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Pirella c’

Emanuele Pirella, 1940-2010.
Per Emanuele Pirella, la pubblicità doveva essere tangibile, criticabile, condivisibile. E un prodotto andava scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.

Questa impostazione culturale e professionale è stata una cifra precisa, riconoscibile, direi una costante del segno che Emanuele Pirella ci ha lasciato, quando ci ha lasciato due anni fa.

E fa per niente impressione che le sue parole trovino piena cittadinanza nell’attualità: l’impoverimento culturale delle agenzie di pubblicità italiana ha toccato i minimi storici, ormai completamente fuori combattimento dal dibattito, non dico culturale, ma neppure sulla società o il costume.

E allora, alla maniera del meccanismo del rovesciamento, tanto caro alla buona pubblicità, non è stato Pirella a mancare due ani fa alla pubblicità italiana, ma l’esatto contrario: in effetti, la pubblicità italiana non c’è più, mentre VolumePills Emanuele Pirella è molto presente nella formazione culturale, nella mentalità aperta, nello stile di lavoro di chi considera il linguaggio creativo un modo stimolante per veicolare pensieri, produrre concetti, creare occasioni ghiotte di comunicazione, capaci di svicolare, surfare, sgambettare, arrampicarsi, volteggiare, scantonare in ogni media: cose che rimangano nella mente dei lettori, perché argute, intelligenti, intriganti, che esse siano lette su un autorevole quotidiano o su un sms; dette dallo speaker di uno spot o colte al volo su un twitter.

L’unica chance che la pubblicità italiana ha per tornare a essere un luogo sano sta nel sottrarsi alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla nostra epoca. Consapevoli di correre il rischio dell’innovazione, questo è l’impellente compito dei creativi pubblicitari italiani. Con Emanuele nel cuore. Beh, buona giornata.

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“Non c’è più neanche il popolo dei creativi, mi disse tra i baffi”. Fa bene pensare ogni tanto a Emanuele Pirella.

Il Naso Fuori. Ma siamo proprio sicuri che Emanuele non ci sia più? -di Marco Ferri-advexpress.it

C’è stato sgomento, c’è stata retorica, ci sono state le celebrazioni. E’ interessante notare come le cose più significative siano state scritte dal giornale per cui Pirella ha lavorato, con Tullio Pericoli, per molti anni. E’ un poco triste notare che le cose più risibili siano state dette dalle persone della pubblicità italiana.

Emanuele inventò la figura retorica del “popolo dei creativi”. Lo fece allorquando divenne presidente dell’Art Directors Club italiano. Negli anni successivi, quando ci conoscemmo, e per lui lavorai, e poi con lui lavorai, e insieme lavorammo, ridemmo, litigammo, e di nuovo lavorammo e ancora ridemmo, l’idea che ci fosse una collettività di persone dedite alla creazione di messaggi pubblicitari era come un punto di riferimento: di cui tener conto, a cui riferirsi, con cui ingaggiare una competizione per fare meglio. L’ultima volta che ci siamo incontrati, davanti a due tazzine di caffè, c’era un terribile frastuono di lavori di ristrutturazione di un palazzo milanese:- Non c’è più neanche il popolo dei creativi, mi disse tra i baffi.

Già, quel frastuono. Allegoria di un impedimento alla parola detta e ascoltata, quanto della parola data, che è quello che è oggi la pubblicità italiana. Quel frastuono di biglietti da visita alti sonanti, di carriere fatte di riunioni, trucchi, tranelli, ritornelli, e parole dette per sentito dire. E dunque autorizzate a essere smentite, travisate, tradite.

Mentre per noi, che per lui abbiamo lavorato, che con lui abbiamo inventato annunci e campagne pubblicitarie, le parole avevano un peso, perché nascevano nella testa, attraversavano il braccio, scaturivano dalla mano, fiottavano dalla penna e riempivano un foglietto di carta bianca. Pronto a essere appallottolato e buttato, poi ripescato e riaperto, poi riletto e magari riscritto, poi ragionato e negato, assolto e condannato, e magari approvato, e poi consegnato all’annuncio. E alla fine visto, stampato, guardato con la diffidenza di chi poteva, magari aver fatto meglio. O al limite, aver scritto una cazzata.

Si amava il lavoro. Quello del copywriter. In Italia senza Pirella saremmo ancora alle frasette d’ effetto, magari scritte senza che finissero col punto.

Già, ‘il punto Pirella’. Bene. Emanuele, andandosene, ha messo il punto. E allora, forza! ci sono tanti titoli, testi e idee che devono ancora saper onorare quel punto. Lui lo ha messo per sempre, a noi inventare ancora qualcosa che abbia la dignità di meritarsi ‘il punto Pirella’. Punto. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

Velardi, corvo rosso, te lo devi ancora quadagnare il mio scalpo.

di Marco Ferri- 3Dnews, inserto di Terra, quotidiano ecologista.

Immaginate che dott.Jekill si metta in testa di curare mister Hyde. Avrete il novello spin-doctor della politica italiana. Claudio Velardi. Quello che per poco, solo 1,1% non fa perdere le elezioni a Renata “frangetta nera” Polverini, che era partita con un più 20 per cento sulla Bonino.

Quello che, contemporaneamente, fa la campagna elettorale in Campania per il Pd, e riesce nel miracolo di far perdere alla grande De Luca: Caldoro se lo è ciucciato con ben 15 punti di vantaggio. Una botta al cerchio e una alla botte?

Ma và. Il nostro è un professionista: mo’ pare pure che potrebbe prendere in appalto la comunicazione degli assessorati della Regione Lazio. Una bazzecola da 25 milioni di euro, secondo quanto riporta Dagospia.. Un vero professionista della mediocrità della politica italiana. Imperversa su giornali e tv, come un vero parvenu.

Dice di se di essere stato fascista, poi comunista, poi dalemiano, tanto dalemiano da entrare nel suo staff, poi bassoliniano. E finalmente il reuccio del lobbismo. Lobby? Una volta si chiamavano voltagabbana (prima di Dolce&Gabbana, s’intende!). Poi, poi assessore al turismo della Regione Campania. E lì che deve aver imparato a fare il turista cinico delle anomalie della politica italiana, nell’era del berlusconismo. Un po’ mi butto a destra, un po’ mi tengo a sinistra. Meno brillane del Totò di “poi dice che uno si butta a destra”, ma forse più redditizio. Tutto sommato, bisogna riconoscere che Claudio Velardi è l’animale geneticamente modificato di questo nuovo zoo che è il ceto politico italiano.

Non così bravo da far mangiare la polvere agli altri, ma abbastanza per fargli respirare la Polverini. Non ha inventato il doppio binario, ha solo divelto le traversine. Non ha inventato le convergenze parallele: ha sperimentato le divergenze incrociate. Insomma, Velardi è una nuova specie di comunicatore politico: ha innalzato il “fuoco amico” da tragica evenienza a comica strategia di comunicazione. Più che spin-doctor, si dovrebbe definire uno spin-killer. Non costruisce, distrugge. E fattura. La Reti Spa,la sua società di consulenza vanta un fatturato di 5 milioni di euro. Ma lui mira a ben altre mete.

Dice di sé di essere narciso. Chi lo avrebbe mai creduto? Vabbè. Negli USA lo stratega della campagna elettorale di Obama ha fatto eleggere il primo nero alla Casa Bianca. Lui, Claudio Velardi ha fatto molto di più: ha fatto eleggere una nera alla Regione Lazio. Mica bruscolini. Siamo alla farsa della professione del lobbista? Ma no. Per un ex fascista, un ex comunista, un ex questo, ex quello e ex quell’altro, alla fine basta un “ex voto”.

Tanto lo sanno tutti che la comunicazione è tutt’altra cosa. Come diceva Emanuele Pirella, che purtroppo, andandosene, ci ha lasciato un incolmabile vuoto: “La pubblicità deve dire la verità, solo la verità, tutt’altro che la verità”. Ecco allora il riscatto del Velardi, fattucchiere del “tutt’altro”. Beh, buona giornata.

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Addio a Emanuele Pirella, maestro, collega, mèntore, insostituibile amico.

Emanuele Pirella, decano dei copywriter italiani, è morto oggi. Aveva 70 anni. A suo figlio Duccio e alla sua compagna di una vita Nicoletta, dedico un abbraccio forte e affettuoso.

Caro Emanuele, sei stato un maestro, un collega, un mèntore, un buon amico. Ho avuto il privilegio di odiare i tuoi pregi, e a volte di amare i tuoi difetti. Cioè, ti ho voluto bene. Ci vediamo nei miei pensieri, ogni volta che avrò bisogno di te. Ciao, bello. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

I furbetti del lay-out-tino.

La scorsa domenica, Eugenio Scalfari ha scritto che il problema del cinema italiano è la perdita di un linguaggio comune e condivisibile. L’affermazione ha la sua importanza, poiché cade durante il festival di Venezia. Ma il suo ragionamento è estendibile a altri settori della comunicazione, come si definiscono oggi tutte le discipline, i mestieri, le professioni che hanno a che fare col comunicare un idea, un pensiero, un punto di vista.

Non è una caso, che Eugenio Scalari citi il giornale di cui è stato il fondatore come un esempio di innovazione del linguaggio della carta stampata.

Le riflessioni di Scalfari hanno provocato un piccolo ragionamento sul linguaggio della pubblicità italiana. Il ragionamento è questo.

1) La pubblicità italiana è tra le più mediocri del mondo occidentale, dal punto di vista creativo: lo dicono tutti i più importanti appuntamenti di confronto tra le diverse culture della comunicazione commerciale;

2) la pubblicità italiana è tra le più eccellenti del mondo occidentale dal punto di vista economico, con particolare riferimento alla pubblicità televisiva: chi possiede un network televisivo fa e disfa a suo piacimento;

3) la pubblicità italiana è la più politica del mondo occidentale: il sistema televisivo, mezzo principe in Italia è regolato da alchimie di tipo politico, dunque anche l’accesso a budget di questa o quella azienda si muove rispetto a queste regole. Basti pensare all’equazione tra il maggiore partito rappresentato in Parlamento, sia pur attualmente all’opposizione e il maggiore network televisivo commerciale, attualmente maggioritario nella raccolta pubblicitaria;

4) la pubblicità italiana oggi non ha un linguaggio culturale, ma economicista, lobbysta, spartitorio, furbastro: basta leggere i comunicati stampa che si vantano di questa o quella acquisizione di budget pubblicitari, di cui sono pieni i news-magazine del settore, ogni giorno.

Non c’è un linguaggio unitario, condivisibile, formativo, innovatore della creatività italiana per il semplice motivo che le idee sono l’ultima ruota del carro, nella santa processione del business della pubblicità italiana.

A questo contribuiscono, in piena flagranza del reato di eccesso colposo di buona volontà molti creativi pubblicitari italiani. Tra loro c’è chi eccelle nel cinismo della loro mediocrità, professionale e culturale. Di quella umana, boh!

Sono coloro che furono allievi di grandi maestri dell’advertising italiano, ma che del loro maestro hanno creduto di imitare gli aspetti esteriori, non quelli intrinseci, che ne hanno fatto, giustamente, punti di riferimento professionali per più di una generazione di creativi. Anzi, candidandosi ad esserne epigoni, dicono in giro del loro disturbo psicanalitico: uccidi il padre è il loro leit-motive.

Ben presto dimentichi degli insegnamento più preziosi, tra cui l’onestà intellettuale che accompagna ogni minuto la creazione di una campagna pubblicitaria, per il semplice fatto che va sotto gli occhi di milioni di persone, i nostri furbetti del lay-out-ino inanellano sciocchezze: si vantano di una campagna scema e già vista, non distinguono il buono dal marcio, ascoltano il suono delle loro parolette e si credono di alta statura professionale, scambiando il sistema metrico decimale con lo spessore professionale.

Ai tempi dell’odiato Gavino Sanna, che li apostrofava con la dicitura “piscia-letto”, nascosti tra la piccola folla del popolo dei creativi fischiavano in platea i suoi successi.

Oggi che “il popolo dei creativi”, come Pirella definì la moltitudine di copy e art che negli Ottanta entrarono nel mondo della pubblicità italiana, attirati, appunto da quel linguaggio che oggi non sembra più esserci, ecco che i furbetti del lay-out-ino sono feroci come caporali napoleonici, al tempo di Sant’Elena.

I furbetti del lay-out-tino non rispettando i loro maestri, non rispettano il loro lavoro, quindi non sanno del rispetto verso i lettori, gli ascoltatori, i telespettatori.

In ultima analisi, essi non sanno nulla del rispetto che si deve al committente, alla disciplina umana e professionale che si deve a chi paga il conto della creatività. Li prendono in giro con la loro prosopopea e con l’altisonanza dei titoli sui biglietti da visita, magari, come bagarini, con la promessa di un posto comodo per godersi la partita.

I furbetti del lay-out-ino sono come cavallette che distruggono, per via della loro ingordigia, dell’ansia di fama, del loro ego, magari di un bonus di fine anno, che distruggono reputazioni delle persone prima e delle marche poi, con il sorriso ammiccante dalla fotina che per piaggeria campeggia sull’articoletto del giornaletto di settore.

Ignari, o forse cinicamente noncuranti, addirittura consapevoli, che tanto di questa o quella testata non gliene frega un bel niente, gli si può raccontare ogni fandonia, che tanto quelli la pubblicano, che se no, magari, gli togliamo l’abbonamento. E così si chiude il circolo vizioso della mancanza di rispetto del lavoro degli altri.

Lo sappiamo tutti che la fretta (di apparire) passa, ma la merda (di certi comportamenti) rimane. Ma a loro che gliene importa. Sono i furbetti del lay-out-ino. Beh, buona giornata.

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