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Ha ancora senso il G8?

L’ULTIMO G8 di Vito Tanzi -lavoce.info

Gli otto grandi del mondo si incontrano tra pochi giorni in Italia, a L’Aquila. Ma ha ancora senso una riunione dei G8, quando ne sono esclusi paesi come Brasile, Cina o India? Tanto più che le decisioni prese dal G8 non saranno certo accolte con entusiasmo da paesi che non hanno avuto nessuna voce in capitolo. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo.

Tra pochi giorni, l’Italia ospiterà a L’Aquila, presso la scuola della Guardia di Finanza, la trentaquattresima riunione dei G8, i cui rappresentanti sono spesso descritti dai giornali come gli otto “grandi” della terra. Con il passare degli anni il numero dei “grandi” è aumentato rendendo l’appartenenza al gruppo progressivamente meno esclusiva. Certo, è stato più facile aumentare il numero dei membri del club che sostituire i paesi diventati meno importanti con quelli che sono diventati più importanti: nel corso degli anni, i membri sono infatti aumentati da cinque a sette e, nel 2007, con l’ammissione della Russia, si è arrivati a otto. C’è da aspettarsi che nei prossimi anni i G8 diventeranno i G13, con l’ammissione di Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa.

COME DEFINIRLI PICCOLI?

Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa oggi sono ovviamente molto importanti nel mondo e la loro esclusione dal gruppo dei “grandi” sembra strana. Èdifficile considerare paesi come la Cina, l’India e il Brasile come “piccoli”. E forse lo stesso si può dire per il Messico e il Sud Africa. Nel loro insieme questi cinque paesi coprono una proporzione enorme della superficie terrestre. Includono la metà della popolazione del mondo. Posseggono enormi risorse minerarie ed energetiche. Realizzano una proporzione alta e crescente delle automobili prodotte nel mondo. Sono diventati leader in alcuni settori di alta tecnologia, come satelliti, fabbricazione di aerei, tecnologie delle comunicazioni. Con l’eccezione del Messico, questi paesi stanno crescendo più rapidamente degli attuali membri del G8. Non solo: oltre a Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa, ci sono altri paesi che per la loro importanza meriterebbero di fare parte del club.È facile quindi capire perché il G20 sta progressivamente rimpiazzando in importanza il G8.

A L’Aquila i G8 prenderanno decisioni – se le dichiarazioni espresse alla fine del summit si potranno considerare “decisioni” – che poi cercheranno di “vendere” alle altre nazioni. Ma è facile anticipare la mancanza di entusiasmo da parte dei paesi che non fanno parte dei G8 verso queste decisioni, alla cui preparazione non hanno partecipato.

DIVISIONI TRA I G8

È allora interessante passare in rassegna i principali temi che saranno discussi a L’Aquila. La conferenza stampa, tenuta a Washington il 15 giugno dal presidente Obama e dal presidente del Consiglio Berlusconi, ci dà qualche informazione. Barack Obama ha menzionato quattro temi: (a) la creazione di una struttura legale permanente e internazionale per combattere il terrorismo; (b) la riduzione degli arsenali nucleari; (c) la sicurezza nella disponibilità di cibo nei paesi poveri; e (d) la discussione della situazione economica mondiale.

Silvio Berlusconi ha dichiarato che l’obiettivo del summit è quello di raggiungere “soluzioni concrete” su molte questioni “estremamente importanti”. E ne ha citate alcune. In primo luogo, sviluppare principi che impediscano il ripetersi della crisi economica e che possano essere accettati da tutti i paesi. Sembrerebbe una missione impossibile. Forse conscio delle difficoltà, il presidente del Consiglio ha aggiunto che questo lavoro probabilmente non sarà completato a L’Aquila, ma ha manifestato la speranza che possa essere ultimato nella prossima riunione dei G20 a Pittsburgh. Questo obiettivo non era stato menzionato da Obama. Sulla sicurezza alimentare nei paesi poveri, Berlusconi ha aggiunto che gli Stati Uniti metteranno a disposizione di vari paesi “una quantità enorme di moneta” per garantire il raggiungimento di quest’obiettivo. Stranamente, Obama non aveva fatto menzione alcuna di queste somme. E data la situazione dei conti pubblici negli Stati Uniti, è improbabile che voglia mettere “una quantità enorme di moneta” a disposizione di altri paesi. Berlusconi ha citato anche i cambiamenti climatici, la riduzione delle emissioni di CO2 e il rilancio del Doha Round. Anche questi sono temi che non erano stati citati da Obama.

Èchiaro che ci sono già divergenze all’interno dei G8 sugli obiettivi importanti da promuovere o raggiungere.
Berlusconi ha dichiarato anche che altri dodici paesi – India, Cina, Sud Africa, Messico, Brasile, Egitto, Corea del Sud, Indonesia, Australia, Olanda, Spagna e Danimarca – parteciperanno a vari incontri collaterali alla riunione dei G8. Due osservazioni. La prima è che è difficile credere che si potrà raggiungere qualcosa di concreto rispetto a temi così difficili in tre giorni. La seconda è che la partecipazione degli altri dodici paesi trasforma de facto il summit dei G8 in un summit dei G20. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo. Riunioni come quella dell’Aquila sono utili per creare rapporti tra i governanti dei paesi più importanti, non per risolvere questioni concrete.
(Beh, buona giornata).

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Come e perché è nata l’influenza suina messicana.

Pandemia? Non ve la prendete con i maiali di Mike Davis-Il Manifesto

Le orde di turisti primaverili sono tornate quest’anno da Cancún con un invisibile ma sinistro souvenir. L’influenza suina messicana, chimera genetica probabilmente concepita in qualche pantano fecale di un industria di maiali, all’improvviso minaccia di portare la sua febbre in giro per il mondo.

Il suo rapido propagarsi nel continente nord americano rivela una velocità di trasmissione superiore all’ultima varietà pandemica ufficialmente riconosciuta, la febbre di Hong Kong del 1968. Rubando la scena all’assassino ufficialmente designato, l’H5N1 altrimenti conosciuto come influenza aviaria – che oltretutto ha dimostrato di mutare vigorosamente – questo virus suino costituisce una minaccia di sconosciuta magnitudo. Sicuramente, sembra meno letale della Sars del 2003 ma, essendo un’influenza, potrebbe durare molto più di questa ed essere meno incline a tornare nelle segrete caverne da cui è saltata fuori.

Ammesso che una normale influenza stagionale di tipo A uccide un milione di persone ogni anno, un suo anche modesto incremento di virulenza, specialmente se accoppiato con un’alta incidenza, potrebbe produrre una carneficina pari a un grande conflitto bellico. Intanto, una delle sue prime vittime sembra essere la consolante fiducia, per lungo tempo predicata dagli spalti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la pandemia potesse essere contenuta tramite una rapida risposta della burocrazia medica, indipendentemente dalla qualità dello stato di salute della popolazione locale.

Sin dalle prime morti causate dall’H5N1 a Hong Kong nel 1997, l’Oms, con il sostegno della maggior parte dei servizi sanitari nazionali, ha promosso una strategia concentrata sull’identificazione e l’isolamento del ceppo pandemico e della sua area di contagio, cui segue la distribuzione alla popolazione di medicinali antivirali e, se disponibili, di vaccini. Un esercito di scettici ha giustamente contestato questo metodo di risposta all’insorgere di nuove minacce virali, sostenendo che i microbi sono ormai in grado di volare intorno al mondo (letteralmente parlando per quanto riguarda l’aviaria) più velocemente rispetto ai tempi di reazione dell’Oms o dei servizi sanitari nazionali.

Sono finite sotto accuse anche le primitive, spesso inesistenti misure di sorveglianza del rapporto tra le malattie animali e umane. Ma il mito dell’audace, preventivo ed economico intervento contro l’aviaria non è stato valutabile per colpa dei paesi ricchi, come Stati uniti e Gran Bretagna, che preferiscono investire in una loro linea Maginot biologica, piuttosto che incrementare drammaticamente gli aiuti nelle frontiere delle epidemie fuori dai loro confini. Allo stesso modo agiscono le multinazionali farmaceutiche, che combattono la domanda dei paesi del terzo mondo di fabbricazione pubblica di antivirali generici come il Tamiflu della Roche.

Ad ogni modo, è probabile che l’influenza porcina dimostri che la versione Oms/Ccd (Centro di controllo sulle malattie) della preparazione contro una pandemia – senza nuovi corposi investimenti in sorveglianza, infrastrutture scientifiche e regolatorie, salute pubblica generale e accesso globale a medicinali di base – appartenga alla stessa classe di rischio del truffaldino management piramidale dei derivati della Aig o i titoli di Madoff. Non si tratta tanto di un fallimento del sistema di allarme della pandemia, quanto della sua completa inesistenza, persino negli Stati uniti e in Europa. Forse non sorprende che il Messico non abbia né la capacità né la volontà politica di monitorare le malattie del bestiame e il loro impatto sulla salute pubblica, ma la situazione è quasi la stessa a nord del confine, dove la sorveglianza è un fallimentare mosaico di giurisdizioni statali e le corporazioni di commercianti di bestiame trattano la salute con lo stesso atteggiamento con cui sono soliti trattare i lavoratori e gli animali. Allo stesso modo, una decade di avvisi urgenti da parte di scienziati nel campo non è riuscita ad assicurare il trasferimento di sofisticate tecnologie di saggi virali al paese sulla strada diretta di probabili pandemie.

Il Messico conta esperti di fama mondiale ma ha dovuto mandare i tamponi ai laboratori di Winnipeg (che ha meno del 3% ella popolazione di Città del Messico), per poter identificare il genoma del virus. Motivo per il quale si è persa quasi una settimana. Ma nessuno era meno in allerta dei leggendari controllori di Atlanta. Stando al Washington Post, il Cdc è rimasto all’oscuro dello scoppio della pandemia fino a sei giorni dopo che il governo messicano aveva iniziato ad impartire misure di sicurezza. Infatti il Post scrive: «A distanza di due settimane dal riconoscimento dell’epidemia in Messico, i funzionari dei servizi sanitari americani non hanno ancora valide informazioni a riguardo». Non ci sono scuse. Non si tratta di un evento straordinario. Di fatto, il vero paradosso di questo panico da virus suino è che, sebbene del tutto inaspettato, era stato previsto con precisione.

Sei anni fa “Science” aveva dedicato un lungo articolo (mirabilmente scritto da Bernice Wuetrich) per dimostrare che “dopo anni di stabilità, il virus nord americano dell’influenza suina è entrato in una fase di rapida evoluzione. Dalla sua identificazione all’inizio della Depressione, il virus H1N1 aveva solo leggermente deviato dal suo genoma originario. Poi, nel 1998, si è scatenato l’inferno. Una varietà altamente patogena cominciò a decimare le scrofe di un allevamento di maiali nella Carolina del nord, e nuove, virulente versioni iniziarono ad apparire quasi ogni anno, inclusa un’insolita variante dell’ H1N1 che conteneva geni interni di H3N2 (l’altro tipo di influenza A che circolava tra gli umani. Ricercatori da Wuethrich, intervistati, espressero la preoccupazione che uno di questi ibridi potesse diventare un’influenza che colpiva gli umani (si ritiene che le pandemie del del 1957 e del 1958 siano state originate da una mescolanza di virus aviari e umani nei maiali) e sollecitarono la creazione di un sistema ufficiale di sorveglianza per l’influenza suina. Quell’ammonimento, naturalmente, passò inosservato in una Washington che si preparava a gettare miliardi in fantasie bioterroriste e trascurava i pericoli più ovvii.

Ma cosa ha provocato l’accelerazione di questa evoluzione dell’influenza suina? Probabilmente la stessa cosa che ha favorito la riproduzione dell’influenza aviaria. I virologi hanno a lungo ritenuto che il sistema agricolo intensivo della Cina meridionale – un’ecologia immensamente produttiva di riso, pesci, maiali e uccelli selvatici e domestici – sia il motore principale delle mutazioni influenzali: sia degli “spostamenti” stagionali sia dei “cambiamenti” episodici del genoma. (Più raramente, può verificarsi un passaggio diretto dagli uccelli ai maiali e/o agli umani, come con l’H5N1 nel 1997). Ma l’industrializzazione indotta dalle corporation della produzione da allevamenti ha rotto il monopolio naturale della Cina sull’evoluzione dell’influenza. Come molti autori hanno evidenziato, nei recenti decenni la zootecnia è stata trasformata in qualcosa che somiglia più all’industria petrolchimica che all’allegra famiglia contadina raffigurata nei libri di scuola.

Nel 1965, ad esempio, c’erano in America 53 milioni di maiali per più di un milione di fattorie; oggi, 65 milioni di maiali sono concentrati in 65mila strutture – la metà delle quali con più di 500mila animali. In sostanza, è avvenuta una transizione dai vecchi porcili a enormi inferni di escrementi, mai visti in natura, contenenti decine, persino centinaia di migliaia di animali con sistemi immunitari indeboliti, che soffocavano nel caldo e nel letame, mentre si scambiavano agenti patogeni a velocità accecante con i loro compagni di sventura e con la loro patetica progenie. Chiunque passi per Tar Heel, North Carolina o Milford, Utah – dove ogni partecipata di Smithfield Foods produce annualmente più di un milione di maiali, oltre che centinaia di pozze piene di merda tossica – capirebbe in modo intuitivo quanto profondamente l’agrobusiness ha interferito con le leggi della natura.

Lo scorso anno una rispettata commissione convocata dal Pew Research Center ha rilasciato un clamoroso rapporto sul tema «produzione animale in allevamenti industriali», sottolineando il grosso rischio che «i continui cicli di virus in larghe mandrie aumenteranno le possibilità di generazione di nuovi virus attraverso mutazioni o ricombinazioni che potrebbero risultare in una più efficiente trasmissione uomo-uomo. La commissione ha anche avvertito che l’uso promiscuo di diversi antibiotici negli allevamenti suini (alternativa meno costosa di un sistema di drenaggio o di ambienti più umani) stava causando l’aumento di resistenti infezioni da stafilococco, mentre le perdite fognarie producevano esplosioni da incubo di E. Coli e Pfisteria (l’apocalittico protozoo che uccise più di un milione di pesci negli estuari della Carolina, e fece ammalare decine di pescatori).

Tuttavia, ogni tentativo di migliorare questa nuova ecologia patogena è destinato a scontrarsi con il mostruoso potere esercitato dai conglomerati dell’allevamento come Smithfield Foods (maiale e manzo) e Tyson (pollo). I commissari della Pew, guidati dall’ex governatore del Kansas John Carlin, hanno raccontato di sistematiche ostruzioni alle loro ricerche da parte delle corporations, comprese sfacciate minacce di far ritirare i finanziamenti ai ricercatori. Inoltre questa è un’industria altamente globalizzata, con equivalente peso politico internazionale. Come il gigante thailandese del pollame Charoen Pokphand riuscì a sopprimere le inchieste sul suo ruolo nell’espansione dell’influenza aviaria attraverso il sudest asiatico, allo stesso modo è probabile che l’epidemiologia forense dell’esplosione della febbre suina vada a sbattere la testa contro le mura di pietra dell’industria delle costolette. Non vuol dire che la «pistola fumante» non sarà mai trovata: c’è già del gossip sulla stampa messicana circa un epicentro dell’influenza intorno a una gigantesca sussidiaria della Smithfield Foods nello stato di Veracruz.

Ma ciò che importa di più (specialmente a causa della continua minaccia costituita da H5N1) è il quadro più ampio: la fallita strategia anti-pandemie dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’ulteriore declino della salute pubblica mondiale, il ferreo controllo di Big Pharma sui farmaci vitali e la catastrofe planetaria di un allevamento industrializzato e ecologicamente disordinato. (Beh, buona giornata).

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