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La crisi secondo Franco Piperno: “Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici”.

Primissime note sulla Cosa Multimediale e sulla sua natura premoderna di “Regulae at directionem Ingenii”(seconda e ultima parte), di FRANCO PIPERNO (PIPERNO@FIS.UNICAL.IT)

IX)
Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici. Ci proponiamo d’aiutarla a scavare fino in fondo. E questo vuol dire, portare la crisi a livello delle categorie concettuali del senso comune: l’amore, le relazioni di solidarietà e di reciprocità, l’amicizia, la morte, l’economia, il progresso e così via. Quello che puntiamo a conseguire è di porre una serie di domande di senso comune alle quali riuscire a dare risposte comunemente intellegibili e tecnicamente perfette.
Altrimenti detto, la nostra è una politica che privilegia lo sguardo, piuttosto che l’universo linguistico. Contrapponiamo, così, all’individuo medio che sa ma non vede, l’individuo sociale che, come il bambino, vede ma non sa. Spogliata delle forme accademiche o paludate, la domanda del filosofo è sempre infantile, giacché colui che interroga senza alcuna necessità è il bambino. Per dirla con Valery “vision an avant, aveglue quant aux mots”.

X).
Occorre, quindi, ai i redattori stessi di questa cosa, praticare una saggezza rischiosa che nel mettere in questione l’ordine delle cose non evita nel contempo d’interrogare l’ordine del pensare — suscitando così stupore e sconcerto insieme. Giacché tutto parte da un interruzione, affinché il percorso abbia inizio: oggi il ritardo è il segno della perfezione. Potremmo riassumere così le considerazioni oscure che siamo andati via via snocciolando, dicendo che la nostra cosa parte con un intento di diseducazione o meglio malaeducazione linguistica: per ritrovare quel reale che le parole occultano.
Facciamo qualche esempio: il tema delle libertà comunali affiora nei movimenti che si svolgono attorno la questione antica dell’abitare. Movimenti che esistono, anche quando i giornali non ne parlano, magari nella dimensione del fiume carsico che si inabissa alla vista continuando a scorrere. Qui la politica dello sguardo vuol dire vedere il grado zero dell’abitare, il suo estremo; ovvero, rivelare, a coloro che sono senza casa, la condizione di possibilità di un altro modo dell’abitare che sottragga la città al suo destino, iper-moderno, di nodo di flussi di merci e di capitali; e la riconduca alla sua natura di luogo della buona vita. In atri termini la complessità, anche tecnicamente filosofica, del tema dell’abitare trova nell’estremo il punto di possibilità di un riappropriarsi della città, vivere il legame urbano come bene comune — riportare la città alla sua origine. E’ qui evidente la qualità di questa prassi dove il fine e il mezzo coincidono, condizione che è la prova evidente del carattere autentico. Qui si vede come un dato volgare, un bisogno nudo, arcaico, pressoché sub-umano, si riscatti come punto di vista, sguardo dal quale si vede la degradazione della vita politica che attanaglia le nostre città — dove l’architettura, soprattutto quella d’avanguardia, non fa che tradurre visivamente la rottura di relazioni di reciprocità e solidarietà che sono alla base del vivere urbano. E’ un’architettura che non solo non entra in contatto con quello che sopravvive del genius loci, ma semplicemente, non si pone più il problema, lo ignora; e.g. l’Ara Pacis, rivisitata da Veltroni, risulta priva di ogni aura; il che mostra, senza ombra di dubbio, che poteva essere costruita a Tokyo come a Parigi, a Pechino come a Berlino–perchè così stravolta è divenuta un non-luogo.
Analoga considerazione vale per i movimenti che, specie nel Sud, si strutturano attorno alla richiesta del reddito di cittadinanza. Anche qui l’aspetto volgare, la richiesta di soldi che appare come un precipitare estremo nel mondo delle merci si risolve, nella forma del reddito erogato dai comuni, in una formidabile acquisizione cognitiva sulla potenza della cooperazione sociale; e in una conseguente liberazione d’energia e di passioni in grado di far emergere dalla vita quotidiana un altro universo di consuetudini e consumi..

XI)
La nostra cosa tenta, paradossalmente, di usare il mezzo elettronico contro il mondo virtuale e la comunicazione in assenza; noi ci ripromettiamo di adoperare il colore ed il suono nonché la subitanea sensazione della contemporaneità — essere in presenza– che essi, ingannandoci, suscitano; tutto questo, contro le parole esauste e le macchinose teorie; per ritrovare il reale occorre portare a termine una diseducazione linguistica che mira a riscattare il mondo umano dalle parole che lo incorniciano e lo diminuiscono.

Avendo letto più di dieci libri, sappiamo che un’opera, che si presenti come gravida di una teoria completa e coerente, è una falsificazione del mondo.

Proviamo a riassumere: la crisi comporta un’interruzione tanto nella vita quotidiana, quanto nel pensare quotidiano; lo sguardo sceglie di posarsi sul fondo volgare- il reddito monetario, la malattia, la casa-tana, la caduta, la morte- perché solo su questo sfondo fragile e comune possono risaltare le idee autentiche, i pensieri singolari, in grado di creare comunità. Il comune pensare non è il pensiero che abbiamo tutti, ma il pensiero che istituisce relazioni di solidarietà e di reciprocità, cioè propriamente comunitarie.
Non si tratta quindi di uno sguardo contemplativo, né di uno sguardo trasformativo di quello che c’è, piuttosto è un modo di porsi eccedente che rinnova le relazioni tra l’essere umano ed il mondo; senza peraltro aggiungere nulla di nuovo, poiché l’azione autentica non lascia traccia.
E’ quindi uno sguardo che comporta una sorta di cattiveria sognante, in grado di vedere ciò che l’opinione pubblica nasconde. Non bisogna fare null’altro se non rifare le stesse osservazioni possibili a tutti. Riprendere in proprio, come se mai fosse stata pensata, l’osservazione che tutti hanno già fatto. Il futuro rientra nel presente come se resuscitasse; mentre il passato, lungi dal ritornare appare per quello che è : il presente che rientra nel suo medesimo e lo rende così eterno.
Si tratta, in buona sostanza, di coniugare al perfetto, nel senso del compiuto, attraverso quel modo del tempo oggi più pertinente al perfetto, quello del ritardo. E non tanto per contrastare con la lentezza il tempo del “prestissimo” in cui siamo tutti immersi, ma perché guardare è un’attività che comporta il rifarsi, rifare se stessi– affinché la buona vita, che è un processo e non uno stato, si compia e la morte stessa funzioni come un suggello di questa perfezione.
Come canta il poeta, bisogna essere perfetti, non c’è più da esitare.

XII).
La nostra cosa è quindi una sosta nella smaniosa abitudine a comprendersi nel mondo lungo la via razionale-riduttiva del linguistico; e si offre per noi stessi come occasione per conoscersi e conoscere il mondo fuori dai concetti-sentimenti della riproduzione seriale. Solo introducendo nella temporalità stereotipata l’interruzione, ed il ritardo che ne consegue, ogni vita, nel tempo mortale che le è dato, può realizzare il suo autoperfezionamento– non quindi una vita esatta e certa, ma incerta e precaria.
La cosa che proponiamo cerca di utilizzare il virtuale per afferrare il reale, come si fa quando uno osserva la volta celeste dopo aver visitato il planetario del luogo. L’idea-forza è la costruzione della cassetta di attrezzi che servano a far precipitare la coscienza dei luoghi- coscienza che non è mai svanita anche quando è tenuta a vile e rattrappita. Il riferimento premoderno di quello che vogliamo fare è il breviario o il “libro a ore” dove, appunto, è dispiegata la temporalità del luogo, le ore come scansione qualitativa del tempo e non il loro supposto scorrere uniforme, come tutte uguali.
Naturalmente la sequenza sopra delineata nella pratica si rovescia: la nostra avventura riuscirà nel suo scopo se i luoghi ritroveranno le loro temporalità autentiche, le cento città italiane avranno cento tempi diversi. Qui è evidente come il ritardo sia un segno di perfezione si pensi alle città rurali del meridione. Per chiudere senza concludere, la cosa che cerchiamo di costruire è una sorta di ”General Intellect” dei luoghi che ha lo scopo, perfettamente provvisorio, di facilitare l’emersione del “genius loci”, gettando alla critica roditrice dei topi tutti quei concetti della modernità che hanno ridotto i luoghi a non luoghi; e fornendo, per quanto ci è possibile, quelle arti, quei saperi, quelle tecniche accademiche e non, volte a permettere di curare tutta la ricchezza di relazioni che c’è già nel mondo che ci è dato. Va da se che nel nostro caso i luoghi sono rappresentati da comunità locali individuate per una prassi concreta, già esistente, sulle tematiche sopraccennate. In barba a tutti i facitori di costituzioni noi pensiamo all’Italia come una nazione in grado di superare se stessa, divenendo ciò che già è : una confederazione di cento, e non più di cento,libere città.

Le cose ed i cosi della Cosa Multimediale di Cosenza.
-Fine della seconda e ultima parte-
(Beh, buona giornata)

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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