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L’anno che verrà doveva gia essere qua.

Il 2006 si chiude nel peggiore dei modi con il cappio al collo di Saddam Hussein, esecuzione capitale spettacolarizzata, macabra e sadica e per questo sbagliata e pericolosa, come sbagliata e pericolosa è la politica estera dell’era Bush.

Quello che si chiude è stato un anno brutto, a volte feroce a volte fesso. E’ stato l’anno della fine del governo Berlusconi, ma non della fine del berlusconismo, che a fatto terra bruciata del diritto, della politica, della tv, della pubblicità, del cinema e della cultura.

E’ stato l’anno del ritiro delle truppe italiane in Iraq, ma del rifinanziamento della missione in Afghanistan. E’ stato l’anno dei giornalisti spioni, l’anno dei Betulla, dei Pio Pompa, degli Scaramella e del Polonio 210.

E’ stato l’anno di Vallettopoli, di quel modo di andar per il Sottile sulla Rai, terra di conquista della Cdl, tra sesso e potere. E’ stato l’anno delle bravate di un Savoia, che, tra puttane e slot-machine ha disonorato la benevolenza del Parlamento che revocò il divieto costituzionale di rientrare in Italia per i discendenti maschi dell’ex Re.

E’ stato l’anno della ripresa delle attività criminali a Napoli, delle manifestazioni dei ricchi al Billioneire per non pagare le tasse e delle manifestazioni delle corporazioni dei tassisti, dei commercialisti, dei panettieri e degli avvocati. E’ stato l’anno del muro contro muro tra editori e giornalisti.

E’ stato l’anno dell’Indulto, cui hanno beneficiato Previti e sodali. E’ stato l’anno dello strapotere dell’Auditel, della cultura nella tv pubblica affidata a Marzullo, dell’ennesimo libro di Bruno Vespa. E’ stato l’anno dei cinepanettoni, della folla di testimonial negli spot, dei filmati sul bullismo inviati su Internet. E’ stato l’anno del precariato, del lavoro nero, dello sfruttamento e la schiavitù dell’immigrazione clandestina.

E’ stato l’anno delle vignette su Maometto e della gaffe anti-musulmana del Papa a Ratisbona. E’ stato l’anno della mattanza estiva di immigrati nelle acque della Sicilia. E’ stato l’anno degli insulti in Parlamento contro un deputato transgender e della misericordia negata dal Vicariato di Roma a Piergiorgio Welby.

L’anno che si conclude vedrà ancora tre italiani rapiti in Nigeria, atto di accusa contro l’Eni che, al pari di tutte le compagnie petrolifere, sfrutta un paese africano, per via del petrolio. Contemporaneamente, è stato l’anno del record del prezzo della benzina.

Non rimpiangiamo il 2006, se ve vada al diavolo. I nostri occhi sono puntanti sul 2007, perché ha una montagna di problemi da risolvere. Lo faccia presto e bene, perché oltre gli occhi punteremo il dito accusatore contro ogni forma di pessimo spettacolo della politica, della cultura, dell’economia, della tv, della pubblicità e del cinema. L’anno che verrà doveva gia essere qua da un pezzo. Speriamo recuperi i ritardi. Beh, buona giornata.

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Contro il tecnostress, quali cure possibili?

E’ nata una nuova malattia, una patologia di massa, una vera e propria pandemia. Si chiama “tecnostress”: provoca ansia, insonnia o mal di testa.

Negli Stati Uniti il problema ha assunto dimensioni sociali e, secondo le stime più recenti, milioni di persone sono state interessate da questa sorta di “tossicodipendenza” nei confronti delle tecnologie, che ha fatto emergere, in oltre il 50% dei casi, gravi forme di sconforto, evidenziate da malesseri come agitazione, problemi cervicali e insonnia.

La notizia di questa nuova epidemia non viene da un giornale scientifico, ma dalla cronaca giudiziaria. Infatti, il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello, ha aperto un’ inchiesta sui call center torinesi per verificare le condizioni di lavoro degli addetti e in particolare se siano a rischio di contrarre malattie professionali legate alla loro attività, come il tecnostress, appunto, la nuova patologia che può colpire chi usa in modo diffuso le tecnologie informatiche.

Il tecnostress ha degli affetti collaterali, altrettanto letali: mobbing diffuso e tendenza al precariato cronico. Riuscirà il governo a diffondere in tempo il vaccino contro il tecnostress, cioè a varare in tempi rapidi la riforma della legge Biagi? Milioni di giovani pazienti stanno aspettando impazienti.
Beh, buona giornata.

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Alitalia, ultimo atto.

Lo spettacolo è finito: si chiude il sipario sulla farsa Alitalia, la sit-com più lunga del dopoguerra italiano. La compagnia di bandiera va sul mercato.“Quello che avevamo detto lo stiamo facendo”, dice Prodi. Per il “pubblico” pagante e per i passeggeri si apre una prospettiva non più passeggera.

Le offerte per rilevare una quota consistente di Alitalia dovranno essere presentate entro il 29 gennaio 2007. E’ quanto si legge nel bando di gara per la privatizzazione della compagnia, pubblicato sul sito del ministero del Tesoro.

E in cui si precisa che la quota in questione non deve essere inferiore al 30,1%, e non superiore al 49,9. “Quello che avevamo detto lo stiamo facendo”, ha detto il presidente del consiglio Romano Prodi. “Le procedure vanno avanti, non c’è nulla di nuovo”. In realtà, qualcosa di nuovo c’è. C’è che è calato, ma sarebbe meglio dire è crollato il sipario su una della peggiori farse, mai rappresentate in Italia.

E’ finita l’era della finanza creativa a spese del danaro pubblico e delle aspettative di un Paese moderno. Siamo a un nuovo inizio, che non si basa sulle qualità personali di un nuovo management, ma sulle prospettive finanziarie e, ciò che da più parti si chiedeva, sulla solidità di un piano industriale, capace di rilanciare, non solo l’azienda, ma il Paese che rappresenta.

Qualcuno ha detto che in Italia gli scandali non sono fatti, ma opinioni. E allora rimettere Alitalia sul mercato non è un’opinione, ma una fatto, capace da solo di fare giustizia di una lunga teoria di scandali. “Meglio una fine con terrore, che un terrore senza fine”, dice Paolo Maras, segretario nazionale del Trasposto Aereo del Sult, l’agguerrito sindacato di base, che ha dato filo da torcere in questi anni a tutti i manager che si sono cimentati con la farsa, Cimoli compreso.

“Il piano del governo è pieno di incognite-dice Maras-ma le incognite sono meglio della certezza dei fallimenti cui abbiamo dovuto assistere in questi anni.”

Una cosa appare chiara, non solo dalla vitalità del titolo Alitalia che è salito ieri nelle quotazione in Borsa. E’ finita l’epoca degli annunci, dei trucchi e delle boutade, ora il governo sembra deciso a fare sul serio e Prodi sembra aver assunto la piena consapevolezza di essere il rappresentate dell’azionista di maggioranza. La polpetta avvelenata che il governo precedente aveva lasciato a quello attuale non ha avuto gli effetti previsti.

E’ presto per dire come andrà a finire, perché siamo a un nuovo inizio. “L’Italia ha bisogno di Alitalia, non solo per trasportare persone e cose, ma anche per far viaggiare idee, cultura, imprenditorialità nel mondo e dal mondo” dice Maras.

Questa privatizzazione non è una via d’uscita dalla crisi, ma un via d’accesso a una nuova dimensione del trasporto aereo in Italia. Nella quale non sentirsi spettatori, ma protagonisti. Non più passeggeri, ma persone.Beh, buona giornata.

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Chi dorme non piglia peso.

Se vuoi perdere peso, non perdere sonno. Insomma, si può dimagrire dormendo: ecco il risultato pubblicato da un team di scienziati americani sull’ultimo numero dell’International Journal of Obesity.

Per chi non riesce ad ottenere risultati apprezzabili con lo jogging, il pilates, il kick-boxing, ecco il nuovo trend nato negli Usa per riprendersi dagli stravizi delle feste: dormire.

Per i nottambuli la raccomandazione è di spostare la tv fuori dalla camera da letto, consumare meno alcolici e caffeina e spengere il computer presto perché l’assenza di sonno induce a ingurgitare carboidrati e grassi.

E allora, invece di estenuanti diete, di sport scemi, solitari ed estremi un lunga dormita aiuta a vivere meglio e in salute. Non solo perché se dormi non mangi, non bevi, non fumi. Ma anche perché dormire ricarica le pile dello spirito, libera energie celebrali, costringe la mente a misurarsi con l’onirico, invece che con l’immaginifico indotto dal bombardamento mediatico.

Dormire fa calare la ciccia, perché dormendo si separa il fumo dall’arrosto: il fumo della spettacolarizzazione, degli effetti speciali, del frastuono dei suoni, dell’orgia delle immagini. E rimane l’arrosto della propria consapevolezza, dei propri desideri, e, chissà dei bisogni veri, e non più di quelli imposti, conculcati, offerti, suggeriti.

Certo dormire fa bene se i sogni sono alimentati da buone cose da sognare: un bel libro, un bel film, una bella musica, una bel tramonto, una buona cosa da gustare, una bella amicizia da coltivare, una bella donna da amare, un bel bambino da crescere, ma anche una bella tv e una arguta pubblicità aiuterebbero a fare sonni tranquilli.

Insomma, per dormire bene e a lungo bisogna essere tipi svegli.

Tanto per rimanere in tema con il risultato pubblicato dal team di scienziati americani sull’ultimo numero dell’International Journal of Obesity, grasso che cola sarebbe cominciare a eliminare dalla nostra vita la visione di quell’incubo ricorrente che da vent’anni ci minaccia il sonno ogni notte con la fatidica frase: “la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?”. Ecco un semplice proposito per l’anno nuovo. Beh, buona giornata.

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Il Fantasma del palcoscenico.

Se la politica è un teatrino, quella che è andata in onda ieri è stata l’apparizione televisiva del Fantasma del palcoscenico. Nella conferenza stampa di fine anno, Romano Prodi si è presentato di fronte ai giornalisti e andato in diretta sul Tg Uno.
Il bilancio di fine anno del premier è riconducibile a due parole chiave: “Eredità pesante e stop al declino”.
Dice il presidente del Consiglio: “Abbiamo dato alle imprese degli incentivi fortissimi: 5 mld nel 2007 e 9 miliardi nel 2008. E’ uno sforzo che mai nessuna finanziaria ha fatto”. Che ha aggiunto: “Fare crescere l’Italia è progetto unificante di questo governo”.

Secondo Prodi, il governo porterà il Paese all’avanguardia di tutti i paesi europei. Obiettivi 2007: semplificazione delle procedure burocratiche per aprire azienda in un giorno. Politica ambientale, problema di sopravvivenza e qualità della vita nelle città. Battere i privilegi, dare una scossa al sistema produttivo, togliere ogni riparo e rendita di posizione a chi vuole sfuggire alla concorrenza del mercato.

Sempre secondo Prodi, il governo precedente non è stato in grado di contrastare declino, “la crescita si sta avvertendo, ma senso di fiducia del Paese non è ripreso. Da troppo tempo siamo abituati a arretrare in classifiche della politica. Però avverto con chiarezza segnali confortanti.”

La conferenza stampa è andata avanti per un oretta e mezza, un poco grigia e seriosa, a parte alcune domande infantili, forse giustificate dal luogo, il San Michele a Ripa, che una volta era il carcere minorile della Capitale.

Lo stile di Prodi è inconfutabilmente tutto il contrario della spettacolarizzazione della politica. La qual cosa disorienta i cronisti, a caccia di frasi d’effetto con cui condire i pastoni politici, come si chiamano in gergo. Forse disorienta anche i telespettatori.

Il fatto è che Prodi parla, non recita. Dice non esagera. E per questo viene spesso accusato di non saper comunicare. Rispetto al precedente governo, abbiamo un completo rovesciamento di tono di voce, di registro espressivo, di plot narrativo.

Per anni si è invocato il fantasma di un governo capace al limite dell’impopolarità. E adesso che ce l’abbiamo, almeno l’impopolarità, storciamo il naso, infastiditi e un poco delusi.

L’inversione di tendenza del declino passa attraverso una crisi d’astinenza della politica come intrattenimento, spot, reality show. Alla fine guariranno la politica, la tv e, perché no?, anche la pubblicità. Beh, buona giornata.

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Una questione di vita e di morte.

La notizia della morte di Piergiorgio Welby arriva che i giornali hanno ancora la vecchia notizia. La notizia la batte il Televideo. Quella notizia viene data in prima mattinata da un tg delle reti pubbliche: le immagini mostrano, oltre il suo corpo su un letto d’ospedale, anche la ripresa del citofono della sua abitazione. Sotto il nome scritto sul campanello, P. Welby, ce n’è un altro, di un altro inquilino, proprio sotto: La morte.

Ed ecco che esplode in tutta la sua drammaticità il tema della morte come esercizio di un diritto civile, innominabile, osteggiato, intriso di moralismo e ipocrisia.

Forse un uomo, che non ha il diritto di scegliere dove, come e per merito di chi viene al mondo, può avere il diritto di scegliere come, dove e con chi vuole vivere. Ed estendere questo diritto anche al come vuole cessare la propria esistenza in vita. Insomma, la libertà è di vivere e di morire in pace con se stessi, con i propri principi, prima ancora che con le esigenze morali degli altri.

Non solo la religione, le religioni, ma il cinema, il teatro, la letteratura, la pittura, la poesia e tutte le forme della creatività espressiva degli uomini si sono misurate e si misurano con il tema della morte.

E’ il caso di citare un esempio letterario. Ne “Il profumo” di Patrick Suskind, di cui è stata fatta una recente riduzione cinematografica, il protagonista si farà sbranare, come rivincita della sua malevolenza nei confronti degli altri, per sopravvivere all’odio che reca verso il mondo.

Ne “Le voci del mondo” di Robert Schneider, il protagonista affronterà la morte come sconfitta per non essere riuscito a farsi amare dalla persona amata. Due distinte, contrapposte visioni della morte, come ebbe a scrivere Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981 proprio a Schneider.

Piergiorgio Welby ha voluto andarsene come il protagonista di Schneider, ma la polemica attorno al suo caso lo vorrebbe come il personaggio di Suskind. Non è giusto.

Il un paese in cui la spettacolarità indotta dalla eccessiva invadenza della tv nella nostra vita fa si che la gente applaude ai funerali, perché così viene meglio in tv, sarebbe utile e giusto il silenzio che si deve a chi diparte per l’ultima dimora. Un silenzio propedeutico alla riflessione, al ricordo, all’esercizio della memoria, che è l’unico concreto modo per l’immortalità della presenza delle persone, oltre la loro vita.

Un poco di silenzio gioverebbe a capire che Piergiorgio Welby si è preso una rivincita contro chi lo voleva un malato, invece che un essere umano. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

The show must go off.

Il Natale della pubblicità italiana è triste e un po’ scemo. E’ lo specchio di una classe imprenditoriale che forse legge i dati Auditel, forse, ma non legge i dati economici.

La ripresa economica è ricominciata: sono aumentati i valori della produzione industriale, sono aumentati gli indici della propensione ai consumi.

Ma la pubblicità è rimasta indietro, molto indietro, arretrata come i testicoli del cane. E’ al palo della tv, sirena incantatrice della passata gestione della cosa pubblica e finanziaria, di quel governo che credeva bastasse fare spot in cui uno diceva “grazie” a chi comprava qualcosa.

Sciocca mossa propagandistica del governo Berlusconi, cui si accodò Upa, l’unione pubblicitari associati, la “confindustria” delle aziende che investono in pubblicità, guidata da Giulio Malgara, che è anche il presidente di Auditel, e che fu addirittura candidato a presidente Rai..

E allora succede che la spettacolarizzazione della pubblicità produce effetti scemi: non basta più un testimonial, ce ne vogliono un tot per spot. Esemplare, nella sua triste apparizione sugli schermi della nostre tv, il caso Tim: quattro testimonial, tutti insieme disperatamente.

Tra cui spicca, malgrado lei, o almeno si spera, Sophia Loren, vestita da suora, ma gravemente deturpata da una regia senza scrupoli e da un serial killer della fotografia, che dice quello che pensano tutti quelli che hanno visto quel triste spettacolino natalizio: è proprio una schifezza.

Metafora della pubblicità italiana? O più semplicemente autoironia involontaria, maldestra (più destra che mal) e per questo sublime nella sua inconfessabile verità, che, come l’erba sotto l’asfalto, salta agli occhi di ha dovuto subire la serialità ossessiva della sua ripetizione televisiva.

Qui non si tratta di parlare male della pubblicità, cosa che fanno in molti, in troppi, per vile compiacenza a un luogo comune. Qui si tratta di sottolineare che se una delle più importanti aziende italiane fa pessima pubblicità c’è qualcosa che non va.

Non solo fa rima, ma fa anche pensare al fatto che la creatività pubblicitaria italiana merita interlocutori più intelligenti, meno legati al carro della tv spazzatura, e più attenti all’etica della comunicazione di massa.

Il che è un altro modo per dire che “the show must go off”. Beh, buona giornata.

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