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Attualità Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Pubblicità italiana: quelli che non arrossiscono mai.

di Marco Ferri-advexpress.it

Secondo uno studio di Corine Dijk dell’Università di Groningen in Olanda, quando uno diventa rosso in viso cerca inconsciamente un vantaggio emotivo: quello di essere perdonati. Insomma, dimostrando imbarazzo si cerca di non far scattare reazioni violente da parte degli altri. In termini scientifici, si tratterebbe di un segnale prettamente umano, che esprime un significato adattativo, darwiniano: diventare rossi può essere un bene per la sopravvivenza.

Temo che Corine Dijk non abbia tenuto conto del fatto che ci sono categorie antropologiche che fanno arrossire i bilanci senza il minimo di emozione. Prendiamo quella specie umana che si è formata nella gestione delle agenzie di pubblicità in Italia: quelli mica arrossicono di imbarazzo di fronte a quello che hanno combinato in questi anni. Scuriscono in volto se qualcuno contraddice i loro bilanci, sbiancano se qualcuno vuole capire meglio i loro piani di sviluppo. Arrossire? Non se ne parla: come bambini viziati, pensano ‘il pallone è mio e il rigore lo tiro io’. E quando regolarmente tirano fuori pensano che è una congiura, un complotto: e invece che diventare rossi di vergogna, diventano neri di rancore.

Insomma, se il mercato della comunicazione evolve, loro si sono autosclusi dall’evoluzione della specie. Ogni giorno che passa camminano spediti, frettolosi e convinti sulla via dell’estinzione. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

La solitudine dei manager.

Assedio al manager
di Stefano Livadiotti e Maurizio Maggi-da l’Espresso.
Additati come causa di ogni male dai dipendenti. Usati come capri espiatori dagli azionisti. In pochi mesi hanno perso stipendi, potere e status. Radiografia dei dirigenti ai tempi della recessione Josef AckermannEbbene sì, “sono un manager. Uno di quei mostri sbattuti in prima pagina come incapaci, incompetenti e dediti al facile guadagno… Per colpa di qualche approfittatore, devo sentirmi annoverato tra la feccia di questa società. No, non ci sto”. La lettera, pubblicata il 31 marzo nella rubrica della posta su ‘La Stampa’, fotografa alla perfezione lo stato d’animo prevalente nel mondo dei dirigenti d’azienda italiani.

Additati da una parte crescente dell’opinione pubblica come una casta di intoccabili che provoca le crisi e non ne paga le conseguenze, inchiodati a responsabilità spesso non riconducibili a loro, i manager oggi appaiono allo sbando.

Il fatto è che si sentono tra l’incudine e il martello. Sanno di non poter contare sulla difesa dei vertici aziendali, cinicamente pronti a far di loro un capro espiatorio. Mentre dal basso, dalla platea operaia e impiegatizia chiamata a tirare la cinghia, vedono salire la marea di quanti chiedono che anche i ricchi piangano, come diceva uno sciagurato slogan elettorale della sinistra antagonista. Così, sempre più spesso, un po’ per tacitare la protesta e un po’ per tenersi stretta la scrivania, accettano di tagliarsi stipendi, bonus e fringe benefit.

La crisi è arrivata fino a loro scendendo per i rami. Da principio furono gli Stati Uniti. Secondo il ‘Wall Street Journal’, nel 2008 le retribuzioni complessive dei Ceo delle prime 200 società americane hanno lasciato sul campo il 3,4 per cento. Ma è stato solo un assaggio, rispetto a quello che accadrà quest’anno. L’indignazione popolare per i 165 milioni di dollari di premi concessi ai dipendenti del colosso assicurativo Aig ha spinto il governo a vietare i bonus e fissare un tetto ai premi in azioni per i dirigenti di società che hanno ricevuto aiuti federali. E un sondaggio condotto dalla società di consulenza Watson Wyatt Worldwide tra 145 grandi imprese dice che il 33 per cento intende ridurre gli incentivi di lungo termine. L’entità media dei tagli in cantiere è del 35 per cento. Alla Goldman Sachs i dirigenti si sono visti imporre un tetto di 20 dollari per la fattura dei ristoranti e il diritto a farsi riportare a casa dalla limousine aziendale è stato limitato a chi si ferma in ufficio fino alle 10 di sera. Gli avvocati del celebre studio legale Liner Yankelevitz Sunshine & Regenstreif di Los Angeles hanno perso, invece, il benefit del massaggio shiatsu.

Sulla scia degli Stati Uniti, è poi toccata ai top manager europei. Josef Ackermann, il numero uno della Deutsche Bank che con i suoi quasi 20 milioni era stato a lungo il banchiere più pagato, l’anno scorso s’è dovuto accontentare di un milione e 400 mila euro. In Italia, l’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, ha annunciato la sua rinuncia alla parte variabile dello stipendio. Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne, presidente e amministratore delegato della Fiat, si sono dimezzati i compensi per il 2008. Come, del resto, ha fatto Dieter Zetsche della Daimler.

Il fuoco sulle seconde e terze linee è iniziato in Francia, con il sequestro dei dirigenti delle aziende in crisi da parte delle maestranze. Finora in Italia, per fortuna, significativi episodi di ‘bossnapping’ non si sono visti. Ma la polemica s’è immediatamente incendiata davanti alle tesi giustificazioniste di alcuni esponenti sindacali, come i leader dei metalmeccanici Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi. Il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, ha accusato il suo pari grado della Cgil di soffiare sul fuoco. Guglielmo Epifani gli ha risposto per le rime. E ‘l’Unità’, passando in rassegna la casistica francese, è arrivata a scrivere: “Almeno finora, sequestrare paga”. Se è per questo, anche rapinare le banche.

“C’è una ricerca del colpevole rispetto a un gioco in cui sono tutti collusi”, dice Marco Ghetti, professore all’università confindustriale Luiss (il suo corso di chiama ‘Leadership for change’). Il risultato è che oggi i 120 mila manager privati italiani, gente che guadagna in media 103 mila e 424 euro lordi l’anno, sono sul chi vive. Secondo una ricerca di Manageritalia, che ne associa 23 mila sparsi in 8 mila e 700 aziende, il 57,3 per cento è preoccupato. Il 10,4 per cento teme per la propria incolumità sul luogo di lavoro e il 13,7 non si sente sicuro neanche fuori dall’ufficio. Oltre la metà di loro (il 50,7 per cento) ritiene possibile un ritorno del terrorismo e nove su cento pensano che i principali responsabili della caccia al manager siano i media. “Il bossnapping è un fenomeno che preoccupa, perché potrebbe aprire la strada a comportamenti ben più pericolosi”, dice Claudio Pasini, presidente di Manageritalia. “Le paure dei manager”, aggiunge Paolo Legrenzi, ordinario di psicologia cognitiva a Venezia, “non rappresentano un sentimento inventato, ma risultano quanto mai attuali e giustificate: dal privilegio siamo passati alla berlina, alla gogna”. E alla stretta economica.Una indagine ancora fresca di inchiostro del Gidp (Gruppo intersettoriale direttori del personale) rivela che il 31,5 per cento dei responsabili delle risorse umane ha ricevuto dal vertice dell’azienda un input a ridurre la parte variabile della retribuzione di direttori e dirigenti. Uno su tre ha già impugnato le forbici, tagliando i bonus di oltre il 20 per cento. Uno su quattro c’è andato con la mano più leggera, ma ha comunque limato i premi tra il 15 e il 20 per cento. Loro hanno fatto buon viso a cattiva sorte: solo il 17 per cento ha abbozzato una qualche forma di resistenza.

Secondo Federmanager, nel 2008 sono stati licenziati 5 mila dirigenti e a fine 2009 i disoccupati saranno tra gli 8 e i 9 mila. E per chi resta a spasso sono dolori. Gli ultrancinquantenni hanno un sussidio di 1.500 euro lordi per 12 mesi, che si riducono a otto per i più giovani. E le statistiche dicono che a un anno dalla perdita della poltrona quelli che ne trovano un’altra sono l’82,1 per cento, ma il 69,7 si deve accontentare di un inquadramento inferiore al precedente, o addirittura precario. “La vita si è fatta assai più dura per i dirigenti, alcuni dei quali stanno cedendo sotto i colpi della crisi”, ha scritto il sociologo Enrico Finzi. Il caso del colosso Telecom la dice lunga: più spesso di prima i dirigenti, pur di non perdere il posto, accettano il declassamento. Un fenomeno ancora insignificante dal punto di vista numerico, ma comunque in crescita rispetto al passato.

I casi di aziende che chiedono ai loro dirigenti di seconda o terza linea di ridursi gli stipendi sono sempre più frequenti. Una delle prime è stata la Ducati. A febbraio, il presidente e amministratore delegato della cassa motociclistica di Borgo Panigale, Gabriele Del Torchio, ha fatto saltare il 10 per cento della retribuzione fissa dei 36 dirigenti, che hanno perso pure il bonus. Austerità anche per chi segue la squadra corse in giro per il mondo: si dorme in camere doppie e addio ai biglietti di business class in aereo. Ma la Ducati ha solo aperto una strada. Seguita poi da molti altri. Alla filiale di Avezzano della multinazionale americanaMicron Technology, specializzata in sensori di immagini per i telefonini, la crisi s’è mangiata il 60 per cento del giro d’affari. Negli stabilimenti degli Stati Uniti hanno tagliato del 5 per cento gli stipendi di tutti: operai, impiegati, quadri e dirigenti. In Italia, dove questo non è possibile, è scattata la cassa integrazione per 1.400 dipendenti su 2 mila.

Il direttore generale, Sergio Galbiati, s’è ridotto il compenso a 800 euro, tanto quanto prende un cassintegrato. Ai 60 dirigenti è stato proposto un taglio del 30 per cento. Hanno accettato tutti, senza fiatare. Come alla Indesit, il colosso degli elettrodomestici di Vittorio Merloni che fattura 3,2 miliardi, ma è alle prese con un calo delle vendite del 15 per cento. Tremilacinquecento operai sono finiti in cassa integrazione, subendo un taglio della busta paga del 10 per cento. L’amministratore delegato, Marco Milani, ha chiesto agli 80 dirigenti italiani e ai 40 sparsi in Europa di accettare una riduzione dei compensi del 7 per cento e si è tagliato il suo del 10 per cento.

Stessa storia alla Elica di Fabriano, leader mondiale nelle cappe per cucine, con 400 milioni di giro d’affari e 5 milioni di pezzi venduti in tutto il mondo. Nell’ultimo trimestre il business ha fatto segnare un calo del 20 per cento e 100 operai e 50 impiegati sono finiti in cassa integrazione. Il presidente, il senatore forzista Francesco Casoli, ha convocato i suoi 80 manager, ha annunciato che si sarebbe autoridotto la retribuzione del 30 per cento e chiesto loro di rinunciare al bonus, che vale tra il 10 e il 30 per cento del trattamento economico complessivo. Alla Wurth, 3.500 dipendenti che fatturano 450 milioni commercializzando bulloni, i dirigenti hanno accettato invece un taglio del 9 per cento della retribuzione fissa, lo stesso imposto agli operai dai contratti di solidarietà. Come alla Telit, la società di telecomunicazioni romana quotata a Londra, dove i 30 dirigenti hanno accettato di sacrificare il 10 per cento della retribuzione fissa e ricercatori e impiegati il 5 per cento. AllaNerviano Medical Sciences di Milano, ricerca e prodotti oncologici, una crisi di liquidità ha imposto il taglio al monte retribuzioni del 6 per cento: a farne le spese saranno anche i 40 dirigenti, per i quali la parte dello stipendio legata ai risultati è congelata per tutto il 2009. I 23 manager della Cerim di Imola, 20 milioni di metri quadrati di prodotti in ceramica l’anno, con 330 milioni di fatturato, i 23 dirigenti hanno deciso di fare a meno del 10 per cento dello stipendio per alimentare un fondo a favore degli operai più a lungo colpiti dalla cassa integrazione: l’obiettivo è portare il loro introito mensile da 850 a mille euro.

Alla Cefin Systems di Torino (gestione di flotte di veicoli) il titolare-amministratore s’è azzerato gli emolumenti. E il personale tutto, dirigenti compresi, lavorerà al minimo sindacale. Per l’intero 2009. Incrociando le dita e sperando che basti. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

Chrysler sbaglia, i lavoratori pagano. Ecco un altro bell’esempio di come si vuole uscire dalla crisi globale.

Accordo nella notte tra Chrysler e i sindacati canadesi, nuovo passo verso il via libera all’accordo con Fiat. I lavoratori degli stabilimenti del Canada rinunciano a benefit per un risparmio totale di 240 milioni di dollari all’anno. Ora rimane da sciogliere il nodo delle banche. Gli istituti vantano crediti per 7 miliardi di dollari e si sono visti proporre il pagamento di un solo miliardo. Il termine ultimo per raggiungere l’accordo con Fiat è fissato al 30 aprile. Ma già il 29 in un discorso alla nazione, Barak Obama farà capire se ci sono le condizioni per l’alleanza. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

La crisi e le classi dirigenti: “la crisi di questi ultimi mesi ha messo a nudo l’illusione del primato del prezzo come indicatore di valore professionale, aziendale e sociopolitico.”

di Giuseppe De Rita da corriere.it

Esiste un legame sommerso che forse spiega la contemporaneità fra i commenti sul recente congresso del popolo berlusconiano e le notizie sul quasi persecutorio disprezzo destinato agli strapagati grandi manager della finanza e del lusso. Questi perdono la leadership dello sviluppo internazionale e nazionale (hanno creato un sacco di guai e sono oggi costretti a chiedere aiuti pubblici) ed è consequenziale la tentazione a riproporre un nuovo primato della politica, in diretto rapporto con le più generali emozioni collettive. Ritorna allora di moda il termine «popolo», categoria così onnicomprensiva da permettere di superare le tante articolazioni di classe, di gruppo, di categoria; di abbracciare senza schemi prefissati le istanze più diffuse delle società; di aspirare a un consenso ampio e ultramaggioritario.

Prospettiva quest’ultima che attira molto il sospetto di quella facile tendenza al populismo che ne sarebbe l’obbligato sbocco finale. Un sospetto indebito, a dire il vero, perché un consenso costruito su una accezione generica di popolo può bastare per connotare periodi storici brevi, ma non è abilitato e legittimato a costruire assetti sociali e istituzionali stabili. Specialmente in una società indistinta e sconnessa come la nostra. È opportuno allora ricordare che i grandi sistemi del passato sono stati costruiti quando il popolo viveva in interazioni quotidiane forti con altrettanto forti oligarchie. Vale ancora e sempre il Senatus populusque romanus: senza popolo l’oligarchia inciucia o si dilania, senza «senato » il popolo diventa passiva base di puro populismo. Per la realtà italiana, la seconda di queste ipotesi è quella più attuale e pericolosa, visto che siamo segnati profondamente dalla mancanza di una cultura e di un potere capaci di fare sintesi dei tanti segmenti sociali che tentiamo di racchiudere nella parola popolo.

Negli ultimi anni di capitalismo un po’ troppo selvaggio abbiamo allegramente costruito una falsa oligarchia, quella dei manager e finanzieri che, sotto la esaltazione dei processi di globalizzazione e finanziarizzazione, hanno imposto una più ambigua coincidenza fra «valore» e «prezzo»: le aziende erano spinte a creare valore attraverso l’aumento del loro prezzo di borsa; i dirigenti erano spinti a far coincidere il loro valore con il proprio prezzo stipendiale e di bonus. Su questa spesso ingenua furbizia si è dissolta una applaudita tentazione di leadership collettiva; ma la crisi di questi ultimi mesi ha messo a nudo l’illusione del primato del prezzo come indicatore di valore professionale, aziendale e sociopolitico.

Dai giudizi severi del presidente Usa alle violente contestazioni europee verso i manager superpagati si evidenzia la convinzione che il recinto dei capitalisti finanziari (con le loro strutture, le loro sigle, i loro indicatori, le loro super retribuzioni), non è più legittimato a interpretare e orientare il popolo. Questo resterà solo per un po’, magari sedotto da qualche illusione populista; ma un Senatus sarà sempre necessario, come insegna la storia. Esso si costruirà in futuro attraverso un recupero della capacità di coagulare interessi, persone, gruppi, istituzioni, perché è la connessione sociale, e non il prezzo come valore, che formerà la nuova classe dirigente. Sarà cosa lenta, ma inevitabile. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

“Promotori e sostenitori delle nuove “ronde anti-manager” non hanno tutti i torti.”

di MASSIMO GIANNINI da repubblica.it

Dunque, uno spettro si aggira per il mondo. “Rabbia populista”, l’ha definito Newsweek osservando le nuove vandee americane. “Lotta di classe”, lo definiremmo attingendo alle antiche categorie marxiane. I titoli tossici producono veleni sociali. L’epidemia deflagra negli Stati Uniti, dove centinaia di risparmiatori truffati accerchiano Bernie Madoff all’uscita del tribunale e decine di poveri cristi infuriati assediano le ville blindate dei manager dell’Aig. Ma ora si propaga pericolosamente anche in Europa.

In Gran Bretagna, in piena notte, un gruppo di attivisti anonimi attacca la residenza edimburghese di Fred Goodwin, il superbanchiere responsabile del crac della Royal Bank of Scotland, che prima di lasciare dietro di sé una montagna di macerie se n’é andato in pensione con un bonus da 16,9 milioni di sterline. In Francia, in pieno giorno, un centinaio di impiegati della 3M Santè, a rischio di licenziamento, prendono in ostaggio l’amministratore delegato Luc Rousselet. La stessa cosa, 10 giorni fa, era successa al ceo della Sony francese, Serge Foucher, anche lui sequestrato dagli operai della fabbrica di Pontonx-sur-l’Adour. Appena un po’ meglio era andata a Louis Forzy, direttore della Continental: fischiato e preso a lanci d’uova dai 1.120 addetti dell’impianto di Claroix.

Chiamatelo come volete. Il “capitalism disaster” di Naomi Klein. Il “turbo-capitalismo” di Robert Reich. L'”economia canaglia” di Loretta Napoleoni. Ma questo rischia di essere l’effetto più dirompente del virus incubato dall’Occidente: un potenziale e colossale ritorno del conflitto sociale. Nella frattura del circuito della rappresentanza, che vede il cittadino globale sempre più isolato e scollegato dall’élite politica, folle di moderni “proletari” scelgono altrove i loro capri espiatori. Privati dei risparmi, impoveriti nei redditi e derubati di certezze, individuano nei manager, ricchi, apolidi e irresponsabili, il simbolo del male. Sono loro i “predoni”. Sono loro le “mosche del capitale”, raccontate a suo tempo da Paolo Volponi, che vanno cacciate o schiacciate.
Promotori e sostenitori delle nuove “ronde anti-manager” non hanno tutti i torti. Ma quello che sta accadendo è inquietante. “Bank Bosses Are Criminals”, pare sia il motto dei “giustizieri” che si stanno coalizzando in Nord Europa. Uno slogan sinistro, che riecheggia quello degli ultras degli stadi di tutte le latitudini: “All Cops Are Bastards”. L’Italia, per ora, sembra immune. A meno di non voler considerare alla stessa stregua il blitz a colpi di letame compiuto dai centri sociali al “Cambio”, il ristorante della Torino-bene. Ma che succede se la nuova “lotta di classe” dilaga e si espande ovunque? Un mese fa l’Economist ha fatto un’inchiesta, inquietante: nel mondo c’è un enorme “ceto medio globale”, a spanne due miliardi e mezzo di persone, che in questi decenni di globalizzazione si è arricchito quanto basta per uscire dalla povertà, e per acquisire uno status sociale e una condizione materiale da neo-borghesia.

La “tempesta perfetta” rischia di ricacciare questo gigantesco pezzo di umanità sulle sponde desolate del sotto-sviluppo. L’Economist ripescava Marx, e ricordava che “la borghesia ha sempre giocato un ruolo fortemente rivoluzionario” nella Storia. Di fronte al crollo del benessere economico e delle aspirazioni sociali ha supportato i governi nazifascisti nell’Europa degli Anni 30 e le giunte militari nel Sud America degli Anni 80. Ha manifestato pacificamente per ottenere il diritto di voto nella Gran Bretagna del 19esimo secolo e ha ottenuto la democrazia nell’America Latina degli Anni 90.

Cosa accadrebbe, se questa massa di popolo conquistato al benessere ripiombasse, in poco tempo, nell’abisso della quasi-miseria? L’Economist non dava una risposta, ma si limitava a porre la domanda. Allargato su scala planetaria, ed esteso ai giganti del Terzo Millennio come Cina, India, Russia e Brasile, il nuovo “conflitto di classe” non è più solo un problema di difesa della democrazia economica. Diventa una questione di tenuta della democrazia in quanto tale. Questa rischia di essere la vera posta in gioco. Non solo per l’Occidente, ma per il mondo intero. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro Leggi e diritto

Il governo non vuole il tetto agli stipendi dei top manager.

di SERGIO RIZZO da corriere.it

Il Carroccio ha rovesciato sul decreto per gli incentivi alle imprese una valanga di 115 emendamenti. In mezzo, il più peloso di tutti: il tetto agli stipendi dei manager pubblici. Se passerà, nessuno di loro potrà guadagnare più di quanto guadagna un parlamentare. Anche ai banchieri i leghisti vorrebbero imporre provocatoriamente il limite di 350 mila euro l’anno.

C’è solo un dettaglio. Il tetto c’era già, ma uno dei primi atti del governo di cui la Lega Nord è un pilastro decisivo, è stato metterlo in frigorifero. Ricordate la storia? I senatori della sinistra Massimo Villone e Cesare Salvi presentarono un emendamento all’ultima finanziaria di Romano Prodi che imponeva agli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, manager aziendali compresi, un limite massimo pari alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. In cifre, 289 mila euro. L’emendamento provocò feroci mal di pancia. Praticamente tutti i manager pubblici e l’intera prima linea della burocrazia statale e dei principali enti locali erano ampiamente sopra quel tetto. Ma Villone e Salvi riuscirono comunque a far ingoiare il pillolone ai loro riluttanti colleghi della maggioranza. E l’emendamento è passato.

Con il decreto legge di giugno il governo Berlusconi ha deciso di congelare il tetto, per la soddisfazione di molti. Ma soltanto per tre mesi. Giusto il tempo per fare un Dpr con cui il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta di concerto con il suo collega dell’Economia Giulio Tremonti avrebbero dovuto stabilire a chi e in che modo applicare il limite. Ma al 31 ottobre 2008, data fissata per la sua emanazione, di quel provvedimento nemmeno l’ombra. L’offensiva contro i fannulloni aveva assorbito le energie della Funzione pubblica, che prometteva comunque di risolvere il problema entro fine anno. I mesi però sono passati invano e si è arrivati a metà marzo, per avere notizia che solo nelle scorse settimane è stato costituito un gruppo di lavoro misto fra gli esperti di Brunetta e quelli di Tremonti per venire a capo della questione.

Una faccenda che però a quanto pare è piuttosto complicata per le spinte e le controspinte: che cosa si può cumulare, quali redditi si possono escludere dal calcolo, chi deve controllare. Fatto sta che non si sa quando il regolamento sarà emanato.

Inutile girarci intorno. Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole, come dimostrano anche i tentativi di aggirare anche in sede locale le disposizioni tese a calmierare le indennità degli amministratori delle municipalizzate. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Soprattutto, come si può pretendere di far decidere le dimensioni della tagliola a chi ne dovrà essere vittima? Senza considerare un clamoroso effetto collaterale. Diverse imprese pubbliche hanno interpretato il congelamento del tetto come l’autorizzazione a congelare anche la trasparenza. Da alcuni siti internet aziendali sono spariti gli elenchi dei consulenti e i relativi compensi. Un paio di casi per tutti, quelli della Fincantieri e dell’Anas. Questa la spiegazione fornita dalla società delle strade: «Per la pubblicazione di tali dati l’Anas è in attesa dell’apposito decreto, così come stabilito dalla legge 129/08 del 2 agosto 2008 che converte in legge il decreto legge 97 del 3 giugno 2008. Al momento l’Anas, come tutte le altre società pubbliche, è tenuta a pubblicare sul sito internet solo gli incarichi, non rientranti nei contratti d’opera, superiori a 289.984 euro». Quanti? Uno: quello del presidente Pietro Ciucci. 750 mila euro l’anno, compresa la parte variabile dello stipendio. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Leggi e diritto

Obama blocca i bonus ai manager delle aziende aiutate dallo Stato. In Italia, invece no.

Non sarà messa in discussione la proposta avanzata da alcuni parlamentari della Lega di mettere un tetto agli stipendi dei manager di banche e imprese che, in difficoltà per la crisi, beneficeranno di aiuti pubblici. Le proposte sono infatti contenute nell’elenco degli emendamenti al decreto «Salva-auto» considerati inammissibili per materia.

In particolare, un emendamento prevedeva che non potesse superare il limite di 350.000 euro annui il trattamento economico dei dirigenti di banche o istituti di credito che beneficiano in materia diretta o indiretta di aiuti anti-crisi. Un altro emendamento, considerato inammissibile, prevedeva che gli emolumenti corrisposti a qualunque soggetto avente rapporti di lavoro con le amministrazioni statali, o con le agenzie oppure con enti pubblici economici e d enti di ricerca, nonchè con i magistrati, non potesse superare il limite del trattamento corrisposto ai membri del Parlamento. (Beh, buona giornata).

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