Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La pubblicità, il pane fresco che si fa tutti i giorni.

“Per il mio Paese faccio sacrifici. Che non mi troverei a fare se fossi un privato cittadino”. Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa a palazzo Chigi dopo il consiglio dei ministri. “Mi hanno chiesto a che punto erano i miei denti (dopo l’aggressione di Milano, ndr). Non sono ancora riuscito a mettere l’altro dente perché – ha spiegato – ho il nervo scoperto che non guarisce. E questo per me è un sacrificio grande, un rischio a cui sono andato incontro e che, se fossi stato un privato cittadino, non avrei corso. A questo punto il presidente del consiglio ha mostrato, a bocca aperta, il dente mancante ai giornalisti.

Questo è un lampante esempio di pubblicità-intrattenimento: il prodotto si mostra al pubblico, cercando di stupire, di spiazzare. Siamo proprio sicuri che questo sia il futuro dell’advertising? Lo chiedo non solo perché la stragande maggioranza dei consumatori italiani sanno bene quanti ‘sacrifici’ bisogna fare per pagare il conto del dentista. Ma lo chiedo a chi sostiene che il futuro dell’advertising sia intrattenere e non invece informare sulle virtù della marca, attraverso gli espedienti dell’esagerazione, del rovesciamento, dell’iperbole tipici del linguaggio della pubblicità. Quegli espedienti che sono convincenti proprio perché dichiaratamente sono pubblicitari, dunque innocui, non invasivi, in definitiva accettabili. La pubblicità cerca affetto, stima, atteggiamenti positivi, come ci insegnava Pirella.

Se la pubblicità diventa coercizione del consenso sprofonda nella propaganda. La propaganda è un assordante rumore di fondo. La pubblicità è la costruzione della reputazione, esercitata attraverso il rendere pubblico le qualità dei prodotti, il talento dei marchi. Con irriverenza, ma buon gusto. Ecco perché l’intrattenimento è attività effimera, mentre la pubblicità è una cosa concreta. Insomma, tanto per rimanere in tema, sarebbe come avere il pane, ma non i denti. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Quanto è difficile uscire dalla quarta crisi.

La potenza della qualità di JOHN LLOYD -repubblica.it

I giornali, una volta diventati aziende di primaria importanza in vari momenti del XIX secolo, avevano due funzioni ben distinte. In primo luogo riportavano le notizie riguardanti gli affari esteri e la cronaca nera locale, i successi parlamentari e i fallimenti commerciali. In secondo luogo i giornali erano un veicolo commerciale per i popoli che stavano diventando consumatori di massa. Come scrive Judith Flanders, nella sua storia del commercio in epoca vittoriana, Consuming Passions, “Fu sulla base di una pubblicità sempre più onnipresente che i giornali acquisirono quella stabilità finanziaria che, nel XIX secolo, consentì la loro espansione in mercati sempre più ampi”.

Il servizio pubblico che hanno reso le case automobilistiche e i grandi magazzini, le rubriche dei cuori solitari e le compagnie aeree cercando di catturare l’attenzione dei lettori, ora come ora nella sua forma classica è in forte calo, forse addirittura agli ultimi giorni.

Quanto meno, al momento la pubblicità non costituisce una fonte abbastanza sicura di introiti per mantenere i potenti giornali che ogni Stato sviluppato e ricco ha dato per scontati per intere generazioni. Dal New York Times al Dagens Nyheter, da Le Monde al Yomiuri Shimbun, hanno tutti alle spalle una loro storia di potere. Tutti, in misura diversa, sono a rischio di tagli alle spese e perfino di chiusura. Nel momento stesso in cui questi grandi giornali entrano in crisi, vediamo molto meglio quanto subordinati fossero i nostri principi di “giornalismo come servizio pubblico” in fondo in fondo dipendessero dai consumi dei cittadini. Mentre tutto ciò viene meno, diventa palese che la capacità di mantenere in vita questo tipo di giornalismo è profondamente a rischio.

Le televisioni commerciali si trovano nella stessa situazione: per quasi 60 anni le tv non finanziate dallo Stato si sono arricchite grazie al boom pubblicitario. Adesso anche loro devono fare i conti con la crisi. La Cbs aveva 24 sedi distaccate all’estero, ora sei. Le emittenti televisive britanniche stanno abbandonando i notiziari regionali lasciandoli alla Bbc, finanziata dallo Stato. In Francia la tv privata più importante, Tf1, ha smesso di produrre informazione seria. Il suo amministratore delegato, Patrick Le Lay, nel 2004 ha detto: “Cerchiamo di essere realistici: in sostanza il nostro compito è aiutare la Coca Cola – giusto per fare un esempio – a vendere il suo prodotto. Ciò che noi vendiamo alla Coca Cola è il tempo del materiale cerebrale che abbiamo disponibile: dobbiamo sempre cercare programmi che siano popolari, seguire le mode, cavalcare varie tendenze, in un contesto nel quale l’informazione è sempre più veloce, diversa e banalizzata”.

Secondo Markus Prior (in Post Broadcast Democracy) i bei tempi in cui la maggior parte del pubblico seguiva i notiziari e l’attualità con scadenza quotidiana perché c’era poca scelta sono giunti al termine. Nel momento in cui una famiglia può scegliere tra 100 o 200 canali, gli ascolti dei programmi seri sono precipitati. Al contempo una piccola percentuale di pubblico fa zapping per raccogliere quante più notizie esaurienti possibile. Di conseguenza, per l’informazione si registra un equivalente di quello che è il sempre più crescente divario di reddito, un gap sempre più incolmabile tra i news junkies e i news dropouts.

Per ora non c’è una soluzione facile a questa crisi. Ma una risposta tuttavia esiste e si cela nella capacità dei professionisti di reinventarsi. Se da un lato stiamo assistendo alla crisi, dall’altro vediamo anche la crescita, specialmente su Internet, grazie al quale oggi sempre più lettori leggono quasi tutti i giornali. Ma sono in crescita anche le riviste serie e la produzione di documentari in tv e al cinema. Possiamo iniziare a intravedere un futuro caratterizzato da molte più fonti di informazione, nel quale i giornali affermati, come questo su cui scrivo, saranno in grado di sopravvivere associandosi con nuove, piccole start-up, specializzate in regioni particolari del mondo o in un particolare genere di giornalismo. Come ha dichiarato di recente lo studioso americano Yochai Benkler, “Grazie a un impegno professionale nel giornalismo di qualità sufficientemente alta, abbinato ai contributi forniti dai lettori impegnati, da freelancer, da professori universitari, anche un’azienda piccola potrà attirare un numero elevato di lettori per vendere pubblicità a livelli tali da garantire questo grado di operazioni”. Ci occorrono dunque media potenti perché il potere può essere chiamato a rispondere delle proprie azioni soltanto da un altro potere. Dovremo trovare nuove modalità con le quali finanziarli, ma una cosa è sicura: il mondo e la democrazia hanno bisogno del giornalismo e dipende dunque da noi giornalisti fare il possibile per poter continuare ad assicurarlo.(Beh, buona giornata).

L’autore è direttore
del Reuters Institute
for the Study of Journalism
della Oxford University
(Traduzione di Anna Bissanti)

Share
Categorie
Leggi e diritto Media e tecnologia

“Per difendere l’industria del contenuto, si preparano fili spinati e pene assurde: querele per i blogger, cause per chi scarica un film, sospensioni della connessione Internet.”

di VITTORIO ZAMBARDINO- Scene digitali- repubblica.it

E’ una sentenza molto “mainstream”, quella che oggi condanna i gestori di The Pirate Bay a varie pene detentive e a un forte risarcimento verso quelle Major dell’intrattenimento che avevano fatto richieste  anche più ingenti. E’ una brutta sentenza: che si “incastra” bene con le intenzioni punitive del governo francese, di quello inglese, e di quello italiano. Ed è un errore.

A pochi minuti dalla decisione del tribunale di Stoccolma, la blogosfera comincia a commentare, ma ci vorrà del tempo prima che un’opinione prenda forma. Non è difficile prevedere che sarà negativa. Intanto ecco TechDirt (in inglese) che sostiene che quella è “un’occasione perduta per l’industria dell’intrattenimento”. Vedremo cosa significa: intanto TechDirt in questi giorni sta riproponendo un tema importante: che la capacità delle macchine digitali e della rete di riprodurre e copiare indefinitamente hanno introdotto nella rete il concetto di “zero”. Hanno cioè smontato in modo irreversibile il conseguimento del profitto sulle opere dell’ingegno.

Sembra di sognare, eppure questo dato, che è chiaro, elementare, percepibile a chiunque guardi oltre l’orizzonte della propria scrivania, non viene colto dall’establishment industriale e politico.

La creatività e l’industria – Per essere chiari e onesti fino in fondo, il male che affligge la musica e il cinema, è lo stesso, anche se i sintomi sono diversi, che ha preso i giornali e in parte la tv. La riproducibilità totale del contenuto punta a distruggere il modello produttivo che finora ha presieduto all’attività di quelle industrie. Che per il momento studiano solo reazioni giudiziarie e/o politiche, invece di dedicarsi a nuove stretegie commerciali. I loro responsabili profetizzano la morte delle creatività e delle professioni che quelle industrie reggono: fare il musicista, il regista, il giornalista. Che è una bella sovrapposizione: il mondo avrà sempre bisogno di chi suona, racconta e informa. Il punto è in quali forme, canali, supporti.

Non facciamola lunga – l’argomento sarà ripreso – ma vale davvero assai poco produrre informazione terroristica, come ha fatto l’industria cinematografica italiana in un rapporto diffuso ieri: bambini che non sanno disegnare, cinema che chiudono, film che non si fanno più. O come fanno i nostri politici, di maggioranza e qualche volta di opposizione, quando parlano di social network come luoghi di abominio, magari con la consulenza degli industriali del cinema seduti accanto a loro, preoccupati perché le loro fiction finiscono su YouTube – a pezzi, niente paura.

Il rischio vero di guardare indietro – Questa cattiva informazione produce un rischio politico gravissimo. Devono saperlo tutti coloro che danno qualche importanza alla parola libertà.

Perché per difendere l’industria del contenuto, si preparano fili spinati e pene assurde: querele per i blogger, cause per chi scarica un film, sospensioni della connessione internet. In Francia, dove sono meno ipocriti, si ipotizza che gli utenti internet debbano, in un futuro non lontano, navigare solo all’interno di liste note di siti e quindi “autorizzati”. Noti all’autorità. In un articolo del nostro decreto sicurezza si conferisce al governo, cioè all’autorità politica, il diritto di decidere se una pagina viola le legge e chiudere magari tutto il sito. Cioè il governo decide cos’è reato in una manifestazione della libertà d’espressione.

Un piccolo passo grave – No non siamo noi che facciamo confusione fra argomenti: è proprio così, passare dal blocco del “pirata” ai controlli di massa e alla repressione della libertà di espressione, è un passo nella direzione più catastrofica. Un piccolo passo grave.

E’ il potere – che da noi è particolarmente intrecciato e confuso tra industria e politica – che fa volutamente confusione.

La ricerca creativa del nuovo – Allora via libera al “pirata”? Sono molte le cose che si potrebbero fare. Una rilfessione sui modelli di business ha portato Steve Jobs a creare con iTunes un meccanismo virtuoso di distribuzione della musica. Miliardi di brani venduti. Venduti.

Se non si fa il passo e non si riesce a capire che il “pirata” siamo moi, i nostri figli e che pirateria è il nuovo mercato, la nuova società, si rimane fermi al palo del delirio reazionario e repressivo. Bisogna inventare nuovi business, nuovi modi di vendere, nuove professioni. Perfino la repressione va ripensata per distinguere tra repressione del contrabbando e consumi personali…

Tanto non guarirete un’industria malata. Riuscirete solo a produrre una solida, diffusa, cultura autoritaria. (Beh, buona giornata).

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: