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Per salvare la pubblicità italiana ci vuole una trasfusione di idee.

Per anni si è creduto che per convincere i consumatori bastasse dire tante volte la stessa cosa, non importava che cosa. Sono stati investiti milioni e milioni di euro tra passaggi televisivi, annunci stampa, radiocomunicati, banner, manifesti. Poi la crisi ha raggelato i grp’s, mentre i coefficenti di penetrazione (con rispetto parlando) si sono ammosciati: c’è la crisi, non si possono più buttare i soldi nel ripetere.

Gli editori, gli inserzionisti, i centri media e le agenzie di pubblicità sono nel panico: sono crollati gli investimenti pubblicitari. Che fare? Forse è giunto il momento per la pubblicità di dire cose importanti, dirle così bene che non c’è bisogno di ripeterle, ripeterle, ripeterle. Cioè di spendere, spendere, spendere.

E scoprire che una buona idea è un moltiplicatore del budget di pubblicità. Quelli abituati alla mediocrità della ripetizione sono andati in crisi, perché non corrispondono alle attuali esigenze del mercato della comunicazione commerciale. Quelli costano troppo, sono presuntuosi, non valgono la spesa.

Non ci sono più scuse, non ci sono alternative: dalla crisi dei consumi si esce rompendo l’ordalia della quantità, riscoprendo il talismano della qualità del messaggio commerciale.

La qualità fa bene a chi la vede (il consumatore), a chi la paga (l’inserzionista), a chi la rende pubblica (gli editori), a chi la fa. Ma è proprio qui che casca l’asino: chi la fa oggi non la sa più fare. Le vecchie agenzie di pubblicità sono anatre zoppe. Urge sangue nuovo, urge l’agenzia di nuova generazione. La pubblicità italiana ha bisogno di una trasfusione di idee. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Le agenzie di pubblicità italiane stanno uccidendo i giovani.

In Europa 45 milioni di cittadini sono colpiti da stress legato al lavoro, secondo un rapporto Cesi. E il numero dei ‘sofferenti da lavoro’ è in forte aumento. I dati sono stati riferiti dal segretario
generale della Cesi, Helmut Mullers che ha riferito, inoltre, che 50-55 milioni di lavoratori europei presentano problemi muscolo-scheletrici e 5 milioni soffrono di infiammazioni legate
all’attività di lavoro.

E’ una magra consolazione per chi ha perso il lavoro per colpa della crisi: secondo dati ufficiali, nel 2009 la disoccupazione in Europa si avvicina al 9,5%, in Italia al 7,9%, che in soldoni vuol dire circa 400 mila persone.

Adesso il problema è: dal momento che la pubblicità italiana ha dato il suo contributo alla disoccupazione, non solo licenziando dipendenti, ma anche cancellando stagisti e abbattendo i costi dei free lance, è meglio essere ‘sofferenti da lavoro’ o incazzati da disoccupazione? E’ meglio soffrire di disturbi ‘muscolo-scheletrici’ seduti a una scrivania in Agenzia o di rotazione accelerata testicolare (o ovarica) mentre si inviano curricula invano?

Mentre cinque milioni di europei soffrono di infiammazioni legate all’attività lavorativa, la domanda è: quanti sono i giovani pubblicitari italiani ‘bruciati’ dalla crisi delle Agenzie in Italia? La risposta è: si saving chi può. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

E’ nato Consorzio Creativi. Agenzie di pubblicità? No, grazie.

www.consorziocreativi.com

Cambiare si deve. A un anno dall’inizio della più grande crisi economica globale, nasce Consorzio Creativi, la concreta risposta alla crisi di sistema della pubblicità italiana. Nasce per produrre saving e generare valori di comunicazione sostenibili nel tempo. Nasce con la struttura più leggera sul mercato, col più rilevante reparto creativo in Italia e con una spiccata capacità commerciale e manageriale. Consorzio Creativi nasce per gestire la crisi, per sostenere i consumi, per aiutare i marchi italiani a essere protagonisti della ripresa economica.

La fotografia della pubblicità italiana. La pubblicità italiana è in crisi. Crisi di strutture, crisi di uomini, crisi di idee. Non è una critica, non è una polemica: è un dato di fatto.
C’è chi sostiene si tratti di uno stop momentaneo, dovuto alla situazione economica e finanziaria del nostro Paese. Altri parlano della necessità di un fisiologico ricambio, come è avvenuto in diversi periodi. In realtà siamo a vera e propria chiusura di un ciclo. L’economia di gran parte delle agenzie di pubblicità operanti in Italia è legata a filo doppio all’economia globale: si tratta di strutture di proprietà di holding finanziarie americane, inglesi, francesi e giapponesi quotate in Borsa. Grandi clienti internazionali hanno nell’ultimo periodo operato forti ridimensionamenti dei loro budget pubblicitari. Nello stesso tempo, i network internazionali chiedono aumenti delle revenue alle unit locali, per compensare le perdite previste sui fatturati worldwide.

Il paradosso che stritola le agenzie di pubblicità italiane: da un lato la crisi taglia i budget, dall’altro esige più fatturato. La risposta che hanno dato i manager della pubblicità italiana è semplice, prevedibile, scontata: quando tagliare i costi delle spese generali non basta, si ricorre all’espulsione delle persone, per rimpiazzarle con professionalità a basso costo. Che tipo di qualità si riesca poi a garantire alle aziende passa in secondo piano rispetto alla necessità di salvare il salvabile dei propri conti.

La forma-agenzia tradizionale non corrisponde più alla realtà delle imprese italiane. Stritolata dalle incombenze finanziarie, inaridita di talenti, appesantita dalla burocrazia interna, legata mani e piedi alle logiche dei quartier generali internazionali, l’agenzia tradizionale non ha più sottomano strumenti interpretativi, e di conseguenza organizzativi per raccogliere le nuove sfide. In assenza di una credibile e organica alternativa, le aziende italiane sono costrette a utilizzare le grandi agenzie multinazionali, i cui profitti vengono consolidati negli Usa, in Uk, in Francia o in Giappone.

Consorzio Creativi: la novità è nella discontinuità. Discontinuità significa tornare a ciò che di basico chiede oggi il mercato della comunicazione commerciale, della pubblicità: qualità, flessibilità, economicità. La qualità è la missione di chi produce le idee, la flessibilità e l’economicità è il talento nell’organizzazione del lavoro.(….). Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Pubblicità italiana: quelli che non arrossiscono mai.

di Marco Ferri-advexpress.it

Secondo uno studio di Corine Dijk dell’Università di Groningen in Olanda, quando uno diventa rosso in viso cerca inconsciamente un vantaggio emotivo: quello di essere perdonati. Insomma, dimostrando imbarazzo si cerca di non far scattare reazioni violente da parte degli altri. In termini scientifici, si tratterebbe di un segnale prettamente umano, che esprime un significato adattativo, darwiniano: diventare rossi può essere un bene per la sopravvivenza.

Temo che Corine Dijk non abbia tenuto conto del fatto che ci sono categorie antropologiche che fanno arrossire i bilanci senza il minimo di emozione. Prendiamo quella specie umana che si è formata nella gestione delle agenzie di pubblicità in Italia: quelli mica arrossicono di imbarazzo di fronte a quello che hanno combinato in questi anni. Scuriscono in volto se qualcuno contraddice i loro bilanci, sbiancano se qualcuno vuole capire meglio i loro piani di sviluppo. Arrossire? Non se ne parla: come bambini viziati, pensano ‘il pallone è mio e il rigore lo tiro io’. E quando regolarmente tirano fuori pensano che è una congiura, un complotto: e invece che diventare rossi di vergogna, diventano neri di rancore.

Insomma, se il mercato della comunicazione evolve, loro si sono autosclusi dall’evoluzione della specie. Ogni giorno che passa camminano spediti, frettolosi e convinti sulla via dell’estinzione. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

La tv e le donne: un documentario da non perdere.

http://tv.repubblica.it/copertina/il-corpo-delle-donne-il-documentario/36834?video&ref=hpmm. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia

” L’offensiva di Berlusconi contro la stampa libera è predisposta per accentrare ancor più il potere esecutivo ma è al contempo guerra mentale, per conquistare il cervello degli italiani e creare in essi uno stato confusionale diffuso.”

Le dicerie contro la verità di BARBARA SPINELLI-La Stampa.

Una guerra mentale è in corso in Italia, condotta dall’esecutivo per tacitare, intimidendola, il controllo esercitato dalla stampa e per neutralizzare ogni sorta di contropotere. Nei confronti della stampa assistiamo a vere rese dei conti, e per capire quanto sta accadendo è più che mai urgente distinguere tra due attività: la diffusione di dicerie, e l’accertamento dei fatti. La guerra non ha come soli protagonisti l’élite politica e giornalistica: ogni cittadino – se vuol restar cittadino – è chiamato a distinguere l’opinione dal fatto, la calunnia dal disvelamento di reati. L’offensiva di Berlusconi contro la stampa libera è predisposta per accentrare ancor più il potere esecutivo ma è al contempo guerra mentale, per conquistare il cervello degli italiani e creare in essi uno stato confusionale diffuso.

All’origine del dispositivo bellico c’è una sensazione di debolezza acuta: l’esecutivo ha l’impressione di non poter fare politica senza un’opinione pubblica che non solo approvi i suoi programmi ma esalti il capo considerandolo legibus solutus, non soggetto alla legge.

Manuel Castells, studioso dell’informazione, si sofferma sui metodi delle guerre mentali nei media. Il termine fu coniato a proposito del conflitto in Vietnam da Paul Vallely, analista di Fox News: «Se perdemmo la guerra – così Vallely – non è perché fummo sconfitti sul campo ma per la guerra psicologica dei media», e perché il potere non seppe contrapporre una sua «guerra mentale» (Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi 2009).

È simile la guerra mentale di Berlusconi, e simili sono gli strumenti, da lui maneggiati con perizia e risorse sovrabbondanti prima ancora di entrare in politica: sin dall’inizio la sua battaglia fu di trasformare i mezzi televisivi d’informazione in mezzi di distrazione, infotainment, gossip. «Per questo è così importante – prosegue Castells – che i magnati dei media non diventino leader politici, come nel caso di Berlusconi». Per questo è legittima la domanda del direttore di Famiglia Cristiana, don Sciortino: «Quello che accade non riguarda solo il giornalismo. Quando in un Paese è in discussione la funzione del giornalismo, la sua libertà di esprimersi, di criticare o di commentare le azioni di un potere che non è solo potere di governo, ma pervasivo controllo del sistema mediatico, possiamo parlare di vera democrazia?».

La guerra mentale ha fini e mezzi specifici. Il fine è il pensiero dell’uomo della strada («questa creatura mitologica che ha rimpiazzato la cittadinanza nel mondo mediatico», scrive Castells). Il mezzo è la confusione dei concetti, il caos nell’uso delle parole. Si parla molto, in questi giorni, di killeraggio o imbarbarimento generale: concetti perversi oltre che diseducativi, perché escogitati per rendere appunto confondibili, in un magma indistinto, i due comportamenti radicalmente diversi che sono la diceria e l’accertamento dei fatti. Tutti sarebbero killer: il giornalista che interroga criticamente il Premier (rapporti di suoi collaboratori con la mafia, corruzione di testimoni e magistrati, coinvolgimento in giri di prostituzione) e quello che costringe alle dimissioni il direttore dell’Avvenire Dino Boffo, usando veline anonime. Proviamo dunque a distinguere quel che viene confuso.

Una cosa è la diceria. Nella Russia di Putin si chiama kompromat, materiale che compromette e può anche spedirti in Siberia. È la calunnia che insinua fabbricando prove, e mira a distruggere il carattere dell’avversario politico (character assassination, in inglese). In genere la diceria ha come obiettivo la vita privata del politico, non il suo programma o la cura che egli ha della repubblica e dei suoi vincoli.

Altra cosa è l’indagine sui comportamenti dei politici (comprese le massime cariche dello Stato) e sulla verità dei fatti. L’oggetto della ricerca sono condotte che hanno rilevanza pubblica. Da questi comportamenti può derivare un carattere personale più o meno ostico, ma il bersaglio non è il carattere.

Ambedue i procedimenti, è vero, si propongono di indebolire chi è preso di mira, di delegittimare il leader. Sono ambedue guerre mentali, volendo persuadere chi l’uomo della strada, chi il cittadino, ma il funzionamento della democrazia è influenzato in modi ben diversi dai due operati.

La democrazia accetta il conflitto, esige e stimola la ricerca del vero, anche se il vero è scomodo per il potente. E l’accetta continuativamente, non solo il giorno del voto, perché democrazia non è Unzione dell’Eletto ma un arcipelago di poteri che si frenano l’un l’altro affinché nessuno commetta abusi. Questo gioco di equilibri è garantito dalle costituzioni e da poteri autonomi, tra cui campeggiano la stampa e la televisione. È in tale ambito che la differenza fra accertamento dei fatti e calunnia diventa cruciale. La verità sul comportamento del politico è il fine di chi esercita un contropotere, e l’effetto che si vuol ottenere è la correttezza e l’autolimitazione del potere. Non vuol distruggere, ma correggere. Può darsi che la verità si riveli falsa. È per questo che il cercatore del vero raduna prove, fatti, sentenze di tribunale.

La diceria vuole non salvaguardare ma abolire l’equilibrio dei poteri: personalizzando-privatizzando la politica, accentrando tutti i poteri. La sua guerra mentale è distruttiva: nella testa degli elettori, dei telespettatori, dei lettori, va lacerato tutto quel che li lega alle norme costituzionali, alla politica, allo Stato, alle istituzioni, ai giornali, alla chiesa stessa. È uno strumento antico, è l’anti-Stato teorizzato nelle stagioni terroriste. Fruga, non cerca. La diceria ha un rapporto singolare con la verità, non più fine ma mezzo di scambio utile a sganciare il principe dalle leggi: se tu dici una verità amara su di me, io ne dirò una peggiore su di te. Da tempi immemorabili la calunnia viene usata in tempi di torbidi, non quando lo Stato è forte ma quando vacilla (Rivoluzione francese, uscita dal Terrore nel Termidoro).

Se tutto è diffamazione privata, anche la ricerca della verità pubblica scade al rango di diceria, di assassinio di carattere. Perfino chi condanna l’attacco al direttore dell’Avvenire, perfino chi chiede più prudenza alla Chiesa (un direttore gay è ricattabile se dirige il quotidiano della Cei, scrive Vittorio Messori sul Corriere della Sera), dimentica che la parola chiave nella questione Boffo non è l’omosessualità, ma le minacce a un privato cittadino: un decreto penale di condanna, nel 2004, lo giudicò colpevole di molestie telefoniche, nei confronti di una giovane donna, durate 6 mesi. L’omosessualità non c’entra niente: quel che conta è un comportamento (l’intimidazione) di rilevanza pubblica. Patteggiamenti o risarcimenti aboliscono la pena, non il fatto.

La cosa più grave per i giornalisti sarebbe reagire all’offensiva contro alcuni giornali e reti televisive dividendosi. Accusandosi l’un l’altro di temerarietà o codardia, a seconda. Sostiene Berlusconi che alle dieci domande risponderebbe, se fossero altri giornali a porle. Dicendo questo, egli ammette che domandare è lecito e che rispondere è doveroso. Motivo di più perché tutti continuino a porre domande al premier.

Ricordiamo quel che accadrebbe in Francia e Germania, in simili circostanze. In entrambi i paesi è ben raro che i giornalisti si aggrediscano l’un l’altro (tranne in presenza di reati). Ma se una o più testate sono attaccate per la determinazione con cui indagano sui potenti, tutta la professione fa quadrato. È come se valesse, non scritta, una legge simile all’articolo 5 del Patto Atlantico: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse… sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti». Fare lo stesso in Italia aiuterebbe a preservare l’arcipelago di poteri di cui è fatta la democrazia. (Beh, buona giornata).

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