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Attualità Popoli e politiche

I diritti civili in un paese che quasi non ne sente più il dovere.

Giovedì 27 scorso a Milano, al Palazzo delle Stelline, Kerry Kennedy ha presentato la mostra Speak Truth To Power, realizzata dalla Robert F. Kennedy Foundation Europe, con le foto di Eddie Adams, famoso fotoreporter vincitore del Pulitzer.
L’iniziativa, ospitata dal Centro culturale francese, patrocinata dalla Provincia di Milano e sponsorizzata da Altavia è propedeutica a un modulo didattico sui diritti civili nel mondo che farà il giro delle scuole della Lombardia.

Durante il suo intervento, Kerry Kennedy ha detto che anche in Italia esistono problemi di tutela dei diritti civili: nel trattamento dei migranti e i relativi gravi episodi di xenofobia, ma anche sui temi della condizione delle donne, la violenza nei confronti delle quali è statisticamente in aumento nel nostro Paese. Parole sante.

L’elenco delle violazione dei diritti civili in Italia è tuttavia più lungo. A parte il fatto che le donne italiane sono discriminate nei posti di lavoro, a cominciare dalle retribuzioni per arrivare alle possibilità di carriera, l’elenco delle violazioni non può che comprendere i brutti episodi di brutalità poliziesca durante il G8 di Genova, ma anche la violazione delle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro, con il suo tristissimo corollario dello stillicidio quotidiano di morti e feriti. Per non parlare della silenziosa discriminazione nei confronti dei diversamente abili che si muovono con enorme difficoltà nelle città, nei luoghi pubblici e privati. Per arrivare alla violazione dei diritti e alla vera e propria discriminazione nei confronti dei lavoratori precari, dei lavoratori costretti al lavoro sommerso, cioè in nero. Per passare all’intolleranza verso i musulmani, verso i nomadi, verso le minoranze etnico-linguistiche.

Insomma, la violazione dei diritti è come un piatto di ciliegie, una tira l’altra. Con il risultato, orribile da dire, di creare una sorta di assuefazione, che genera indifferenza, quel girarsi dall’altra parte tipico di società che hanno perduto la certezza dei diritti, compreso il diritto-dovere di farsi carico, anche individualmente, della solidarietà immediata e contestuale agli episodi discriminatori di qualsiasi tipo.

C’è un’aria cattiva che viene dalla politica, in particolare da quelle forze che per demagogia o per vile compiacenza agli istinti più bassi, predica intolleranza, discriminazione, separazione.

Ecco perché mi ha colpito la notizia dei marinai di Lampedusa che, con l’ausilio della Guardia Costiera di Mazara del Vallo, hanno sentito il dovere di uscire di notte col mare grosso, e con i loro pescherecci hanno tratto in salvo 650 migranti alla deriva sui barconi fatiscenti. La propaganda anti migrazione non gli ha avvelenato né la coscienza né il coraggio di agire a proprio rischio e pericolo. Lo hanno fatto perché sentivano il dovere di farlo. Un esempio da imitare.

Ero presente alla presentazione di Speak Truth To Power, invitato da Altavia ho preso la parola per dire che il messaggio che la Fondazione RFK lanciava con quella importante iniziativa ha due parole chiave: idee e coraggio. Le idee come attitudine a pensare oltre i recinti dell’esistente, coraggio come metodo per affrontare le conseguenze delle proprie idee.
Sono infatti convinto che i cambiamenti si prefigurano quando idee e coraggio trovano una sintesi felice, capace di disegnare un nuovo più promettente perimetro in cui coesistano libertà individuali e quelle collettive: nelle vita, nella società come nella professione e nell’azienda senza libertà di fare e di pensare non ci possono essere significativi successi. Vale per tutti, anche per chi opera nella comunicazione, compresa quella commerciale.

Quando sono uscito dal Palazzo delle Stelline a Milano ho preso un taxi. L’autoradio era sintonizzata sul notiziario di una stazione locale: la notizia di apertura diceva che un dipendente di una nota catena di supermercati si era scazzottato con il suo caporeparto, perché quello si era rifiutato di dargli il permesso di interrompere il servizio, il tempo necessario per andare in bagno.

C’è davvero bisogno di riportare i diritti individuali e collettivi al centro della nostra attenzione, perché è proprio una situazione di merda quella che nega anche il diritto di fare la pipì. Non sentite anche voi forte il dovere dei diritti civili, di cittadinanza, del lavoro, di genere, politici e religiosi? Non fosse altro per non buttare nel cesso la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, né la Costituzione della Repubblica italiana. Beh, buona giornata.

Per informazioni su Speak Truth To Power: www.rfkennedyeurope.org.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

La crisi e le imprese. Allegato 3° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

Un primo concreto passo avanti.

Di Alberto Orioli, da sole24ore.com

 

Se l’algido linguaggio legislativo lasciasse spazio ai sentimenti, il decreto varato ieri si intitolerebbe: «Disposizioni urgenti sulla fiducia e l’ottimismo di Stato». Almeno questo è l’obiettivo del progetto neo-keynesiano messo a punto da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Ma i fatti e il contesto rendono molto difficile forzare le cose dell’economia e tantomeno le emozioni collettive anche per chi, con tenacia, persegue la politica della positività (e del consumo).
L’Europa ha scelto la via di un semi-bluff, ben presto smascherato. Il piano Ue, un agglomerato di fondi nazionali – il cui totale rischia di diventare meno della somma degli addendi – invece di creare speranza rischia di indurre l’effetto contrario e di innescare una guerra tra poveri nei Paesi di Eurolandia. La scelta di Londra di abbattere l’Iva e la tentazione di Berlino di aiutare l’auto tedesca rischiano di dare un pericoloso segnale di “liberi tutti” proprio mentre servirebbe una politica coordinata per gestire la svolta verso quella green economy che diventerà, invece, il vero cantiere dell’America di Obama. Una possibile crisi nella crisi di cui l’Europa porta tutta la responsabilità.Il Governo di Roma, con l’annuncio fatto a Washington di un maxi-piano da 80 miliardi che univa passato, presente e futuro, ha reagito d’impulso con una risposta mediatica a uso del G-20 (dove peraltro Sarkozy ha esibito dati su una crescita del Pil assai “sospetta”). Per coerenza ieri Berlusconi e Tremonti l’hanno ricordato, anche se hanno dovuto spiegare che si tratta di interventi diversi e non direttamente sommabili. Il decreto, in realtà, più pragmatico e consono a questi tempi di economia della sobrietà, mette in campo 6 miliardi “reali” immediati e ne promette 25-30 per grandi interventi entro il 2013 se andrà a buon fine l’operazione (storica) di riprogrammazione dei fondi per le aree sottoutilizzate. Con il piano Barroso se ne rimettono in gioco ancora 5, altrimenti persi.

Il Governo ha rinunciato a forzare i margini sul deficit che la Ue comunque ci consentirebbe: risorse in più per mezzo punto di Pil (pari a 8 miliardi) non avrebbero destato scandalo e non è certo che avrebbero nemmeno causato i paventati contraccolpi sugli spread dei titoli di Stato. Ma tant’è. Tremonti, con coerenza da uomo delle istituzioni tanto più rispettabile perchè scomoda, rimane attestato sul deficit zero nel 2011. E disegna il canone aureo dell’economia sociale di mercato cui, da qualche tempo, si ispira: un mix tra misure assistenziali e per la famiglia (3,6 miliardi), programmi di sviluppo e investimenti (16,5 miliardi) e azioni fiscali per le imprese (2,4 miliardi).

Il Governo ritiene di avere risorse sufficienti. È augurabile che sia nel giusto, altrimenti ci troveremo presto senza benzina. L’Iva è in calo e anche il gettito Ires prevedibilmente fletterà; la Robin Hood tax non ha portato nelle casse pubbliche tutto il gettito previsto, ma probabilmente la metà. Il decreto promette sconti sull’Irap e limature agli acconti Ires (non Irpef), un sistema di recupero dei crediti delle imprese verso lo Stato e risparmi virtuali dovuti a un nuovo pacchetto di semplificazioni burocratiche. Non c’è molto di più. Tantomeno la detassazione degli utili reinvestiti in ricerca e tecnologia: sarebbe stato un altro importante segnale di sistema su quale dovrà diventare il modello di sviluppo dell’Italia. Forse arriverà in futuro, forse no.

L’evidente sbilanciamento a favore del capitolo infrastrutture – scelta comunque positiva – sarà anche il campo di sperimentazione del nuovo ruolo dello Stato. Il motore principale è la Cassa depositi e prestiti che cambia natura e capacità di azione perché userà senza vincoli il risparmio postale. La Cdp, poi, è stata candidata a diventare fondo di garanzia pubblica per l’azione calmieratrice sul credito e, forse in un secondo tempo, anche testa di ponte nelle partecipazioni ex bancarie al capitale della Banca d’Italia. La Repubblica diventerà poi compratore di ultima istanza per i bond delle banche necessari a riportare su ratio più competitivi il patrimonio degli istituti italiani. È chiara la nuova impronta interventista, ma nella visione tremontiana c’è un’idea di fondo di un soggetto pubblico di supporto e di correzione, senza interferenze (apparenti) nella gestione di mercato delle imprese, senza esercizio diretto (apparente) di poteri operativi. Come dire: una moral suasion “armata” o “spintanea”, come quella che sarà esercitata – parola di Tremonti e Calderoli – per fermare la dinamica delle tariffe.

L’accelerazione delle procedure di investimento per le grandi infrastrutture è una delle novità più rilevanti. Ci hanno provato in tanti, con poco successo. Si vedrà se l’aggiramento dei ricorsi blocca-opere, previsto dal decreto, andrà a buon fine. È più che auspicabile.
È comunque anche questa la via migliore per ritrovare la fiducia smarrita; per paradosso infatti non sono i provvedimenti eccezionali a infondere l’ottimismo dei comportamenti (anzi confermano l’idea dell’emergenza e lasciano scorie di ansia) ma i segnali di una nuova ordinarietà prosperosa. Per tradurre poi la fiducia in consumi (non sono la stessa cosa) serve il reddito, che passa anche da investimenti pubblici e privati e dalle aspettative positive sull’occupazione. E si alimenta anche con i bonus e le elargizioni strettamente assistenziali – pure presenti nel provvedimento – anche se non è chiaro se queste finiranno a risparmio o a consumo. L’impatto più duro della crisi si dovrebbe sentire nella prima metà del prossimo anno. Per quell’evenienza dovrebbero essere attivati gli ammortizzatori sociali rifinanziati: se però le conseguenze saranno mezzo milione di posti di lavoro persi, anche il nuovo sforzo si rivelerà poca cosa. Sarà allora, probabilmente, che il cosiddetto “fondo Sacconi” dovrà essere rabboccato o con parte dei fondi per il Sud o con nuove risorse. Magari tentando un’ulteriore riforma che porti finalmente a un sistema di ammortizzatori sociali universali, non più legati a scelte discrezionali politico-sindacali e semmai ancorati a reali programmi di riqualificazione e reinserimento.
Sarebbe un’altra di quelle riforme “normali” che permettono a un Paese di generare fiducia duratura. Per non parlare di quale effetto tonificante potrebbe avere la firma dell’accordo sulla riforma della contrattazione, unico strumento adatto ad accrescere e redistribuire la produttività, vera lacuna di sistema dell’Italia. È fondamentale, a questo scopo, l’arricchimento della dote finanziaria destinata agli sgravi fiscali per il salario di secondo livello per i quali è stato fatto un primo passo.

Si riapre – ed è un bene – il capitolo sull’evasione fiscale. Le risorse, in effetti, sono lì, sommerse da sempre. Ci sono 100 miliardi su cui esercitarsi. In attesa di risultati a sei zeri magari si può cominciare vigilando sulla social card: sarebbe grave se una tessera destinata ai più poveri finisse ai più furbi. (Beh, buona giornata).

 

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

La crisi e il sindacato di base. Allegato 2° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

IL TEMPO STRINGE: OCCORRE ACCELERARE IL

PROCESSO UNITARIO DEI SINDACATI DI BASE!

di Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale SdL.

 

Il processo di lento avvicinamento delle posizioni delle più rappresentative organizzazioni sindacali di

base, (Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale) in atto da tempo, ha subito una positiva

accelerazione con l’Assemblea nazionale del maggio 2008 a Milano.

I delegati ed i rappresentanti dei tre sindacati che hanno promosso l’Assemblea hanno di fatto

avviato dal basso un processo di lavoro unitario che deve necessariamente portare ad un percorso

che veda progressivamente avvicinarsi le tre sigle sindacali e tenda alla costruzione di un sindacato

unitario e di massa che rappresenti una reale e concreta alternativa a Cgil, Cisl, Uil e Ugl.

Una volontà che come SdL intercategoriale abbiamo raccolto con convinzione.

Il bilancio che facciamo, a sei mesi dall’Assemblea di Milano, è solo parzialmente positivo. Se è vero

che in questi mesi si sono moltiplicati i momenti di confronto e di iniziativa comune, sia a livello

nazionale che territoriale, nei diversi comparti del mondo del lavoro, mancano strumenti di

elaborazione e di intervento comuni.

La grande partecipazione alla manifestazione nazionale di Roma del 17 ottobre dimostra che

l’attrattiva e le potenzialità che le tre organizzazioni esprimono in situazioni promosse e costruite

unitariamente è ben più ampia della sommatoria delle singole sigle e ciò rappresenta un

incoraggiante segnale verso la ricerca di luoghi e di interventi unitari sempre più stretti e

complessivi.

E’ evidente che i tempi e le modalità di tale percorso devono essere ben ponderati e che il processo

di avvicinamento deve risultare graduale: le tre organizzazioni hanno infatti storie e prassi diverse

ed anche al loro interno presentano sensibilità non sempre omogenee.

Il permanere di organizzazioni sindacali oggettivamente ancora in concorrenza tra loro, tuttavia,

riduce l’impatto della nostra azione e amplifica la consapevolezza di quanto uno strumento

realmente unitario potrebbe giovare alla causa che ci siamo prefissati.

Qualsiasi processo non è e non può essere immutabile e deve adattarsi alla situazione che lo richiede

o che lo condiziona.

Se è quindi vero che non sarà possibile dare vita a breve ad un unico soggetto, ma se è a questo

che dobbiamo tendere per dare risposte concrete alle necessità dei lavoratori, è indispensabile

considerare lo scenario che si sta delineando in questi ultimi mesi e soprattutto le tendenze di

carattere economico, politico e sociale che stanno investendo l’Italia ed il mondo intero.

La crisi economica ormai conclamata, insieme al contesto politico, sociale e sindacale degli ultimi

mesi impongono, infatti, un salto di qualità nel nostro agire.

Posizioni ed analisi che sino a pochissimo tempo fa erano considerate indiscutibili oggi mostrano la

corda. E così le contraddizioni tra capitale e lavoro, che da sempre le nostre organizzazioni sindacali

hanno individuato come elementi decisivi su cui fare leva nell’azione quotidiana, stanno tornando

drammaticamente di attualità ed è proprio il venir meno dei margini di mediazione su cui la

concertazione dei sindacati confederali aveva potuto ancora parzialmente contare che richiede con

urgenza la messa a disposizione delle lavoratrici e dei lavoratori di uno strumento alternativo

adeguato, per quantità e qualità, a raccogliere la sfida.

La crisi mondiale è soltanto al suo inizio: dopo aver investito la finanza ora sta destabilizzando anche

la cosiddetta economia reale, con conseguenze severe sulle condizioni di centinaia di milioni di

lavoratori in tutto il mondo che già vivono da decenni una realtà di estrema precarietà.

In questo panorama cambia in Italia, come in molti altri Paesi, il rapporto tra lavoratore e sindacato

e tra sindacato e azienda. Flessibilità della manodopera e salario, utilizzati come variabile dipendente

dall’aumento della produttività – dello sfruttamento si sarebbe detto in altri tempi – sono i

fondamentali su cui padroni e governo vogliono costruire un sistema di relazioni industriali/sindacali

del tutto asservito alle necessità/compatibilità aziendali.

Una prospettiva a cui Cisl, Uil e Ugl hanno già dato il loro assenso e che la Cgil, per ragioni

contingenti, oggi dichiara di voler contrastare. Un verbalismo senza progetto, la strumentalità

evidente di chi, dopo aver contribuito a smantellare pezzo dopo pezzo conquiste, tutele e strumenti

di contrattazione esigibili, oggi vede messo in discussione il ruolo del suo stesso apparato. Un

apparato che freme dalla voglia di tornare al tavolo con Governo e Confindustria perché le regole

sulla rappresentanza che la Cgil stessa ha contribuito a definire negli anni, negano fondamentali

diritti sindacali a chi non firma i contratti.

Al “sindacato dei servizi” si accompagna ora il “sindacato notaio” chiamato semplicemente a

ratificare contratti ritagliati sulle esigenze delle aziende.

Il conflitto non è compatibile con il consociativismo cui fanno appello le imprese: le esigenze di chi

lavora devono sottostare a quelle dell’impresa e del mercato. Al sindacato viene offerto al massimo

di entrare con il suo apparato nel business degli enti bilaterali e dei gestori di fondi pensione.

E’ in questo contesto che anche noi dobbiamo ripensare strumenti della rappresentanza che non

siano fini a se stessi, che non prevedano semplicemente l’estrema difesa di un indifendibile

esistente.

Lo strumento principe in mano ai lavoratori è ancora il Sindacato nella sua più nobile accezione. Ma

la conquista di condizioni di vita dignitose necessita di un sindacato in grado di costruire conflitto

reale e non proclami velleitari.

E’ indispensabile mettere da parte le alchimie “organizzative” e ragionare con estrema concretezza a

partire dal fatto che le nuove generazioni entrate nel mondo del lavoro a partire dagli anni ’80,

hanno conosciuto solo il lato arrendevole, burocratico e concertativo dei grandi apparati sindacali e

ne hanno giustamente disgusto. La mutata composizione sociale del lavoro dipendente, la

frantumazione/contrapposizione alimentata ad arte tra i vari segmenti del mondo del lavoro (stabili e

precari, nativi e migranti, operai e impiegati, pubblici e privati …) non può non costringerci a

sperimentare nuove forme organizzative e nuovi strumenti informativi che partano dal denominatore

comune che a noi piace definire come “intercategorialità”.

Per questo motivo crediamo sia indispensabile cogliere l’occasione, forse l’ultima in questo Paese per

i prossimi anni, per accelerare il processo unitario tra SdL intercategoriale, Cub e Confederazione

Cobas, a partire da un lavoro comune nei territori, per arrivare ad una nuova grande Assemblea

nazionale che coinvolga nuovi settori di lavoratori, anche al di là delle aree già organizzate nei tre

sindacati di base.

E’ necessario farlo rapidamente: è indispensabile farlo con il rigore necessario ma senza riserve

mentali, perseguendo con determinazione l’obiettivo, pena la distruzione certa di qualsiasi ipotesi di

alternativa sindacale per i prossimi anni! Proviamoci qui ed ora! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Popoli e politiche

La crisi e il ceto medio. Allegato 1° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

“Ceto medio in crisi, alla ricerca
della cittadinanza sociale perduta”

Negli Usa il piano di salvataggio della middle class è tra i principali impegni di Obama
E in Italia? E’ difficile già tracciare i confini e identificare le ragioni del malessere
di ROSARIA AMATO da Repubblica.it

Il presidente neoeletto degli Stati Uniti ha garantito che “un piano di salvataggio della classe media” sarà tra le sue priorità, una volta insediato alla Casa Bianca. Ma di “malessere del ceto medio” si parla da anni in tutti i Paesi occidentali, anche se le soluzioni stentano ad arrivare. “Ceto medio. Perché e come occuparsene”, è il titolo del volume, edito da Il Mulino, che raccoglie i primi risultati delle ricerche condotte da un gruppo di lavoro costituito presso il Consiglio italiano per le Scienze Sociali, del quale fanno parte 12 ricercatori e 18 borsisti. Il progetto è coordinato dal sociologo Arnaldo Bagnasco.

Professore, ma perché è così importante salvare il ceto medio?
“Quello che sappiamo è che una crisi pesante del ceto medio ha sempre giocato contro la democrazia. Certo, è rischioso fare confronti con il passato, ma per esempio quando in Germania c’è stata una forte deriva in senso totalitario, negli anni che portarono Hitler al potere, certamente erano coinvolte fasce di contadini e operai, ma il punto fondamentale era che c’era un ceto medio diseducato politicamente, che non era in grado di fornire alcun appiglio culturale. Dobbiamo avere paura di un ceto medio culturalmente e politicamente disorientato”.

Cosa ha innescato la crisi del ceto medio?
“Abbiamo avviato le nostre indagini circa un anno fa. La nostra idea è stata quella secondo la quale si capisce molto dei cambiamenti attuali se si comincia a guardare nel mezzo della scala sociale. La questione del ceto medio è stata sollevata innanzitutto da inchieste giornalistiche, e non solo in Italia, soprattutto negli Stati Uniti, dove la middle class è il perno non solo della società, ma anche dell’idea di società. Il sogno americano consiste proprio in questo, nella possibilità per tutti di acquistare una posizione sicura e ragionevole nella società. Negli Stati Uniti questa prospettiva è andata in crisi soprattutto con lo sfrenato liberismo di mercato. Per cui c’è stato un allungamento della parte della struttura sociale che era nel mezzo: molti sono scesi verso il basso, pochi sono schizzati verso l’alto. E’ successo anche in Italia. Per cui è entrata in crisi l’idea di ceto medio come condizione di piena cittadinanza sociale”.

Chi fa parte del ceto medio oggi?
“Il ceto medio costituiva il 60 per cento della popolazione; adesso questa percentuale è un po’ scesa, è tra il 50 e il 60. Include autonomi o dipendenti, del pubblico o del privato. Un insieme di popolazione che, sulla base di risorse proprie o con il contributo dei sistemi di welfare, rispetto al passato ha raggiunto condizioni di sicurezza, un buon reddito, la garanzia sulla cura della propria salute e la tranquillità per quando si diventa anziani. Una parte di questa popolazione adesso si considera a rischio, è in difficoltà. Ed è difficile ricollocarla, perché non può essere definita come classe popolare o classe operaia: si tratta di ceto medio in difficoltà. Il problema riguarda soprattutto i giovani, che avvertono un ingresso difficile nella vita adulta”.
Ma è soltanto lo status economico che definisce il ceto medio, e in questo caso le soluzioni alla crisi sono quindi solo di tipo economico?
“Quando si ragiona sul ceto medio, si fa riferimento non soltanto a livelli di reddito e di consumo, ma anche a scelte precise. C’è un’importante questione di status, abitudini alle quali il ceto medio difficilmente rinuncia: le vacanze, gli spettacoli, uscire a cena fuori, le dimensioni culturali sono molto importanti, per questo vanno studiate bene a fondo”.

E dunque quali dovrebbero essere le linee fondamentali di una politica a favore del ceto medio? Se negli Stati Uniti il nuovo presidente Obama sembra saperlo molto bene, in Italia si attendono proposte.
“Con questi nostri primi risultati intendiamo orientare delle discussioni pubbliche che possano aprire prospettive in relazione alla politica. Nei prossimi mesi abbiamo in programma una serie di iniziative pubbliche, nel corso delle quali discuteremo con vari interlocutori delle implicazioni delle nostre ricerche. Tenendo presente che nel ceto medio c’è di tutto: Sylos Labini parlava di ‘topi nel formaggio’ per indicare le classi chiuse in se stesse. Ma c’è anche un ceto medio di sviluppo, fatto soprattutto da artigiani e piccoli imprenditori. Ci sono gli immigrati di ceto medio, o che lo stanno diventando. Nella classe media sono entrati anche gli operai. Linee diverse, ma che possiamo ricomporre in una politica complessiva”. (Beh, buona giornata).

 

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Attualità Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male.

Il pacchetto anticrisi varato in dieci minuti dal governo italiano venerdì scorso è irritante, più che deludente. Di fronte a una crisi finanziaria ed economica di dimensioni ciclopiche, il governo ha fatto quello che gli è riuscito meglio fare: ha fatto finta. C’è una sproporzione spaventosa tra la realtà reale e la realtà raccontata durante la conferenza stampa del capo del governo e del ministro del Tesoro, dopo la riunione lampo del consiglio dei ministri. Basta confrontare nel concreto quello che succede nel mondo dell’economia globale per rendersi conto di come e quanto il governo italiano non si è dimostrato all’altezza della crisi.

Barak Obama si appresta a prendere la guida degli Usa, e già sappiamo qual è la sua visione della politica economica e delle misure che la sua amministrazione intende adottare per fronteggiare la crisi. Abbiamo visto la mole e la complessità delle misure adottate dal governo cinese. Abbiamo guardato come ha immediatamente operato il primo ministro inglese Gordon Brown. Abbiamo ascoltato la cancelliere Merkell e il premier Sarkozy indirizzare la Ue al superamento dei rigidi parametri, al fine di recuperare risorse da immettere nelle economie. Si vede che quando i nostri vanno in giro per summit politici ed economici mondiali proprio non capiscono quello che sentono dire dagli altri capi di stato e di governo, sono troppo occupati a fare cucù, a divellere leggii, a fare le corna o a confezionare gaffe di dubbio gusto. Prestare attenzione ai contenuti, quello non è il loro forte.

Se prendiamo in esame le cosiddette misure ci sarebbe da ridere, sembrano la parodia di uno di quei cominci di cui tanto ci si lamenta. Ma c’è poco da ridere: provate a dividere i bonus per le famiglie per i componenti e poi per 365 giorni: a ciascuno rimane in tasca neanche la somma per prendere un caffè al giorno al bar. E’così che si rilanciano i consumi? O attraverso la social card, tanto compassionevole, quanto insultante e umiliante? I versamenti dell’Iva solo a fattura pagata non è una misura, è una proposta che deve essere approvata dalla Commissione europea. Il finanziamento delle grandi opere: quanto è rimasto in cassa di quegli stanziamenti europei accantonati? E fra quanti anni partiranno quei cantieri? Il 5% calcolato su uno stipendio mensile di bonus una tantum per i lavoratori precari che hanno perso il lavoro è un ammortizzatore sociale o una beffa ai danni di chi ha gli stipendi più bassi d’Europa? Il tetto del 4% per i mutui al tasso variabile rischia di essere virtuale, visto che già è al 3,25 e ci aspetta una altro taglio di mezzo punto dalla Bce. E quelli a tasso fisso, che sono la maggioranza?

Non può apparire fuori luogo che il più importante sindacato italiano abbia confermato lo sciopero generale: il pacchetto anticrisi, paradossalmente ne ha rafforzato le ragioni. Mentre ne escono nettamente indebolite le confederazioni che si erano dimostrate più disponibili col governo: oggi sono semplicemente spiazzate dalla pochezza del pacchetto. Anche Confindustria sembra delusa e scettica che queste misure siano un volano per resistere ai morsi della crisi. C’è da aspettarsi che le lame del saving incidano ancora più in profondità nelle aziende italiane, con dure conseguenze occupazionali, oltre che sulle strategie di espansione dei mercati.

Le organizzazioni sindacali di base, forti in alcuni settori, come i trasporti, la scuola e il pubblico impiego hanno già annunciato l’adesione allo sciopero generale. E’facile prevedere che anche l’Onda, il nuovo movimento degli studenti confluirà nelle piazze il 12 dicembre, giorno dello sciopero generale. Non potrebbe essere altrimenti: il pacchetto del governo, che arriva dopo i tagli, rischia di essere una palese conferma dello slogan degli studenti: la crisi non la paghiamo noi. Sarà forse una manifestazione episodica, ma molto fa pensare che si verificherà una saldatura tra lavoratori dipendenti, studenti, operai e ceti medi impoveriti: una risposta politica alla politica che non sa dare risposte sociali alla crisi.

Il combinato disposto dagli avvenimenti mette ancora più sotto i riflettori l’incapacità dell’opposizione parlamentare e del Pd, il partito più numeroso tra i banchi del Parlamento: incapaci di prefigurare uno scenario che guardi oltre la pochezza del governo nel gestire la crisi, si dimostra allo stesso tempo incapace di immaginare una sintesi politica delle proteste contro la politica economica del governo.

Patetici sono i peana all’ottimismo dei consumatori e alla fiducia nel mercato. Suonano poco convincenti, sembrano sermoni fideistici, soprattutto quando vengono pronunciati come chiosa del pacchetto anticrisi, già vuoto di suo e, in questo modo, incartato male dalla demagogia.
Se non si spendono soldi per far girare l’economia, vuol dire che non si ha fiducia nella ripresa economica. La domanda è: se il governo non si fida del mercato, perché dovrebbero fidarsi i consumatori? Non è che uno va in un negozio paga il conto col proprio ottimismo.

Ci sono limiti oltre i quali la propaganda perde la sua efficacia: i sorrisi del governo diventano presto il ghigno del potere. Il fatto è che chi è stato eletto ha pensato di andare al potere, più che di andare al governo. Confondere le due cose è facile e divertente quando le vacche sono grasse. Ma se è vero come è vero che questa non è una crisi ciclica ma è la crisi verticale del neo-liberismo su scala globale, accorgersi di non saper governare la crisi rischia di diventare di colpo un’esercitazione autoritaria, inversamente proporzionale all’inefficacia dell’azione di governo. L’arroganza non colma l’impreparazione. Semplicemente la peggiora. Dalla Storia vengono brutti esempi per la democrazia, bisogna stare attenti quando non si tengono in conto le sofferenze dei ceti medi.

La linea di confine tra disagio sociale e furore collettivo è sottile come un capello, ha scritto John Steinbeck, in “Furore”, romanzo ambientato negli anni della Grande Depressione, che gli valse il Nobel per la letteratura. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

E’ brutta, stupida, fa pena: ecco a voi la pubblicità italiana sul finire del 2008.

Spotandweb.it nel numero del 28 novembre, in una intervista raccolta da Stefania Salucci mi ha proposto una riflessione sulla stato dell’arte della pubblicità italiana, in occasione di Eurobest, un premio europeo dedicato alla creatività, organizzato da un consorzio di riviste del settore della comunicazione commerciale nella Eu. Ecco il testo dell’intervista.

Lei ha seguito numerosi clienti internazionali. Esiste una creatività europea? Se sì, per cosa si caratterizza rispetto alla creatività americana, o asiatica, o africana?

Poiché la presenza sul mercato globale delle marche made in Usa ha fatto scuola, è abbastanza complicato immaginare che esista una comunicazione commerciale di stampo continentale. Basti pensare alle grandi holding finanziarie che posseggono le più importanti sigle della pubblicità quotate in borsa. In questo senso, quando parliamo di pubblicità europea ci riferiamo soprattutto a quella generata in Gran Bretagna e in Francia e in parte in Germania. Si tratta di paesi che hanno un posto solido nella globalizzazione, perché le loro aziende si sono da tempo internazionalizzate, e le loro agenzie hanno fatto network, a seguito della globalizzazione dei loro clienti e della commercializzazione dei prodotti su più mercati. Anche dal punto di vista della cultura della comunicazione commerciale, fare network ha finito per significare l’annullamento delle caratteristiche stilistiche, derivanti dalla cultura specifica di un paese, di un continente. Il capitalismo globale fa presto a fare a meno di tutto ciò che non gli è utile. La pubblicità si è adeguata: la creatività è di un mega-brand, non di un paese, figuriamoci di un continente.

L’Italia come si “posiziona”, creativamente parlando, in Europa?

La pubblicità italiana è l’unica in Europa, ma anche nel mondo che ha una caratteristica peculiare, riconoscibile, inimitabile: è brutta, stupida, fa pena. E’ arroccata, con le unghie e con i denti all’ultimo banco, e come il più ottuso dei ripetenti, se ne vanta. Come la scema del villaggio globale, la pubblicità italiana continua infarcire la tv di migliaia di spot, si è immolata al tubo catodico come a un totem. Ha perso il senso della realtà, più è ossessiva più è distante dalla mente dei consumatori. Siamo il paese con la più alta concentrazione di pubblicità televisiva, ma siamo anche il paese che in Europa soffre di più la crisi dei consumi. Come un gregge senza pastore, ce ne stiamo andando allegramente giù per il dirupo del ridicolo. Comunque, segnali della consapevolezza di un approccio più moderno ci sono, bisognerebbe tenerli d’occhio con più attenzione: penso a Draftfcb, a Brand Portal o ad Altavia. Da quelle parti possono venire stimoli rigeneratori del nostro mercato.

Di chi è la colpa se la pubblicità italiana è è brutta, stupida, fa Pena? Dei creativi, dei clienti o degli italiani?

Parlavo di questo con Hans Suter, la S della mitica STZ. Mi diceva che quando, anni fa, era andato per la prima volta a New York, era rimasto terribilmente deluso dalla pubblicità americana, print, tv, outdoor, tutto.
Forse si sentiva condizionato dalle grandi campagne americane che conosceva, ma che tutte queste belle campagne non rappresentavano più dello zero virgola per mille della comunicazione commerciale, questo non se lo sarebbe l’aspettato. Secondo lui, e mi pare di essere d’accordo, l’unico paese che è un poco diverso è la Gran Bretagna, così come avevano e forse ancora hanno un serbatoio enorme di attori bravi così avevano e forse hanno ancora un serbatoio enorme di art director e copywriter. Questo favorisce che la buona qualità arriva anche a livelli più estesi. Credo che non sia più tempo della ricerca delle colpe, quanto sia urgente investire nei creativi, creargli intorno un ambiente favorevole alla creazione di nuove idee. E’ l’unico vero antidoto al conformismo, a quella diffusa dittatura dell’autocensura che ha fatto retrocedere in serie B la nostra creatività, una mediocrità che arriva anche nei concorsi internazionali. Siamo ancora in tempo per invertire la tendenza che ci fa apparire rinunciatari di fronte alle innovazioni e refrattari alla sfida nei confronti di regole che sono superate dai fatti economici, sociali e culturali di questi primi otto anni del Terzo millennio.

Cosa possiamo aspettarci dall’Italia in occasione di Eurobest?

Che non ci caccino, una volta per tutte.

E cosa può dare Eurobest all’Italia?

L’ennesima lezione, come succede ormai in tutti i consessi internazionali, a cominciare dal festival di Cannes. Ormai siamo un lontano cugino un po’ intronato del mondo della pubblicità, di quelli che si sopportano, perché tanto non cè proprio niente da fare. Ogni volta torniamo a casa piagnucolando come mocciosi, poi tiriamo su col naso e ricominciamo a fare le stesse cazzate di prima.

Cosa ne pensa dei concorsi internazionali: sono ancora un valido termometro per misurare la creatività di un’agenzia? E di una nazione? Sono un traguardo o un trampolino professionale per i creativi?

Tutte le occasioni di incontro e di confronto tra le idee sono utili. Parlo di idee, quelle che da noi sono viste come la peste. Infatti, quando raramente ancora vinciamo qualcosa, il dibattito, invece che sull’idea, si sposta sull’auto-valorizzazione delle sigla o del creativo che ha vinto. Vedere, capire e approfondire le ragioni di una approccio creativo vincente è qualcosa di molto più importante che trastullarsi all’idea di dove mettere il trofeo: in sala riunioni dell’agenzia o sul tavolo del creativo che lo ha vinto? Qui il problema non è il trampolino di lancio, quando ogni giorno c’è chi toglie l’acqua dalla piscina. Vincere un premio fa bene alla salute, diceva un famoso creativo italiano. Ma i premi passano, le campagne restano, come segnale del livello raggiunto dalla creatività sul quel prodotto, su quel settore merceologico, sul quel media. I concorsi internazionali sono un contributo alla crescita della cultura professionale. Tutto il resto ha un valore relativo al contesto al quale si è partecipato. Sedersi sugli allori fa venire i foruncoli sulle natiche.

Secondo lei, c’è una tendenza internazionale (e di questi festival) a premiare campagne che funzionano visivamente (o concettualmente) indipendentemente dal testo? Se sì, cosa ne pensa?

In genere vincono idee innovative, approcci sorprendenti, esecuzioni inusuali. In una parola, quello che chiamiamo creatività. C’è stata una certa tendenza a produrre campagne “da concorso”, con grandi foto e piccoli testi.
Però, l’esame autoptico di una campagna, del rapporto tra immagine e testo, francamente non mi appassiona. Anzi, lo trovo un bel po’ fuorviante, mi fa pensare alla relazione che sempre si stabilisce tra il saggio, lo stolto, la luna e il dito.

Esiste davvero e funziona una comunicazione globalizzata, standard in tutto il mondo, oppure per essere efficacie deve adattarsi (in termini creativi e di contenuti) al paese in cui viene trasmessa?

Tra le esigenze della marca globale e le aspettative del consumatore locale si stabilisce sempre una relazione dialettica, che deve essere interpretata dalla creatività. Le strategie della comunicazione commerciale moderna non sono semplicemente riconducibili alle esigenze tra globale e locale di uno specifico veicolo, come la tv o la stampa. Le marche moderne usano tutta la filiera della pubblicità. Ciò che conta, che fa la differenza tra una campagna di successo e un flop, sta nello stesso superamento del concetto di campagna, così come lo abbiamo pensato nel ‘900. La grande marca ha aperto una piattaforma multicanale di comunicazione col suo mercato, di cui la campagna specifica è solo un segmento. Internet ha svoltato il Terzo millennio della comunicazione commerciale, rendendo mobile sulla filiera degli strumenti la sintesi che una volta era di puro appannaggio dell’advertising classico, con la tv come punta di diamante. A seconda della risposta dei mercati, la sintesi si può verificare in altri ambiti, che non è detto siano semplicemente le azioni sulla pubblicità tabellare. L’attuale grave crisi finanziaria ed economica che sta attraversando tutto il mondo spingerà sempre di più la pubblicità verso multidisciplinarità e multicanalità. Non è una mera questione di economie di scala, ma la prospettiva di nuovi traguardi che le grandi marche devono sapersi dare. Questo è il grande compito che abbiamo davanti. E’ con questo spirito che dobbiamo andare ai concorsi internazionali: prendere le misure di una nuova realtà, prepararsi a esserne all’altezza. Qui se non si è capaci di volare alto, possiamo dire addio a ogni velleità, a cominciare da un ambìto pezzo di latta da mettere nella bacheca dei trofei. (Beh, buona giornata.)

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Risolto lo strano caso.

Ho scritto: “Francamente credo si tratti di un banale incidente di percorso nella confezione del giornale.” Antonio Tricomi, sabato 22 ha commentato:“Vedendo l’intervista, ho notato anch’io l’amara coincidenza”. E ha aggiunto, nel suo commento di domenica 23: “L’articolo è stato impaginato alle 22 di domenica e gli spazi pubblicitari vengono decisi la mattina.”

Al netto di attacchi personali e non richieste difese d’ufficio di una prestigiosa testata giornalistica, ciò che si evince è che ho scritto il vero: si è effettivamente verificato “un banale incidente di percorso nella confezione del giornale”. Lo strano caso di product placement sulla carta stampata è risolto. Il caso è chiuso. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Uno strano caso di product placement sulla carta stampata.

Il giorno dopo che a Secondigliano un commando ha aperto il fuoco su un gruppo di ragazzini, ferendoli alle gambe all’interno di una sala giochi, il quotidiano La Repubblica dà conto di un’ intervista con il pm Raffaele Cantone, titolare delle indagini anti-camorra nella zona di Scampia.

A pagina 2, in taglio basso, Antonio Tricomi firma l’intervista intitolata “Una volta il quartiere era sicuro, ora a Scampia di notte regnano i killer”. Per poter arrivare al punto della questione che qui sollevo, devo citare un brano dell’intervista.

Dopo aver ricordato ai lettori che Raffaele Cantone ha appena pubblicato “Solo per giustizia”,un libro sulla manovalanza giovanile della camorra, Tricomi chiede al pm:
-Sembra averla colpita in modo particolare la morte di un giovane killer delle “case celesti” di Scampia, episodio a cui dedica pagine molto significative. Può spiegarcene il motivo?

Cantone risponde:-Ci stavamo recando sul luogo del delitto. Con me c’era un capitano dei carabinieri, mi stava raccontando nel dettaglio le vicende di cui la vittima era stata protagonista: si era trovato a essere prima un killer del clan Di Lauro e poi degli “Scissionisti”. Era stato protagonista di numerose azioni di fuoco.

Tricomi chiede:- Il capitano non aveva fatto in tempo a dirle l’età?
Cantone risponde:- No. E dai suoi racconti tutto mi aspettavo tranne che di trovare sull’asfalto un ragazzo di diciannove anni. Notai che portava un paio di Hogan (…).

Interrompo questa citazione, per arrivare subito al punto. Infatti, anch’io tutto mi sarei aspettato, tranne che di trovare un annuncio pubblicitario a piè di pagina del quotidiano: tecnicamente si chiama piedone, perché l’annuncio confinava perfettamente con l’intervista, che come ho già detto era in taglio basso della seconda pagina.

Era un annuncio pubblicitario della Hogan.

Si tratta di un macabro episodio di product placement, come si chiama l’inserimento nelle fiction di prodotti, la cui marca è appositamente resa visibile?
Francamente credo si tratti di un banale incidente di percorso nella confezione del giornale.
Ciò non toglie che cose del genere fanno accapponare la pelle, oltre proprio a non giovare alla testata, all’inserzionista, né ai lettori. Beh, buona giornata.

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Attualità Pubblicità e mass media Società e costume

Non crocefiggete quel manifesto.

Cucù: non appena ha fatto capolino, un annuncio dedicato alla giornata mondiale contro la violenza sulle donne ha fatto polemica. L’annuncio, che è visibile sul sito di Telefono Donna di Milano, mostra una donna sdraiata su un letto, come fosse stata crocefissa. Il titolo dice: “Chi paga per i peccati dell’uomo?”.

La polemica è nata perché un assessore del Comune di Milano, competente per le affissioni comunali, si sarebbe rifiutato di concedere gli spazi pubblicitari, perché “lede il sentimento religioso dei cittadini”. La campagna sarebbe dovuta uscire il 25 novembre prossimo, in occasione, appunto, della giornata mondiale sulla violenza contro donne.

In aggiunta, pare che il presidente di una nota associazione di pubblicitari abbia invitato i propri iscritti a pronunciarsi in merito all’eventualità che il Giurì di Autodisciplina pubblicitaria censuri l’annuncio, anche prima della sua uscita sui manifesti. Segno dei tempi: la pubblicità italiana è la più fiacca d’Europa, perché c’è chi crede che i creativi debbano essere i notai del comune senso del pudore.

I fatti si sono messi in modo che la campagna in questione è uscita, ma non è uscita. Cioè, è uscita sul web ed è stata citata dai giornali che hanno riferito della polemica suscitata. Però, non è uscita perché il Comune di Milano non ha concesso gli spazi, alimentando così la polemica e dando una spinta alle visite sul sito web, ove è tutt’ora possibile vedere la donna crocefissa. Altro segno dei tempi: internet batte le baruffe chioggiotte (in questo caso meneghine).

Dunque, Telefono Donna ha pienamente raggiunto l’obiettivo: far parlare di sé, attraverso un annuncio, contemporaneamente pubblico e clandestino.
La qualcosa è una metafora dell’oggetto della comunicazione dell’annuncio stesso: lo sanno tutti che spesso le donne vengono maltrattate, però nessuno vuole che si dica, spesso neppure le donne vittime delle violenze. Infatti, nell’annuncio c’è scritto che solo il 4 per cento delle donne che hanno subito violenze hanno il coraggio di denunciarle.

La domanda è: che cosa è lesivo della sensibilità dei cittadini? La violenza clandestina sulle donne o la denuncia pubblica, attraverso un annuncio pubblicitario? Non vi possono essere dubbi: la violenza sulle donne c’è ed è in crescita. Calano tutti i reati, meno che quelli perpetrati contro le donne. Dunque, l’annuncio in questione è giusto, perché dice una cosa vera.

Però, si è voluto entrare nel merito dell’aspetto creativo dell’annuncio, invece che sul merito della questione all’origine dell’annuncio. E questo è sbagliato, tanto quanto sottovalutare la questione stessa. Ed è sbagliato proprio perché si è voluto limitare la libertà di espressione di un preciso punto di vista: nell’Italia di oggi essere donna significa ancora troppo spesso portare la croce di una condizione discriminatoria, nel lavoro, nella famiglia, nell’intimità, che rende possibile l’impunità dei comportamenti violenti nel lavoro, in famiglia, nell’intimità. Difficile non inquadrare le polemiche nate intorno al manifesto in questione come una logica conseguenza di atteggiamenti di stampo maschilista, confezionati con il trito moralismo da negozio di barberia di paese.

Quanto all’immagine-scandalo della donna seminuda sdraiata su un letto matrimoniale, c’è da ricordare che la violenza sulle donne avviene proprio sul talamo nuziale, lo stesso su cui si manifesta la presunta supremazia sessista, che pretende poi omertà e impunità.

Per questa semplice ragione l’annuncio non è solo giusto, ma anche corretto. Qualcuno teme sia troppo forte? E’ la creatività, bellezza. Beh , buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Popoli e politiche

G 20, il summit che convocò un altro summit.

Che hanno deciso i venti capi di stato e di governo riuniti a Washington lo scorso week end? Niente. Anzi no. La riunione ha deciso di convocare una altra riunione, alla fine di Marzo 2009.

Di fronte alla peggiore crisi finanziaria ed economica mai vista, il G 20 ha dimostrato di avere le carte in regola: chiacchiere, distintivi e arrivederci a Pasqua. Delusi? Ma no. A parte Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia in Italia, ma che a Washington rappresentava una importante organismo internazionale, a nome del quale ha detto, papale papale, che non è che l’inizio, perché la crisi sarà ancora peggio delle previsioni, tutti i rappresentanti dei paesi detentori dell’80 per cento della ricchezza mondiale sono usciti dal G 20 abbastanza rinfrancati: nella dichiarazione finale si legge un franco e leale “mal comune, mezzo gaudio”.

La qual cosa è comprensibile. Fatte le debite differenze, tutti i venti del G 20 sono rappresentanti di paesi che li hanno mandati al governo nell’era matura del neoliberismo economico, hanno vinto elezioni con lo slogan “meno stato, più mercato”. Non è che adesso, così, di punto in bianco possono cambiare idea. Ognuno aspetta che siano gli altri a fare la prima mossa: va avanti tu, che a me scappa da ridere.

Il più sorridente di tutti era il padrone di casa: Bush sembrava Totò nella famosa gag, che finiva con la celebre frase: “Che me ne frega a me, che sono Pasquale, io?”. La crisi può attendere: il 20 Gennaio si insedia Barak Obama. Ha voluto la bicicletta, che se la pedàli lui.

Nel frattempo, consumatori di tutto il mondo, unitevi: stringete la cinghia e sperate in bene.

Da noi, sono stati annunciati 80 miliardi di euro di misure anticrisi. Annunciati, mica stanziati. In queste ore si sta facendo il processo alle intenzioni dello stanziamento annunciato. Siamo alle solite: io annuncio, tu discuti sull’annuncio e alla fine io faccio quello che mi pare, con la “gagliardia di un ventenne”.

Una cosa, fin qui è chiara: il governo italiano aveva promesso misure entro Natale. Per il momento le ha annunciate, ha mantenuto la promessa dell’annuncio annunciato. Che è la cifra stilistica che va per la maggiore, non solo in Italia, stando a quanto pare sia successo anche al G 20.

E allora, suvvia, bando alle ansie, basta analisi catastrofiche, finiamola con le fosche tinte. Temi per il tuo posto di lavoro? Non ce la fai a pagare i mutui? Stai riducendo ai minimi storici la tua capacità di consumare? Hai la sensazione che ti stiano rubando il futuro? Fa come hanno fatto al G 20: rimanda tutto a fine marzo 2009.

Siate ottimisti, per dio: quest’anno, invece che i regali di Natale, scambiatevi direttamente gli auguri di Buona Pasqua. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro

Alitalia: i frutti amari del lodo Letta.

Un gruppo di dipendenti Alitalia, duecento, probabilmente preda di un livello alto di emotività, suggestionati dalla piega che ha preso la vertenza, ha deciso il blocco dei voli. La parola blocco girava da giorni, come riportavano i giornali, ma finora era prevalsa l’idea di un confronto duro, ma dentro la dialettica delle posizioni. E invece, alle 17 di lunedì si vota uno sciopero con partenza alle 18, della durata di ventiquattrore, fuori dalle regole.

Le agenzie di stampa ci dicono che a nulla sono servite le parole del cosiddetto “fronte del no”: essi sono stati scavalcati dall’esasperazione, dalla rabbia, dalla frustrazione di un gruppo di dipendenti.

E così, sono stati cancellati, senza preavviso molti voli, soprattutto nella tratta Roma-Milano, con il conseguente disappunto dei passeggeri.

Si è arrivati a questo dopo che con il “lodo Letta” si è voluta chiudere ogni possibilità di trattativa sulla stipula dei nuovi contratti di lavoro in capo a Cai, la nuova compagnia che prenderà il posto di Alitalia nel trasposto aereo italiano.

Il governo, invece che essere terzo tra le due parti, si è schierato sbrigativamente dalla parte di Cai.

Da parte sua Cai ha rincarato la dose, scrivendo alle organizzazioni sindacali di base che non avrebbe riaperto nessuna trattativa.

Agli occhi dei dipendenti, Cai è apparsa essere una sorta di spin-off del governo. E questo non ha davvero giovato alla ricerca di una soluzione.

Le organizzazioni sindacali confederali che prima emettono un comunicato congiunto con tutte le nuove sigle, di fronte al lodo Letta capitolano, accettano di firmare, ratificano la spaccatura del fronte sindacale. Forse Cgil non è molto convinta, ma alla fine firma ugualmente.

Governo, Cai e confederali, come hanno pensato di gestire la situazione che si è venuta a creare col lodo Letta? Speravano la protesta si spegnesse da sola? O qualcuno contava su qualche gesto inconsulto, come appare essere a tutti gli effetti il blocco improvviso?

Perché proprio di un gesto inconsulto si tratta: non ha respiro, provoca la precettazione, aliena la simpatia dei cittadini. Se una vertenza, basata su elementi di legittimità che si possono discutere ma non negare, diventa invece una mera questione di ordine pubblico, sono i dipendenti in lotta i primi a rimetterci.

Infatti, il ministro dei trasporti, invece che farsi carico di una vertenza che riguarda il suo dicastero, ha chiesto apertamente la precettazione dei dipendenti in sciopero selvaggio.

E poi, il ministro del lavoro, invece che fare il ministro del lavoro, cioè tentare di tenere insieme, con il paziente esercizio della mediazione le esigenze delle aziende e quelle dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali, ha rilanciato l’idea di restringere i limiti del diritto di sciopero.

Entrambi i ministri, che avrebbero dovuto dare all’opinione pubblica qualche spiegazione del perché quella di lunedì 10 è stata una giornata terribile per il trasporto in Italia, del perché non si è messo mano per tempo alla vertenza sulla mobilità, che avrebbe evitato la paralisi contemporaneamente del trasporto pubblico, delle linee metropolitane e dei treni, trovano invece una occasione insperata: all’unisono chiedono sanzioni. Le sanzioni, si sa, sono sempre un bel trucco per chi non vuole trovare soluzioni.

Quando saranno passati i fumi dell’irrazionalità, anche i partecipanti allo sciopero selvaggio si renderanno conto di aver preso una pericolosa cantonata. Che cosa portano a casa, dopo aver provocato questo casino? Hanno solo colto il frutto amaro del lodo Letta, con il rischio serio di avvelenare tutti i prossimi passi di una vertenza che non è né facile, né di breve durata.

Qualcuno, tornando tra i compagnetti della sua parrocchietta potrà anche vantarsi di aver vinto una assemblea e fatto votare a maggioranza la sua bella mozione “dura”. Bravo, bel tiro, peccato sia stato un autogol.

Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

La recessione? Tranquilli che “mo’ viene Natale”.

Domenica scorsa, a borse chiuse, la Cina ha tirato fuori 586 miliardi di dollari di risorse statali per i prossimi due anni, l’equivalente del 20% del Pil cinese. Secondo Federico Rampini di Repubblica il paragone non va fatto coi 700 miliardi del piano Paulson destinati a ricapitalizzare le banche, ma coi 200 miliardi di dollari di sostegno alla crescita varati quest’anno negli Usa. Secondo Pino Longo, corrispondente Rai da Pechino, la cifra stanziata dal governo cinese, paragonata al tenore di vita dei cittadini cinesi, equivarrebbe a 2000 miliardi di dollari.

 “Negli ultimi due mesi – si legge nel comunicato diffuso ieri a Pechino – la crisi finanziaria globale ha avuto un’accelerazione giorno dopo giorno. Di fronte a questa minaccia dobbiamo aumentare gli investimenti pubblici in modo energico e rapido”.

Si  preannuncia una “politica fiscale aggressiva” fatta di maggiore spesa pubblica e sgravi d’imposte, insieme con una “politica monetaria espansiva” (nuovi tagli dei tassi, dopo che la banca centrale ha già ridotto per ben tre volte il costo del denaro da metà settembre). La terapia shock sarà mirata anzitutto a “migliorare le condizioni di vita della popolazione, perché possa aumentare i consumi”.

 

La terapia d’urto includerebbe nuovi investimenti pubblici nell’edilizia popolare, l’accelerazione della costruzione di ferrovie e aeroporti; investimenti nelle energie rinnovabili; spese sociali a favore delle fasce più indigenti; prestiti alle piccole e medie imprese; detassazione sugli acquisti di macchinari industriali. Insomma, un vero e proprio New Deal, in salsa cinese.

Mentre negli Usa si contano i giorni dell’insediamento di Barak Obama, e nel frattempo si cerca di capire se anche la sua nuova amministrazione vorrà e saprà prendere di petto la situazione economica, come il neo presidente ha già detto nella sua apparizione pubblica dopo la vittoria elettorale, il resto del mondo sembra intontito, come la lepre abbagliata dai fari di un’auto. L’ubriacatura neoliberista sembra dura da digerire.

E’ il corso il G20, ma finora l’unica notizia degna di nota è il richiamo in patria del ministro dell’economia cinese domenica scorsa, per varare appunto il piano cinese anti-recessione.

In Italia? A parte tagli alla spesa pubblica, che stanno facendo protestare il mondo della scuola e i dipendenti pubblici; a parte la vicenda Alitalia, che caricherà il contribuente di ulteriori enormi oneri, e che al contempo ha creato una situazione libanese tra i dipendenti; a parte i tagli alla sicurezza e alla giustizia; insomma, a parte i tagli che scopriremo quando la Finanziaria sarà varata,  il governo italiano sembra imbambolato.

Cala la produzione industriale, calano i consumi, si stanno perdendo migliaia di posti di lavoro, si stanno abbandonando al loro destino migliaia e migliaia di lavoratori precari, proprio mentre il Parlamento si accinge all’esame della legge Finanziaria discussa in nove minuti e mezzo al Consiglio dei ministri, nove settimane e mezzo fa, prima della crisi dei mutui, prima dell’arrivo della recessione, prima della misure straordinarie prese negli Usa e in Cina.

Il ministro Tremonti ha detto: “Da qui a Natale tutti i paesi europei prenderanno i loro provvedimenti”. Ci fa piacere.

Nel frattempo, per ingannare la recessione, potremmo metterci  a cantare: “Mo’viene Natale, nun tengo denare, me leggo ‘o giurnale e me vaco a curcà! . Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro

Alitalia: ricevo e pubblico “al volo”.

COMUNICATO   STAMPA

 

ALITALIA/CAI:        ONDA ANOMALA, CIELI ANOMALI.

Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia, SDL Intercategoriale denunciano la gravissima situazione che si è venuta a creare con il perpetuarsi dell’atteggiamento di rigida chiusura adottato dalla CAI, fortemente sostenuta dal Governo.

Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia, SDL Intercategoriale informano l’opinione pubblica e le istituzioni che CAI con la complicità di CGIL, CISL, UIL e UGL ha stravolto e disatteso i Contratti Collettivi di Lavoro già concordati e sottoscritti nel mese di settembre a Palazzo Chigi da tutte le sigle sindacali e dal Governo.

La firma del “Lodo Letta” apposta il 31 ottobre scorso da parte di CGIL, CISL, UIL e UGL rappresenta il punto più basso mai raggiunto sia in termini di rispetto della democrazia e della rappresentanza, sia rispetto al ruolo primario del sindacato che così riconosce implicitamente la propria incapacità di tutelare i lavoratori, consegnando all’insindacabile giudizio di una terza parte governativa l’avallo allo stravolgimento di Contratti Collettivi di Lavoro già sottoscritti.

Quanto sopra ulteriormente aggravato dalla definizione di criteri di assunzione iniqui, socialmente inaccettabili e non rispettosi delle anzianità aziendali maturate dai lavoratori.

Inoltre il rifiuto posto dalla CAI ad utilizzare il part-time nelle assunzioni, senza oneri aggiuntivi per l’azienda, e l’inscindibilità dell’offerta fatta al Commissario che di fatto esclude offerte già pervenute per Volare e per Alitalia Express ma senza fornire le medesime garanzie occupazionali per i lavoratori coinvolti, ingigantisce il numero delle eccedenze di personale  generando ulteriori quanto evitabili disastri sociali oltre che costi aggiuntivi a carico della collettività. Il tutto mentre CAI beneficierà di enormi vantaggi in materia di decontribuzione previdenziale e defiscalizzazione.

L’operazione CAI, quindi, genererà paradossalmente un costo per i contribuenti superiore a quello della vecchia Alitalia indebitata ed inefficiente.

Per questi motivi, Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia, SDL Intercategoriale, costantemente riunite in una Unità di Crisi e consapevoli della convergenza che si sta generando e concretizzando con altre categorie sociali oggi in situazioni di grave conflitto nel Paese, annunciano  che le iniziative già dichiarate nei giorni scorsi si inaspriranno ulteriormente.

Non sono in gioco le singole vertenze, si sta tentando di costituire una nuova “santa alleanza” che intende escludere le voci non allineate anche quando fortemente rappresentative.

 Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia, SDL Intercategoriale preannunciano che, a partire dallo sciopero del 25 novembre prossimo, sono già state individuate le seguenti date che verranno interessate da ulteriori azioni di sciopero che verranno opportunamente proclamate nel rispetto della normative vigente: 6 dicembre 2008, 7, 16, 27 Gennaio 2009 – 9, 20 Febbraio 2009 – 3, 16, 27 Marzo 2009 – 7, 20 Aprile 2009 – 4, 15, 26 Maggio 2009.

Roma, 9 novembre 2008

 

                               ANPAC – UNIONE PILOTI – ANPAV – AVIA – SDL Intercategoriale

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Attualità Lavoro

Vertenza Alitalia: “Per battere l’arroganza di Cai e Governo dobbiamo volare alto”

Intervista a Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale di Sdl Intercategoriale.

 

 

Fabrizio Tomaselli non ha la faccia né i modi di un estremista, ha gesti gentili e, dietro quei grandi occhiali da vista,  uno sguardo pulito. Parla in modo pacato, a tratti caldo, a volte duro. C’è tensione tra i lavoratori di Alitalia, la stessa che Tomaselli sembra aver interiorizzato.  Il suo lavoro è assistente di volo, il suo ruolo è coordinatore nazionale di Sdl intercategoriale, una delle sigle del “fronte del no”, come la stampa ha definito quelli che non accettano gli accordi  sanciti dal “lodo Letta”

Tomaselli, che cosa è il lodo Letta?

Un trucchetto, un sotterfugio escogitato a Palazzo Chigi lo scorso venerdì 29. Le trattative erano state improvvisamente interrotte da Sabelli, l’ad di Cai il mercoledì precedente. Venerdì 29 siamo stati convocati dal Governo. Invece di spiegarci il perché della unilaterale sospensione della trattativa, il Governo, nella persona di Gianni Letta ci presenta un paio di fogli di carta e ci chiede di firmarli: c’era scritto che tutto quello che non è stato ancora definito dalla trattativa lo garantisce lui, come rappresentante del Governo. Una cosa mai vista.

In che senso?

Facciamo un esempio. Lei va a comprare un macchina nuova. Lei fa le domande che si fanno a un concessionario:  che cilindrata? Quanti chilometro per litro? Quali optional? Qual è l’anticipo? Quante rate? Quello si spazientisce e ti dice: adesso basta, firmi il contratto. Tutto quello che sarà difforme dal contratto lo garantisco io che sarà conforme. Lei che farebbe?

Gli girerei le spalle, e me ne andrei pensando che gli manca qualche rotella.

E’quello che abbiamo pensato tutti. Però, senza un vero perché Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno firmato. Hanno comprato una macchina nuova senza sapere niente di quello che avevano sottoscritto. All’incontro erano presenti tutte le nove sigle che rappresentano i lavoratori di Alitalia, e hanno firmato solo quelle che meno rappresentano le categorie interessate.

Sì, ma qual è il punto?

Semplice. Gli accordi di settembre prevedevano che si sarebbero contrattati i dettagli. Mercoledì  27, alle 23,45, dopo 7 ore di trattativa, Sabelli di Cai si è alzato e se ne andato, interrompendo il dialogo. Venerdì 29 il Governo, invece che mediare tra le parti, ha voluto imporre la volontà di una parte, la Cai. Letta, invece che una crostata, ha cucinato un pasticcio, come ha detto l’on. Casini.

Se questa è la verità, allora perché i sindacati confederali hanno invece firmato il lodo Letta?

Hanno sottoscritto un placet politico al progetto Cai, perché è certo che i contenuti degli accordi contrattuali non si sono voluti prendere in esame. La domanda è: rappresentano i lavoratori presso la Cai, o la Cai presso i lavoratori? Perché il Governo garantisce tutto a Cai e invece niente ai lavoratori? Perché è possibile che si garantisce che la Cai non dovrà restituire il prestito ponte, come chiede l’Europa, e in cambio non si vogliono sottoscrivere garanzie ai lavoratori in cassa integrazione, ai precari, alle madri lavoratrici e neppure ai lavoratori che hanno familiari disabili in famiglia? Perché a Cai si danno garanzie di “immunità” sulla norme antitrust, italiane e europee e invece ai lavoratori si nega anche il solo diritto di discutere, attraverso i loro rappresentanti, punto per punto la stesura del nuovo contratto di lavoro? Abbiamo letto che Tremonti ha detto: “Dobbiamo puntare di più sui valori e sull’etica e meno sugli interessi economici”. Belle parole. Fatto sta che il lodo Letta punta tutto sugli interessi di Cai e nulla sui valori del lavoro, né sull’etica di Cai.

Lunedì 3 avete tenuto un’assemblea a Fiumicino. C’era molta tensione e molto nervosismo. C’è chi ha parlato di blocco totale.

I lavoratori sono esasperati, non solo dai contenuti del lodo Letta, ma anche dal modo di condurre questa vicenda da parte di Cai e del governo, che non media, si schiera smaccatamente. L’assemblea ha deciso di rigettare il lodo Letta, nella forma e nella sostanza, ha dichiarato lo stato di agitazione permanente dei lavoratori e ha dato mandato alle sigle che li rappresentano di dare vita a tutte le iniziative necessarie per sbloccare la vertenza.

L’assemblea ha chiesto alla Cgil di ritirare la sua adesione al lodo Letta. Perché?

La straordinaria gravità della vertenza Alitalia impone una riflessione generale su come nel nostro Paese si stanno rapidamente modificando in modo negativo le  relazioni tra aziende, organizzazioni sindacali e lavoratori.

Siamo di fronte ad una situazione nella quale un’azienda (CAI) non rispetta gli accordi sottoscritti ed i più elementari principi etici, ricatta in modo strumentale lavoratori che già si trovano in uno stato di estremo disagio e di profonda incertezza per il proprio futuro, infrange e ridicolizza riconosciuti criteri di solidarietà sociale e calpesta le più basilari regole di democrazia e rappresentanza sindacale. Chiediamo alla Cgil di essere coerente con la posizione presa da Epifani in occasione della rottura delle trattative con Confindustria sul nuovo modello di contratto, sulla vertenza nell’impiego pubblico, del contratto del commercio, coerente con la decisione che vedrà i metalmeccanici in sciopero il prossimo 12 dicembre.

Colaninno, presidente di Cai ha detto che la trattativa è conclusa. Prendere o lasciare.

Colaninno si sente fortemente spalleggiato dal Governo. La Cai è appena nata e già si sente favorita dal Governo, in ogni senso. Sa di poter contare su soldi pubblici (i famosi trencento milioni), sa di poter contare sulla macchina propagandistica della maggioranza che appoggia il governo, che minaccia i lavoratori di non poter godere della cassa integrazione se non accettano le condizioni di impiego in azienda.

Alitalia è ormai per Governo e Confindustria un banco di prova per far passare modelli contrattuali e meccanismi di rappresentanza sindacale più penalizzanti e più autoritari: in tale scenario i lavoratori sono trattati come cavie di tale “sperimentazione”. Questo modo di immaginare le relazioni industriali è autoritario.

La logica che  Confindustria vuole imporre è quella del “prendere o lasciare”, senza neanche percorrere la strada del reale confronto: questo è un metodo sindacalmente inaccettabile ed eticamente censurabile.

Colaninno ha detto che bisogna mettere la parola fine alla logica dei veti incrociati. Non vuole cogestione col sindacato, come è avvenuto negli anni passati in Alitalia.

L’idea-forza di Colaninno:è comanda l’impresa, non gli accordi. Però poi trova comodo che la cogestione si sia spostata dall’azienda a Palazzo Chigi, come dimostra il lodo Letta. La nostra idea-forza è semplice: noi facciamo sindacato, ne abbiamo legittimità, sia dal punto di vista giuridico, perché nel nostro paese fare sindacato è legale; sia dal punto di vista del consenso, perché rappresentiamo, assieme ad altri soggetti sindacali, la maggioranza schiacciante dei lavoratori. Li rappresentiamo e li consultiamo frequentemente. La cogestione l’hanno tentata di fare le sigle confederali. Colaninno ha due scelte: o tratta con noi, che siamo agguerriti, ma leali nei confronti degli accordi presi. Oppure cercare una sponda con sigle compiacenti, ma inaffidabili, perché hanno poco peso e credito tra le categorie del trasporto aereo. Nel primo caso ci troverà pronti alla trattativa, nel secondo è lui stesso che crea una nuova cogestione. Se ha a cuore il futuro della sua impresa,  e non solo i ricavi che conta di gestire, sa quello che deve fare.

Tomaselli, Sdl è un sindacato di base, con radici nel sindacalismo alternativo alle sigle storiche. Come vi trovate insieme a sindacati, che spesso di autodefiniscono associazioni professionali, ma che in genere vengono chiamati autonomi, per non dire corporativi?

Ciò che ci unisce è uno scenario completamente nuovo nel panorama delle relazioni industriali e sindacali. Il modello autoritario che si sta sperimentando in Alitalia non può che unire tutte le categorie che si sentono minacciate nella loro professionalità, ma anche nel loro modello sociale di riferimento.

Prendiamo i piloti. Sono professionisti di alto profilo, erano considerati facente parte la classe dirigente del Paese. Hanno nutrito anche simpatie politiche per le forze che  rappresentano un governo che oggi vorrebbe anche solo negargli voce in capitolo.

L’attacco della crisi colpisce tutti gli strati: quelli più deboli, come gli operai aeroportuali; quelli medio-bassi, come i tecnici e gli assistenti di volo; quelli medi, come i piloti, arrivando a colpire anche i comandanti, il cui tenore di vita era, fino a poco tempo fa, medio-alto. Se alla crisi si associa l’arroganza e l’autoritarismo della Cai e del Governo, la coscienza di essere maltrattati unisce. E’ la condizione materiale che prende atto del proprio stato, al di là dei retaggi politici o ideologici. Non va dimenticato, che al contrario degli industriali della cordata, Sdl e Anpac, al pari delle altre sigle, il trasporto aereo lo conoscono, lo vivono sia negli aspetti tecnici che in quelli commerciali, vale a dire la relazione con i clienti, cioè i passeggeri.

Come pensate di sostenere la grande pressione che vi stanno esercitando contro per costringervi a sottoscrivere il lodo Letta?

Barak Obama ha detto: “Non siamo una collezione di individui, siamo un nazione”. Parafrasando le sue parole, mi viene da dire che  quella di Alitalia è una situazione e una vertenza gravissima che coinvolge ormai tutti i lavoratori italiani e che deve essere affrontata saldando in un unico obiettivo tutti i lavoratori, i precari, gli studenti e le forze sociali del Paese: battere l’autoritarismo e l’arroganza della Confindustria e del Governo e rendere possibile un’ampia, collettiva e democratica risposta di tutte le forze sane di questo Paese.

Insomma, avete intenzione di volare alto.

Sì. Per battere l’arroganza di Cai, del Governo e di Confindustria dobbiamo volare alto. D’altronde, volare alto è il nostro lavoro. No? (Beh, buona giornata)

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Attualità Popoli e politiche

Con Barak Obama comincia il Terzo millennio.

 Il ‘900 ha resistito con tutte le sue forze: terrorismo, guerre, crisi ambientali e finanziarie, recessione economica, razzismo, xenofobia, neoliberismo, smantellamento del welfare, impoverimento delle classi medie. Poi, sia pure con otto anni di ritardo, finalmente comincia il Terzo millennio. Beh, buona giornata.

 

 

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Attualità Popoli e politiche

4 Novembre: un paese moderno ha ancora bisogno di retorica e demagogia?

 

Con un’enfasi degna di miglior causa, il ministro della difesa ha spiegato giorni fa durante una trasmissione televisiva che il bello della prima guerra mondiale è stato che migliaia di italiani, provenienti da tutta Italia si fossero incontrati per le prima volta nelle trincee. Forse una riflessione più attenta avrebbe sconsigliato il ministro di lanciarsi su questo argomento: quelle trincee si sono riempite di oltre 600 mila morti e più di un milione di feriti, quella che fu definita “carne da cannone”.

Non si capirebbe il motivo per cui collegare la data che festeggia le forze armate italiane con il 90° anniversario della Guerra 15-18 se non con l’ideologia che guida il ministro della difesa italiano in carica. Un conto è festeggiare le Forze armate e rendere omaggio ai caduti, altro è fare retorica e demagogia.  Sarebbe stato meglio che il 4 novembre 2008 si fosse occupato delle forze armate di oggi e avesse lasciato in pace (!?) i dolori e le lacerazioni di novanta anni or sono: insomma, sarebbe stato meglio lasciare il 4 Novembre sul calendario e la  Guerra 15-18 sui libri di storia.

“Non si evochino per amor di polemica politica o veteroideologica, spettri che nessuno vuole più resuscitare”, ha detto con molta chiarezza il Capo dello Stato.

Ma il ministro c’ha sto vizietto. Un saggio della sua sagacia, il ministro ce lo aveva già dato l’8 settembre scorso, quando si sentì in dovere di riaprire le ferite della seconda guerra mondiale, rendendo proditoriamente omaggio ai militari della Repubblica di Salò, tanto da meritarsi un bella tirata d’orecchio dallo stesso presidente della Camera dei deputati.

Insomma, pare proprio che al ministro della Difesa piacerebbe essere il ministro della Guerra. Evocando la prima guerra mondiale, si rischia oltretutto di risvegliare inutilmente antichi rancori nella provincia di Bolzano e nel Sud Tirolo, per non parlare della Venezia Giulia e di Trieste: la Storia li volle nemici, gli uni contro gli altri in armi. Oggi sono a tutti gli effetti cittadini di una repubblica che ripudia la guerra.

In un’altra trasmissione televisiva, il ministro si è anche lasciato sfuggire che chi presta servizio nelle nostre forze armate, difficilmente può essere di sinistra. Che bisogno c’era di mettere a disagio i cittadini italiani che in uniforme prestano servizio nelle quattro forze armate, chiosando sui loro presunti orientamenti politici? Nostalgia di tesi politiche che nel passato avrebbero voluto i militari coinvolti nella scena politica nazionale? Anche in questo caso sarebbe stato meglio lasciar stare.

Com’è come non è, fatto sta che il nostro ministro della difesa ha sempre la testa rivolta al passato. E questo gli impedisce non solo di guardare avanti, ma anche di accorgesi dei suoi recenti errori, come quello, clamoroso, di aver voluto l’utilizzo dei militari in missione di ordine pubblico sul territorio nazionale.

Sul punto, già il generale Mini, dalle  pagine de La Repubblica aveva messo in guardia: utilizzare i soldati sul territorio, senza che possano avvalersi del contributo dell’intelligence, come avviene nelle missioni all’estero, rende vana e frustrante la loro professionalità, rende inefficace il loro ruolo, fino a diventare controproducente per la loro immagine agli  occhi dei cittadini dei territori italiani in cui operano.

Ho avuto occasione di conoscere e apprezzare Mini, quando era in servizio col grado di colonnello presso lo Stato Maggiore della Difesa. Con lui realizzai la prima campagna pubblicitaria istituzionale per l’Esercito italiano: sulla foto di un elicottero che spegneva un incendio boschivo, il titolo diceva “cara mamma, oggi abbiamo fatto un gavettone bellissimo”; oppure, sulla foto di un militare che traeva in salvo un anziano da un’alluvione, il titolo diceva “cara mamma, oggi ho dovuto portare un nonno sulle spalle”; o ancora, sulla foto di soldati impegnati con le cucine da campo a distribuire pasti caldi alla popolazione colpita dal terremoto, il titolo diceva “cara mamma oggi sono dovuto stare tutto il giorno di corvee”. Il sottotitolo della campagna, uscita nella seconda metà degli Anni Ottanta, diceva: “quarant’anni di pace sono stati la nostra guerra più dura”. La campagna ebbe grande eco, vinse molti premi. Niente a che vedere con lo spot “grazie ragazzi” gentilmente offerto in questi giorni dal ministero della Difesa.

Per tornare all’analisi del generale Mini, le sue parole a proposito dei militari nelle strade italiane hanno avuto una tragica conferma in occasione della sparatoria nella quale sono stati gambizzati cinque minorenni a Secondigliano. Il quotidiano l’Unità ha pubblicato il giorno dopo la sparatoria di Secondigliano un’intervista ai responsabili dei sindacati di polizia. “Il ferimento dei 5 minorenni a Secondigliano -dice il segretario generale del sindacato di polizia Silp Tommaso Delli Paoli – pone drammaticamente il problema irrisolto della sicurezza e del controllo del territorio”.

“Vogliamo sperare che sull’onda emotiva il Governo non si inventi – dicono – il “militare di guardia ai circoli ricreativi” facendo seguito a una pazzia collettiva che sembra voler accreditare un accresciuta sicurezza con l’intervento dei militari”.
“Il controllo nel quartiere – ha aggiunto il sindacalista – lo possono effettuare solo il commissariato di polizia o la stazione dei Carabinieri, gli uni e gli altri invece, sono disastrati dai tagli di risorse e senza uomini e mezzi necessari, con l’impossibilità molto spesso di mettere in strada anche una sola volante”.

“È in atto uno spreco di risorse economiche con l’impiego dei militari – ha concluso Delli Paoli – che nessun risultato concreto può dare alla sicurezza dei cittadini, se non vago sostegno alla demagogica campagna avviata dal Governo che taglia i fondi delle forze di polizia e poi tenta di far credere ai cittadini che avranno più sicurezza dall’impiego dei militari».

Anche il Siulp, un altro sindacato di polizia avverte il governo: “Indipendentemente dal dna di questi ragazzi – dice il segretario napoletano Liberato Dal Mastro – il Governo deve rendersi conto della necessità di stanziare soldi per la sicurezza. Nuovi computer, nuova tecnologia, una nuova logistica da assegnare al commissariato di Secondigliano sono una decisione non rinviabile.
Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto di ritardo, rende la situazione più gravosa e difficile per le donne e gli uomini della Polizia di Stato che, da soli, non possono garantire un livello minimo di sicurezza”.

Ce ne è abbastanza per poter affermare che retorica e demagogia, tanto care al ministro della difesa, sono una perdita di buon gusto, ma anche di tempo e di denaro, altrimenti meglio utilizzabile per la sicurezza dei cittadini, per la dignità professionale delle forze dell’ordine, ma anche per il rispetto dei militari: mandati allo sbaraglio sulle strade sono destinati a fallire, la qual cosa non è certo un bene per l’onore e lo spirito di corpo di chi fa quel mestiere con impegno e senso del dovere.

Il ministro della difesa dovrebbe smetterla di guardare con nostalgia a un passato, che tutti ci auguriamo non torni più. E guardare in faccia la realtà, quella che è difficile capire facendo il prezzemolino  vanesio di talk-show in talk-show. Sempre in una trasmissione tv, infatti, lo abbiamo sentito vantarsi di aver ottenuto uno stanziamento per portare manifestazioni celebrative nelle piazze e nelle scuole.

In tempi di crisi, ci sono modi migliori di utilizzare i soldi pubblici: tanto per cominciare, sarebbe stato meglio utilizzarli per il riconoscimento dell’indennità della causa di servizio per i militari italiani colpiti dalle radiazioni da uranio impoverito nelle guerra dei Balcani. La questione è in discussione alla commissione Difesa del Senato. Ci sono militari e  famiglie di militari che hanno il diritto di celebrare il 4 novembre senza l’angoscia di una ingiustizia subita, che difficilmente può essere risarcita dalla retorica e dalla demagogia. Beh, buona giornata.




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Attualità Finanza - Economia Lavoro Scuola Società e costume

La crisi economica? Prima le donne e i bambini.

Nel suo intervento al convegno celebrativo la giornata del risparmio, Giulio Tremonti ha detto: “Dobbiamo portare al primo posto l’etica e puntare sui valori e non sugli interessi”. Bello a dirsi, però in Italia sta succedendo l’esatto contrario.

 

La legge 133, “la legge Gelmini” taglia fondi e personale alla scuola primaria. Sordi a ogni istanza non solo di modifica, ma nemmeno di dibattito il governo ha deciso, il Parlamento ha ratificato. Considerando che la stragrande maggioranza delle maestre, costrette a diventare “maestro unico” sono appunto donne, ecco chi sono le prime vittime del taglio del personale docente. Contemporaneamente, altre donne, cioè le mamme lavoratrici  subiranno il taglio da 40 a 24 le ore scolastiche nelle elementari. I loro bambini, a parte la decurtazione delle ore dedicate alla loro istruzione,  dunque alla qualità della loro crescita, subiranno il prevedibile scompaginamento della loro vita: chi lo va a prendere a scuola? Chi me lo tiene nel primo pomeriggio? Quanto mi costa una baby sitter? Ecco che in un colpo solo, a maestre, mamme e ai loro bambini è stata rovinata la vita, oltre che colpita la loro economia. Dunque, si è puntato sugli interessi di bilancio, niente affatto su l’etica e sui valori.

 

Nel comparto dell’editoria e della pubblicità soffiano venti di crisi, a causa proprio della crisi, che riduce copie vendute, raccolta pubblicitaria, come conseguenza del taglio della spesa nella comunicazione commerciale. In questi settori le donne sono in maggioranza, anche se, come è noto, con ruoli quasi mai dirigenziali. Chi sta lasciando il posto di lavoro, o si appresta ad essere costretto a farlo, per via dei tagli al personale? Loro, le donne, con buona pace dell’etica e dei valori.

 

La Cai, la compagnia aerea italiana, quella cordata di industriali italiani che ha “coraggiosamente” salvato Alitalia, secondo i dettami delle promesse elettorali del governo in carica, ha in animo di non procedere all’assunzione delle donne con prole, perché, proprio per questo,  avrebbero l’esenzione dal lavoro notturno. Ancora una volta, le prime vittime degli interessi economici sono le donne e i loro bambini. Ancora una volta gli interessi prevalgono, senza curarsi degli aspetti più odiosi, quelli che contrastano palesemente con l’etica e i valori.

 

Secondo Giuliano Amato, politico italiano di lungo corso, già presidente del consiglio e più volte ministro, grazie alla recessione avremo presto un milione di disoccupati, contemporaneamente la cassa integrazione guadagni è in riserva, per non dire a secco. Quante saranno le donne coinvolte?

 

Dovrebbe potercelo dire il ministero delle pari opportunità, ma  la ministra competente non può, ha altro da fare e da pensare.  Si deve occupare della sua immagine, deve fare la portavoce di un governo di neodestra, neodecisionista e neoliberista, che aiuta banche e grandi imprese, oltre che se stesso e i propri interessi e abbandona piccole imprese, famiglie e lavoratori dipendenti al ruolo di agnelli sacrificali della recessione economica. A cominciare proprio dalla donne e dai bambini. Caro signor ministro dell’economia, invece che a un consesso di banchieri, glielo vada a dire a loro che “dobbiamo portare al primo posto l’etica e puntare sui valori e non sugli interessi”. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche Scuola

Neodestra al governo contro la scuola pubblica, neofascisti in piazza contro gli studenti dell’Onda.

 



L’uso dei fascisti contro i movimenti non è un problema di oggi. Di Sergio Cararo*.

La puntuale azione di infiltrazione, provocazione e aggressione dei gruppi fascisti verso i movimenti degli studenti non è una caratteristica di queste settimane. L’escalation che abbiamo visto deflagrare platealmente nella manifestazione del 29 ottobre sotto il Senato con i gravi fatti di Piazza Navona, presenta innumerevoli punti di connessione sull’uso sistematico dei fascisti (e delle loro coperture negli apparati di polizia) contro i movimenti sociali che entrano in campo nell’agenda politica nel nostro paese.

 

Da questo punto di vista, la storia aiuta a capire e la storia non è un esercizio di ricordi ma sono esperienze concrete e memoria indispensabili per capire come muoversi adesso, in questa fase storica e politica che vede tutto il milieu anticomunista più viscerale – impregnato da un odio di classe palpabile e visibile a tutti – avere in mano tutti gli strumenti di governo e di manipolazione.Il governo Berlusconi ha prima giocato e poi smentito spudoratamente la carta della minaccia repressiva (l’uso della polizia contro le occupazioni di scuole e università). Successivamente ha rimesso in campo la contro-mobilitazione ideologica del blocco reazionario facendola accompagnare da strumenti di provocazione ampiamente sperimentati in passato contro i movimenti. Nessuno potrà e dovrà mai dimenticare la storia recente e il mattatoio di Genova nel luglio 2001 che vedeva nella cabina di regia gli stessi uomini che siedono oggi negli scranni di governo o negli apparati di sicurezza scelti con una logica bipartizan. Tra questi strumenti fanno capolino i “suggerimenti” di Cossiga e l’uso dei fascisti. Proviamo a sintetizzarne una chiave di lettura:

 

1. I fascisti come “parte del movimento”I gorilla del Blocco Studentesco, rivendicano la loro internità a un movimento di studenti che è entrato un conflitto con un governo in cui gli sponsor politici dei gruppi neo-fascisti godono di ampio spazio e potere. Sembra storia di oggi ma è’ già accaduto. Alcuni blog neofascisti, rivendicano ampiamente l’internità dei gruppi di destra al movimento studentesco del ’68 fino alla battaglia di Valle Giulia (1 marzo 1968). Da quel momento in poi – secondo i rovescisti storici della destra (1)”La partecipazione alla contestazione universitaria dei giovani missini avvenne anche prima del 1968, ma, dopo gli scontri di Valle Giulia (16.03.1968), la politicizzazione marxista del movimento studentesco condusse il Msi ad uno scontro con gli estremisti di sinistra e con le forze di governo, costato più di venti morti dal 1970 al 1983” (2).

Scrive ancora su questo aspetto un altro autore della destra: “tra gli esegeti intelligenti dell’area destro-radicale ante- ’68 , qualcuno ebbe l’intuizione di dire che forse era ora di Cavalcare la Tigre invece di annegare nella logica reazionaria degli “Uomini sommersi tra Le Rovine” (e non certo per colpa di Evola ) o, peggio ancora, etero-diretti da terze entità nemiche infiltrate sin dal 1965″(3).

In quel contesto, fino a quando il movimento non operò una rottura culturale oltreché materiale con la subalternità al blocco moderato dominante e all’egemonia politica del PCI, i fascisti avevano tentato operazioni apertamente dirette a depotenziare ogni discriminante antifascista tra gli studenti e a confondere le acque con formazioni politiche autodefinitesi “nazimaoiste” come Lotta di Popolo messa in piedi da personaggi dello squadrismo fascista come i fratelli Serafino e Bruno di Luia.

La battaglia di Valle Giulia produsse un doppio effetto: da un lato pose fine al fatto che gli studenti in piazza dovessero solo “prenderle” dalla polizia (il “non siamo scappati più” cantato da Pietrangeli rende l’idea), dall’altra avviò una maggiore politicizzazione del movimento studentesco del ’68.

La reazione dei fascisti alla loro emarginazione dal movimento studentesco fu drammaticamente eloquente. Quindici giorni dopo Valle Giulia (il 16 marzo 1968), decine di squadristi guidati da Almirante e Caradonna entrarono nell’università la Sapienza aggredendo gli studenti e finirono costretti a barricarsi poi nella facoltà di Giurisprudenza di fronte alla decisa reazione del movimento. Dei 52 squadristi fascisti fermati (e poi rilasciati dalla polizia) nessuno era studente universitario.

Nove anni dopo – nel 1977 – di fronte alla impossibilità di mettere in campo analoghe operazioni di infiltrazione nel movimento studentesco in mobilitazione contro la riforma Malfatti (quelle sui fascisti presenti il giorno della cacciata di Lama sono scemenze autoconsolatorie), scelsero direttamente la strada della provocazione contro i movimenti. Il 1 febbraio una squadraccia fascista entrava all’università La Sapienza, sparava e feriva due studenti: Guido Bellachioma (ferito alla testa rimase in coma per diverso tempo) e Paolo Mangone.

I fascisti che nel ’68 tentarono di penetrare nel movimento rivendicandone la propria internità, erano in polemica con la direzione”moderata” del MSI rappresentata dal segretario Michelini e animati da leader come Almirante e Rauti più determinati nel conquistarsi spazio politico dentro la realtà sociale in movimento nel paese.

I commentatori più smaliziati di questa area della destra sociale oggi proiettata a conquistarsi consensi, visibilità egemonia nei settori giovanili, avevano già cominciato a mettere le mani avanti nei giorni precedenti dei fatti di piazza Navona: “Se accadesse qualche episodio codino e reazionario , molti dei ragazzi del Blocco e Lotta studentesca che hanno avuto una buona visibilità sui media, si ritroverebbero nuovamente e automaticamente, come dopo il 16 marzo 1968, “fuori del movimento ” e nelle vesti dei soliti manovali- picchiatori, dei provocatori infiltrati per conto di Berlusconi” è scritto su uno dei loro siti già segnalato in precedenza. Il riferimento all’aggressione del 16 marzo ’68 all’università di Roma come spartiacque tra un “prima” che avrebbe visto fascisti e antifascisti convivere nel movimento e un “dopo” in cui i fascisti vennero buttati fuori, è indicativo.

Le litanìe del Blocco Studentesco sul fatto che gli studenti in piazza non sono né devono essere “né di destra né di sinistra”, è la ripetizione del tentativo già operato nei primi due mesi del ’68 e fallito grazie alla presa di coscienza antifascista del movimento studentesco. I fascisti del BS e le loro sponde politiche, hanno potuto approfittare in questi anni della debolezza politica e culturale della sinistra radicale (di cui ci ha impressionato anche un editoriale di Bascetta su Il Manifesto che guardava senza scandalo alla commistione tra studenti di sinistra e di destra nel movimento di queste settimane) e di un antifascismo conformista e liturgico della sinistra storica oggi piddina che ne ha depotenziato ogni carica conflittuale e identitaria. La reazione decisa degli studenti a Piazza Navona ha finalmente cominciato a porre fine a questa ritirata politica e culturale dell’antifascismo militante.

2. L’uso della violenza fascista contro i movimenti

Anche su questo occorre dire parole di chiarezza. La violenza politica dei movimenti “di sinistra” è nata sempre come reazione alla violenza dei gruppi neofascisti. A ricordarlo – per chi ha la memoria corta o tende all’occultamento della storia – c’è una lapide all’entrata della facoltà di Lettere alla Sapienza. La lapide ricorda l’uccisione di uno studente di sinistra, Paolo Rossi, avvenuta il 27 aprile 1966 durante una incursione fascista. Dunque mancavano ancora due anni a quel ’68 demonizzato da ministri e commentatori destrorsi e berlusconiani. In quegli anni, la violenza e l’egemonia dei fascisti nell’università e tra i giovani era ancora dominante. Nonostante il clamore suscitato dalla protesta studentesca, il giudice istruttore dichiarò non doversi procedere per il delitto di percosse che aveva causato la morte di Paolo Rossi perché gli autori erano rimasti ignoti.

L’attivismo politico giovanile degli anni Sessanta trovava più sponde nella destra che nei partiti della sinistra (PCI, PSI) che stentavano a delineare una linea complessiva (e attrattiva) di critica al blocco moderato dominante capace di attrarre anche le aspirazioni dei settori giovanili della società.

Dunque la violenza fascista ha cominciato a colpire per prima e lo ha fatto fino a quando – con la battaglia di Valle Giulia- il movimento studentesco maturò la necessità dell’autodifesa e dell’uso della forza. L’incursione fascista alla Sapienza il 16 marzo 1968, rivelò una grave sottovalutazione da parte di Almirante e dei suoi complici sulla nuova capacità di reazione acquisita dal movimento studentesco. Entrarono convinti di poter spadroneggiare e prendersi l’agibilità politica dentro il movimento degli studenti ma finirono assediati dentro la facoltà di Giurisprudenza e salvati solo dall’intervento della polizia (un pò come accaduto a piazza Navona il 29 ottobre).

La stessa cosa è avvenuta per il movimento del 1977, nato “a sorpresa” contro la riforma Malfatti dell’università e che aveva visto dinamiche molto simili a quelle che stiamo vivendo in queste settimane (3).

Mentre il movimento occupava le università da Palermo a Milano, da Roma a Bologna, da Napoli a Torino, nelle tumultuose assemblee lo scontro più aspro era tra i settori della “estrema sinistra” contro le organizzazioni studentesche e sindacali che sostenevano la linea di appoggio del PCI e della CGIL al governo Andreotti (che aveva promosso la riforma Malfatti) e alla linea dei “sacrifici”. I fascisti erano esclusi da queste dinamiche e vennero quindi utilizzati come strumento di provocazione. Da qui l’incursione del 1 febbraio 1977 alla Sapienza di Roma e il ferimento a colpi di arma da fuoco di due studenti. Da quando era esploso il movimento del’77 fino a quel momento, non c’era stato alcun episodio di violenza politica nelle università. La reazione del movimento fu indubbiamente violenta (assalto alla sede del MSI di via Sommacampagna e lo scontro a fuoco con agenti di polizia in borghese nella vicina piazza Indipendenza) ma fu anche spontanea e per certi aspetti dovuta.

Solo alla luce degli eventi successivi e della recente intervista di Cossiga “sui metodi più adatti” per stroncare quel movimento è possibile riconoscere che fu l’inizio di una micidiale operazione di criminalizzazione e depotenziamento di un movimento che aveva le potenzialità e l’obiettivo di far saltare il compromesso storico tra DC e PCI..

Il movimento del 2008, giustamente, si sta dando i suoi tempi, i suoi contenuti e le sue forme e si trova ad affrontare un governo reazionario ed arrogante, un governo espressione piena dell’odio di classe dei custodi della proprietà privata contro gli interessi sociali, un governo fobico verso ogni libertà intesa come istanza collettiva e non solo individuale. Questo movimento che si configura come una vera e propria variabili indipendente può far saltare molti equilibri e molte consuetudini

Questo governo è disposto – perché lo ha già sperimentato – a ricorrere ad ogni mezzo per depotenziare e stroncare i movimenti sociali. I fascisti possono essere uno di questi strumenti. Sarà doveroso non sottovalutarli ma neanche sopravalutarli. Quella di Piazza Navona è stata una “fiera battaglia antifascista” (5) ma non sarà l’unica a cui saranno chiamati i movimenti sociali nei prossimi mesi. Servirà maturità e determinazione per non ripiegare di un millimetro ma anche per non cadere nelle trappole. La conoscenza della storia, l’informazione e la controinformazione saranno strumenti decisivi per capire il presente ed affrontare le sfide del prossimo futuro.

* redazione di www.Contropiano.org

(1) Prendiamo a prestito dallo storico Angelo D’Orsi la categoria di”rovescisti” che ci appare assai più calzante di quella di revisionisti

(2) Da http://www.ladestra.info/?p=5277. In realtà i morti sono stati assai più numerosi perché i rovescisti della destra evitano di contare i morti delle stragi di piazza Fontana, Italicus, Peteano, Piazza della Loggia, Stazione di Bologna, treno 204

(3) da http://www.ladestra.info/?p=24866#more-24866

(4) Il movimento del ’77 fu effettivamente una sorpresa perché esplose in una fase di riflusso e crisi delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare che erano divenute fortissime negli anni Settanta. Avvenne anche lì in una fase di profonda contraddizione tra aspettative e realtà sia sul piano politico che sociale. Sul piano politico il PCI aveva raccolto un grande risultato elettorale che rispecchiava la richiesta di cambiamento del paese ma aveva scelto la strada del compromesso storico con la DC e la linea del sostegno attraverso l’astensione al governo Andreotti, cosa questa che provocò un’ondata di delusione e rabbia. Sul piano sociale era esplosa l’aspettativa creata dalla scolarizzazione di massa con migliaia di giovani diplomati e laureati che si scontravano con una realtà fatta di disoccupazione due cifre, sacrifici e austerità economica e nessuna prospettiva di stabilità.

(5) “Fiera battaglia antifascista” era il titolo della prima pagina dell’Unità il 2 marzo del ’68, il giorno dopo la battaglia di Valle Giulia

 

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Alitalia: oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri.

Dopo mesi in cui la “cordata” ha giocato al tiro alla fune, finalmente Cai, compagnia aerea italiana ha  presentato il 31 ottobre la sua offerta di acquisto al Commissario straordinario di Alitalia. Tra le condizioni dell’esecuzione sono indicate (fonte: Agenzia Ansa del 1 novembre):

 

1) L’ottenimento da parte della competente Autorità Antitrust di un provvedimento che confermi la compatibilità dell’operazione notificata ai sensi della normativa vigente, ovvero che non abbia prescritto impegni o misure diversi da quelli proposti dall’Acquirente o che risultino sostanzialmente incompatibili con il piano industriale presentato dall’Acquirente o che comportino una sostanziale variazione delle pattuizioni del contratto;

 

(*) Traduzione: sono le norme antitrust che si devono piegare alle esigenze della Cai, non Cai che deve comportarsi secondo le norme antitrust.

 

2) L’ottenimento di provvedimenti da parte della Commissione europea con cui si attesti che eventuali aiuti di Stato, istituiti a beneficio del Gruppo AZ prima della stipula del contratto, non comportino a carico dell’Acquirente alcun obbligo di restituzione;

 

(*) Traduzione: la restituzione del prestito ponte di 300 milioni di euro non è a carico di Cai

 

3) Nessun elemento di aiuto, sia riconducibile alle previsioni e/o esecuzione del contratto;

 

(*) Traduzione: tutto quello che il governo ha promesso a Cai, a cominciare dalla decontribuzione per la riassunzione dei dipendenti in cassa integrazione, non va imputato a Cai come aiuto alla nascita della nuova compagnia.

 

4) A seguito dell’eventuale nomina da parte della Commissione europea di un Monitoring Trustee non venga sollevata alcuna contestazione, obiezione o riserva nei riguardi dell’operazione oggetto del contratto o di sue specifiche modalità o condizioni, tale da comportare un significativo pregiudizio per l’Acquirente”.

 

(*) Traduzione: il governo protegga Cai dalle nuove regole che stanno per essere varate in materia di trasparenza sulle tariffe.

 

Se tutto questo è vero, la rottura delle trattative con i sindacati avvenuta lo scorso mercoledì è stata una messa in scena, per drammatizzare la situazione e spingere il governo ad assumere ulteriori impegni a tutela di Cai.

 

La pantomima dell’ennesimo ultimatum di venerdì a palazzo Chigi altro non era che forzare la mano: e infatti, il piano, che in un primo momento si diceva sarebbe stato ritirato da Cai è stato invece presentato, dopo una telefonata tra Colaninno, presidente Cai e Berlusconi, presidente del consiglio.

La storia dei soliti  sindacati autonomi che non vogliono firmare l’accordo è stata un’invenzione teatrale.

 

Le organizzazioni sindacali confederali, che avevano probabilmente mangiato la foglia, essendo intercorsi incontri informali, ai quali non hanno preso parte le altre organizzazioni, hanno siglato non un accordo, ma una lettera di intenti del sottosegretario alla presidenza del consiglio, passato alla cronaca con il nome di “lodo Letta”, con la quale si faceva garante di accordi futuri, con l’impegno personale che  avrebbe vigilato sulla corrispondenza con le intese già sottoscritte nelle faticosa vertenza dei mesi scorsi.

 

Quella dei sindacati confederali, dunque è apparso più un placet politico all’operazione Cai-Governo, che un accordo sindacale.

 

Scrivono le cinque sigle che non hanno firmato “il Lodo Letta”, in un comunicato congiunto diffuso il 1 novembre:

1) Le sigle che non hanno sottoscritto non sono rappresentative soltanto di piloti e assistenti di volo come qualcuno vuol far credere, ma sono fortemente presenti anche tra il personale di terra.

 

2) E’ assolutamente falso che il No sia motivato da pretese riguardanti i permessi/distacchi sindacali ed è bene chiarire che proprio Cgil, Cisl, Uil e Ugl “godono” di un trattamento speciale in termini di diritti sindacali. Rispetto a questa strumentalizzazione diffidiamo chiunque a continuare con tali calunnie, passibili di denuncia per diffamazione.

 

3) Le motivazioni sono invece tutte concentrate sul numero enorme di esuberi previsti, sulle condizioni di stesura contrattuale che penalizzano i lavoratori oltre quanto era stato concordato a settembre a Palazzo Chigi, sulla condizione dei precari, sulle incertezze per il futuro di migliaia di lavoratori che dopo l’utilizzo degli ammortizzatori sociali si troveranno senza lavoro e senza pensione: questa condizione riguarda tutti i lavoratori coinvolti nel progetto CAI, personale di terra, piloti, comandanti ed assistenti di volo.

 

4) Sui criteri di “esclusione” dalle assunzioni c’è da sottolineare che essi godono di una eccessiva discrezionalità che non tiene in conto neanche delle consuete previsioni di legge, nonostante CAI usufruisca di ingenti finanziamenti dallo Stato anche in termini di decontribuzione per l’assunzione di personale in cassa integrazione.(circa 200 milioni in tre anni). Oltre quindi a “pretendere” di operare come azienda privata con i soldi dello Stato, CAI non vuole assumere neanche chi è gravato da condizioni sociali particolari o di evidente disagio (Legge 104, astensione facoltativa per maternità, esonero da lavoro notturno).

 

5) E’ assolutamente falso che il confronto tra azienda e sindacato si sia sviluppato in questo ultimo mese in modo coerente con gli impegni sottoscritti a settembre insieme al Governo: l’azienda non è mai entrata in una vera e concreta stesura tecnica ed ha sistematicamente stravolto tali impegni, producendo un risultato finale del tutto diverso dalle condizioni contrattuali che erano state concordate e sottoscritte.

Nello specifico, mentre a Palazzo Chigi gli accordi prevedevano il recepimento della disciplina contrattuale vigente in AirOne, integrata da quanto concordato in quella sede, CAI ha “imposto” una soluzione che non recepisce tale contratto di riferimento e lo peggiora sostanzialmente in molti istituti contrattuali fondamentali, contravvenendo quindi a quanto pattuito e garantito dal Governo.

 

Se questa è la situazione, c’è poco da rallegrarsi per la nascita di Cai, come compagnia di bandiera, sorta sulla macerie di Alitalia.

 

L’operazione era, è, e quel che è peggio sarà una mera operazione propagandistico-politico-affaristica, con costi alti per le casse dello Stato, da cui verranno sottratte molte risorse, altrimenti impiegabili per sostenere stipendi, consumi e piccole imprese.

 

L’operazione ha anche altri risvolti: permette di forzare le regole del mercato (vedi le condizioni poste da Cai); consente insensate relazioni industriali (vedi quanto denunciato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative del personale);  non dà alcuna garanzia di correttezza nei confronti della clientela futura della nuova compagnia (vedi il punto 4 delle garanzie chieste da Cai al Governo).

 

Perché è chiaro che quando si trattano male i dipendenti, si tratteranno male anche i clienti, cioè i passeggeri. A cominciare dal semplice fatto che sono previsti pesanti tagli di aeromobili e di tratte, senza contare la scomparsa della concorrenza sui prezzi delle tariffe tra due compagnie, Alitalia e AirOne, confluite in un una sola azienda, la cui somma è invece una sottrazione di uomini e mezzi, ma non di prezzi.

 

A questo punto, ci sono tre domande: riuscirà il governo italiano a far passare in Europa questo modo di fare una compagnia aerea, nonostante il prevedibile appoggio del Commissario ai trasporti Eu, che è un italiano e molto amico di Palazzo Chigi? Riuscirà Cai ad essere all’altezza del know-how del prossimo partner europeo, avendo scarse conoscenze in tema di trasporto aereo, non che dimostrando nei fatti poca responsabilità ed etica d’impresa? E, infine, non appaia paradossale, siamo sicuri che criminalizzare le organizzazioni sindacali di base dei piloti, degli assistenti di volo, dei tecnici e degli operai aeroportuali, al di là delle convenienze politiche e sindacali, non sia uno spreco di talenti, non solo in tema di capacità professionali acquisite in anni di esperienza, ma anche di relazione con la clientela, cioè dei passeggeri, vera grande risorsa di ogni azienda?   Beh, buona giornata.

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