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Sergio Bonelli, la cultura a fumetti.

Sergio Bonelli è morto. Tex Willer vive. E con lui tutti i personaggi inventati proprio da Sergio Bonelli: primo fra tutti, per numero di copie vendute, Dylan Dog.

Ma se Tex vive, allora Sergio Bonelli non è morto, forse è solo un artificio della sceneggiatura, magari ritorna alla prossima puntata. Il fatto è che siamo tutti debitori del grande ingegno di Bonelli. Abbiamo amato i suoi personaggi, che sono riusciti ad entrare nelle nostre passioni. All’inizio, addirittura, leggere Tex era quasi una trasgressione. Succedeva che il professore scopriva il compagno di scuola con Tex mimetizzato dentro il libro di antologia latina. E magari glielo sequestrava, e tutti pensavamo, ecco così se lo legge lui.

I genitori, preoccupati delle distrazioni dai compiti a casa, rampognavano sempre di lasciar stare quei “giornalini”. Già, i giornalini: diminutivo spregiativo di giornali, che, come un rito che si officiava in edicola, venivano acquistati e letti dal capofamiglia e solo dopo sfogliati dagli altri famigliari. Beh, oggi che è tutto cambiato, che smartphone, computer, tv, internet hanno sostituito l’armamentario trasgressivo degli adolescenti, Tex Willer e soci potrebbero sembrare pezzi di modernariato, per non dire di antiquariato. E invece non è così.

Tex Willer e gli altri eroi e antieroi della Sergio Bonelli Editore continuano a macinare copie, un fenomeno fuori dall’ordinario in questa Italia spesso furbastra e cialtrona: vendono tanto e sono di qualità. Pazzesco, no? Perché sono sceneggiati bene, perché c’è tanto da leggere, perché sono disegnati con cura, perché via via negli anni si sono rinnovati gli stili. Tex Willer, poi è di una attualità a dir poco mozzafiato: si batte per la legalità, il che di questi tempi è alquanto eversivo. Poi, oltre che ranger, è un capo indiano, e non pago, col nome di Aquila della Notte, Tex ha pure sposato una squaw da cui ha addirittura avuto un figlio, Kit. Vi renderete conto ci sarebbe stato più di un motivo per cacciare dalla Padania Sergio Bonelli e tutti la banda dei suoi personaggi.

“Tizzone d’inferno”, impreca Tex quando scopre che qualcuno è marcio fino al collo. “Giuda ballerino”, intercala Dylan Dog, investigatore dell’occulto, al quale bello sarebbe chiedere di investigare a fondo il motivo occulto per cui a noi italiani è dovuto toccare in sorte un governo incapace di gestire la grave crisi economica che stiamo subendo. Certo che se Cicchitto, Gasparri, Capezzone e company scoprissero che l’assistente di Dylan Dog si chiama Marx (Karl o Graucho, quelli non vanno per il sottile), capace che inserirebbero un emendamento nella legge “bavaglio”, per chiudere la bocca, dopo alle intercettazioni e ai blog, anche alla Sergio Bonelli Editore.

Si sono letti elogi all’opera culturale di Bonelli. Succede spesso quando sono “sempre i migliori che se ne vanno”. Però, dietro la retorica da funerale e l’enfasi da epitaffio affiorano alcune verità, che si sono tramandate almeno da tre generazioni di lettori italiani: quando un prodotto editoriale è fatto con cura e amore, cioè fatto bene; quando è scritto, disegnato, confezionato e distribuito con attenzione verso i lettori, allora il successo è in agguato, come lo è sempre stato nei fumetti di Bonelli.

Invece che cercare facili scorciatoie editoriali, invece che fare i furbi con contenuti sciatti, nella speranza di raggiungere “un vasto pubblico” dovremmo seguire, anche noi pubblicitari, il percorso tracciato con la penna e la matita da Sergio Bonelli. Beh, buona giornata.

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Attualità

Il G8 e le nuove baruffe chiozzotte:”due eminenti personaggi della politica italiana di oggi, il primo ministro Silvio Berlusconi e il più rumoroso dei suoi oppositori, Antonio Di Pietro, si sono esibiti in una serie di numeri di cui non ci si può non vergognare.”

Berlusconi, Di Pietro/ I rapporti con gli stranieri e la lezione di Sarkozy
di Marco Benedetto-blitzquotidiano.it

Nell’ultimo numero di Tex, un capo indiano cheyenne riceve in consegna un reprobo della sua tribù catturato da Tex Willer e gli dice: i conti li facciamo poi al nostro accampamento. Non vuole, Orso Bruno, davanti al viso pallido, capo per giunta di un’altra tribù, esibire un suo uomo sottoposto alla inevitabile pesante punizione.

L’orgoglio che dimostra il capo dei Cheyenne ha disertato gli italiani negli ultimi mille anni, da quando un nobile pugliese chiamò i normanni a dargli man forte, giù giù per i vari Pontefici romani, granduchi, principi e re che hanno offerto a re e imperatori d’oltralpe un pretesto per venire in Italia e trasformarci in colonia, status che l’ultimo pezzo di territorio nazionale ha perso, magari di malavoglia, solo nel 1918, cioè meno di un secolo fa.

Per non smentire questa gloriosa e nobile tradizione, due eminenti personaggi della politica italiana di oggi, il primo ministro Silvio Berlusconi e il più rumoroso dei suoi oppositori, Antonio Di Pietro, si sono esibiti in una serie di numeri di cui non ci si può non vergognare.

Berlusconi e Di Pietro hanno dei tratti in comune, il principale dei quali è la demagogia, che, in quanto tale, non conosce ritegno. Quel che è accaduto negli ultimi giorni non deve stupire, ma merita indignarsi un po’.

Il caso peggiore è quello di Berlusconi, perché è il capo del Governo, più grave è quel che ha fatto Di Pietro, per l’atto in sé.

Berlusconi se l’è presa, in pubblico, in attacchi diretti e sfrontati, non solo con i giornali italiani, come un qualunque allenatore di calcio, ma anche con i giornali stranieri, con una caduta di stile che dispiace molto.

Nella piazzata internazionale, Berlusconi era stato già preceduto dal suo ministro degli Esteri Franco Frattini: riesce difficile immaginare Hillary Clinton ingarellarsi con Repubblica, ma non c’è da aspettarsi molto di più da un ministro che lascia nelle mani di una banda di pirati dieci marittimi nostri connazionali (ma quelli sono dei poveri proletari meridionali, senza alcun appoggio mediatico, non dei giornalisti, anche se di sinistra) e tratta via sms le sue questioni di cuore come uno qualunque di noi.

Berlusconi invece non ha scusanti, per la sua storia imprenditoriale e politica. Che lui, primo ministro dell’Italia ottava potenza mondiale, attacchi pubblicamente un giornale straniero, coprendolo di insulti, va al di là di ogni immaginazione. Risulta difficile vedere la regina d’Inghilterra, o anche il suo plebeo primo ministro Gordon Brown, dare sciabolate verbali al Corriere della Sera o al Messaggero. Berlusconi non è il primo. Anni fa ci fu un presidente della Repubblica che mandò l’ambasciatore italiano a Londra a lamentarsi con il ministero degli Esteri inglese per quel che aveva scritto di lui il Sunday Times. Ma quella era la prima repubblica, il presidente era democristiano, altri tempi. Da Berlusconi, una caduta di stile così non ce l’aspettavamo.

Non è che gente tipo George Bush o Barack Obama vadano in estasi quando un giornale li attacca, ma non si espongono; lasciano le cose in mano agli addetti stampa che tolgono il giornalista inviso dalle liste dei buoni con quel che ne consegue, magari affidano alle guardie alla porta il compito di negare l’accesso, ma non scendono in litigi che nuocciono solo alla loro dignità.

Se quello di Berlusconi è un imperdonabile errore, il caso Di Pietro, però, è molto più grave. Di Pietro ha comprato una pagina sull’International Herald Tribune, edizione mondiale del New York Times, stampata e distribuita in tutto il mondo, da Parigi a Hong Kong a Tokyo, per esibire in dimensione planetaria la sua faccia formato full size e fare sapere a tutti ma proprio tutti che in Italia la democrazia è in pericolo.

Siamo tutti abbastanza sicuri che, messo nelle condizioni di poterlo fare, non ci sia politico al mondo che un pensierino ai pieni e assoluti poteri non lo faccia. Infatti la democrazia non si trova allo stato libero in natura, è frutto di un continuo, faticoso, doloroso processo di aggiustamento, non si basa su buona volontà e stati d’animo, ma su regole abbastanza rigide che bilanciano, vincolano e contrappongono i poteri che gestiscono lo Stato per conto delle classi, degli interessi, dei gruppi sociali che si contrappongono in un paese.

Che la democrazia sia in pericolo è una costante universale. Gli attentati alla democrazia non si manifestano solo con i colpi di stato, i carri armati, gli arresti in massa degli oppositori. Ci sono strumenti più sottili e meno visibili, come l’uso del potere giudiziario o l’abuso del potere amministrativo, e essi costituiscono una tentazione irresistibile per chiunque occupi il Governo, anche nel paese più democratico al mondo, come gli Stati Uniti: sul fronte giudiziario ricordiamo la Corte Suprema americana che coprì il pasticcio elettorale di Bush e, ancor più di recente, il procuratore generale dello stato dell’Illinois che arrestò il governatore, compagno di partito di Barack Obama, sulla base di una intercettazione; sul piano dell’abuso amministrativo dei poteri, cosa remota dagli interessi di massa, una delle aspettative generate dall’elezione di Obama è proprio quella che ripristinerà il corretto funzionamento dei poteri esecutivo e legislativo, violentato dal colpo di stato strisciante di Bush e Cheney.

Però nessuno negli Stati Uniti d’America si è sognato di comprare una pagina sul Sole 24 Ore per raccontarci tutto ciò, perché anche i più arrabbiati delle due parti sa bene che sbandierare i problemi di un paese sotto gli occhi degli altri paesi non serve a nulla. Se poi a farlo è un italiano, serve solo a peggiorare la già scadente immagine di cui gli italiani soffrono nel mondo, e questo non solo per colpa delle gaffes internazionali di Berlusconi.

Attaccare Berlusconi in Italia è un dovere. Puntare il dito contro di lui chiamando il mondo a giudicarlo è solo demagogia. Non serve certo a fare cadere Berlusconi, il quale, anzi, più debole è, meglio è per gli altri, come il successo apparente del G 8 di cartapesta ha dimostrato.

Né possiamo essere così ingenui che democrazia, diritti civili, libertà negli altri paesi agli Usa stiano veramente a cuore. Ogni tanto, principalmente per ragioni di politica interna, affrontano il tema, fanno la faccia feroce, fanno anche la guerra, per esportare la democrazia: ma con l’Iraq, non con l’Iran (almeno per ora), con l’Afghanistan, non con l’Arabia Saudita. Impongono le sanzioni alla Birmania non alla Cina, come nel ‘36 le imposero all’Italia di Mussolini, non alla Germania di Hitler.

Al governo americano, quale che sia il suo colore, vanno benissimo paesi tra i più corrotti al mondo, come l’Arabia Saudita dove le adultere sono lapidate o l’Egitto di Mubarack, dove se invochi dio una volta di troppo non esci più di galera.

E va benissimo anche Berlusconi, costretto, dal peso degli scandali, a scodinzolare come un cagnolino tra le gambe di Obama.

E costretto anche a inginocchiarsi davanti a uno come Sarkozy, chiedendogli pubblicamente scusa e prendendosela con il suo proprio quotidiano di famiglia, da lui co-fondato, il Giornale, perché si era ingaggiato in una giusta polemica con Carla Bruni, moglie di Sarkozy, precipitosamente sposata dopo l’elezione a presidente, per tappare il buco lasciato dal grande amore Cecilia.

D’altra parte Berlusconi sa bene che Sarkozy non si abbassa a litigare con i giornali: alza il telefono, chiama i padroni e fa licenziare i direttori, come è accaduto, appunto, col povero direttore di Paris Match, la cui unica colpa fu di avere pubblicato le foto della Cecilia mano nella mano col suo amante. Se se la cava solo con un pubblico rimprovero, il direttore del Giornale può ringraziare il Cielo, perché può essere certo che Sarkozy la sua testa a Berlusconi l’ha chiesta di sicuro.

Anche nel caso delle scuse a stranieri il destino ha accomunato Di Pietro e Berlusconi, anche, in questo, Di Pietro ha aperto la strada, chiedendo scusa al Guardian per l’attacco di Berlusconi. Errore grave per una serie di molte ragioni.

Ricordiamo un precedente, non italiano: Sarkozy disse il peggio del primo ministro spagnolo Zapatero e la cosa finì sui giornali; Segolene Royal, candidata della sinistra alla presidenza francese e sconfitta dallo stesso Sarkozy prese la palla al balzo e chiese scusa a Zapatero. Gliene dissero di tutti i colori, da tutte le parti, e da allora, sarà un caso, ma della povera Royal si è sentito parlare molto poco. Chissà se a Di Pietro qualcuno glielo ha raccontato. (Beh, buona giornata).

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