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Se in Italia la politica si riduce al derby tra due Matteo.

A Gevova, dal palco di RepIdee, il road show di Repubblica,  Renzi ha detto che il suo competitor è Salvini, non Landini. Sì, certo,  il gusto tutto renziano della battutina da primo della classe ha spesso il sopravvento nei suoi ragionamenti. 

Tuttavia, senza fare processi alle intenzioni, si può ragionevolmente sostenere che Salvini fa comodo al governo in carica perché rappresenta un’opposizione totalmente allo sbando, che raccatta il peggior ciarpame ideologico di una destra fascista, violenta e senza prospettive, fatta solo di odio razzista e nostalgie di seconda mano, che appare come la cifra dello sfaldamento e la decomposizione organica di quello che fu Berlusconi e il berlusconismo. 

La manipolazione del manipolatore, o “l’uso parziale alternativo” delle felpe di Salvini sembrerebbe una strategia utile al disorientamento delle forze sociali nel perimetro dei consensi del centrodestra. Tenere in pista Salvini serve al Pd per dimostrare di essere una formazione capace di governare con equilibrio riformatore; ma serve anche al centrodestra, perché dimostra la necessità di essere moderati, unitari, compassionevoli. 

Insomma, Salvini sa bene di essere un pupazzo che prima o poi verrà bruciato. E quindi pesta sul pedale dell’acceleratore, e facendo a meno di freni inibitori, va dritto per una strada senza uscita, un sentiero sterrato dalle sue ruspe immaginarie.

In verità, non è questo che mi preoccupa: se mi permettete, mi fa semplicemente schifo. Nel senso che mi provoca un vero e proprio disgusto per le forme infime in cui si manifesta il cinismo della politica in Italia. 

Infatti, Salvini non crede a una parola di quello che dice, recita la parte che la commedia gli ha assegnato; Renzi gli fa da puparo, mentre Berlusconi passa col cappello a chiedere gli ultimi spiccioli di consenso verso un nuovo partito di centrodestra, magari “repubblicano”, da contrapporre a quello “democratico”. 

Ma in tutto questo, il veleno delle idee sbagliate, l’inquinamento delle coscienze, le narrazioni tossiche vengono scaricate in quantità industriali sull’opinione pubblica, facendo danni paragonabili alle fughe radioattive: i media, come centrali nucleari danneggiate, stanno spargendo particelle pericolose per l’ambiente della convivenza civile nel nostro Paese. Si respira un’aria mefitica perché è utile, oserei dire “organico” alla strategia sia del centrosinistra che del centrodestra, o comunque dei suoi pezzi e ruderi.

Alla ultime elezioni, la Lega ha guadagnato più o meno 250 mila voti. Per qualcuno sono inutili, perché hanno spostato niente. Per altri sono “danni collaterali” di un strategia politica precisa. Ma quegli elettori sono cittadini che sono stati ingannati con la complicità delle nostre tv. 

Complimenti per la trasmissione a Floris, Giannini, Vespa, Formigli, Gruber, Giletti, Paragone, Del Debbio, eccetera, eccetera.

Questo connubio cinico tra strategie politiche e marketing televisivo è raccapricciante, quanto lo sono le felpe, gli sfondoni, le farneticazioni, i saluti romani e l’intera paccottiglia propagandistica di Salvini.

Come credete sia cominciati i pogrom contro gli ebrei, i gitani, gli omosessuali? Cominciarono per vile compiacenza, si imposero per bieca convenienza, continuarono per complice connivenza, si consumarono tra la generale indifferenza. 

Fermiamoli finché siamo in tempo. Beh, buona giornata. 
   

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Oggi c’

Chi ha vinto la serata Auditel di ieri sera, sabato 3 marzo ? La risposta è : chissenefrega. Così, in pratica, si traduce lo sciopero Auditel proclamato per oggi, 4 marzo, da diverse realtà che in genere si occupano di analisi degli ascolti.

A fine giornata, si tireranno le somme di un’iniziativa che sottolinea il rapporto dialettico tra web e tv. Si chiama WIGD, la tv che vorrei, ed è promossa da una serie di blog e di siti che in genere si occupano di ascolti tv. Blog e siti che abitualmente informano i propri lettori su tutto quel che accade in tv, e quindi anche sui dati d’ascolto, dopo una settimana dedicata alla qualità in tv, oggi hanno sospeso la pubblicazione dei numeri per un giorno, oscurando i dati. Tra i promotori : TvBlog , Televisionando e CineTV.

Perché? L’iniziativa è simbolica e provocatoria e arriverà al termine di una settimana in cui la piattaforma di WIDG si è occupata di qualità in televisione. L’Auditel scatena il tifo e fa perdere di vista il senso più profondo della qualità in televisione. Tutto semenax hoax è sottomesso alla logica degli ascolti.
Qual è lo scopo? Uscire dalla schiavitù degli ascolti, dalle diatribe, dalle lotte che rendono l’Auditel l’unico parametro per valutare la tv italiana. Pensiamo che si possa vivere anche senza percentuali di share e valori assoluti: l’Auditel è una convenzione, una misurazione che ha assunto un valore che non dovrebbe avere. E’ diventato l’unico parametro di riferimento per chi fa tv. E decreta, senza motivo, anche i successi qualitativi“, recita il manifesto di presentazione.

Se anche voi pensate “che si possa vivere anche senza percentuali di share e valori assoluti“, aderite all’iniziativa, dicendo la vostra, nei commenti o sulla pagina Facebook, o su Twitter, usando l’hashtag #WIDG.
Vedremo quali saranno i risultati di questa azione che ha certamente un grande valore dimostrativo, e che ha il merito di mantenere alta l’attenzione sui meccanismi nefasti dell’auditelismo. Certamente, ormai la coscienza che in tv c’è bisogno di nuovi parametri si sta ampliando. Il prossimo passo dovrà essere necessariamente quello di proporre un nuovo meccanismo che si contrapponga all’Auditel. Per mezzi e per filosofia.

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Attualità Media e tecnologia Società e costume Televisione

3DNews/L’informazione ai tempi della “Concordia”.

di Antonio Mango

Tra falsi, rubamazzetto televisivo e super-show da salotto. La Costa Concordia ha svelato il lato B dell’informazione nazionale. Ricapitoliamo: la nave affonda, il capitano se ne va, i passeggeri si arrangiano con le scialuppe, tra cuochi filippini, eroi di giornata e navigatori già sugli scogli. La tragedia si consuma in due ore, tra le 21.42 dell’inchino omicida e le 23.00 più o meno del si salvi chi può. Segue la notte fonda dei salvataggi à la carte. Il tutto tra furiose litigate telefoniche (capitaneria vs comandante), rivelate per fornire il solito quadro melodrammatico degli italiani felloni o eroi.

Il buono (captain De Falco), il brutto (captain Schettino), il cattivo (lo scoglio assassino). Di questo si è nutrita l’informazione nazionale nelle fatidiche giornate del naufragio, arrivando tardi e male sulla colossale notizia, recuperando la défaillance con scampati e parenti incazzati, il solito psichiatra, qualcuno in divisa. Pronta la classifica della bontà o della sciaguratezza, processo già fatto, ma senza uno straccio di verifica: lo scoglio c’era o non c’era sulle carte? Boh. I circa mille addetti di bordo hanno fatto il proprio dovere o no? Boh. Il cuoco filippino era vicino alla scialuppa per caso o era lì perché queste erano le regole di addestramento? E chi lo sa. Gli ufficiali di coperta quanti erano e dov’erano, visto che sono stati trattati da desaparecidos? C’è qualcuno che lo sa? E soprattutto che cosa si sono detti il comandante e Costa crociere? E’ buio, si potrebbe dire parafrasando Schettino.

Domande senza risposta in quei momenti. Invece, ecco il piatto forte dell’informazione naufragata. Una possente bufala che circola in rete a poche ore dal disastro: un video girato nel ristorante della Concordia al momento dell’impatto, con relativo ambaradan di piatti, bicchieri e tavoli che volano. Peccato si trattasse di un video ripreso su un’altra nave, la Pacific Sea Sun in crociera tempo fa in Nuova Zelanda. Tanto bastò. Abboccano all’amo i principali Tg dell’ora di pranzo di sabato 14 e alcuni quotidiani nazionali on line. Secondo loro e per alcune ore quella era la sala ristorante della Concordia. Su Twitter, invece, il falso viene smascherato (da chi professionista dell’informazione non è) e l’errore rapidamente rimosso dalle testate imbufalate.

Com’era immaginabile si gioca un’altra importante partita tra social network e media mainstream. Mentre le tv nazionali fanno spettacolo (preceduti nella notte dalle notizie in diretta di Bbc e Cnn) e i grandi giornali si incagliano sull’ora tarda di venerdì 13 (Repubblica e Corriere sabato mattina tengono la notizia bassa) la vera informazione circola su Twetter, dove grazie agli hashtag (esempio #giglio oppure #schettino oppure #concordia) si aggregano notizie, si sbugiardano falsi, si dà subito conto della dimensione emotiva del fatto. La “cura” dell’informazione dovrebbe essere appannaggio dei professionisti dell’informazione e, invece, succede (sempre più spesso) che questi rincorrono il tempo dei social, bevendosi qualsiasi cosa che sappia di notizia.

C’è poi il rubamazzetto. Youreporter.it riceve e mette in rete le immagini girate col telefonino da naufraghi incipienti a bordo della nave. Il video va a finire su un Tg nazionale, ma il logo di chi per primo l’ha pubblicato scompare. Stavolta su internet si va, non per verificare, ma per rubacchiare.

Guelfi e ghibellini non potevano mancare e il set, ai tempi della Concordia, diventa la rete. Su FB, ore 21.08, la sorella del maître annuncia: “Tra poco passerà vicina vicina la Concordia, un salutone al mio fratello”. Quaranta minuti dopo si scatena l’inferno. Con i morti, i dispersi e la verità ancora da accertare va in scena la diatriba colpevolisti (quasi tutti) – innocentisti (amici di Meta di Sorrento, riuniti su Twetter #a sostegno di francesco schettino).

Il blob dell’informazione nazionale non poteva che trovare il suo acme nella tre-giorni vespiana con naufraghi rivestiti e truccati a dovere per il salotto, un ufficiale (medico) che non riesce a dire la sua, l’onnipresente psichiatra col maglioncino colorato e un compiaciuto e malinconico sorriso del conduttore per l’immagine clou della serata: la gemella Costa Serena, che passa accanto al Giglio e al relitto della Concordia. La vita continua. E pure le notizie-salotto di Vespa. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il tonfo di Endemol: il format e la sostanza.

S’è rotto l’uovo di Colombo. Fare programmi a basso costo, di bassa qualità con un’ alta redditività pubblicitaria non paga più. Il tonfo di Endemol lo ha dimostrato. La televisione ha ingannato per anni gli inserzionisti pubblicitari, vendendogli format in grado di fare ascolti, che si volevano trasformati in altrettanti contatti utili alle campagne pubblicitarie. Ma a un certo punto il giocattolo si è rotto. Perché il successo di alcuni programmi era effimero, gonfiato dalle società di rilevamento dell’audience. Quando la crisi ha cominciato a picchiare duro, sono crollati i consumi, dunque le vendite, dunque gli introiti. E le grandi compagnie hanno cominciato a disinvestire in pubblicità televisiva.

Ecco la verità del tonfo di Endemol. Una verità che in Italia è ancora più rimarchevole. Pensate solo al fatto che Mediaset è la più grande compagnia del settore televisivo privato, ma è anche azionista di Auditel, ma è anche proprietaria di Endemol. Se poi non ci dimenticassimo che il capo di tutto questo è anche il capo del governo italiano, dovremmo tenere a mente che nel 2009 Berlusconi, che è anche il capo di Mediaset, di Auditel e di Endemol diceva che la crisi non c’era, poi che era alle spalle, poi che non bisognava investire pubblicità sulle testate “catastrofiste”. Risultato?

Secondo Nielsen Media Reaserch, compagnia americana operante anche in Italia, specializzata nelle ricerche di mercato, la raccolta pubblicitaria nelle tv italiane nel 2009 è scesa a -10%. Dunque, “Il Grande Fratello”, piuttosto che “Chi vuol essere milionario”, piuttosto che “Che tempo che fa”, tanto per citare solo alcuni format targati Endemol non sono riusciti a fermare la crisi dei consumi e di conseguenza la crisi degli investimenti pubblicitari in televisione. La formula secondo la quale, più abbasso la qualità più rendo fruibile la visione, più è facile inserirvi la pubblicità, più è garantito il successo delle vendite è andato a farsi friggere.

Il tonfo di Endemol non è un fatto semplicemente finanziario. E’ la prova provata della crisi di un modello di business della pubblicità. Se i consumatori se ne sono accorti, tanto da non dare più retta ai “consigli per gli acquisti” in tv; se i telespettatori se ne sono accorti, tanto da non accordare gli stessi livelli di audience; se gli investitori se ne sono accorti, tanto da penalizzare la tv a favore di internet; quello che stupisce è che non se ne siano accorti in tempo Goldman Sachs, Mediaset e Jon De Mol. Ma forse no. Dopo le “bolle speculative” cui siamo stati abituati, cosa volete che siano le “balle speculative” che sono state raccontate in questi anni ai consumatori, ai telespettatori e agli investitori pubblicitari?

Insomma, il vero reality show non è andato in onda nelle case dei telespettatori, è andato in sala riunione delle case produttrici di prodotti e servizi, ingannati dalla facilità con la quale gli si potevano vendere mediocri programmazioni televisive, da farcire con mirabolanti pianificazioni pubblicitarie. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Continua la crisi della pubblicità italiana.

Media Italia, centro media del Gruppo Armando Testa, agenzia di pubblicità italiana, ha fornito le stime della raccolta pubblicitaria a fine 2009. Il mercato chiuderà intorno al -15%, con la televisione a -8.8%, Quotidiani -24%, Periodici -22%, Radio – 9%; Affissione -20%, Cinema -5%, Internet: +10%. Mala tempora currunt. Beh, buona giornata,

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L’Italia del 2009, il Paese che guarda la tv, non si accorge della crescente disoccupazione, e non dà lavoro ai giovani talenti.

Ho sognato la star del momento, un racconto di MATTIA D’ALESSANDRO
Esasperati ed esasperanti colpi di tosse. Fu così che mi svegliai. Note poco note di bassi baritonali. Ero perfino riuscito a creare una melodia nella mia mente. A colpi di polmone. Fuori non si vedeva, ma sembrava il solito lunedì d’ottobre. Scesi dal letto, la mia spina dorsale si drizzò. Una sensazione mai sentita prima. La parrucca della zia Ester galleggiava su un mare di inchiostro. Tutto galleggiava su un mare di inchiostro. Poi qualcosa mi azzannò la caviglia. Svenni.

Al mio risveglio ero ancora nella stanza piena d’inchiostro. Mi affacciai dal letto per vedere a terra, tutto era stato pulito. Sui muri ancora i segni di quel mare nero. Cos’era stato? Di colpo ricordai del morso alla caviglia. Scalciai le coperte per vedere i segni. Quello che apparve da sotto le coperte era ed è ancora difficile a narrarsi. Un colpo di vento spalancò le finestre. Poi qualcosa di vivo mi avvolse e con me, tutta la casa. Non riuscii più a guardarmi le caviglie. L’aria era satura di polvere. Feci appena in tempo a rannicchiarmi sotto le coperte. Mi addormentai.

Rimasi un tempo infinito tra sonno e sogno. Continuavo a vedere le mie caviglie. Un mostro, mai visto prima, stava mordendole. Anzi peggio. Iniziava ad ingoiarmi, ma con lentezza. La sensazione era quasi piacevole, ogni tanto però, il mostruoso essere scaricava delle piccole dosi di elettricità sulle mie carni. Ero rapito da quella cosa. Non mi sarei mai più svegliato.

Salutai i miei piccoli, uno sguardo sfuggente alla foto di mia moglie. Entrai in macchina.

Temperatura interna: meno cinque gradi centigradi. Avvertii ancora un leggero mal di testa fino all’arrivo in azienda. Il posto auto, interno. Cancello automatizzato. Schiacciai il pulsante per l’apertura, nulla.

Dall’altro ingresso, grida e schiamazzi. Scesi dall’auto, mi avvicinai, nel gelo. Un cordone di polizia piantonava l’ingresso. I colleghi erano disperati. Alcuni cercavano di sfondare il cordone. Volò qualche manganellata.

Rientrai in macchina e tornai a casa. Mentre guidavo mi tornò in mente il mostro del sogno. Mi aveva già divorato, ero disoccupato.
Potrebbe continuare…
(Beh, buona giornata)

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La pubblicità italiana non riesce a uscire dalla quarta crisi.

Secondo Nielsen Media Research da gennaio ad agosto 2009 gli investimenti pubblicitari ammontano a 5.275 milioni di euro con una flessione del -16,4% rispetto al corrispondente periodo del 2008. Ad agosto 2009 verso agosto 2008 la variazione è del -15,8%. A livello di settori merceologici, considerando il periodo cumulato, si registrano: -11,6% per gli Alimentari, -21,9% per le Auto e -5,4% per le Telecomunicazioni.

Unilever, Wind, Vodafone, Telecom It. Mobile, Barilla, Ferrero, L’Oreal, Volkswagen, Procter&Gamble e Fiat Div. Fiat Auto guidano la classifica dei Top Spender nei primi otto mesi del 2009 con investimenti pari 715 milioni di euro, in calo del -13,4% sul corrispondente periodo dell’anno scorso.

La Televisione, considerando i canali generalisti e quelli satellitari (marchi Sky e Fox), mostra una flessione del -13,9% sul periodo cumulato e del -17,7% sul singolo mese.

La Stampa, nel suo complesso, da gennaio ha un calo del -23,9%. I Periodici diminuiscono del -28,8% con l’Abbigliamento a -28,7%, la Cura Persona a -25,7% e l’Abitazione a -29,5%. I Quotidiani a pagamento mostrano una flessione del -20,2% con l’Auto, l’Abbigliamento e la Finanza/Assicurazioni, i tre settori più importanti, che riducono la spesa rispettivamente del -36,9%, del -27,0% e del -32,0%. Sono in controtendenza l’Abitazione che aumenta del +7,7% e il Turismo/Viaggi con il +8,6% sul cumulato e il +17,5% sul mese. A livello di tipologie la Commerciale segna il -23,9%, la Locale il -15,3% e la Rubricata/Di Servizio il -17,7%. In contrazione anche la raccolta dei Quotidiani Free/Pay Press (-27,4%).

La Radio diminuisce del -15,8% in otto mesi e del -1,9% sul singolo mese. Fanno registrare variazioni negative anche: Affissioni (-26,4%), Cinema (-8,3%), Cards (+1,8%) e Direct Mail (-17,3%). Performance positiva invece per Internet che cresce del +6,2% raggiungendo i 371 milioni di euro. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

La tv e le donne: un documentario da non perdere.

http://tv.repubblica.it/copertina/il-corpo-delle-donne-il-documentario/36834?video&ref=hpmm. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: scendono gli investimenti pubblicitari, cresce il conservatorismo dei committenti, soffrono i centri media.

di Ilaria Myr-NC
La crisi globale sta interessando tutta la filiera della comunicazione, si è detto. E i centri media non fanno eccezione. Soprattutto se si considera l’attuale sistema di remunerazione delle centrali media, basato sui fee e i diritti di negoziazione. Come spiega Giorgio Tettamanti, chief operating officer Carat Italia : “La voce prevalente della remunerazione è rappresentata da una percentuale applicata all’investimento dei nostri clienti e la seconda voce di ricavo è costruita dai premi di fine anno, dalle concessionarie, al raggiungimento di determinati obiettivi di volume. È innegabile che entrambe queste voci risentano negativamente dei trend di mercato in corso”.

Gli fa eco Federico de Nardis, amministratore delegato di Mc2 Mediacommunication: “La crisi internazionale sta portando a una forte compressione dei budget di molte grandi aziende. A seconda dei settori la riduzione si può stimare tra un -5% e un -20%. In un modello tradizionale dove il centro media è la struttura di pianificazione e acquisto dei suoi clienti, la remunerazione si riduce in modo proporzionale alla contrazione dei budget”.

Tutto ciò influenza anche il lavoro stesso, come spiega Marco Muraglia, amministratore delegato Starcom: “L’impatto è significativo dal momento che in molti casi siamo remunerati in misura proporzionale agli investimenti. Inoltre, purtroppo la quantità di lavoro necessario non si è ridotto. Anzi, il tempo delle persone per produrre strategia, pianificazione e acquisto è incrementato: si devono valutare molte più alternative, peraltro tentando di ottenere risultati soddisfacenti con risorse inferiori”.

D’altronde, la questione dei diritti di negoziazione è al centro di calorose discussioni già ormai da qualche tempo. “La crisi sta impattando su un processo di revisione di questo sistema che era già in corso – specifica Alessandro Villoresi, coo Vizeum -. E anche dal Parlamento sono uscite proposte per normalizzare la questione. Certo è che in un momento come questo, in cui le aziende tendono a fare saving dei propri investimenti, ne risentono anche i consulenti”.

La sofferenza dunque c’è. Ma una soluzione può venire dalla crisi stessa, come sostiene Vittorio Bonori, ceo ZenithOptimedia, che concorda con Hartsarich sulla necessità di sfruttare la congiuntura negativa in atto e sull’inevitabile cambiamento del modello di business dei centri media. “Ogni crisi nasconde grandi opportunità ed è su queste che occorrerebbe concentrarsi per superare le difficoltà e prepararsi alle sfide future. Il modello di business dei centri media è destinato a cambiare così come quello di tutti i componenti della filiera, a partire dalle aziende fino ad arrivare a editori e concessionarie di pubblicità. Allo stesso modo, i modelli economici di remunerazione seguiranno questi cambiamenti e contribuiranno a riallocare le risorse presso i soggetti della filiera che si conquisteranno una posizione centrale e strategica sul mercato”.

Le aziende: fra vecchio e nuovo

I clienti, dal canto loro, reagiscono alla situazione attuale con un atteggiamento che, se può sembrare contraddittorio, dice in realtà molto su come si stia evolvendo oggi la comunicazione. Come spiega Walter Hartsarich: “I clienti oggi cercano di mira- re al massimo al target di riferimento e, a fronte di investimenti ridotti, concentrano i budget sui mezzi che facilitano il raggiungimento degli obiettivi di vendita in modo più immediato, sia classici che più innovativi, come il digitale”.

Da un lato quindi si assiste a una concentrazione degli investimenti verso la tv, mezzo da sempre ‘rassicurante’. Ne è convinto Roberto Binaghi, ceo Omd (da giugno, vicedirettore generale Manzoni, ndr), che al tema aveva dedicato un intervento allo Iab Forum di novembre. “Quando le cose vanno male, la tendenza è fare meno esperimenti e affidarsi al ‘bene rifugio’ – dichiara -. Nella pubblicità tale bene è la televisione. Gli investitori la usano perché hanno ritorni importanti, la considerano un mezzo efficace. Non è un caso che, in Italia, attiri la metà abbondante del totale investimen- ti. Quindi, la tv è l’ultimo mezzo a essere tagliato”.

Concorda con questa posizione Marco Muraglia di Starcom, che spiega: “Nelle situazioni di stagnazione e crisi economica, prevale da parte delle aziende un atteggiamento protettivo e maggiormente conservatore, che porterà prevedibilmente, nel prossimo futuro, a un maggior ricorso al mezzo tv, tradizionalmente percepito come ‘meno rischioso’, e più sicuro in termini di impatto positivo sul giro d’affari”. Dall’altro lato, cresce la domanda di strumenti e soluzioni innovative, che più di quelle tradizionali raggiungono in modo efficace il tanto ricercato coinvolgimento del consumatore. Si accentua così una tendenza ben presente sul mercato negli ultimi tempi, anche prima della crisi, come ben emerge ogni mese dalle pagine di questo giornale. Spiega Tettamanti di Carat: “Non è la crisi che sta cambiando modalità di approccio dei clienti. La maggior attenzione al ‘consumer insight’, al ritorno sull’investimento, alla misurabilità, il maggior ricorso al narrowcasting, l’importanza crescente del concetto di ‘engagement’: sono tutti trend che caratterizzano il nostro presente ma che trovano origine già nel recente passato”.

In particolare internet e il digitale sono strumenti che, a fronte di investimenti più contenuti rispetto a mezzi più classici, permettono di realizzare comunicazioni molto targettizzate. Prova ne è la crescita che questo settore continua a mettere a segno (+2% a gennaio, dati Osservatorio Fcp-AssoInternet). E sebbene si tratti di una quota ridotta rispetto al passato, il web è il mezzo che cresce di più, in un mercato che invece cala vertiginosamente. Come precisa Binaghi, “è possibile che quest’anno si debba accontentare di una crescita a una sola cifra, però sta guadagnando quota a scapito di altri mezzi, come la stampa”. Soprattutto, esso viene scelto per la sua misurabilità: variabile, questa, che sarà sempre più determinante nel futuro. È quanto sostiene Vittorio Bonori, che spiega: “L’allocazione di un budget di comunicazione dipende sostanzialmente da quattro variabili: dagli obiettivi, dal target, dall’arena competitiva e dalla dimensione del budget. Queste regole non muteranno nel breve termine, ma tenderanno a semplificarsi notevolmente nel momento in cui la misurabilità dei media consentirà di lavorare in un’ottica di performance marketing. Lo stiamo già sperimentando su alcuni media digitali, con un guadagno significativo in termini di efficienza di investimento”.

Tutto ciò, però, avviene in quell’atmosfera di attesa, diffusa in tutti i campi e i settori, che si traduce nell’allungamento da parte dei clienti dei tempi di decisione degli investimenti. “In un momento in cui è notorio che gli investimenti sono depressi – spiega Alessandro Villoresi – i clienti tendono a dilazionarli nel tempo, nella speranza/attesa di cogliere delle opportunità. E questo, come è immaginabile, ha un’influenza anche sul lavoro dei centri media”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia Lavoro Media e tecnologia Popoli e politiche

“Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte.”

G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.

Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.

Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.

La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.

E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.

Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.

Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.

Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.

Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.

Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: la pubblicità italiana crolla a -18%.

Gli investimenti pubblicitari, nei primi tre mesi dell’anno ammontano a 2.095 mln con una diminuzione del -18,2% rispetto al corrispondente periodo del 2008. L’analisi dei mezzi mostra una flessione del -15,4% per la Tv, del -25,8% per la Stampa, del -20,1% per la Radio. Variazioni negative anche per Outdoor (- 37,1%), Cinema (-26,7%), Cards (-39,0%) e Direct mail (-16,0%). Performance positive per Internet e per l’Out of home tv, entrambi a +3,5%.

Nei primi tre mesi di quest’anno gli investimenti pubblicitari ammontano a 2.095 mln con una diminuzione del -18,2% rispetto al corrispondente periodo del 2008. Il confronto mensile marzo 2009 verso marzo 2008 fa registrare il -16,3%. Tutti i settori merceologici hanno ridotto la spesa rispetto all’anno scorso ad eccezione di Enti/Istituzioni e Turismo/Viaggi che crescono rispettivamente del +1,5% e del +3,2%. Wind, Vodafone, Ferrero, Volkswagen, Barilla, Unilever, Procter&Gamble, Danone, Fiat Div. Fiat Auto e Telecom Italia Mobile sono i dieci Top Spender del trimestre con circa 303 mln euro, il 12% in meno del corrispondente periodo del 2008.

L’analisi dei mezzi mostra per la Televisione, considerando sia i canali generalisti che quelli satellitari (marchi Sky e Fox), una flessione sul trimestre del -15,4% e sul mese del 14,4%. Tra i principali settori si evidenzia il calo di Alimentari (-12,1%), Automobili (-23,6%), Telecomunicazioni (-6,7%) e l’exploit di Enti/Istituzioni (+66,2% ), grazie a Campagne Sociali e Concorsi/Pronostici.

La Stampa, nel suo complesso, ha un calo del -25,8%. I Periodici diminuiscono del -29,2% con l’Abbigliamento a -32,0%, la Cura persona a -23,2% e l’Abitazione a -19,0%. I Quotidiani a pagamento mostrano una flessione del -23,6% con l’Automobile e l’Abbigliamento, i due settori più importanti, che riducono gli investimenti rispettivamente del -40,3% e del -36,9%. In controtendenza il settore Abitazione che raggiunge gli 11,7 milioni con una crescita sul trimestre del 34,9% e del 74,4% sul mese. E’ soprattutto la Commerciale Nazionale a frenare con una diminuzione del -28,9%, ma sono in calo anche la Locale (-17,4%) e la Rubricata/Di Servizio (-19,3%). In contrazione anche la raccolta dei Quotidiani Free/Pay Press (- 26,9% ).

La Radio diminuisce del -20,1% sul trimestre, ma del -8,6% sul confronto mensile. Tra i settori in positivo a marzo 2009 si evidenziano: Auto, Moto/Veicoli e Gestione Casa. Fanno registrare variazioni negative Outdoor (- 37,1%), Cinema (-26,7%), Cards (-39,0%) e Direct mail (-16,0%). Performance, invece, positive per Internet e per l’Out of home tv: entrambi i mezzi crescono del +3,5%.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Quanto è difficile uscire dalla quarta crisi.

La potenza della qualità di JOHN LLOYD -repubblica.it

I giornali, una volta diventati aziende di primaria importanza in vari momenti del XIX secolo, avevano due funzioni ben distinte. In primo luogo riportavano le notizie riguardanti gli affari esteri e la cronaca nera locale, i successi parlamentari e i fallimenti commerciali. In secondo luogo i giornali erano un veicolo commerciale per i popoli che stavano diventando consumatori di massa. Come scrive Judith Flanders, nella sua storia del commercio in epoca vittoriana, Consuming Passions, “Fu sulla base di una pubblicità sempre più onnipresente che i giornali acquisirono quella stabilità finanziaria che, nel XIX secolo, consentì la loro espansione in mercati sempre più ampi”.

Il servizio pubblico che hanno reso le case automobilistiche e i grandi magazzini, le rubriche dei cuori solitari e le compagnie aeree cercando di catturare l’attenzione dei lettori, ora come ora nella sua forma classica è in forte calo, forse addirittura agli ultimi giorni.

Quanto meno, al momento la pubblicità non costituisce una fonte abbastanza sicura di introiti per mantenere i potenti giornali che ogni Stato sviluppato e ricco ha dato per scontati per intere generazioni. Dal New York Times al Dagens Nyheter, da Le Monde al Yomiuri Shimbun, hanno tutti alle spalle una loro storia di potere. Tutti, in misura diversa, sono a rischio di tagli alle spese e perfino di chiusura. Nel momento stesso in cui questi grandi giornali entrano in crisi, vediamo molto meglio quanto subordinati fossero i nostri principi di “giornalismo come servizio pubblico” in fondo in fondo dipendessero dai consumi dei cittadini. Mentre tutto ciò viene meno, diventa palese che la capacità di mantenere in vita questo tipo di giornalismo è profondamente a rischio.

Le televisioni commerciali si trovano nella stessa situazione: per quasi 60 anni le tv non finanziate dallo Stato si sono arricchite grazie al boom pubblicitario. Adesso anche loro devono fare i conti con la crisi. La Cbs aveva 24 sedi distaccate all’estero, ora sei. Le emittenti televisive britanniche stanno abbandonando i notiziari regionali lasciandoli alla Bbc, finanziata dallo Stato. In Francia la tv privata più importante, Tf1, ha smesso di produrre informazione seria. Il suo amministratore delegato, Patrick Le Lay, nel 2004 ha detto: “Cerchiamo di essere realistici: in sostanza il nostro compito è aiutare la Coca Cola – giusto per fare un esempio – a vendere il suo prodotto. Ciò che noi vendiamo alla Coca Cola è il tempo del materiale cerebrale che abbiamo disponibile: dobbiamo sempre cercare programmi che siano popolari, seguire le mode, cavalcare varie tendenze, in un contesto nel quale l’informazione è sempre più veloce, diversa e banalizzata”.

Secondo Markus Prior (in Post Broadcast Democracy) i bei tempi in cui la maggior parte del pubblico seguiva i notiziari e l’attualità con scadenza quotidiana perché c’era poca scelta sono giunti al termine. Nel momento in cui una famiglia può scegliere tra 100 o 200 canali, gli ascolti dei programmi seri sono precipitati. Al contempo una piccola percentuale di pubblico fa zapping per raccogliere quante più notizie esaurienti possibile. Di conseguenza, per l’informazione si registra un equivalente di quello che è il sempre più crescente divario di reddito, un gap sempre più incolmabile tra i news junkies e i news dropouts.

Per ora non c’è una soluzione facile a questa crisi. Ma una risposta tuttavia esiste e si cela nella capacità dei professionisti di reinventarsi. Se da un lato stiamo assistendo alla crisi, dall’altro vediamo anche la crescita, specialmente su Internet, grazie al quale oggi sempre più lettori leggono quasi tutti i giornali. Ma sono in crescita anche le riviste serie e la produzione di documentari in tv e al cinema. Possiamo iniziare a intravedere un futuro caratterizzato da molte più fonti di informazione, nel quale i giornali affermati, come questo su cui scrivo, saranno in grado di sopravvivere associandosi con nuove, piccole start-up, specializzate in regioni particolari del mondo o in un particolare genere di giornalismo. Come ha dichiarato di recente lo studioso americano Yochai Benkler, “Grazie a un impegno professionale nel giornalismo di qualità sufficientemente alta, abbinato ai contributi forniti dai lettori impegnati, da freelancer, da professori universitari, anche un’azienda piccola potrà attirare un numero elevato di lettori per vendere pubblicità a livelli tali da garantire questo grado di operazioni”. Ci occorrono dunque media potenti perché il potere può essere chiamato a rispondere delle proprie azioni soltanto da un altro potere. Dovremo trovare nuove modalità con le quali finanziarli, ma una cosa è sicura: il mondo e la democrazia hanno bisogno del giornalismo e dipende dunque da noi giornalisti fare il possibile per poter continuare ad assicurarlo.(Beh, buona giornata).

L’autore è direttore
del Reuters Institute
for the Study of Journalism
della Oxford University
(Traduzione di Anna Bissanti)

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Leggi e diritto Società e costume

Le politiche sulla sicurezza del governo non funzionano. Per il sindaco di Roma è tutta colpa di “Romanzo criminale”.

(da repubblica.it)
Gianni Alemanno se la prende anche con le serie televisive di successo come Romanzo criminale colpevoli, secondo lui, di alimentare atteggiamenti pericolosi tra i giovani. Visitando la scuola media nella borgata di Villaggio Prenestino, estrema periferia di Roma, nel cui cortile giovedì scorso un 15enne è stato accoltellato da un altro alunno di 14 anni, il sindaco della Capitale ha tenuto a sottolineare che non si tratta “di una criminalità organizzata, siamo a un altro livello, quello delle bande giovanili”.

Quindi il primo cittadino ha parlato anche di modelli culturali che vengono veicolati alle giovani generazioni, puntando il dito sui programmi televisivi: “L’avevo detto fin dall’inizio che alcune operazioni culturali come la serie tv Romanzo criminale o altre simili non aiutano, hanno lanciato delle mode, degli atteggiamenti e dei modi di fare sbagliati. I giovani, invece non vanno lasciati da soli, faremo tutto il possibile per stare nelle periferie”.

Durante la visita alla scuola media Falcone, Alemanno, che ha incontrato la madre del ragazzino accoltellato, ha parlato con la preside e i rappresentanti delle associazioni di quartiere dei problemi dell’istituto e dell’intera zona che soffre, secondo gli abitanti, di carenza di servizi e spazi di aggregazione. “Ho invitato il presidente del Municipio e i comitati – ha spiegato Alemanno – a formare una consulta per avanzare proposte e ideare progetti sociali per dare ai giovani punti di riferimento”. Il sindaco ha lasciato la scuola con una promessa: “La prima cosa che faremo sarà ristrutturare questa biblioteca”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Veline&politica: “E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico.”

Le veline e l’evoluzione
della specie (im)politica
di Ilvo Diamanti -la Repubblica

Lo scandalo riguardo alla velinizzazione della politica italiana è effettivamente scandaloso. Cioè: è scandaloso che ci si scandalizzi. Certo, l’indignazione della signora Veronica Lario contro la candidatura (annunciata) di alcune belle ragazze nelle liste del PdL, cioè: del partito guidato (diretto, presieduto, governato ecc.) dal marito non poteva che rimbalzare fragorosamente sui media. Per il semplice motivo che la signora Lario per esprimere il suo pensiero al marito, invece di parlargli di persona o al cellulare, ha usato i media. E i media hanno fatto il loro mestiere.
Amplificando la vicenda. Come, d’altronde, si attendeva la signora Lario. Che intendeva manifestare la sua indignazione anche verso i media, che hanno tanto spazio e tanto tempo da perdere intorno alle veline. Invece di fare informazione e informazione politica. Il problema, però, è che – non da oggi – la distanza fra questi elementi è molto sottile. Quasi non si percepisce. Fra la politica, l’informazione, l’informazione politica, i media. E le veline. Che adornano ogni salotto politico che si rispetti, a partire dai più seguiti e influenti. Sulle reti e nelle ore di maggiore ascolto.

Il loro archetipo, d’altronde, va in onda ogni sera sugli schermi di Canale 5. La rete ammiraglia del Presidente del PdL, del Milan, di Mediaset. Nonché marito della signora Lario. Ci riferiamo, ovviamente, alle veline di “Striscia la notizia”. Tiggì satirico concepito da Antonio Ricci. Il quale ne fece l’icona e il simbolo dell’informazione di regime. Per dire: tutti i tiggì della tivù pubblica – e non – sono condotti da sedicenti giornalisti di regime che ballano, mostrano le gambe e il sedere. Anche se sono meno gradevoli. E raramente, anzi: mai, ne ripetono il successo di ascolto e di audience. Non si sa se per merito dell’informazione irriverente degli inviati di Striscia o per il contributo all’informazione offerto dalle Veline. Diciamo: per entrambi i motivi. Lo stesso discorso vale per altri programmi Mediaset. Dalle Iene a Mai dire…

Dappertutto Veline. Esibite sempre in modo un po’ ambiguo. Strizzando l’occhio allo spettatore. Sottinteso che in fondo si tratta di satira. Non di uso furbo delle belle ragazze a fini di audience. Lo stesso avviene, in modo perlopiù rovesciato, anche nella Rai. Dove, nelle trasmissioni leggere o presunte tali, sgambettano veline e ballerine di ogni genere e tipo. Intervallate da “momenti alti” di dibattito politico. Anzi: neppure intervallate: fianco a fianco. Coscia a coscia. Come nei contenitori pomeridiani della domenica. E in tutti gli altri format che ormai coprono l’intera giornata. Mattine sull’Uno e pomeriggi sul Due. Pranzi compresi.

Veline, cuochi, giornalisti, cronaca, politica, cultura. Perché non c’è politico disposto a rinunciare a un’occasione mediatica, che garantisca visibilità, ascolto, pubblico. Vuoi mettere le centinaia o migliaia di persone che stanno in una piazza o in una tivù, se non c’è la televisione? Ma se c’è la televisione, perché non seguirne le regole e le logiche? Per cui, perché non affiancare al leader, sul palco e sulle piazze, la bella ragazza, il volto del giornalista famoso, del cantante, del regista o del comico satirico? E poi, nella vita quotidiana, li ritrovi, uno accanto all’altro, nelle occasioni mondane. Ritratti puntualmente dalla stampa people ma anche da quella seria. Certificati e fotografati su Dagospia. Non per caso, a tradimento. Ma per scelta consapevole. Perché le veline, i cuochi, i cantanti, gli artisti, i registi, i nobili decaduti, gli intellettuali, i calciatori, i presentatori, i cuochi, i giornalisti. Insieme ai politici. Non andrebbero alle feste, inaugurazioni, celebrazioni. Se non ci fossero Novella, Eva, Chi, Dipiù. E Vanity e A. E Dagospia. A fotografarli, ritrarli, diffonderne l’immagine. Cioè: tutto quel che conta.

Ma non è un fatto nuovo, se non per motivi di misura. Di quantità. In fondo cantanti, comici, giornalisti, registi e quant’altro sono già stati – taluni sono ancora – in politica. Eletti nel parlamento italiano o europeo. In qualche caso, per rimanerci, si spostano da un punto all’altro dello spazio politico, da un partito all’altro, in modo rapido e disinvolto.

Non voglio dire che tutto questo (mi) vada bene. Però non (mi) sorprende. Mi sorprende di più lo scandalo che solleva. Lo scandalo delle veline non dovrebbe scandalizzare più di tanto. A meno che non ci si scandalizzi di tutti i passi di questo percorso, che viene da lontano. Questo trend. Che procede parallelo all’abbandono dei luoghi sociali della politica.

All’evoluzione dei partiti in macchine presidenziali al servizio di un candidato. E tutti gli altri intorno a far da corona. (Corona?). Una corte di consulenti e consiglieri. Cortigiani, cortigiane. Ma tutto questo non scandalizza. Se non a parole. In fondo, così fan tutti. E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico. Quando , al momento di votare, per riflesso pavloviano, sceglie: presentatrici e presentatori, attrici e attori, grandi fratelli e grandi sorelle. Veline. L’evoluzione della specie politica. O impolitica. Dipende dai punti di vista. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La delibera dell’Autorithy per le comunicazioni sulla digitalizzazione delle tv italiane danneggia il mercato e il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.

di Tommaso Valletti da lavoce.info
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. Ma in Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. E mentre all’estero i governi mettono all’asta senza limitazioni quelle liberate dalla tecnologia digitale, da noi la competizione riguarda solo tre canali e sarà riservata agli operatori televisivi. Di sicuro, la delibera danneggia lo sviluppo economico e inficia il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato, l’8 aprile, i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. La delibera prevede ventuno reti nazionali e definisce le procedure per la messa a gara del dividendo digitale. Il presidente Corrado Calabrò ha aggiunto che “in linea con quanto avviene in tutta Europa, la procedura pubblica sarà del tipo beauty contest”. Il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani, ha espresso la propria soddisfazione dopo l’emanazione della delibera che “rappresenta il primo passo formale di un percorso intrapreso in piena sintonia con la Commissione europea dopo mesi di intenso e costruttivo confronto. (…) Il percorso così delineato rappresenta un ulteriore stimolo all’azione lineare, coerente e costruttiva intrapresa da questo governo per lo sviluppo della comunicazione nel nostro paese, avviato con la progressiva digitalizzazione del comparto radiotelevisivo e con le misure favorevoli allo sviluppo della banda larga”. (1)

COS’È IL DIVIDENDO DIGITALE

Nulla di tutto ciò è vero. Non è vero che vi sia stato confronto. Non è vero che in tutta Europa si assegni il dividendo digitale con un beauty contest. Non è vero che queste misure favoriscano lo sviluppo della banda larga. Non è vero che nel nostro paese vi sia mai stata una linea coerente per lo sviluppo della comunicazione, in modo particolare, per quello che riguarda le frequenze elettromagnetiche.
Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto, di cosa stiamo parlando? Il passaggio dalla tv analogica alla tv digitale permette di utilizzare meno banda grazie alla maggiore efficienza delle tecniche digitali rispetto a quelle analogiche. Dunque, gli attuali canali, quando trasmessi con tecniche digitali, hanno bisogno di minori frequenze, liberando le vecchie, che possono essere assegnate ad altri usi e utilizzatori: è questo il cosiddetto “dividendo digitale”.

COSA ACCADE ALL’ESTERO

Le norme comunitarie, in verità molto generiche, impongono trasparenza e neutralità tecnologica nell’uso dello spettro. In concreto, ciò consiste in procedure a evidenza pubblica e non sottoposte a discriminazione nell’assegnazione.
Il Regno Unito ha deciso di allocare due terzi delle frequenze legate al passaggio dall’analogico al digitale a servizi radiotelevisivi, ma le procedure di assegnazione non sono note. Il restante terzo, un blocco comunque assai sostanzioso di 112 MHz, sarà messo all’asta senza vincoli sulle tecnologie o sugli utilizzi. L’analisi del governo britannico ha infatti concluso che quelle frequenze sono molto preziose e potenzialmente appetibili anche agli operatori mobili, o ai operatori fissi per la banda larga, o ad altri ancora. In mancanza di informazioni precise sui singoli business plan dei vari operatori, il governo farà l’unica cosa che abbia un senso economico: un’asta, senza restrizioni, assicurando che i diritti di proprietà siano rispettati e non si abbiano interferenze.
Anche la Francia sicuramente consentirà agli operatori mobili di concorrere per il dividendo digitale: uno studio commissionato dal governo stima a 25 miliardi di euro il beneficio di non limitare l’allocazione ai soli servizi televisivi. Il governo tedesco ha da poco annunciato che parte del dividendo digitale sarà utilizzato per offrire servizi wireless a banda larga. Per entrambi i paesi, tuttavia, non sono ancora note le modalità di assegnazione.
Negli Stati Uniti, circa un anno fa, sono state vendute all’asta frequenze a 700 MHz, molto vicine a quelle di cui stiamo parlando ora in Italia. In quell’asta sono stati incassati 19 miliardi di dollari per licenze vinte soprattutto da Verizon e AT&T, ma anche da nuovi operatori. Si trattava comunque della settantatreesima asta tenuta dalla Fcc a partire dal 1994 e oggi siamo già arrivati a settantanove: ecco un esempio di politica seria e capillare sulle frequenze. (2)

IL CASO ITALIA

E l’Italia? Continuiamo con le solite critiche al nostro paese? Purtroppo sì, e a ragion veduta. In Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. Pur senza entrare nel merito del far west delle tv private e delle continue procedure di infrazione che la Comunità europea ci commina, non si è mai voluto comprendere il valore economico delle frequenze elettromagnetiche e il costo legato a una loro assegnazione inefficiente. Si sono effettuate due aste: una nel 2000 per l’Umts e una l’anno passato per il Wi-Max. Ma sono due casi che purtroppo non hanno fatto scuola. Il 40 per cento delle frequenze è in mano al ministero della Difesa che non paga nulla per il loro utilizzo. E potrebbe anche non utilizzarle affatto. Nel Regno Unito, per esempio, il ministero della Difesa paga per le frequenze, il che ha comportato risparmi e la restituzione di quelle inutilizzate. Eppure, seguendo alcuni passi elementari, lo Stato italiano potrebbe incassare 2 miliardi di euro all’anno, oltre a liberare risorse che favoriscono lo sviluppo economico. (3)
La delibera sul dividendo digitale prevede che quattro canali siano dati a Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia, due a ReteA e uno a Europa TV. Quanto ai restanti cinque canali, alcuni dettagli portano a pensare che a Rai e Mediaset sarà assegnato un ulteriore canale a testa. Restano quindi solo tre canali su cui sarà effettuato un beauty contest limitato a operatori televisivi. Nulla di preciso si sa a proposito delle frequenze per le 500 tv private, anche se è facile prevedere che si troveranno anche quelle prima o poi, sempre gratis o quasi.
La delibera danneggia sicuramente lo Stato e dunque i cittadini: non porterà ad alcun incasso, salvo briciole. Danneggia lo sviluppo economico, perché non abbiamo alcuna idea di come sono stati selezionati gli operatori prescelti. Di sicuro, colpisce tutti gli operatori che non siano televisivi, perché gli operatori mobili, ad esempio, non potranno concorrere per ottenere frequenze di cui sono assetati. Di certo inficia il pluralismo, visto che Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni. (Beh, buona giornata).

(1) Vedi anche Beauty contest per l’assegnazione delle frequenze in linea con gli altri Paesi Ue.
(2) http://wireless.fcc.gov/auctions/default.htm?job=auctions_home.
(3) C. Cambini, A. Sassano e T. Valletti (2007), Le concessioni sullo spettro delle frequenze, in U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà (a cura di), “Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica”, Il Mulino, Bologna.

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“L’audience come misura del mondo.”

Televisione misura del mondo
di MARCO BELPOLITI da lastampa.it

Uno degli aspetti che più colpiscono nell’attuale processo d’omologazione in corso è l’idealizzazione del banale e dell’insignificante. Certo c’è stata «la casalinga di Voghera», assurta al rango d’intellettuale di riferimento dopo il patronage d’Alberto Arbasino, ma adesso tocca agli intellettuali di X Factor. Secondo Walter Siti, che ne ha scritto sulla Stampa sabato scorso, si tratta di un programma seguito da nutriti gruppi d’ascolto di cui farebbero parte scrittori e intellettuali di grido, che dibattono tra loro, non più di Marx e Nietzsche, di Adorno e Horkheimer, bensì di Morgan e Mara Maionchi.

Colpisce il fatto che le persone esposte allo sguardo ammirato di molti, se non di tutti, non siano più modelli alti, personaggi di rilievo intellettuale o morale, quanto piuttosto uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. Realtà e spettacolo si avvicinano sempre più, così che il secondo ha inglobato la prima. Del resto, lo spettacolo non assolve più alla sua naturale funzione di rappresentare, drammatizzare, far riflettere, appassionare, svolgendo il ruolo catartico per cui era nato, ma s’identifica sempre più con la realtà stessa, così che non esiste più alcuna differenza tra le due cose: tutto è spettacolo, anche la vita, soprattutto quella intima.

Gli psicoanalisti, interessati a quello che accade fuori dalle loro stanze, da tempo ci stanno indicando un aspetto della trasformazione in corso, di cui il voyeurismo e l’esibizionismo televisivo, tipico dei nuovi programmi, ne è la spia più diffusa: una progressiva carenza di identità prima ancora che di valori. Anna Maria Pandolfi, in un preveggente studio di qualche anno fa, postulava per la società attuale un assetto narcisistico estremamente fragile e povero, per il quale «essere visti e conosciuti o solo guardati, quale che sia il prezzo che per ciò si paga, sembra essere l’unico rimedio a un pericoloso vissuto di non valore o addirittura di non esistenza».

L’audience come misura del mondo. La televisione, meglio la neotelevisione berlusconiana – modello straordinario di un ordinario «pensiero unico» -, ha realizzato proprio questo, secondo una tendenza omologante e appiattente a cui anche gli intellettuali raffinati – o presunti tali – si sono equiparati e genuflessi: tutti osservano la stessa cosa. Chi dice, o mostra, cose diverse, chi esce dal coro, con provocazioni oppure con un persistente silenzio, viene immediatamente eliminato. Non è più solo un’invenzione da intellettuali francesi, bensì un dato inconfutabile: la realtà mediatica ha sostituito nella testa di menti illuminate e di scrittori, che si vorrebbero trasgressivi, la realtà fattuale.

Jean Baudrillard, ci ricorda Anna Maria Pandolfi, in alcune pagine illuminanti e terribili, peraltro inascoltate, ci aveva avvisato diversi anni fa: quando tutto è esposto alla vista, non c’è più nulla da vedere. Il nulla sotto forma di rumore di fondo, schiamazzo, pseudo-discussione, è diventato la forma stessa della società italiana dell’inizio del XXI secolo attraverso il suo strumento mediatico più efficace: la televisione. Qualche giorno fa un’importante personalità istituzionale ha sostenuto con una boutade che non era il caso d’insistere sulle responsabilità nei crolli delle case, degli ospedali, degli edifici pubblici dell’Aquila.

Il senso di colpa o la vergogna, sottintendeva l’intervento autorevole dell’uomo politico, non hanno più alcun senso perché rivolti verso il passato. Il futuro è quello che conta. Ma quale futuro? Chi è capace di reggere la presenza del proprio o altrui errore, di ammetterlo o combatterlo, possiede, ricorda la psicoanalista Pandolfi, un Sé sufficientemente saldo e un’identità abbastanza definita per poter entrare nell’area della conflittualità, tollerare la colpa e sopportare la depressione che ne consegue.

Al contrario, chi rigetta tutto questo, dimostra il bisogno «di essere visto e parlato, per garantirsi della sua propria esistenza e negare il vuoto e la futilità del suo mondo interno e, ora, anche di quello esterno, tra i quali peraltro la distinzione non è più così netta». C’è solo da augurarsi che intellettuali intelligenti e acuti, scrittori bravi e di successo, si risveglino dal sonno della ragione che, non partorisce solo mostri, come ci avvisava Goya, ma anche e soprattutto il vuoto di una pseudo-vita omologante e banale. (Beh, buona giornata).

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Spagna: via la pubblicità dalla tv pubblica?

Spagna; Zapatero: “drastica riduzione” pubblicità in Tv di Stato
Roma, 14 apr. (Apcom) – La Spagna come la Francia: Madrid mira a ridurre la pubblicità nella televisione pubblica. E l’annuncio viene dal presidente del governo socialista, José Luis Rodríguez Zapatero, che lo ha detto oggi a deputati e senatori del Psoe riuniti in seduta plenaria per discutere le prossime leggi che l’esecutivo invierà in Parlamento. Il leader socialista ha annunciato che il governo manderà alle Camera una nuova proposta di legge sulla riforma del settore audiovisivo; un precedente testo nella scorsa legislatura si era arenato per mancanza di consenso. Nella nuova legge sarà indicato come obbiettivo proprio quello che chiedevano le televisioni commerciali. Ovvero, come ha detto Zapatero caldamente applaudito dai suoi stessi parlamentari, “una drastica riduzione della pubblicità nella tv di Stato”, i canali della TVE. In novembre, la Unione delle televisioni commerciali (Uteca) aveva ribadito all’esecutivo l’esigenza che la Tve non trasmetta pubblicità e che si finanzi esclusivamente con fondi pubblici, e la richiesta che la tv di Stato si concentri a trasmettere eventi per cui non entri in competizione con le televisioni commerciali. Sotto tiro in particolare il pagamento da parte della Tve di 60 milioni di euro per i diritti di vari campionati di calcio, cifra che secondo l’Uteca è il triplo di quanto avevano precedentemente pagato le tv private. La decisione di Zapatero rischia di ridurre di parecchio il raggio d’azione della tv pubblica, rendendola di fatto dipendente in modo totale dalle sovvenzioni del governo in carica (che, caso raro in Europa, non prevede un canone diretto dei telespettatori). Va ricordato che dopo il ritorno della democrazia, Tve – con un unico canale generalista al quale qualche anno dopo se n’è aggiunto uno regionale – non è mai stata sottoposta a un processo di “lottizzazione”, ma occupata in toto dall’esecutivo al potere. Di fatto, Tve è sempre stata un strumento a disposizione dei governi ma non dei partiti, che hanno alleati più preziosi – e in teoria più al riparo da incertezze elettorali – nei grandi gruppi privati. La legge dovrebbe infatti favorire il potere di acquisto delle televisioni commerciali, le sole a dividersi la torta dei ricavi pubblicitari – relegando Tve ai telegiornali e a format poco costosi, e sperando quindi di ridurre l’entità della spesa totale necessaria al suo finanziamento. Un dibattito simile è avvenuto poche settimane fa in Francia, dove il presidente conservatore Nicolas Sarkozy ha presentato e visto approvare una legge che riduce progressivamente e drasticamente la trasmissione della pubblicità sui canali di France Television, la tv di Stato (peraltro in Francia finanziata anche con il canone). I critici hanno affermato che Sarkozy voleva in primo luogo favorire i proprietari dei canali commerciali e privati, molti dei quali sono suoi amici personali. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Bondi vuole fare il furbo con la pubblicità.

MA CHI CI GUADAGNA DA UNA RAI SENZA SPOT?
di Augusto Preta da lavoce.info

Il ministro Bondi ha avanzato l’ipotesi di una Rai senza pubblicità, sull’onda di una recente riforma francese. Ma in Francia ci si proponeva almeno di redistribuire le risorse pubblicitarie tolte al servizio pubblico a canali privati, radio, stampa e nuovi media. Un progetto fallito per l’insorgere della crisi. E che ora si trasforma in un impoverimento di tutti i media, pubblici e privati. In Italia, le perdite per la tv pubblica sarebbero ben più consistenti e avrebbero conseguenze ancora più negative sull’intero sistema televisivo nazionale.

Mettere mano alla televisione è un’aspirazione che accomuna i vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Nei casi più recenti, quando si è tentato di affrontare il tema chiave delle risorse economiche, dal disegno di legge Gentiloni fino alla recente proposta Bondi, emerge comunque una comune forte impronta dirigista, volta a regolare le dinamiche di mercato, spostando risorse per legge o decreto, e magari cercando di favorire più o meno consapevolmente una delle due parti in causa (l’idea dei nostri politici è che ci sia ancora un duopolio), con risultati che, se realizzati, sarebbero estremamente negativi per tutto il sistema.

PUBBLICO SENZA PUBBLICITÀ

Nelle scorse settimane, il ministro Bondi ha avanzato l’ipotesi di un servizio pubblico senza pubblicità, sull’onda della recente riforma francese. Da quel momento, il tema è entrato nel dibattito nazionale, ma come spesso avviene nel nostro paese, prescindendo totalmente dai dati di fatto e dall’analisi del caso concreto.
La nuova legge sulla televisione in Francia è stata promulgata il 7 marzo scorso, dopo un iter di oltre un anno, iniziato nel gennaio del 2008 con una dichiarazione pubblica del presidente Sarkozy. Gli effetti della sua applicazione non sono ancora visibili, salvo l’articolo che riguarda la soppressione della pubblicità sulle reti del servizio pubblico dalle 20 alle 6, in vigore dal 5 gennaio scorso. (1)
L’applicazione definitiva della legge provocherà la perdita di 800 milioni di euro di pubblicità sulla televisione del servizio pubblico, che il governo pensava di recuperare attraverso una tassa supplementare sul fatturato dei principali operatori commerciali concorrenti: 3 per cento per le reti private storiche nazionali; tra l’1,5 e il 2,5 per cento per le nuove reti digitali; 0,9 per cento sul fatturato proveniente dai ricavi da servizi di accesso a larga banda per operatori di rete fissa e Umts.
Secondo le intenzioni del governo, il servizio pubblico e gli utenti si sarebbero liberati dal giogo della pubblicità, e le risorse prima destinate alla tv pubblica si sarebbero trasferite sugli altri media: 480 milioni sulle reti private nazionali concorrenti Tf1 e M6, 160 milioni su radio, stampa e affissioni, 80 milioni su internet e new media e 80 milioni sulle altre televisioni, principalmente i canali del digitale terrestre.
I risultati per il momento sono di tutt’altro tenore. A causa della crisi economica, gli inserzionisti anziché investire sugli altri media, hanno semplicemente soppresso gli investimenti in pubblicità.
In termini di fatturato lordo:

– Tf1, la principale tv privata, vede i suoi investimenti pubblicitari lordi diminuire del 20,3 per cento nei primi due mesi rispetto al periodo equivalente dell’anno scorso, secondo quanto dichiarato dai dirigenti della rete il 9 marzo scorso, e ha perso dal 1 gennaio 2009 il 50 per cento del suo valore in borsa.
– M6, il canale privato concorrente, perde oltre il 10 per cento di ricavi pubblicitari
– solo le reti Dtt vedono gli investimenti lordi sui primi due mesi dell’anno aumentare dell’85 per cento rispetto a gennaio-febbraio dell’anno scorso, ma è soprattutto il risultato dei notevoli progressi in termini di audience di queste reti. In ogni caso, si tratta di pochi milioni di euro contro le centinaia perse dai network nazionali.

L’audience della televisione pubblica, nonostante l’assenza di pubblicità, è leggermente diminuita dal primo gennaio scorso, mentre quella di Tf1 e M6 non ha subito sostanziali cambiamenti.
Ne consegue che a tutt’oggi gli 800 milioni di finanziamento del servizio pubblico che prima provenivano dalla pubblicità, non sono garantiti. Lo Stato, quindi il contribuente, dovrà pagarne una parte.
Anche le altre fonti non sono garantite, dal momento che le reti private dovranno versare una tassa supplementare su un fatturato pubblicitario che per il 2009, e forse anche per il 2010, sarà in forte diminuzione.
Gli operatori di telecomunicazione, che hanno fatto ricorso davanti alla Commissione europea, trasferiranno la tassa sul costo degli abbonamenti ai loro servizi. Per il momento, la legge provoca un impoverimento dei media dal momento che gli inserzionisti, vittime della crisi economica, hanno soppresso la quasi totalità delle somme precedentemente investite sulla televisione pubblica, anziché investirle negli altri mezzi.
Le reti pubbliche di France Télévisions, in previsione della futura diminuzione degli introiti, hanno già ridotto gli investimenti dedicati agli acquisti di programmi, fiction e altri, tanto che già a dicembre, l’associazione dei produttori inglesi ha inviato un rapporto all’ambasciatore francese a Londra per protestare contro il varo della legge.

LEZIONE CHIARA

In conclusione, dalla vicenda francese emergono alcuni insegnamenti molto chiari.
Il primo è che la pubblicità sui grandi canali generalisti non è ormai più vista come un fattore in grado di spostare ascolti: gli spettatori scelgono quel programma indipendentemente dalla presenza dei break pubblicitari. In altri termini, non vi è elasticità della domanda di visione dei programmi dalla riduzione o abolizione della pubblicità.
Il secondo è che la redistribuzione delle risorse in seguito a uno shock di mercato, come l’eliminazione immediata di centinaia di milioni di risorse economiche, non è facilmente indirizzabile verso canali ritenuti sostituti. Innanzitutto, perché la congiuntura economica, che determina in prima battuta la disponibilità di risorse che le imprese investono in pubblicità più ancora dell’attrattività dei programmi tv, può sempre incidere in maniera inattesa, come sta avvenendo ora.
Inoltre, la visione che sottende alla legge è che ci troviamo di fronte a un mercato statico, dove gli investimenti rimangono stabili sulle reti tradizionali, per cui la porzione della torta che viene sottratta a un soggetto viene poi ripartita tra i restanti, che pagano una tassa per finanziare chi è rimasto senza boccone. La realtà è invece molto più dinamica e registra in tutta Europa una chiara saturazione del mercato della tv tradizionale, a vantaggio dei canali tematici, che sottraggono importanti quote di mercato in termini d’ascolti e di ricavi. Nel caso della Francia, ciò significherebbe minori introiti indiretti dalla tassa sul fatturato dei canali commerciali, che non compenserebbero in ogni caso le perdite derivanti dalla pubblicità.
Nel caso dell’Italia, dove non è chiaro neppure se vi sia la volontà di ribilanciare le perdite ben più consistenti che il servizio pubblico subirebbe, 1,1 miliardi di euro, la soluzione alla francese appare economicamente meno sostenibile e dunque in grado di produrre conseguenze ancora più negative per l’intero sistema televisivo nazionale. (Beh, buona giornata).

(1) A causa dei ritardi nel varo della legge, è stato il consiglio di amministrazione di France Télévisions a prendere la decisione di eliminare la pubblicità in quella fascia oraria dall’inizio dell’anno. Dal 7 marzo 2009 è la legge che proibisce la diffusione di messaggi pubblicitari dalle 20 alle 6. La soppressione per il resto della giornata interverrà con lo spegnimento definitivo della diffusione analogica a fine 2011.

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