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«La crisi riduce i budget della pubblicità su carta E anche il pluralismo»

di FRANCESCO PICCIONI da Il Manifesto
È uno dei più noti copy writer italiani, con una carriera «all’americana», da semplice fattorino a «presidente e direttore creativo esecutivo» della Tbwa/Italia. Poi, per Marco Ferri, una girandola di incarichi e riconoscimenti internazionali, sempre all’interno del delicato snodo tra pubblicità e media.
Inserti e giornali femminili sono «dimagriti»…
La crisi viene da lontano ed è strutturale. L’Italia, in particolare, non consuma molti giornali. Come per il resto dell’editoria, credo ci siano più testate che lettori. Oggi si aggrava perché la crisi economica fa sì che si taglino budget e posti di lavoro, e quindi ai giornali arriva meno pubblicità, con scompensi gravissimi.
Cala la «torta» complessiva della pubblicità?
C’è un restringimento stimato nell’ordine del meno 3 e qualcosa. Sono dati non confermati e non smentiti, perché tutte le grandi holding di pubblicità – non solo le agenzie, ma anche i centri media – non dichiarano più i dati dall’inizio del 2000, con la crisi della net economy. Un accordo per non pubblicare più le loro classifiche sulla rivista Usa Advertising age, come avvenuto fin lì. All’epoca tutte le holding di pubblicità furono sottoposte a controlli della Sec – la Consob americana – per delle «irregolarità». Furono costrette a rimettere a posto i propri bilanci e in alcuni casi anche a restituire delle over commission ai grandi clienti.
A livello globale?
Sì. Molta della pubblicità prodotta in Italia è legata a holding internazionali; i manager italiani non hanno fatto altro che adeguarsi agli ordini. Noi abbiamo però il grave problema che gran parte dei budget pubblicitari viene assorbito dalla tv; da Mediaset e Rai. In una fase di crisi, con quasi il 70% assorbito dal sistema televisivo, si può immaginare come si sia ridotto il flusso verso la carta stampata. I giornali perdono contemporanemaente copie, diffusione, lettori e pubblicità. Questo assottiglia non solo le pagine, ma – temo – anche la forza lavoro.
E’ possibile un uso selettivo e condizionante della pubblicità in queste condizioni?
Temo di sì. La pubblicità ha già la sua forte influenza sui contenuti giornalistici. In tempi di crisi, «urtare la suscettibilità» di un investitore condiziona chi deve affrontare un’inchiesta. Un esempio di oggi: Carlos Ghosn, da Tokyo, ha dichiarato che taglia il 10% dei costi globali di Nissan. Si potrebbe però obiettare: «ma come, una marca globale si prende gli incentivi in tutto il mondo e licenzia gli operai?» Scrivere una cosa del genere urterebbe gli investitori, che invece vorrebbero invece utilizzare le pagine del giornale per promuovere i propri modelli sottoposti a incentivi governativi. Ma la «stortura» vera riguarda il drenaggio eccessivo della quota di mercato assorbita dalla tv, il peso abnorme della tv commerciale. La Ue ha scritto di recente all’Italia per dire che la «legge Gasparri» non va bene. Ma non ne ha scritto nessuno.
L’inrgresso di Murdoch che effetto ha avuto?
Secondo i dati Fox la presenza è cresciuta dal 3,4% al 9,8. E’ ora un competitor robusto, più appetibile come strumento di comunicazione pubblicitaria. Questo crea malumori e scontri molto forti. C’è stato quel conflitto sull’iva al 20% come risposta, ma anche un cambio di strategia. Con il passaggio al digitale terrestre la tv generalista sta cercando di tematizzare i propri programmi , Sky sta facendo l’opposto. Hanno preso Fiorello, si parla di Celentano, già è in scuderia la Cuccarini. Personaggi tipici che hanno fatto grandi ascolti nell’intrattenimento «generalista». Murdoch sta investendo in Italia, nonostante le perdite globali. Ma il satellitare può essere un competitor della tv in chiaro.
Si va a una concentrazione delle testate?
E’ un ridimensionamento duro, rigido, del mercato. Dolori veri. In Italia è anche venuto meno il finanziamento «su carta» ed è in discussione la legge di riforma dell’editoria. Sono tutti molto cauti, sia l’Fnsi che gli editori.
Un grande futuro, per il pluralismo…
Appunto. E’ come se il pluralismo fosse stato ridotto al telecomando. Ho l’impressione che, nell’editoria, sia tutta un’altra cosa. (Beh, buona giornata).
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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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