa funzione: se queste spugne di anidride carbonica smetteranno di catturarla il cambiamento climatico subirà un’accelerazione drammatica”.

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Finanza - Economia Lavoro

Una strano Primo Maggio:”Nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione.”

Il Primo Maggio di casa Agnelli di Gabrile Polo-Il Manifesto
Nel settembre 1920, al culmine del «biennio rosso», molte fabbriche italiane erano occupate dagli operai. La rivoluzione bolscevica e la crisi del sistema liberale davano un forte segno politico alle rivendicazioni dei lavoratori che – nello specifico – scioperavano e occupavano perché l’Associazione degli industriali aveva respinto le richieste sindacali di aumentare i salari a fronte dell’aumento dei prezzi e riconoscere i consigli dei delegati.

Il vecchio Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, nel giro di pochi giorni propose due diverse – e opposte – soluzioni a una lotta che bloccava completamente la produzione. Prima ventilò la possibilità di trasformare la Fiat in una cooperativa: se ne discusse un po’, ma l’idea rimase sospesa nell’aria. Poi si recò da Giovanni Giolitti, primo ministro dell’epoca, chiedendogli di liberare in qualche modo la fabbrica: il capo del governo gli rispose che a Torino c’era il «Saluzzo cavalleria» che avrebbe potuto bombardare la Fiat-centro in poche ore. Agnelli si ritrasse spaventato, pensando alla sorte di stabilimento e macchinari. Come finì lo sappiamo: gli operai isolati e sconfitti, Agnelli di nuovo alla sua scrivania, il fascismo alle porte. Nel ’900 la lotta di classe andava così.

Oggi siamo in tutt’altro mondo e il conflitto capitale-lavoro trova altre ipotesi risolutive e altri esiti. Forse meno cruenti, forse più sottilmente velenosi. Così, nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione. Saranno i fondi pensione della United Auto Workers a gestire i licenziamenti e la riduzione del costo del lavoro. Il vecchio Giovanni Agnelli sarebbe andato in brodo di giuggiole.

Curiosamente tutto ciò avviene alla vigilia del Primo Maggio, festa inventata in Europa nel segno della piena occupazione e della giornata lavorativa di otto ore, ma ispirata a un massacro di lavoratori avvenuto negli Stati uniti. Non si può dire che le condizioni di vita, il peso culturale e politico del lavoro abbiano, nel novello secolo, proseguito la «corsa emancipativa» che gli «inventori» dell’odierna Festa immaginavano inarrestabile.

L’accordo Fiat-Chrysler ne è un esempio evidente. Ma per capirlo non serve andare così lontano, basta guardarsi intorno. Come basta non essere ciechi per capire che in quelle condizioni troviamo lo specchio più evidente della vita contemporanea, dei suoi rapporti sociali, del nostro grado di civiltà. La politica se ne cale poco, se non in campagna elettorale. Quelli che – manifestando o festeggiano – scendono in piazza oggi, ben lo sanno. Anche se hanno poca voce, provando a ritrovarla. Anche se considerati maleodoranti dal papi del consiglio che, almeno oggi, non ci sarà. (Beh, buona giornata).

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Lavoro Leggi e diritto

Primo Maggio dedicato ai morti sul lavoro: il Capo dello Stato li onora, il Governo li nega.

(fonte. unita.it)
Per la Festa del Lavoro, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è recato nel piazzale antistante l’ingresso dell’Inail, nel quartiere Eur, e ha deposto una corona d’alloro ai piedi del monumento ai caduti del lavoro.
Il monumento fu inaugurato il primo maggio dell’anno scorso dallo stesso Napolitano e riproduce in una targa le parole che egli pronunciò dopo la tragedia alle acciaierie Thyssen di Torino: «Non ci sono più parole per esprimere sdegno e commozione. È Ora di decidere e agire».

Non si vuole solo onorare i morti, spiegò Napolitano, ma far riflettere i vivi ed esaltare il ruolo degli enti come l’Inail incaricati della prevenzione degli infortuni sul lavoro. Quest’anno il capo dello Stato è tornato davanti al monumento insieme a numerosi familiari delle vittime di morti bianche proprio in segno di continuità con l’impegno assunto con l’inaugurazione dell’anno scorso.

Poco prima, al Quirinale, Napolitano aveva invitato a «non abbassare la guardia», giudicando «un segnale positivo ma non sufficiente» il dato secondo il quale quest’anno ci saranno meno di 1200 morti sul lavoro. C’è anche il rischio, ha detto, che la crisi economica renda ancor più insicure le condizioni di lavoro di molti lavoratori dipendenti».

Contemporaneamente, il sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti, il leghista Roberto Castelli, afferma che si esagera con il conteggio dei morti sul lavoro.

Secondo l’ex ministro «serve un’operazione verità sul numero delle vittime degli incidenti sul lavoro. Bisogna depurare le cifre dei morti sul lavoro. Bisogna smettere di far credere che i morti in incidenti stradali verso e dal luogo di lavoro siano legati al problema della sicurezza sul lavoro – sostiene Castelli in una nota -. Non capisco perché le associazioni degli imprenditori accettino questa ipocrisia, che ci mette ingiustamente in fondo alle statistiche europee».

Il ministro non capisce perché chi lavora in condizioni non idonee, senza tutele, magari in nero e per orari molto superiori a quelli consentiti possa perdere il controllo dell’auto tornando a casa. Non lo capisce e ci tiene a farlo sapere proprio il Primo Maggio. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

“Il nuovo progetto deve portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro.”

La rivincita del lavoro italiano
di MARIO DEAGLIO-La Stampa

E’ ragionevole che dall’Italia si guardi alle tormentate vicende della Chrysler essenzialmente nell’ottica dei riflessi sul settore automobilistico italiano e quindi sulla Fiat. Per comprenderne bene il senso, tali vicende vanno però prioritariamente collocate nell’ambito di un radicale mutamento delle politiche del governo americano nei confronti delle industrie in crisi nell’attuale, difficilissimo passaggio dell’economia mondiale. La strategia adottata nei confronti della Chrysler non rientra infatti negli schemi di intervento pubblico a sostegno di imprese in difficoltà ai quali siamo abituati da oltre settant’anni. Siamo in presenza di tre fattori, di portata ancora incerta che segnano però in ogni caso una netta rottura con il passato.

Il primo fattore riguarda la forma del sostegno pubblico. Non si è deliberato un sussidio generico a un’industria privata, non c’è alcuna nazionalizzazione e neppure si può parlare di «irizzazione», in quanto la partecipazione pubblica diretta sarà molto limitata. Il governo americano compare invece in due vesti diverse: quella di finanziatore di uno specifico e imponente piano industriale di innovazione e di crescita.

E quella di «ispiratore autorevole» di un indirizzo generale (auto meno ingombranti, meno inquinanti e meno care, da realizzarsi con un partner straniero specificamente indicato) entro il quale i privati si assumono tutta la responsabilità operativa.

Il tutto avverrà – dopo una parentesi che si profila brevissima di amministrazione controllata che riguarda i partecipanti americani all’accordo e non muterà in nulla l’aspetto industriale – in un quadro di proprietà che vede la maggioranza in mano al sindacato attraverso fondi pensionistici e sanitari per tutto il periodo del risanamento, in un sostanziale rivolgimento degli schemi di controllo delle grandi industrie e della tradizionale dialettica tra le parti sociali. Ed è questo il secondo fattore di rottura al quale gli europei devono guardare con speciale attenzione. Il terzo fattore di rottura è rappresentato dal più generale tramonto del tradizionale potere dei manager industriali americani, fino a pochi mesi fa sostanzialmente incontrollato, in presenza di una proprietà molto frazionata e interessata principalmente al rendimento finanziario immediato.

Oltre alla volontà innovativa del governo americano, il ruolo operativo della Fiat rappresenta l’elemento catalizzatore del cambiamento. La società torinese è stata scelta per fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi riguardano le dimensioni e il carattere complementare delle due aziende automobilistiche che fa ragionevolmente sperare in rapide sinergie; quelli soggettivi derivano dal fatto che la cura di cui il gigante malato americano ha bisogno è analoga a quella che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha messo in atto con successo e con estrema rapidità a Torino. Tutto ciò spiega perché alla Fiat non si chieda alcun impegno finanziario ma un impegno molto intenso, di tipo organizzativo, umano e tecnologico che coinvolge direttamente proprio i vertici aziendali.

In questo contesto è appropriato domandarsi quali possono essere i vantaggi per la Fiat, per l’industria e per l’intera economia italiana. Nel breve periodo vi saranno forniture tecnologiche con qualche ricaduta produttiva; inoltre, anche se i due partner continueranno essenzialmente a produrre auto diverse per mercati diversi, l’inserimento di alcuni modelli prestigiosi della Fiat sul mercato americano attraverso una rete di vendita estesa e molto collaudata non potrà non avere effetti positivi in Italia. Più in generale, non ci dovrebbero essere aspetti positivi per uno dei due partner a scapito dell’altro; gli unici vantaggi non potranno che essere congiunti e, per quanto il ridisegno organizzativo di Chrysler debba essere estremamente rapido, saranno visibili soprattutto in tempi medi.

Il nuovo progetto deve infatti portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro. La posta del «grande gioco» che Fiat-Chrysler dovrà affrontare è niente meno che l’automobile del futuro; un’automobile poco inquinante, poco ingombrante poco costosa e forse più sobria, costruita in molte varianti attorno a poche piattaforme di base. Da «giochi» mondiali di questo tipo l’industria italiana era stata gradualmente esclusa con la forte riduzione della sua presenza nell’informatica, nella chimica e nella farmaceutica. L’accordo Fiat-Chrysler riporta l’industria italiana a una presenza di alto profilo che negli ultimi due decenni era stata messa in forse. /Beh, buona giornata).

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Attualità

Sondaggi e fischi.

“I sondaggi che ho io mi danno il 75,1% di consensi” mentre per il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, “i sondaggi che conosco io dicono che luì è al 59%: soltanto Lula (il presidente del Brasile) arriva al 64%. Quindi il mio è un record assoluto”. Silvio Berlusconi dixit, arrivando al Teatro San Carlo di Napoli per il concerto della Berliner Philharmoniker diretto dal maestro Riccardo Muti. Pare però che quando è uscito, sia stato stato “salutato” da fischi e grida: ” “Vattene via”. Pochi invece gli applausi. Beh, buona giornata.

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Attualità Società e costume

Il Papa al tempo del “papi”: piazze piene, chiese vuote.

Chiesa cattolica/ Mai stata così forte, ma si avvia all’estinzione per mancanza di preti, dice uno studio
da blitzquotidiano.it

La Chiesa cattolica non è mai stata così forte, non ha mai avuto un consenso così ampio (anche tra chi non crede). Eppure si avvia verso l’estinzione: per mancanza di preti. Lo dice uno studio socio-demografico della Fondazione Agnelli, benedetto dai vescovi italiani , pubblicato dalla rivista MicroMega, diretta da Palo Flores d’Arcais.

Secondo lo studio, la Chiesa, che oggi appare così forte, non è mai stata così debole. Cresce la strana pattuglia degli atei devoti, aumentano i suoi rumorosi difensori politici, ma calano i fedeli. Il papa è applaudito nelle piazze e “passa” spesso in tv, ma le chiese si svuotano. Di più: la crisi di vocazioni sta inaridendo il ricambio dei preti, sempre in minor numero e sempre più vecchi. Allora la Chiesa cattolica romana si sta davvero avviando verso l’estinzione?

L’ipotesi è paradossale. Ma i numeri della scienza statistica danno qualche sostegno al paradosso. Primo shock: i preti diventano sempre più vecchi. L’età media dei sacerdoti diocesani in Italia è ormai di 60 anni. Secondo shock: è sempre più difficile rimpiazzare i preti che se ne vanno. In Italia il 40 per cento di chi esce dalla parrocchia (per pensionamento, per invalidità o per decesso) non viene sostituito. Terzo shock: i preti diminuiscono in tutta Italia.

Oggi sono poco meno di 32 mila i sacerdoti diocesani. I preti erano 69 mila (più del doppio) agli inizi del Novecento, a disposizione di una popolazione di appena 33 milioni di italiani. Insomma: c’era 1 prete ogni 500 abitanti. Oggi la popolazione in Italia ha appena raggiunto i 60 milioni di persone, dunque c’è un prete ogni 2 mila abitanti (per la precisione, 0,53 ogni mille).

Se i preti diocesani non stanno bene, afferma lo studio, non stanno meglio neppure gli ordini religiosi, i frati, i monaci (20 mila persone complessivamente). Statistiche e numeri precisi in questo campo non ce ne sono, ma è un fatto che si svuotano anche le case religiose, i conventi e i monasteri.

In Italia ci sono 26 mila parrocchie. Dunque già oggi nel nostro paese operano, in media, 1,2 preti a parrocchia. Se questo rapporto diminuirà fino ad arrivare sotto l’un sacerdote per parrocchia, le parrocchie rimaste senza prete dovranno chiudere. O si dovranno affidare a preti che stanno nella parrocchia accanto e andranno “in trasferta” a celebrare qualche rito (la messa, la confessione, matrimoni e funerali).

All’estero va anche peggio. Anche in paesi tradizionalmente cattolici come la Spagna e il Belgio: oggi i preti sono solo 0,46 ogni mille abitanti. E ancor più in Francia e Austria: hanno soltanto 0,31 sacerdoti ogni mille abitanti. La Chiesa rischia davvero l’estinzione?

Meno male che c’è il “clero d’importazione”, o “clero immigrato“. In Italia ci sono 1.500 sacerdoti stranieri, nati all’estero ma incardinati nelle diocesi italiane. Mica pochi: sono il 4,5 per cento dei preti diocesani.

Da dove vengono i preti nati all’estero? Dalla Polonia innanzitutto. In totale, sono 232 i sacerdoti prestati all’Italia dal paese di Wojtyla. Poi dallo Zaire: 96. Dalla Colombia: 86. Dall’India: 82. E poi dalla Romania, dal Brasile, dalla Nigeria, dalle Filippine, dall’Argentina, dal Venezuela, dal Congo… Ma anche da Francia, Stati Uniti, Germania, Svizzera…

I preti stranieri sono molto più giovani, hanno un’età media molto più bassa dei locali. Saranno loro la salvezza della Chiesa cattolica?

Come andranno, dunque, le cose tra dieci, vent’anni? Anche se continuassero a entrare ogni anno circa 500 preti, il calo secondo lo studio sarebbe costante, a causa delle uscite. I 32 mila preti di oggi diventerebbero, secondo i calcoli statistici, 28 mila nel 2013, 25 mila nel 2023 (e di questi, 2 o 3 mila saranno stranieri). Le cose andranno peggio se continueranno a calare anche le ordinazioni.

In realtà le cose andranno anche peggio, e per una ragione non religiosa (il calo delle vocazioni), ma prettamente statistica: in Italia c’è una progressiva diminuzione demografica dei maschi. Diminuisce la platea da cui attingere i preti, che per la Chiesa cattolica possono essere solo maschi. Dunque diminuiranno inesorabilmente anche i sacerdoti, anche a tassi di reclutamento costanti.

Dunque – conclude lo studio – la Chiesa cattolica continua dolcemente il suo cammino verso il declino. Sempre più minoranza in una società che apparentemente la applaude, ma in realtà la usa. Per bloccare questa tendenza e almeno stabilizzare il numero dei sacerdoti oggi presenti, dovrebbe verificarsi un incredibile aumento delle vocazioni, con incrementi del 77 per cento nazionale che in alcune regioni, secondo i calcoli degli statistici, dovrebbe essere addirittura del 200 per cento. Sarebbe davvero un miracolo. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
Micromega

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democrazia Popoli e politiche

L’Italia s’è berlusconizzata.

Berlusconi & The Economist/ Di nuovo sotto tiro:”Ha Berlusconizzato l’Italia e resterà al potere indefinitamente” dablitzquotidiano.it

Il settimanale The Economist torna all’attacco del presidente del consiglio Silvio Berlusconi con un lungo articolo intitolato ”La Berlusconizzazione dell’Italia”. L’articolo è corredato da una caricatura di Berlusconi raffigurato come un giocatore del Milan con lo stivale italiano al posto della gamba destra.

”La maggior parte degli italiani sembra perdonargli, o per lo meno non andare oltre, le sue innumerevoli gaffe, sia quelle fatte nel corso di talk show televisivi, sia quelle consumate nel corso di summit internazionali”.

Il settimanale britannico quindi non molla e torna alla carica contro il premier italiano a poche settimane dalla vittoria legale nella causa per la copertina intitolata “Perché Berlusconi non è adatto a governare l’Italia”, che – nel 2001 – aveva spinto Berlusconi a presentare un ricorso per diffamazione presso il Tribunale di Milano.

Questa volta The Economist tenta di spiegare come Silvio Berlusconi avrebbe ulteriormente consolidato il suo potere personale.

“The Economist” esamina il paradosso di un primo ministro che rimane ‘’significativamente più popolare della maggior parte degli altri leader europei, anche quando il Fondo monetario internazionale prevede che il Pil italiano crollerà quest’anno del 4,4%, mostrando un calo maggiore di quello di Gran Bretagna, Francia o Spagna”.

E la spiegazione fornita dal settimanale britannico fa leva su argomenti di ordine demografico, puntando sulla constatazione che ”ogni italiano sotto l’età dei trent’anni ha raggiunto la maturità politica sotto l’influenza dell’impero mediatico della famiglia Berlusconi”.

”Quindici anni fa – osserva l’Economist – un ‘azzurro’ rappresentava l’Italia nelle competizioni sportive internazionali e un ‘moderato’ era un centrista”. ”Oggi – continua il settimanale – un azzurro è qualcuno che rappresenta Berlusconi in Parlamento, un moderato o qualcuno che vota per lui”.

The Economist rileva poi la forza dell’impatto della ”berlusconizzazione” sull’Italia: ”un impatto tale da infondere nella maggior parte della società italiana la convinzione che l’attuale primo ministro resterà al potere indefinitamente”. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
The Economist

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La “quarta crisi” colpisce ancora.

Dalle stime fornite da Nielsen e relative al 2008 emerge che gli investimenti pubblicitari sulla stampa nel suo complesso sono calati del -7,1% sul 2007. Nel dettaglio, l’adv sui quotidiani a pagamento ha registrato un -7%, mentre sui periodici è stata registrata una flessione del -7,3%. E a inizio 2009 la situazione è tutt’altro che migliorata. Nel primo bimestre, sempre stando ai dati Nielsen, gli investimenti sulla stampa sono calati del -27,4% sul primo bimestre 2008, -29,6% invece per i periodici e -26,4% per i quotidiani a pagamento.

Una conferma della flessione della pubblicità sulla carta stampata viene anche dai dati dell’Osservatorio Stampa Fcp. Dal confronto tra quelli relativi al periodo gennaio-febbraio 2009 e quelli relativi allo stesso periodo del 2008 emerge che il fatturato pubblicitario del mezzo stampa in generale ha registrato un calo del -28%. In particolare, il fatturato dei quotidiani ha perso il 26% e gli spazi sono calati del 13%. Segno meno anche per i periodici, che risultano in calo del 31% in termini di fatturato e del 24% in termini di spazi.

Numeri in forte ribasso, che hanno avuto notevoli ripercussioni sui bilanci 2008 e sull’andamento del primo trimestre 2009 dei più importanti gruppi editoriali operanti nel nostro Paese, come appare dal seguente schema che presenta i dati più significativi relativamente a ciascun Gruppo.

RCS MediaGroup: nel 2008 i ricavi netti consolidati si sono attestati a 2.673,9 milioni di euro, ovvero a -1,9% rispetto ai 2.728,2 milioni del 2007. I ricavi pubblicitari si sono attestati invece a 942,1 milioni (-2,1% sui 963,2 milioni del 2007).
Area Quotidiani: ricavi pari a 711,3 milioni (734,6 nell’esercizio 2007); ricavi pubblicitari a -2,7%.
Area Periodici: ricavi pari a 313 milioni (330,7 nell’esercizio 2007); ricavi pubblicitari a -3,4%.
Area Web: ricavi pubblicitari in crescita di oltre il 40%.

Mondadori: nel 2008 fatturato consolidato a 1819, 2 milioni di euro (-7,1% rispetto ai 1.958,6 milioni di euro del 2007).
Area Periodici Italia: ricavi consolidati a 575,7 milioni di euro (-12,5% rispetto ai 657,8 milioni del 2007); ricavi pubblicitari a -5,3%
Mondadori Pubblicità: ricavi pari a 331 milioni (-5,3% rispetto ai 349,5 milioni di euro del 2007). Sui periodici raccolta a 242,6 milioni (-4,8%)

Gruppo 24Ore: nel 2008 ricavi consolidati a 573 milioni di euro, in linea rispetto ai 572,1 milioni di euro del 2007. La pubblicità mostra un incremento di 7,4 milioni di euro (+3,1%) raggiungendo i 244, 6 milioni di euro, con un’incidenza del 42,7% sui ricavi totali.
Area Editrice: ricavi pari a -11,3% rispetto all’esercizio 2007.
Area System (divisione che svolge l’attività di concessionaria di pubblicità dei principali mezzi del gruppo, a eccezione dell’editoria specializzata): ricavi pari a 204,146 milioni (+2,1% sui 199.992 milioni del 2007).

Cairo Communication: nel 2008 ricavi lordi consolidati pari a 256,6 milioni di euro (265,8 milioni nel 2007). Raccolta pari a 51,8 milioni di euro (-8% rispetto ai 56,5 milioni)

Gruppo Hachette Rusconi: nel 2008 ricavi consolidati pari a 144,2 milioni di euro di cui 100 milioni derivanti dalla raccolta pubblicitaria (-0,5% rispetto al 2007). Area Web: ricavi pubblicitari in crescita del 46% sul 2007. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia

L’associazione dei giornalisti tedeschi ha assegnato il premio per la libertà di stampa a Marco Travaglio.

da Italiadallestero.info

Libertà di stampa

I sette membri del consiglio direttivo federale della DJV, l’associazione dei giornalisti tedeschi, quest’anno hanno assegnato il premio per la libertà di stampa al giornalista e autore italiano Marco Travaglio.

Michael Konken, presidente federale della DJV, ha motivato la decisione dichiarando: “Assegnamo il premio a Marco Travaglio, un collega che si è contraddistinto per il coraggio critico e l’impegno dimostrato nel combattere per la libertà di stampa in Italia.”

Travaglio ha saputo denunciare pubblicamente i tentativi dei politici italiani, in particolare di Silvio Berlusconi, di influenzare il lavoro dei media e di ostacolare lo sviluppo di un giornalismo critico. Le critiche di Travaglio si sono orientate anche ai colleghi italiani con lo scopo di incoraggiarli a non sottomettersi alla censura. “Il premio della DJV per la libertà di stampa è il riconoscimento più adatto a Marco Travaglio,” ha dichiarato Konken. “Travaglio deve dare coraggio ai giornalisti italiani affinché possano svolgere la loro funzione di vigilanza e non cadano vittima di intimidazioni”.

Il premio della DJV per la libertà di stampa consiste in 7.500 Euro ed è stato conferito a Marco Travaglio a Berlino lo scorso 28 aprile 2009 presso il Palazzo della Bundespressekonferenz (ufficio della stampa federale).

Con questo premio la DJV onora personalità o istituzioni che si impegnano in prima persona in battaglie per il mantenimento e la creazione della libertà di stampa. I precedenti vincitori sono stati il giornalista serbo Miroslav Filipovic, la giornalista russa Olga Kitowa e la redazione del giornale “Berliner Zeitung”. Filipovic ha ricevuto il premio per aver scoperto i crimini di guerra serbi in Kosovo, Kitowa è stata premiata per la sua difficile battaglia contro la corruzione in Russia e la redazione del “Berliner Zeitung” per l’impegno dimostrato nel difendere la libertà di stampa in Germania e l’indipendenza editoriale da Mecom Group, la casa editrice che l’ha rilevata.

[Articolo originale “DJV-Preis für Marco Travaglio”]

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democrazia

E vissero tutti “liberi e belli”.

di Lidia Ravera – da lidiaravera.it

Nessuno ha il copyright sulla parola “Libertà”. E’ una parola forte, corteggiata da ogni pubblicitario. Si può esseri liberi dalla forfora o dal fascismo, si può conquistare un certo tipo di “libertà” grazie ai tampax e un altro grazie al sacrificio di chi senza libertà non vuole vivere.

Nel grande circo delle merci, da sempre, volano parole grandi. Si offrono slogan, si organizza il gradimento dei possibili consumatori, si cerca di farsi preferire. In queste tecniche Silvio Berlusconi è un vero maestro, per questo il suo partito è così ben piazzato.

Nessuno, come lui, sa vendere la sua merce. E, in questi giorni, ne ha dato una serie di prove stupefacenti: ha saputo sfruttare con metodo il grande palcoscenico del terremoto. Era lì, e poi di nuovo lì e poi di nuovo lì. Alle esequie si staccava dalla nomenclatura per stringersi alle vedove e agli orfani. Bravo: è così che si fa, si fa finta di fondersi con il popolo per distinguersi dalla banale posizione di “rappresentanza” di tutti gli altri politici. Non contento, spostava il G8 dall’isola de La Maddalena al martoriato Abruzzo, sostituendo, come fossero fondali di teatro, l’azzurro smagliante del mare della Sardegna con il grigio- polvere di una dolorosa distesa di detriti. Il mondo guarderà quello scenario. E chi avrebbe voluto approfittare dello sguardo del mondo per contestare o inchiodare alle proprie responsabilità i potenti, non potrà farlo.

Non si porta disordine fra i morti, conflitto fra i senza tetto, angoscia fra gli sfollati. Perciò: niente opposizione. E’ questa l’idea di pace del venditore più furbo del mondo. Il 25 aprile ricorda “la libertà”, non la liberazione. Non ricordiamo la lotta fra chi appoggiava il nazifascismo e chi lo combatteva, questa vecchia storia antipatica, ma la festa del giorno dopo. Tutti “liberi e belli”, basta usare un certo tipo di shampoo. Fa miracoli. (Beh, buona giornata).

TRATTO DA: lidiaravera.it

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