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Attualità Finanza - Economia Leggi e diritto Politica Potere

Prove tecniche di regime.

Doppio arzigolo carpiato con avvitamento a destra per la privatizzazione del Pnrr.

“Se qualcuno dice ‘vuoi togliere il controllo concomitante sulle amministrazioni pubbliche?’ la risposta è fermamente no, ma se mi dici ‘sul Pnrr ritieni che la disciplina dei controlli possa essere rivista, assegnando una primazia ai controlli comunitari rispetto ai controlli nazionali, la risposta è sì, ma non perché non vogliamo controlli ma perché vogliamo che i controlli siano i controlli comunitari che consentano, loro sì, una omogeneità di visione perché vengono fatti a consuntivo e non in corso d’opera.

Anche perché talune difficoltà legate al Regis (la piattaforma dove le pubbliche amministrazioni inseriscono i dati sui progetti del Pnrr) possono aver indotto determinate relazioni di controllo a uscire con dati non sempre correttissimi, o magari non aggiornati all’ultimo minuto. Poi magari la polemica mediatica fa tutto il resto”.

Chi parla è tale Federico Freni della Lega, sottosegretario al Mef che, come tutti i componenti del governo, è impegnato a mettere fuori controllo i piani di attuazione del Pnrr, invece che fare di tutto per stare nei tempi per accedere regolarmente alle nuove rate di finanziamento.

Una vera e propria vergogna politica e istituzionale, un capovolgimento dei veri motivi delle inadempienze verso gli obblighi previsti per la gestione dei fondi comunitari.

Cercano il colpevole della loro inettitudine nella magistratura contabile, per creare le condizioni che favoriscano la gestione dei fondi da parte di privati e senza controlli.

Vogliono solo “privatizzare” il Pnrr, trasformandolo in un veicolo di consenso verso i soliti potentati, invece che di crescita per uscire dalle strettoie economiche post pandemiche.

Come sempre, alla borghesia italica importa solo il tornaconto immediato, piuttosto che le strategie di crescita; compra privilegi come buoni contro termine; preferisce privilegi oligarchici e corporativi in cambio della sovranità delle regole costituzionali, della correttezza istituzionale.

Ai liberali, intrisi di liberismo, non dispiace l’autoritarismo, se supporta il capitalismo, togliendo di mezzo ogni intermediazione delle istituzioni democratiche. Compresa la Corte dei Conti.

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Attualità Politica Salute e benessere

Il distanziamento sociale.

Semmai è un lapsus. Come tutti sanno, Freud sosteneva che i lapsus in realtà sono un vero e proprio segnale veritiero che la psiche ci trasmette. E infatti aver chiamato distanziamento “sociale”, invece che “personale” gli obblighi che abbiamo dovuto adottare ha creato molte perplessità. 

In realtà, mettere un metro di distanza tra i corpi, coprire naso e bocca con una mascherina, mettere i guanti per non toccare quello che hanno toccato gli altri non sarebbe una presa di distanza dal nostro essere individui sociali. 

Anzi, mascherine, guanti e distanze dovrebbero essere intesi come rispetto e valorizzazione della socialità: la mia voglia di stare cogli altri si manifesta col rispetto che ho per chiunque io, pur non volendo, potrei contagiare. A costo di una certa solitudine, momentanea, ma finalizzata alla tutela del benessere collettivo. Sociale, appunto.

Ma le cose, a ben vedere, quando escono dalla teoria, ed entrano nella pratica, diventano molto più precise. Precise e taglienti, come una coltellata alla nostra coscienza. Mi spiego: per paura del contagio da Coronavirus, noi abbiamo preso le distanze non dalla socialità, ma dai problemi sociali che Covid-19 ha fatto emergere e ci sta sbattendo in faccia, con mascherina o senza. 

Ogni giorno di questa lunga quarantena, centinaia di anziani sono morti, a casa o nelle cosiddette Rsa, che diciamocelo, sona una sigla dietro alla quale nascondere l’ottocentesca definizione di “ospizio”. Insomma, abbiamo scoperto quello che sapevamo, cioè che la medicina di base non funziona, che l’assistenza è trattata male. Chi in questa quarantena ha tentato di farla funzionare, è morto: troppi medici, paramedici e inservienti sono morti come troppi sono i morti tra i loro pazienti.

A questo punto vi starete chiedendo che c’entra tutto questo con la definizione “distanziamento sociale”? Ecco la risposta: le politiche sociali degli anni dell’euforia modernista, del “meno stato più mercato”, del “privatizziamo per efficentare”, dei tagli alla “spesa improduttiva” furono l’avvio del “distanzamento sociale” verso la cura e l’assistenza pubblica. Il “distanziamento sociale” dalla difesa dei diritti in generale, del diritto alla Salute in particolare

Poi è arrivato Covid-19, l’esattore che chiede di onorare il patto a un Faust collettivo, quello che ha venduto l’anima alle diavolerie liberiste.

Ecco che siamo disorientati. Facciamo finta si tratti di una tragica fatalità, che colpisce quelli che non ce l’hanno fatta. Ma quelle morti d’asfissia tra le lenzuola di un letto, di annegamento nell’acqua dei propri polmoni, e di solitudine e terrore dell’abbandono, non sono una fatalità. Non sono inefficienze o scandali di questa o quella casa di riposo. 

Sono il “distanziamento sociale” cui abbiamo condannato gli anziani, disinteressandoci delle loro materiali condizioni e dei loro diritti, mentre andavamo al centro commerciale a godere della modernità della merce e della felicità dello spreco di tempo, di denaro. Storditi dal consumismo come troppo a lungo siamo stati, siamo stati ingaggiati dall’inconsapevolezza che quello che ci stava succendendo intorno era ingiusto, sbagliato, criminale. 

Abbiamo scelto di essere consumatori, abbiamo abdicato all’essere cittadini. E vennero imprenditori senza scrupoli, e politici senza ideali. Li abbiamo lasciati fare, sperando che qualcosa ce ne venisse in tasca. Invece, c’è chi si è arricchito con la sanità privatizzata e chi di quelle privatizzazioni ci sta ancora morendo.

Perché la ricchezza mal distribuita non è una fatalità, è una patalogia storica che si chiama capitalismo. Non è qualcosa che a noi non ci tocca, è un fatto politico e sociale, certo e inesorabile, come il numero dei morti che ogni maledetta sera ci viene snocciolato come un rosario. 

Da quei decessi e dal lutto dei loro cari oggi possiamo cavarcela dando la colpa al Coronavirus. Ma non possiamo più praticare il “distanziamento sociale” dallo stato in cui versa la Sanità pubblica.

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Attualità democrazia Movimenti politici e sociali Politica Popoli e politiche

Per un 25 Aprile senza retorica.

È una festa nazionale, il 25 Aprile celebra la Liberazione dell’occupazione nazista, la sconfitta del governo fantoccio di Salò, la fine della Seconda Guerra mondiale in Italia. Ci sono, dunque, tre validi motivi per aderire ai festaggiamenti. Tuttavia, la retorica è fuori luogo: agli attacchi contro la memoria storica non bisognerebbe mai rispondere con la nostalglia dei tempi che furono. 

Sono nato dieci anno dopo la seconda guerra mondiale e ho conosciuto molti ex partigiani, tra i quali mio padre. Avevano la riservatezza e la dignità umana e politica di chi sentiva di aver fatto la cosa giusta, dalla parte giusta. Ma non si sentivano nel passato, guardavano, parlavano, credevano in un mondo migliore. Come se la guerra partigiana fosse stato un montento, importante, pericoloso, decisisivo di un percorso ancora lungo da compiere: dalla Liberazione del territorio nazionale, alla liberazione dalle ingiustizie sociali, dallo sfruttamento, dalla sudditanza di larga parte della popolazione dalla schiavitù prodotta da un sistema economico che distribuisce in modo diseguale la ricchezza, che discrimina le persone, che ostacola, quando addirittura non nega apertamente, i diritti.

Questi uomini e donne, posate le armi con cui sconfissero il nazifascismo, si rimboccarono le maniche per ricostruire un paese devastato non solo dalle bombe, dalle carestie, dalle angherie e le stragi degli occupanti e dei loro collaborazionisti italiani, ma per rimettere insieme pezzi di un senso dell’esistenza, di un preciso punto di vista etico, morale, civile. Hanno sconfitto il fascimo prima, hanno fatto un Italia migliore poi.

La ricostruzione non fu solo di case e strade e fabbriche, ma anche dei sentimenti, della cultura, della vita di tutti giorni. 

Tra la ricostruzione di corretti rapporti umani e sociali, vorrei ricordare importanti passi verso il superamento delle differenze di genere. I combattenti antifascisti in Italia furono 300 mila. 54 mila furono uccisi: 17 mila erano militari, 37 mila civili, il 70 per cento dei quali militanti comunisti.

Le donne combattenti furono 35 mila, 70 mila delle quali appartenenti ai Gruppi di difesa delle donne, GDD. La prima donna presidente della Camera dei Deputati, l’on. Nilde Iotti, aveva fatto parte dei GDD.

Durante quei lunghi venti mesi, che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, furono arrestate e torturate 4.653 donne; 2.750 furono deportate in Germania; 2.812 furono fucilare o impiccate; 1.070 caddero in combattimento.

Dopo il 25 aprile del 1945, 19 donne furono decorate con con la medaglia d’oro al valor militare; mentre 21 furono le donne che parteciparono all’Assemblea Costituiente. Quando si parla di “padri costituenti”, non dimentichiamoci le “madri costituenti”. Se lo sono conquistato.

Le donne votaroro in Italia per la prima volta nel 1946, in occasione del Referendum col quale il paese scelse di diventare una Repubblica, che poi la Costituente descrisse come democratica e fondata sul lavoro, come recita, appunto, l’art.1.

La Resistenza, dunque, ha scritto pagine indimenticabili per la nostra vita collettiva, ha prefigurato una nuova visione del mondo, ha tracciato un discrimine invalicabile tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non si tratta di memoria, ma della Storia, con la consapevolezza della quale dobbiamo guardare all’oggi, e saperci orientare tra le contraddizioni, le difficoltà, e sapere immaginare e poi mettere in pratica nuovi strumenti per capire la realtà. Per cambiarla, come riuscirono a cambiarla i partigiani.

La Resistenza fu il momento delle scelte decisive, sia individuali che collettive. Concentriamoci sulle scelte fatte e quelle da fare. Non c’è tempo per la retorica che celebra il passato. Perché qui ci vuole un nuovo 25 Aprile.

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democrazia Elezioni politiche Movimenti politici e sociali Politica Potere

La sconfitta della sinistra-governo.

Con la sconfitta della sinistra di governo si chiude un ciclo storico.

Quando nacque la Lega Nord, che nonostante abbia recentemente cassato il riferimento geografico per prestidigitazioni elettoralistiche è pur sempre il più “settentrionale”partito rappresentato in Parlamento, la politica italiana e di conseguenza i media ebbero un atteggiamento di scherno e repulsa.

La qual cosa determinò due fenomeni: favorì il suo radicamento tra i ceti popolari, a cominciare dalla classe operaia del triangolo di industriale; spinse la Lega nelle braccia della destra ciarlatana di Berlusconi, “sceso in campo” per salvare il suo perimetro di business della tv commerciale. Che poi divenne un partito, Forza Italia, che riuscì a governare, aggregando pezzi della vecchia Dc, qualche ex socialista, i radicali di Pannella e sdoganando la destra fascista, guidata da Fini.

La sinistra, comunista e socialista di allora commise l’errore storico di non raccogliere le istanze sociali dell’elettorato leghista, non capendo che il secessionismo fiscale era una semplice forma di protesta, non la sostanza delle aspirazioni della base leghista, che invece intuiva il pericolo che il progressivo crollo dei pilastri del welfare avrebbe impoverito la capacità di difendere il reddito.

Quel pericolo divenne via via certezza. Il crollo del CAF (I’accordo Craxi-Andreotti-Forlani), che fu il periodo di più alto accumulo di deficit pubblico, fu poi spazzato via da “Tangentopoli” favorì la nascita del berlusconismo. I cui governi favorirono le classi medio alte, oltre che i suoi interessi aziendali. Le tasse non scesero, i salari non aumentarono, il welfare continuò la sua lenta e inesorabile logoramento.

All’errore storico di sottovalutare le spinte centrifughe dalla coesione sociale prodotte dalla Lega di Bossi, si aggiunse la scelta letale di abbandonare l’idea del partito di lotta per imboccare la via a senso unico del partito di governo. Infatti per due volte Prodi tentò di sistemare i conti pubblici, non senza assegnare “sacrifici” al lavoro e allo stato sociale. Ogni volta che avrebbe voluto dare vita alla “fase 2”, cioè una qualche redistribuzione della ricchezza, fatalmente cadde. Per via del “fuoco amico” della sinistra alleata al centrosinistra.

Col Pd, il centrosinistra va al governo dopo il disastro dell’ultima compagine berlusconiana. Ma continua a essere forza di governo e non più protagonista e interlocutore del profondo disagio, dell’impoverimento, dell’insicurezza sociale: è nella miscela esplosiva, composta da meno stato sociale e meno reddito, che vien fuori, in tutta la sua pirotecnica forza distruttiva, il movimento di Grillo.

E di nuovo l’errore storico si riaffaccia nella linea politica del Pd: sottovalutazione delle radici sociali del M5s, denigrazione, mancanza di una vera e propria strategia per gestire le contraddizioni che le politiche neoliberiste hanno prodotto nel tessuto sociale, fina a strapparne a brandelli la stessa idea di democrazia.

Gli errori storici del Pd vengono da lontano, ma, al contrario di quello che sosteneva Togliatti, non vanno lontano. Si sono fermati domenica 4 marzo.

La debacle elettorale marca a fondo la sconfitta dell’idea della “sinistra di governo”.

Dalla teoria del “compromesso storico” che diede vita al “governo di unità nazionale” propugnato da Moro e Berlinguer,ma guidata da Andreotti, fino all’esperienza dell’Ulivo di Prodi, per arrivare al Pd di Renzi, la lunga marcia di avvicinamento al potere ha lasciato dietro di sé, sempre più distanti, milioni di italiani che riponevano nelle idee incarnate dalla Sinistra la speranza, ma anche la convinzione di una sempre realizzabile uguaglianza sociale.

È successo l’esatto contrario: proprio negli anni del cosiddetto “renzismo”, la fotografia mostra ricchi più ricchi e poveri più poveri. I famosi “80 euro” sono stati la paghetta che ha confermato in pieno la sensazione in molti della propria condizione miserevole.

D’altro canto, il declino della sinistra di governo ha travolto come una valanga anche le esperienze della sinistra meno istituzionale – detta “radicale” con un ossimoro inventato da Bertinotti – fino alla sinistra antagonista, come si definisce l’arcipelago dei sindacati di base, dei centri sociali, delle associazioni che si occupano del sociale.

Il definitivo sganciamento dalla complessità sociale della sinistra di governo ha fatto insorgere un sentimento minoritario tra i giovani, i lavoratori più coscienti, i militanti della vertenza sul diritto all’abitare. In un primo momento si è anche creduto possibile un dialogo tra la sinistra antagonista e parte del M5s. Ma poi le strade si sono biforcate.

Oggi la situazione è che le spinte sociale della Lega sono andate spedite a destra. Quelle del M5s al centro, pur con un linguaggio estremista, che via via tenderà a stemperarsi.

Con la sconfitta della sinistra di governo, si chiude un ciclo.

La Sinistra, in tutte le sue espressioni politiche, culturali e sociali è in crisi. Il neoliberismo, forma della propaganda economico-politica del Capitalismo, è riuscito nell’intento di capovolgere il paradigma della lotta di classe, conquistando un vantaggio competitivo sugli stessi sentimenti dei ceti sociali più numerosi e a basso reddito. Non è successo solo in Italia.

Il problema è che in gioco non c’è la tattica migliore per andare al governo, al Parlamento, o nei consigli regionali o comunali. Né è in gioco cosa fare per conquistare spazi di rappresentanza nelle istituzioni.

L’odierno “Che fare?” riguarda quale risposta dare alla domanda di giustizia sociale. Cioè quale capacità critica del sistema capitalistico sia possibile sviluppare, in teoria e in pratica.

C’è un unico modo concreto per capirlo, teorizzarlo e metterlo in pratica: stare all’opposizione è il laboratorio di una nuova visione. E questo vale per la sinistra tutta.

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democrazia Dibattiti Elezioni politiche Movimenti politici e sociali Politica

Una donna minuta, un impegno maiuscolo.

Luigina Di Liegro è una persona minuta, con un bel sorriso e un paio di occhi penetranti. Tuttavia, è capace di sprigionare un’energia e una vitalità davvero invidiabili.
La incontro nel suo ufficio di Roma, presso la Fondazione Luigi Di Liegro, in via Ostiense. Per accedervi bisogna attraversare il cortile della mitica Centrale Montemartini che fu, agli inizi del Novecento, la prima centrale termoelettrica di Roma e oggi è invece un importante museo in cui statue e mosaici di età romana sono esposte nel suggestivo scenario dell’archeologia industriale di questo strabiliante luogo della Capitale.

Conosco Luigina da molti anni. È nipote di don Luigi, fondatore e animatore della Caritas diocesana di Roma, ammirato e stimato oltre gli ambiti del suo impegno religioso. Luigina, che ha dato origine alla Fondazione intestata a don Luigi, si è più volte impegnata in politica.

“Sono l’unica donna candidata nel mio collegio tra i principali schieramenti”, mi dice subito, con quel delizioso e inconfondibile accento italo-americano, che fece dire una volta a Veltroni, durante un’assemblea pubblica al teatro Valle: “Vi presento una candidata che parla come Stanlio e Ollio”. “Le donne che mi voteranno festeggeranno la giornata della donna il 4 marzo”.

D.: Luigina, la politica di questi tempi fa fatica a mostrare i suoi lati positivi. Volano parole grosse, polemiche spesso perniciose, si esagerano dettagli risibili, si sottovalutano cose semplici, ma importanti: per esempio la vita, il lavoro, la salute dei cittadini. Perché hai deciso di accettare una candidatura alle prossime elezioni politiche?

R.: Non c’è dubbio vi sia una brutta sintassi nel discorso politico odierno. Si fatica a sostenere anche un contradittorio, perché subito il livello si ferma ad affermazioni apodittiche, per non dire smaccatamente propagandistiche. Succede tutti i giorni da qualche anno, ma il livello trascende proprio durante le campagne elettorali. È un’abitudine pericolosa, perché influisce sulla capacità di scelta dei progetti politici su cui i cittadini sono chiamati a esprimersi col voto. Ma non si possono abbandonare le persone in balìa di questi momenti confusi.

D.: È come se tu stessi parlando di disagio.

R.: Diciamo che sono abituata a non tirarmi indietro di fronte alle difficoltà delle persone. Io credo che non sia facile essere un elettore. Da un lato grava su di lui il peso di scelte importanti, che riguardano non solo la sua vita, ma quella dei suoi cari, del suo ambiente, del suo futuro. Abbiamo passato anni molto duri, sotto la peggiore crisi economica, forse ancora più tremenda di quella che precedette la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. La crisi del 2008 ha inciso sulla carne e sulla mente delle persone. Un trauma terribile: assistere al proprio impoverimento, non sapere cosa fare col mutuo, veder infrangersi le aspirazioni per un miglior benessere dei figli, veder vacillare il proprio futuro lavorativo e quindi la stessa dignità del proprio ruolo nella società.

D.: Pensi sia questa la causa scatenante del populismo?

R.: Sai, “populismo” è una definizione corretta, ma rischia di diventare un vocabolo del dizionario del politichese. Più semplicemente, direi che la portata della crisi economica globale ha scatenato reazioni tanto comprensibili quanto micidiali: rabbia, rancore, invidia, vendetta. Questi sentimenti, diffusi presso larghi strati di popolazione, che si è sentita abbandonata a sé stessa, hanno gonfiato le vele di idee orribili come le nostalgie delle dittature del passato, ma anche illusioni non fondate sulla realtà dei fatti concreti.

D.: Per esempio?

R.: Un diffuso sentimento xenofobo e addirittura razzista. Eppoi, il ritorno a un’idea di nazionalismo, oggi marcata dal neologismo “sovranismo”, quella tendenza che si esprime con l’idea di “prima gli italiani”. Il nazionalismo ha provocato la terribile sciagura europea della Prima Guerra Mondiale. Quanto all’idea di una stirpe più importante, quella “italica”, essa è stata alla base della tragedia storica della Seconda Guerra Mondiale, della quale l’Italia fu tra i fautori. La propaganda è pericolosa: inventa truci figure retoriche, dall’Irredentismo al Fascismo bastarono pochi anni. Pensare oggi che si possa andare “a battere i pugni sul tavolo” delle istituzioni internazionali per favorire “gli interessi nazionali” è comico, direi grottesco. Ci vogliono idee, forti e condivise per cambiare le cose. Altro che facili slogan propagandistici.

D.: Sembra stia tornando il leitmotiv “meno tasse”.

R.: Il dissesto dei conti pubblici italiani è noto. C’è un macigno fiscale che pesa sulle spalle di tutti. Siamo il paese dell’illegalità, della corruzione e dell’evasione fiscale. Ma quello che mi preoccupa è che immaginare di pagare di meno non tiene conto dell’impoverimento delle risorse pubbliche per il welfare. Una delle ragioni del disagio, sfociato in vero e proprio malessere privato e collettivo sta nella tenaglia che ha stretto le persone: mentre guadagnavano di meno, aumentavano le spese per i servizi sanitari, i costi per l’istruzione, i biglietti dei trasporti, mentre si sono dilatati i tempi per godere della previdenza sociale. Stiamo parlando dei pilastri dello stato sociale. Pagare meno tasse e pagare di più i costi sociali significa dare con una mano e togliere con l’altra. In realtà, favorirebbe solo i ceti sociali forti. Che sono proprio quelli che hanno pagato meno la crisi e in qualche clamoroso caso se ne sono avvantaggiati. La tassazione progressiva è il metodo democraticamente corretto, bisogna calibrarlo in modo flessibile alla ripresa economica.

D.: Un’altra parola chiave è stata “onestà”.

R.: Fammi dire una cosa chiara: questo è un artificio retorico, piuttosto stucchevole. Mio zio, don Luigi, era una persona onesta, infatti non aveva tempo di andare in giro a dire “io sono onesto”. Come tutte le persone oneste, del resto. E in Italia sono molte più di quanto certa propaganda non voglia farci credere. La corruzione è una conseguenza del modo sbagliato di governare i processi di crescita e di sviluppo. Non il contrario. C’è un modo un poco spaccone di vedere le cose: “adesso vado lì e glielo faccio vedere io”. Non funziona così. È vero che ci sono modi sbagliati di affrontare i problemi. Ma spesso sono proprio le soluzioni che non corrispondono più ai risultati che si speravano.

D.: Stai dicendo che mancano idee?

R.: Sto dicendo che le ricette non guariscono il malato. Sono le cure che combattono la malattia. Fare politica significa prendersi cura delle persone. Sono tempi in cui vecchie e non risolte contraddizioni hanno la capacità di presentarsi sotto nuove e inedite forme. Come certe infezioni non più aggredibili cogli antibiotici. E vecchie formule non sono efficaci. E allora bisogna stare lì e non demordere, stare vicino alle persone, perché la loro voglia di stare meglio sia una delle formidabili forme di autoaiuto per trovare le soluzioni adatte e durature. Senza preconcetti, ma neanche accontentandosi di piccoli segnali di ripresa. Che anzi, vanno valorizzati perché da semplici segnali diventino robusti passi in avanti.

D.: Sei candidata nello schieramento di centrosinistra. Non hai niente da rimproverargli?

R.: L’elenco degli errori e delle contraddizioni è tanto lungo quanto a tutti noto. Non riguarda solo l’Italia. Ho vissuto a lungo negli USA e vedere, per esempio, che dopo Obama è arrivato Trump la dice lunga sulla poca capacità della politica di costruire su solide e durature basi. Tuttavia io non ne è ho mai fatto una mera questione di etichette. Chi dice che destra e sinistra non esistono più sa bene di dire una sciocchezza, infatti spesso è un artificio retorico per giustificare brusche sterzate a destra, cioè nel conservatorismo, nell’ineguaglianza, nella brutalità del ragionamento e delle scelte politiche. La semplificazione può portare a situazioni aberranti, come considerare qualcuno come meno umanamente importante di qualcun altro. Come se non fossimo tutti esseri viventi, e quindi titolari di diritti e di dignità di persone.

D.: Dimmi un errore grave del centrosinistra.

R.: Aver ceduto alla tentazione della personalizzazione della politica.

D.: Però sei candidata in un collegio uninominale, ben quattro formazioni politiche si concentrano sul tuo nome.

R.: Una bella responsabilità. Di cui sento il peso. Soprattutto per le aspettative che il mio nome può aver creato tra chi mi voterà. E poi certo, anche in quelle di chi mi ha offerto la candidatura. Sai che sono l’unica donna candidata tra i tre principali schieramenti nel mio collegio elettorale? Mi sento anche la responsabilità di essere un punto di riferimento per le elettrici.

D.: Secondo te chi potrebbe vincere?

R.: L’astensione potrebbe essere il primo “partito”.

D.: Che fare?

R.: No, guarda io non faccio appelli. Posso solo dire che per me non è il tempo né dell’astensione per rabbia e rancore, né del disimpegno per disillusione e amarezza. Sono tutti sentimenti che comprendo e rispetto. Il fatto è che non possiamo pensare che ci sia qualcun altro che risolva le cose se questi non siamo noi stessi. In prima persona. Tra l’ottimismo e il pessimismo, io da tempo ho scelto il cammino: una passo dietro l’altro verso un obiettivo raggiungibile. E poi, di nuovo in marcia. Lo faccio nella vita. Lo farò alla Camera.

D.: Il tuo slogan elettorale, chiamiamolo così, recita “competenza e sensibilità”. Perché?

R.: In realtà lo dice il mio curriculum. La mia competenza specifica deriva dal mio incarico presso l’Anci, l’associazione dei comuni italiani. Grazie a questa esperienza conosco opportunità e procedure per attingere ai fondi utili al sostegno delle attività utili a Pomezia e a Ciampino. Ma anche come assistere i municipi per il miglioramento della qualità dei servizi nei territori compresi tra i il VI e il IX municipio. La mia sensibilità deriva da gran parte della mia vita, dedicata ai disagi psichiatrici, attività svolta da anni dalla Fondazione Luigi Di Liegro.
Competenza politica e sensibilità sociale sono le caratteristiche salienti della mia storia personale e pubblica. Non è uno slogan è la semplice verità.

Luigina vola via, inseguita dai martellanti impegni che la campagna elettorale impone ai candidati. Mi ha lasciato una sensazione positiva. Ha le idee chiare, ma non le urla, non te le vuole imporre. Certo ha molta energia, la qual cosa si confà con il luogo in cui si è svolta la nostra conversazione, cioè la più antica Centrale termoelettrica di Roma.
Il fatto è che mentre parla con te hai la sensazione che in realtà sia lei a essere in ascolto. Che mi sembra la buona dote di una donna che presta alla politica attitudini che si sono formate nel sociale,

Luigina Di Liegro è candidata alla Camera nel collegio Uninominale Roma 7.
Personalmente faccio ancora parte di quei dieci milioni di elettori che non hanno ancora deciso se e chi votare.
E comunque, non avrei la fortuna di avere Luigina Di Liegro tra i candidati del mio collegio elettorale.
Roma, 15.02.18

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democrazia Dibattiti Guerra&Pace libertà, informazione, pluralismo, Movimenti politici e sociali Politica

Il Presidente, il professore e i giovani.

Tanto scipito è stato il discorso di fine anno, che si cerca ora di dargli un qualche sapore. Così, il professor Guido Crainz si è lanciato oltre le trincee del realismo politico alla disperata difesa del discorso del presidente Mattarella. Egli scrive su Repubblica:
“ (…) nella guerra che terminò un secolo fa, ha ricordato, i diciottenni di allora — i «ragazzi del ’99» — andarono a morire nelle trincee, oggi possono dare al Paese non la loro vita ma il loro voto. Possono «essere protagonisti della vita democratica».

I ragazzi del ’99 non furono protagonisti, ma vittime sacrificali di una politica di rapina territoriale, detta “irredentismo”, mandate letteralmente al macello dalla monarchia sabauda, ma anche da una classe politica vecchia e istupidita dal nazionalismo. Quel bagno di sangue immane non battezzò una nuova e più florida epoca, ma spianò la strada al Fascismo, abbondantemente foraggiato da chi – Casa Savoia in testa – temeva che il dopoguerra favorisse il nascente movimento operaio italiano. Il professore Crainz queste cose le sa bene, tuttavia si è lasciato trasportare da una specie di “storicismo all’acqua di rose”, pur di difendere la debole tesi del Presidente Mattarella.

Infatti, Crainz ne è cosciente, al punto di sostenere che “di nuovo la storia aiuta però a ricordare che l’incertezza e la preoccupazione per il futuro, così presenti oggi, non hanno segnato invece altre fasi storiche, pervase da un’idea positiva di progresso.”
È vero. I giovani che aderirono alla Resistenza furono il motore non solo della Liberazione, ma di un vento nuovo che spazzò via, in un colpo solo, occupanti, fascisti e la monarchia corrotta, dando quella spinta alla democrazia del nostro paese, scrivendo pagine di riscatto e riscossa, la cui sintesi è tutt’ora leggibile negli articoli della nostra Costituzione.
Però, stranamente Crainz si è dimenticato di ricordarcelo.

Tuttavia, ci dice finalmente con chiarezza che le difficoltà reali del paese non hanno impedito “ né hanno segnato i primi decenni della nostra storia repubblicana, quando vi era la convinzione che i figli avrebbero avuto un futuro migliore dei padri: fu questa convinzione a farci superare gli anni durissimi del dopoguerra, e poi le asprezze di una modernizzazione che impose anche costi e sacrifici (soprattutto per i più deboli)”.

Vorrei ricordare ai lettori la sostanza di ciò che qui afferma il professor Crainz. Furono i giovani i protagonisti della battaglia per l’attuazione della riforma agraria nel sud, contro i quali si scatenò la violenza mafiosa. Il presidente Mattarella sa bene cosa sia la mafia, che prima di arrivare a colpire gli uomini delle istituzioni, aveva fatto stragi e assassini tra contadini, dirigenti sindacali, militanti politici.

Furono i giovani a battersi contro le “gabbie” salariali, mettendo le basi per la contrattazione collettiva che diede vita ai contratti di lavoro nazionali.

Furono i giovani a dare vita alle grandi battaglie sindacali nel triangolo industriale del nord ovest; furono i giovani a fare delle proteste studentesche del ‘68 non solo un volano di libertà e uguaglianza a fianco della classe operaia, ma anche una formidabile forza di cambiamento nei costumi, nella cultura, nelle relazioni famigliari e nei rapporti tra i sessi, introducendo l’idea dell’estensione dei diritti civili. Senza il protagonismo politico e sociale dei giovani, oggi non avremmo leggi che tutelano il lavoro, le donne, la malattia, le differenze di genere, ecc.

L’Italia cambiò contro il volere dell’establishment a guida democristiana, ma anche oltre le aspettative e l’immaginario politico e sociale della sinistra parlamentare. E qui i giovani divennero un problema politico, che in Italia spesso ha portato a soluzioni di “ordine pubblico”, modo nel quale fu trattato il movimento del ’77, che poneva il problema del reddito, oltre l’organizzazione del lavoro.

È la questione di oggi, a cui però ieri si rispose con la violenza di Stato, accompagnata dalla “scomunica” della sinistra che sedeva in Parlamento, la quale non solo permise la degenerazione dello scontro, ma tentò di gestirla con la repressione assurta a ragion di Stato.

Tra l’altro ci sono amnesie colpevoli. La generazione dei “ragazzi del 1999” è venuta al mondo in contemporanea con il movimento “no global”, nato a Seattle proprio nel 1999. Ma fatto a pezzi a forza di botte e torture al G8 di Genova nel 2001. Il Presidente queste cose dovrebbe ricordarle, perché proprio in quell’anno fu rieletto in Parlamento nelle liste della Margherita.

Ovviamente, il professor Crainz queste cose le sa bene, avendole non solo studiate e insegnate, ma anche vissute. Ed ecco che stupisce la sua difesa d’ufficio del discorso del presidente Mattarella. Tra l’altro, sia detto con grande amarezza, evocare il ruolo dei giovani a poche ore dall’aver permesso di rimandare ancora il diritto di cittadinanza a 815 mila bambini e ragazzi nati in Italia ha avuto il sapore si una gaffe imperdonabile.

Credo sia sbagliato il parallelo storico con i “ragazzi del ’99”; sia retorica fine a sé stessa chiedere ai ragazzi del 1999 di fare qualcosa per salvare il salvabile.

Siamo noi che dobbiamo fare qualcosa per salvare la loro generazione dallo sfacelo nel quale li abbiamo cacciati, (basti prendere in esame il tasso di disoccupazione giovanile). Uno sfacelo che rischia di essere – come ho già avuto modo di dire in un’altra occasione – una Caporetto democratica che incombe nelle prossime elezioni, disfatta il cui sentore si è avvertito nelle stesse parole del Presidente.

La “chiamata alle armi” dei diciottenni rischia di trasformarsi in un bagno di sangue virtuale, in cui veder naufragare non solo la fiducia nella politica –già da tempo bell’e affogata- quanto la stessa fiducia nella cultura democratica, cui tra differenza, scontri e accesi contrasti abbiamo fin qui comunque contribuito per generazioni.

La retorica del macello.

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Attualità Guerra&Pace Politica Popoli e politiche

La politica e la morte a Manchester.

Manchester ricorda le vittime dell’Arena.
“Noi amiamo la morte come voi amate la vita”, è il truce slogan che accompagna gesti scellerati, come l’ultima orribile strage di ragazzine e ragazzini a Manchester. Un distillato d’odio, disperazione, vendetta contro la vita. Ma non suona nuovo.

L’idea della Morte come purificatrice ha riempito la propaganda nazionalista e interventista – da noi “irredentista” e futurista- accompagnando al macello milioni di europei nella Prima Guerra Mondiale. Alla quale segui dopo appena vent’anni, la Seconda Guerra Mondiale, dove il teschio campeggiava nei berretti delle uniformi delle SS, simbolo premonitore delle stragi, delle pulizie etniche, della Shoah. Per non essere da meno, anche le nostrane Brigate nere avevano il teschio sul basco, per sentirsi così all’altezza degli alleati tedeschi, nel condurre rastrellamenti, partecipare agli eccidi, alle deportazioni, alle torture.

Tutta la retorica guerrafondaia si è sempre basata sul gesto estremo di un uomo solo, che immola la sua vita alla “causa”. Dunque, neppure il gesto suicida di chi si fa saltare in aria per portarsi appresso nella morte più vite possibili è un fatto né nuovo né straordinario.

Per concepire, organizzare e mettere in atto gesti come quelli di cui parliamo bisogna essere emotivamente carichi del più definitivo fanatismo. La strage di Manchester è uguale alle carneficine che sciiti e sunniti si scambiano nei paesi in cui si contendono la leadership. Non sappiamo più come contarle in Iraq, per esempio, dove gli Usa e la Nato, dunque anche noi, siamo andati a destabilizzare un equilibrio che ha poi scatenato l’inferno che Daesh vuole restituirci, in parte riuscendovi.

È inutile far finta: ormai ovunque in Europa viviamo sotto scorta della paura. Città blindate, militari ovunque, controlli continui. Il che dimostra che tutto questo apparato non ha l’efficacia che si vorrebbe avesse. Dunque, sperare che il terrorismo islamico sia un problema di ordine pubblico è illusorio.

Anche sul piano del dialogo interreligioso si sono fatti passi significativi. Ma se non si tiene conto che l’Islam, come per altro il Cristianesimo e lo stesso Ebraismo, sono fedi monoteiste, ma non monolitiche non si capisce come stanno davvero le cose nel mondo arabo. Chiedere ai musulmani di condannare il terrorismo ha più il sapore di una spendibilità verso le opinioni pubbliche spaventate, più che efficacia tra i membri delle comunità islamiche delle nostre città.

Neppure la sociologia ha strumenti efficaci per spiegare perché un ventenne nato e cresciuto a Manchester possa arrivare a odiare al tal punto la città in cui vive e la gente con cui è cresciuto, tanto da rendersi disponibile a fare strage di suoi coetanei. Era successo in Francia e in Belgio. È evidente che il disagio sociale sia un ottimo serbatoio cui attingere quella disperazione utile a formare i kamikaze. Ma da solo non basta a capire perché scatti la molla della strage.

Non ci rimane che la politica, come unico strumento per affrontare la questione del terrorismo. Ma la politica occidentale vive il peggior momento della sua funzione sociale dal Dopoguerra.

Delegittimata dalla crisi finanziaria, poi da quella economica, sul piano interno la politica non ha fronteggiato la crisi sociale, ha invece assecondato le peggiori scelte ideologiche dettate dal neo liberismo, quelle scelte che hanno logorato il patto sociale, disgregato il welfare, indebolito la coesione sociale: oggi la politica non è più credibile agli occhi degli elettori, come potrebbe esserlo di fronte agli immigrati di prima e seconda generazione?

Sul piano estero, la politica degli Usa con l’appoggio della Ue continua a giocare contro ogni ragionevole riequilibrio del Medioriente. Prima la guerra in Afghanistan, poi in Iraq, poi l’illusione delle “primavere arabe”, poi la dissoluzione della Libia. Una serie drammatica di errori che ha portato distruzione, vittime, ed esodi in massa.
La “guerra al terrorismo” è diventata una guerra terrorista da ambo i lati. Da un lato la ferocia del Califfato, dall’altro bombardamenti indiscriminati, in mezzo il doppiogiochismo dei nuovi satrapi, che hanno preso il posto dei precedenti Saddam, o Gheddafi o Mubarak.
D’altronde, come si fa a parlare di pace e pacifica convivenza quando il nuovo inquilino della Casa Bianca ha portato in Arabia Saudita 110 miliardi di dollari in armi?

L’ultimo scellerato atto compiuto da Trump è stato il tentativo di compattare i sunniti contro gli sciiti dell’Iran. Ma il Califfato è sunnita e ci sono truppe iraniane sul campo che stanno combattendo contro Daesh, ottenendo significativi successi. Dunque, da una lato si combatte Daesh, dall’altro in qualche modo lo si blandisce. Siamo alla solita strategia imperiale Usa in Medioriente. Quanto alla Ue, l’unica preoccupazione è che non partano quei dannati barconi – che invece sono barconi dei dannati – che tanto turbano le opinioni pubbliche europee. A Bruxelles non ci sono altre strategie, se non ognuno per sé a fare affari col petrolio o col cemento.

C’è proprio tutto quello che serve perché il fuoco dell’odio rimanga acceso più a lungo possibile e continui ad ardere odio, vendetta, disperazione e morte nelle nostre città.

Il mondo gronda d’ingiustizie, disuguaglianze, inciviltà. Che muoiano sotto le bombe di un drone, che affoghino nel Mar Mediterraneo, che vengano trucidati da un kamikaze nel primo concerto della loro vita, muoiono i nostri bambini.

Manchester è un altro capitolo della storia di un mondo di adulti che non sanno più neanche difendere i propri figli, perché hanno perso voglia, speranza, coraggio di cambiarlo. Beh, buona giornata.

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Elezioni comunali: il voto utile, il voto vano o il voto “meno peggio, tanto meglio”?

Le elezioni comunali che si terranno domenica 5 giugno sono un nuovo passo avanti nella degenerazione modernista della democrazia rappresentativa.

Dopo il “voto utile”, categoria utilitaristica della partecipazione democratica, che tante soddisfazioni ha regalato a liste dimostratesi poi combriccole di arruffoni, stiamo per assistere al varo di una nuova categoria politica: il “voto vano”.

Se Montanelli consigliò di votare turandosi il naso, il “voto vano” si esercita semplicemente tappandosi gli occhi.

Infatti, il “voto vano” è un atto ideologico che non organizza né teorie né idee, solo auspici, al massimo indici di gradimento sulle persone.

Il “voto vano” sarà, per esempio quello che verrà espresso da chi pensa all’ideologia della riunificazione della destra, colla leadership di Berlusconi; o di Salvini (la destra ex fascista sta alla “frutta”, infatti candida Meloni a Roma); il “voto vano” sarà anche alla base dell’ideologia dell’onestà in politica (l’onesta è come la salute, quando c’è, c’è tutto!); il “voto vano” sarà pure conferito a chi professa l’ideologia di una sinistra a sinistra della sinistra del Pd.

E all’amministrazione dei servizi che la città dovrebbe somministrare ai cittadini? Chi ci pensa? Quale nuovo modello, progetto o prospettiva connota e differenzia candidati e schieramenti? Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.

Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.
Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.

Ecco il punto. L’unica possibilità di garantire un minimo dignitoso nella gestione dei servizi ai cittadini e quindi di proteggere e magari accrescere il tenore e la qualità della vita nelle città italiane è “rinegoziare” col governo il debito che gli enti locali hanno accumulato negli anni, dopo i continui tagli lineari che gli inquilini di Palazzo Chigi hanno inferto ai trasferimenti di risorse economiche dallo Stato ai Comuni.

Da anni, nei comuni italiani, la Capitale in testa, si è sedimentato il più bizzarro schema di marketing del mondo: al cittadino è stato imposto di pagare di più per avere sempre meno e male.

Ora, la domanda è: chi è in grado di poter ottenere più facilmente dal governo un allentamento dell’austerity imposta al proprio comune?

Badate: ho detto allentamento, mica ripristino dei finanziamenti statali ai Comuni. Va precisato, perché i candidati non lo fanno, le loro sono spesso ricette elettoralistiche, che servono forse come lo zucchero che addolcisce l’amara pillola, sono mica vere medicine per curare seriamente i bilanci malati.

Non è difficile capire quali e candidati e schieramenti abbiano, in teoria, questo “vantaggio competitivo”.

Al “voto vano” si contrappone, allora, l’opportunismo politico, il pragmatico senso del “meno peggio, tanto meglio” che è la forma di adesione ideologica offerta dai candidati espressi o sostenuto dal Pd, per il semplice motivo che è il partito di governo.

Tuttavia, le elezioni comunali di domenica 5 giugno non cambieranno né il quadro politico né fermeranno lo smantellamento, pezzo a pezzo della spesa pubblica a favore dei servizi ai cittadini, a favore della qualità delle città. Uomini e donne che in queste ore stanno promettendo, se eletti, di cambiare tutto, in realtà stanno trattano gli elettori come bambini.

Chiunque vinca, soprattutto a Roma, l’idea di privatizzare e portare a valore economico i servizi di cui i cittadini avrebbero pieno diritto continuerà ad avvilire, umiliare e depotenziare il concetto di uguaglianza, per continuare ad arricchire i ricchi e impoverire i poveri, come ci ha insegnato la lunga crisi economica.

Forse, non bisognerebbe cambiare candidato, ma cambiare politica. Ma per ottenere un vero cambiamento più che il voto può la lotta. La lotta “contro” ha fatto sempre venire buone idee “per”.

Le donne e gli uomini appartenenti alla classe lavoratrice e ai ceti medi impoveriti dalla crisi e dallo sbriciolamento sistematico dello stato sociale sono quelli su cui è gravato il peso economico e sociale delle bancarotte comunali, sono quelli che hanno visto tagliare servizi e aumentare tariffe, che hanno visto peggiorare le condizioni di vita nelle città in cui lavorano; che si spostano faticosamente nel traffico urbano, che mandano a scuola i figli, mettendogli nella cartella la carta igienica o che portano dal medico gli anziani facendo i conti coi ticket; che vanno a fare la spesa stando attenti ad arrivare alla fine del prossimo mese, loro che sono la maggioranza degli elettori dovrebbero smetterla di dare ancora credito al “voto vano” o al “meno peggio, tanto meglio”. Si sta dimostrando dannoso, peggio di quello che fu “il voto utile”. Beh, buona giornata.

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Se in Italia la politica si riduce al derby tra due Matteo.

A Gevova, dal palco di RepIdee, il road show di Repubblica,  Renzi ha detto che il suo competitor è Salvini, non Landini. Sì, certo,  il gusto tutto renziano della battutina da primo della classe ha spesso il sopravvento nei suoi ragionamenti. 

Tuttavia, senza fare processi alle intenzioni, si può ragionevolmente sostenere che Salvini fa comodo al governo in carica perché rappresenta un’opposizione totalmente allo sbando, che raccatta il peggior ciarpame ideologico di una destra fascista, violenta e senza prospettive, fatta solo di odio razzista e nostalgie di seconda mano, che appare come la cifra dello sfaldamento e la decomposizione organica di quello che fu Berlusconi e il berlusconismo. 

La manipolazione del manipolatore, o “l’uso parziale alternativo” delle felpe di Salvini sembrerebbe una strategia utile al disorientamento delle forze sociali nel perimetro dei consensi del centrodestra. Tenere in pista Salvini serve al Pd per dimostrare di essere una formazione capace di governare con equilibrio riformatore; ma serve anche al centrodestra, perché dimostra la necessità di essere moderati, unitari, compassionevoli. 

Insomma, Salvini sa bene di essere un pupazzo che prima o poi verrà bruciato. E quindi pesta sul pedale dell’acceleratore, e facendo a meno di freni inibitori, va dritto per una strada senza uscita, un sentiero sterrato dalle sue ruspe immaginarie.

In verità, non è questo che mi preoccupa: se mi permettete, mi fa semplicemente schifo. Nel senso che mi provoca un vero e proprio disgusto per le forme infime in cui si manifesta il cinismo della politica in Italia. 

Infatti, Salvini non crede a una parola di quello che dice, recita la parte che la commedia gli ha assegnato; Renzi gli fa da puparo, mentre Berlusconi passa col cappello a chiedere gli ultimi spiccioli di consenso verso un nuovo partito di centrodestra, magari “repubblicano”, da contrapporre a quello “democratico”. 

Ma in tutto questo, il veleno delle idee sbagliate, l’inquinamento delle coscienze, le narrazioni tossiche vengono scaricate in quantità industriali sull’opinione pubblica, facendo danni paragonabili alle fughe radioattive: i media, come centrali nucleari danneggiate, stanno spargendo particelle pericolose per l’ambiente della convivenza civile nel nostro Paese. Si respira un’aria mefitica perché è utile, oserei dire “organico” alla strategia sia del centrosinistra che del centrodestra, o comunque dei suoi pezzi e ruderi.

Alla ultime elezioni, la Lega ha guadagnato più o meno 250 mila voti. Per qualcuno sono inutili, perché hanno spostato niente. Per altri sono “danni collaterali” di un strategia politica precisa. Ma quegli elettori sono cittadini che sono stati ingannati con la complicità delle nostre tv. 

Complimenti per la trasmissione a Floris, Giannini, Vespa, Formigli, Gruber, Giletti, Paragone, Del Debbio, eccetera, eccetera.

Questo connubio cinico tra strategie politiche e marketing televisivo è raccapricciante, quanto lo sono le felpe, gli sfondoni, le farneticazioni, i saluti romani e l’intera paccottiglia propagandistica di Salvini.

Come credete sia cominciati i pogrom contro gli ebrei, i gitani, gli omosessuali? Cominciarono per vile compiacenza, si imposero per bieca convenienza, continuarono per complice connivenza, si consumarono tra la generale indifferenza. 

Fermiamoli finché siamo in tempo. Beh, buona giornata. 
   

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Il bello che c’è nelle cose sbagliate, il brutto che si trova nelle cose giuste.

Cominciamo dal brutto. Una manifestazione per il Primo Maggio a Milano viene affumicata dai black bloc e oscurata dai media. “I black bloc si nascondono nella pancia dei cortei” dicono gli esperti dell’ordine pubblico. E allora: se la testa e il corpo dei militanti di un corteo non si occupano della pancia, c’è qualcosa che non va nel modo di andare in piazza. Bisognerebbe che se occupassero finalmente gli organizzatori di quelle manifestazioni. La questione della gestione dell’agibilità politica in piazza è una questione non più rimandabile.

Continuiamo col brutto. Un nutrito gruppo di giovani si organizza per scatenare gli scontri con le forse dell’ordine. Sono furiosi, odiano, spaccano tutto. Se la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato dei giovani in Italia ha raggiunto livelli mai visti, forse bisognerebbe occuparsene. Se c’è chi si sente legittimato a rappresentare la rabbia giovanile, più che degli arrabbiati, bisognerebbe occuparsi dei motivi che scatenano la violenza. Certo, dire, come a detto il capo del governo che “sono quattro figli di papà” non aiuta, semmai aizza. Senza contare che il capo di un governo democratico dovrebbe occuparsi di tutti i cittadini, anche di quelli che fanno solo casino, anche di quelli che lo contestano. Per fermare la violenza politica di piazza del ’77, l’allora governo Andreotti non usò solo la polizia, ma chiese un prestito internazionale col quale finanziò la famosa legge 285/77 per l’occupazione giovanile, che favorì un reddito e di conseguenza fermò le manifestazioni violente. L’attuale governo Renzi dovrebbe essere meno burbanzoso. E, per continuare col brutto, quello che è successo a Bologna, dove la polizia ha respinto manifestanti che volevano entrare alla Festa de l’Unità per contestare il capo del governo non s’era mai visto. Un partito di sinistra che sa parlare solo con gli industriali e non sa dare risposte ai precari della scuola non è né un partito di governo, né è di sinistra.

E adesso veniamo al bello. Il bello è stato la partecipazione di migliaia di cittadini milanesi che volevano rimettere a posto le cose sfasciate dagli scontri del Primo Maggio. L’orgoglio di sentirsi una comunità solidale è un sentimento puro. Purtroppo la causa è sbagliata: le città non sono vetrine, né Milano si può trasformare in un “temporary store”. Milano è molto di più della città che ospita Expo. Expo non è la soluzione della crisi, né rappresenta un prospettiva per il prossimo futuro. È un evento commerciale, fra sei mesi finirà quello che ancora non è stato neppure finito in tempo. Si dice Expo sia un’opportunità. Se lo sarà, lo sarà per le grandi corporazioni, per le multinazionali, per il mercato. Non per i cittadini di Milano, o comunque non per tutti. Bisognerà, allora raccogliere e coltivare questo sentimento di comunanza e di cura della città, e indirizzarlo verso l’innalzamento della qualità della vita e la gestione positiva della differenza sociali che convivono nella metropoli lombarda. Il sindaco Pisapia ha avuto una felice intuizione a indire l’assemblea pubblica a piazza Cadorna. La domanda è: quei cittadini che hanno partecipato a “nessuno tocchi Milano” sapranno darsi strumenti autonomi di protagonismo politico o arriveranno di nuovo i partiti a spartirsi il consenso per le prossime scadenza elettorali?

Ancora sul bello nelle cose sbagliate. È bello che si protesti con veemenza contro l’arroganza della maggioranza parlamentare che vorrebbe imporre la nuova legge elettorale. Ma è brutto il modo in cui forze politiche di opposte posizioni politiche, per non dire di contrapposte sensibilità democratiche hanno voluto praticare l’opposizione parlamentare. Neanche nei reality show televisivi la pantomima delle contestazione sarebbe riuscita a rappresentarsi tanto finta e strumentale al gioco delle parti. Se le giuste preoccupazione della coerenza democratica tra la Costituzione e le leggi che regolano la partecipazione dei cittadini della Repubblica alle elezioni vengono rappresentate con queste modalità, è chiaro che non c’è da fidarsi della buona fede dell’opposizione.

Poi c’è il brutto che si ritrova a suo agio nello sbagliato. La politica sull’immigrazione del governo è sbagliata, perché tende non a trovare una soluzione equa, quanto piuttosto a camuffare il problema di fronte all’opinione pubblica, inorridita dai naufragi e preoccupata dall’accoglienza. C’anche il più brutto nel peggior modo di sbagliare. Quando per mera propaganda, certe froze politiche vorrebbero respingimenti e affondamenti, mentre sventolano lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, succedono cose brutte nel modo peggiore: la Lega ha partecipato a tutti quei governi che durante i G8 e G20 promettevano aiuti ai paesi africani, senza mai poi versare un euro. Se i nodi non vengono al pettine, è il pettine che si incarica di sciogliere con durezza i nodi: è vero che l’Italia è molto esposta all’immigrazione di masse di disperati, ma è altrettanto vero che la nostra politica ha commesso errori drammatici nei confronti di quei paesi che oggi “esportano” fame e miseria in Europa, passando per le nostre coste.

Infine, il bello delle cose giuste. Un ragazzo disabile non è potuto salire sul pullman della gita scolastica e tutti i suoi compagni di scuola non sono voluti partire e quella gita che non si poteva fare per uno, nessuno ha voluta farla. Questa si chiama solidarietà. Non quella di un euro via sms, perché quella è elemosina. La solidarietà è quel sentimento collettiva di rinuncia a un privilegio per pochi perché possa essere condiviso da tutti. Anche se i tutti sono uno solo, quel ragazzo in carrozzella.

Manifestazione "Nessuno tocchi Milano", piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Manifestazione “Nessuno tocchi Milano”, piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Dovremmo ricordarcelo più spesso. Beh, buona giornata.

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Politica

Cos

di Riccardo Tavani

Una volta c’erano le Banana Republic, ovvero quelle degli statarelli dittatoriali caraibici, messe su e buttate giù dagli yankee americani, a secondo del rapido mutare delle loro convenienze, attraverso la sostituzione di un carnevalesco caudillo con un altro ancora più pagliaccesco (cosa che non evitava però tragiche carneficine). Oggi siamo alle Bubù, Fofò, Dudù Republic. E neanche più ai famigerati Stati Canaglia ma alle Nazioni Canile. L’Italia ha orgogliosamente impresso una accelerazione decisiva a questa cruciale corsa canina o Dog Racing planetaria.

Dudù, infatti, riesce a fare molto di più che soltanto a correre. Riesce niente di meno che a selezionare la classe dirigente. Il Corriere della Sera del 3 Agosto scorso ha svelato che quando arriva Daniele Capezzone, Francesca Pascale deve prendere in braccio il suo barboncino che si mette ad abbaiare e a ringhiare contro di lui (che pure è portavoce del partito) e vorrebbe morderlo (ma magari solo inculargli la gamba o pisciargli sul risvolto dei pantaloni). Viene da chiedersi solo chi ha preso poi in braccio la Pascale quando in questi giorni stava per azzannare la Santankè, Bondi e Verdini, facendoli scappare giù per l’ampio scalone della anche sua residenza romana (come ci ha tenuto a precisare).

D’altronde era su questo stesso nostro sacro antico suolo che la Storia aveva visto nominare Senatore un cavallo. Il nostro è diventato invece un Can Can Senato.
Solennemente convocata per accordare o rigettare la fiducia al Governo, la seduta, cioè l’accucciata è iniziata tra un feroce abbaiare e ringhiare, con catene tese fino alla deformazione degli anelli, i denti canini pronti ad azzannare alle giugulari.

Il Dobermann Bondi di Fivizzano ha latrato un discorso da ex accalappiacani, ora vendicatore di tutte le cacche-guano disseminate nel cortile, sui cornicioni e sui tappeti di Palazzo Grazioli dalle Can Colombine. Non solo ha ululato l’assolutamente irrevocabile voto di sfiducia del suo P-detto della Libertà, ma ha anche berciato un “Vergogna!!!”, che era come uno staccare a morsi lo scranno su cui era seduto e sputarlo con tutta la sua schiuma di bava idrofoba contro l’assemblea.

E che dire del Canis Pugnax Brunetta? Capo branco gruppo parlamentare alla Camera, ha ufficialmente dichiarato, abbaiando stizzosamente davanti a tutte le televisioni e organi ti stampa nazionali e internazionali, il voto di sfiducia decretato all’ululatumanità in nome di tutto il gran Pdl-gree.
Un quarto d’ora dopo Dudù ha preso Cansilvio d’Arcore al guinzaglio, gli ha messo la museruola, lo ha menato in Senato e si è esibito con lui nel più esilarante numero del ventriloquo mai visto prima in diretta tivù. La gran canea di ringhi, latrati, ululati, catene tese con gli anelli che si stavano spezzando, si è improvvisamente trasformata nel soave guaiolare di un fido cagnetto da salotto, ben educato, lavato, batuffolato e incipriato, quale Dudù è (a parte il pelo dritto per Capezzone).

Ai secchi morsettini-comandi di Dudù, Cansivlio, con la coda tra le zampine posteriori e le orecchie abbassate, si è poi esibito in una piroLetta senza precedenti, che ha lasciato tutti di… cacca canina… disseminata sui marciapiedi della Repubblica Italiana.

Dudù, il cane-immagine di Berlusconi.
Dudù, il cane-immagine di Berlusconi.

Non importa, è solo un insignificante dettaglio della cronaca, perché in quel preciso istante la Dudù Republic faceva il suo batuffoloso, bubùffonesco ingresso nella Storia, proprio qui a Roma, dagli ori, gli arazzi e gli stucchi senatoriali di Corso Rinascimento… La Storia, invece, si gratta il pelo per la nuova, insolita nube di fetide zecche che gli si attaccava addosso. (Beh, buona giornata).

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Silvio, Nightmare e l’ipotesi Montecristo.

di Giulio Gargia -www.3dnews.it

Avete visto la serie horror Nightmare, quella con Freddy Kruger che ogni volta viene distrutto e ogni volta rinasce dal sogno delle sue vittime ? La stessa cosa potrebbe accadere ora a B. dopo la condanna.

Siccome in questi anni siamo stati abituati a considerarlo ogni volta finito e poi ogni volta siamo stati smentiti, allora meglio fare l’ipotesi peggiore, così, un po’ anche a titolo di scaramanzia.

Cosa può fare l’ex Cav ormai pregiudicato ? ( ex perché viene automaticamente revocato il titolo onorifico a un condannato in via definitiva ). Il primo scenario è quello già descritto da Moretti nel film “ Il Caimano “. Proteste di piazza, atteggiamento eversivo, incitamento alla protesta.

Il secondo scenario è quello che possiamo definire come “ ipotesi Montecristo ” , cioè l’epopea di un innocente ingiustamente perseguitato. Perciò, Silvio subisce una sentenza che definisce ingiusta e fa il martire. Investe la figlia Marina della sua missione politica e lui si fa assegnare ai servizi sociali.

Ecco, se B. ora andasse ai servizi sociali l’incubo potrebbe ricominciare. Immaginatelo che offre da mangiare ai vecchietti della Caritas con venti telecamere attorno. Da quella posizione ogni giorno quello che dice avrebbe un effetto emotivo moltiplicato, e dopo qualche tempo di questa situazione con il governo in attività ( che lui, responsabilmente, avrebbe contribuito a tenere in piedi ) lo redimerebbe di ogni eventuale peccato agli occhi dell’opinione pubblica.

Intanto, riforma della giustizia e poi amnistia, come evoca il comunicato di Napolitano. E così la sua uscita di scena fisica sarebbe la sua vittoria politica e consacrerebbe il ritorno di Forza Italia sull’onda di un voto popolare.

Insomma, il nuovo capitolo dell’epopea del vecchio Freddy Kruger potrebbe così vedere l’arrivo di un nuovo personaggio: la “ periplaneta americana ”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Politica Potere Società e costume

Il vecchio che andava con le minorenni e la buttava in politica.

di Riccardo Tavani

Il Tribunale di Milano non aveva ancora finito di leggere la sentenza contro Silvio Berlusconi sul caso Ruby Karima che già un lupanare mediatico era pronto a spalancare le porte sulle proprie oscenità. È stato tutto non mandato ma “rovesciato” a puttane. “SIAMO TUTTI PUTTANE” ha intitolato la sua manifestazione a Roma Giuliano Ferrara, ribaltando completamente forma e sostanza della sentenza. Questa si divide, infatti, in due parti e nessuna delle due mette in discussione la libertà del Cavaliere di andare o meno a puttane.

La prima parte della sentenza, quella decisamente meno rilevante, assommante a un solo anno di condanna riguarda non la prostituzione in genere, ma quella minorile. Giuliano Ferrara, Daniela Santanchè, Marina Ripa di Merana hanno tutta la libertà di proclamarsi pubblicamente puttane, ma riguardo la specifica connotazione di “minorenni” sono totalmente fuori bersaglio. La protesta di Piazza Farnese avrebbe dovuto intitolarsi “SIAMO TUTTE PUTTANE MINORENNI” e mettere in piazza non tanta nobile stagionatura quanto la sua progenie, ovvero figli, figlie, nipoti e nipotine.

Il tema delle puttane, però, è solo un plateale rovesciamento cabriato con doppio avvitamento di ciò che realmente è accaduto. Berlusconi è stato soprattutto condannato a 6 anni per “concussione con costrizione”, operata con la sua famosa telefonata diretta alla Questura di Milano la notte che Ruby fu arrestata per furto e fatta scarcerare in quanto “nipotina di Mubarak”. “Concussione con costrizione” è la formulazione prevista dalla nuova legge che prende in considerazione anche il ruolo svolto dalla persona concussa, la quale potrebbe essere attivamente consenziente o collaborante all’atto di concussione. Nel caso del tentativo del Cavaliere di indurre a un comportamento illegale il personale di Polizia presente in quel momento in ufficio, per i giudici di Milano, si è trattato di “costrizione”. Rovesciare questa seconda e più rilevante parte del giudizio, e dunque l’intero suo impianto, a puttane è davvero un bel salto più che mortale mortifero per chi lo azzarda.

C’è da considerare, semmai, che cosa significhi per un uomo di potere chiamare direttamente al telefono un ufficio periferico dell’articolazione istituzionale per impartire un ordine che contravviene alla legalità formale del potere. L’alto grado di un potere è solitamente connotato dal suo muovere in maniera indiretta e occulta le leve a sua disposizione per ottenere qualcosa o far andare le cose in un certo modo. Berlusconi, con la sua stessa discesa politica in campo, smentisce questa consolidata regola storica. Non si limita a costituire e finanziare lobbies a suo vantaggio, vuole agire direttamente. La prassi del potere aziendale la trasferisce direttamente nella sfera politica. È un potere che vuole essere immediato, agire direttamente sul tempo presente, sulla vita.

Qual è, però, il vero potere sulla vita se non proprio quello sessuale, erotico? La sfera più intima, molecolare, atomica del potere è proprio quella erotica. Una persona di potere è inevitabilmente, necessariamente attratta dalla corrusca zona erotica. Come può una famiglia di potere planetario quale i Kennedy non volere per sé quella che è ritenuta nel suo tempo la donna più desiderabile del pianeta, Marilyn Monroe? L’esercizio di qualsiasi tipo di potere è inscindibile dall’ambito e dall’ambizione erotica. Nel suo romanzo “Santa Evita”, sulla vicenda biografica e di potere tra il caudillo argentino Juan Perón e sua moglie Eva Duarte, lo scrittore Tomás Eloy Martínez spiega bene questo connubio di bio-politica, affermando che la prima vera cellula del potere nasce proprio nell’intimità nascosta di un’alcova.

Lo scadimento, però, dalla maggiorata Marilyn alla minorenne Ruby è stridente, fa accapponare la pelle. Nell’era non più del governo ma della “governance”, che è nozione tipicamente aziendale; non più della democrazia e della politica, ma della finanza e della tecnoscienza, il bio-potere tende a controllare e conformare anche gli aspetti più riservati e persino triviali della sfera individuale. Così esso stesso si fa triviale, postribolare, rovescia il simbolo della bellezza come cultura a meretricio diretto della suburra. Una chiamata personale in Questura una notte di maggio: per il Cavaliere c’è più orgasmo che nella dazione diretta di danaro al senatore Sergio Di Gregorio o in una notte elegante con Patrizia Daddario. Il rovescio delle sentenze nelle puttane è anche il più classico rovescio da contrappasso. (Beh, buona giornata).

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Ambiente Finanza - Economia Lavoro Politica Salute e benessere

Il decreto Ilva non va contro la Costituzione.

Tutti i cittadini hanno il diritto al lavoro e la Repubblica ha il compito di rendere effettivo questo diritto costituzionale

di Cesare Salvi da avvenirelavoratori.eu

Il decreto Ilva è stato contestato sul piano della legittimità costituzionale da esponenti di Confindustria e del centrodestra (Brunetta, Sacconi). La tesi avanzata è che il decreto violerebbe le garanzie costituzionali della proprietà e della libertà di iniziativa economica. Si prospetta di sollevare la questione in sede di esame parlamentare. La vicenda è emblematica, al di là del merito del decreto. Si fronteggiano infatti due concezioni dei principi fondamentali della nostra Costituzione economica.

Fino a non molto tempo fa, questa controversia sarebbe stata impensabile. La Costituzione, infatti, prevede espressamente che la libera iniziativa economica privata non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art.41); nonché il principio della funzione sociale della proprietà privata, che attribuisce alla legge il compito di determinarne i “modi di godimento e i limiti” (art.42). Ma l’attacco contro questi principi è in corso da tempo.

Del resto, il centro destra ha presentato nella passata legislatura disegni di legge costituzionali per eliminarli e le corti di giustizia europee ripropongono il primato della libertà economica e dei diritti proprietari. E le idee liberiste rischiano di diventare senso comune.

Basti pensare che la questione Ilva è stata fin qui presentata come un conflitto tra tutela del lavoro e tutela della salute e dell’ambiente; laddove il vero conflitto è fra la libertà economica, da un lato, e dall’altro, appunto, i diritti dei lavoratori e dei cittadini. E questo conflitto è previsto e risolto in via di principio, a favore dei secondi, dalle norme costituzionali prima ricordate.

Tali norme si collegano ai principi fondamentali contenuti all’inizio della Costituzione: l’eguaglianza sostanziale, il diritto al lavoro, la tutela della salute come diritto del cittadino e interesse collettivo.

Sono questi principi, di straordinaria attualità nell’Italia e nel mondo di oggi, che inducono molti a dire la tanto criticata frase per la quale “la Costituzione italiana è la più bella del mondo”. Ma sarebbe sbagliato chiudersi in una sorta di concorso di bellezza nella nostra Carta fondamentale.

Anche la costituzione di Weimar era molto bella e ha fatto la fine che ha fatto. Il problema è se quei principi vengono presi sul serio, se ci crediamo ancora. Non solo l’Ilva: Indesit, Terni, gli oltre 500.000 licenziati nell’industria (anche se si preferisce dire “esuberi”), quello che è emerso nel processo Eternit: tutto ciò ci dice che quelle norme costituzionali è come se non esistessero.

Si discuta dunque degli aggiornamenti ritenuti necessari per la seconda parte della Costituzione; ma intanto si operi per l’attuazione della prima parte. A cominciare dalle norme che riconoscono a tutti i cittadini il diritto al lavoro e attribuiscono alla Repubblica il compito di promuovere le condizioni che rendano effettivo, e al lavoratore il diritto a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. Libertà, dignità, diritto al lavoro.

Se non si riparte da questi principi, è difficile pensare a un futuro migliore per l’Italia. (Beh, buona giornata).

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Attualità Cinema Politica Società e costume

La ministra, la santa e la leghista.

di Riccardo Tavani

Dolly Velandro, la leghista che ha elevato una così commossa invocazione al cielo, affinché mandi in terra un angelo giustiziere, nelle sembianze di uno stupratore della ministra Cécile Kyenge, ha immediatamente precisato di non essere una persona “cattiva”. No, e come si potrebbe soltanto sospettarlo?! Anzi, al cielo invocato lei indubbiamente salirà come una santa! Una santa figlia che, considerata la fede-idea fissa della sua anima e missione, non potrà che somigliare a Santa Maria Goretti, la martire della palude pontina, concupita e uccisa non da un bruto bracciante foresto, ma dal figlio del più intimo amico di famiglia.

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Attualità democrazia Dibattiti Movimenti politici e sociali Politica Potere

Generazioni contro

Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Un Grillo nella testa dei giovani

Marco Albertini, Roberto Impicciatore e Dario Tuorto-lavoce.info

Una prima analisi dei risultati elettorali sembra mettere in luce un voto generazionale. Alla Camera, quasi la metà dei giovani hanno votato il Movimento 5 stelle. Sarebbe il più rilevante spostamento di voto della storia elettorale italiana.

UN VOTO GENERAZIONALE

Nei primi commenti al risultato delle elezioni molti opinionisti hanno suggerito che l’affermazione del Movimento 5 Stelle (M5S) ha fatto finalmente emergere il tema della frattura tra le generazioni – sia nel modo di fare politica, sia nella visione di cosa debba fare e di chi debba proteggere lo stato sociale. Lo stesso Grillo, il 27 febbraio, attraverso twitter e il suo blog, ha suggerito tale interpretazione: “Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per molto”; “Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c’è l’età” (post del “6 Febbraio). E anche la composizione per età degli eletti del M5S sembra confermare questa interpretazione: 33 e 46 anni l’età media per Camera e Senato.
Se così fosse queste elezioni avrebbero dato una risposta a uno dei puzzle di più difficile soluzione per gli studiosi di relazioni intergenerazionali: l’assenza di conflitto generazionale pur in presenza di forti squilibri di welfare tra giovani e anziani.
La natura del rompicapo può essere sintetizzata come segue. Negli ultimi decenni v’è stato in Italia (e, in misura minore, anche in altri paesi Europei) un forte inasprimento delle disparità tra le condizioni socio-economiche della popolazione giovane e quelle dei non-giovani:

1) una flessibilizzazione del mercato del lavoro avvenuta “al margine”, ovvero scaricandola completamente sui nuovi entrati nel mercato senza nemmeno sfiorare chi nel mercato del lavoro c’era già (gli insider, i protetti)
2) un sistema di welfare in cui la spesa sociale per la popolazione anziana è pari a 12 volte a quanto speso per i giovani (la media nella EU15 è di 3 volte)(1);
3) la rottura del patto generazionale alla base del sistema pensionistico con il passaggio da sistema retributivo a quello contributivo.

Nonostante tutto questo, però, numerosi dati sembravano indicare l’assenza – o irrilevanza – di conflitto generazionale.

a) le indagini mostravano che i giovani, al pari dei loro genitori, erano a favore del mantenimento degli attuali assetti di welfare (pensioni incluse);
b) erano assenti movimenti di protesta giovanile chiaramente connotati a livello anagrafico e che coinvolgessero quote rilevanti di popolazione;
c) la distribuzione del voto giovanile era relativamente omogenea rispetto a quella del voto dei genitori (2).

Non sorprende, quindi, che molti studiosi suggerivano che quello del conflitto generazionale fosse solo un mito delle società contemporanee (3). L’unica risposta plausibile al rompicapo sembrava essere che le differenze tra classi sociali (attorno a cui si è fin qui organizzata buona parte della rappresentanza politica) e l’influenza delle subculture politiche superavano di molto le diseguaglianze tra generazioni.

QUALCOSA È CAMBIATO

Le recenti elezioni sono un segnale che il panorama è mutato? è vero che è emerso un chiaro comportamento di generational voting?
In attesa dei dati di future indagini campionarie sul tema, tentiamo di dare una prima risposta al quesito utilizzando l’informazione relativa alla differenza nella quota di voti ai vari partiti alla Camera e al Senato. Attribuire tale differenza al voto giovanile, in particolare ai giovani nella fascia 18-24 anni (presenti alla Camera, assenti al Senato) necessita di due assunti forti. Primo, assumiamo che l’astensione sia sostanzialmente simile per giovani e non. Secondo, dobbiamo assumere che tra gli ultra 24enni il voto disgiunto risulti trascurabile, cioè che tutti, o quasi, abbiano votato al Senato lo stesso partito scelto alla Camera. Il primo assunto è sostenuto dal fatto che il tasso di partecipazione non presenta differenze tra Camera (75,19 per cento) e Senato (75,11 per cento ) (dati Ministero dell’Interno). Per quanto riguarda il secondo va detto, innanzitutto, che in assenza di dati completi sui flussi e da indagini campionarie post-elettorali è molto difficile depurare l’effetto del voto giovanile dalla pratica del voto disgiunto nello spiegare la differenza di voti al M5S tra Camera e Senato. Non possiamo escludere a priori che un gruppo consistente di individui abbia votato M5S alla Camera e un altro partito al Senato. Elettori mossi da calcolo razionale (votare diversamente al Senato nelle regioni più contendibili) o anche elettori “critici” – in particolare del Pd – che lanciano un segnale di protesta rivolto al partito o all’area politica in cui si identificano. Nel primo caso dovremmo attenderci uno scarto maggiore tra Camera e Senato nelle regioni in cui alla vigilia si pensava che ci sarebbe stato un risultato incerto (particolarmente in Lombardia), nel secondo che lo scarto sia maggiore nelle regioni “rosse”. Tuttavia, come mostrano le analisi seguenti, la stima del voto per il M5S tra gli under 24 rimane di molto sopra la media in tutte le regioni e non solo in quelle cosiddette contendibili (dove poteva agire una scelta razionale di voto difforme) o in quelle “sicure” della protesta da sinistra (le regioni della “zona rossa”): un possibile indizio del fatto che il voto disgiunto abbia giocato un ruolo marginale nel determinare il differenziale Camera-Senato nei voti per il M5S.

LA DIFFERENZA TRA CAMERA E SENATO

Al netto di questi caveat passiamo alle nostre stime. In tabella 1 abbiamo riportato i voti ottenuti dai principali partiti alla Camera e al Senato, e la relativa differenza. In termini assoluti, il M5S ha incassato un numero di consensi alla Camera superiore di oltre 1.400.000 voti rispetto a quanto ottenuto al Senato. Tra i principali partiti è quello che registra il differenziale più elevato. Sotto l’ipotesi che la differenza sia in toto voto giovanile possiamo stimare la percentuale di voti al M5S tra giovani di età 18-24. La percentuale, calcolata a livello regionale e nazionale, si ottiene dal rapporto tra la differenza nel numero di voti ottenuti alle due Camere e la stima dei voti validi attribuibili alla fascia di età 18-24. Quest’ultima viene calcolata riproporzionando i voti validi totali alla quota dell’elettorato di questa fascia di età (essendo la popolazione di riferimento quella fornita dall’Istat al 1.1.2011, abbiamo considerato come gruppo di interesse quello di età 17-23 anni).

Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Adottando questa procedura arriviamo a stimare che la quota di consensi per il partito di Grillo tra i giovani tra i 18 e i 24 anni ha superato il 47 per cento, contro una percentuale media del 25,6 per cento. Tale dato sembrerebbe indicare con tutta chiarezza l’emergere di un fenomeno di generational voting, ovvero un profilo di voto per i giovani drasticamente diverso rispetto a quello generale, con una forte sotto-rappresentazione del voto per gli altri partiti e per il Partito democratico in particolare. Un dato particolarmente significativo se si considera che applicando la stessa procedura all’elezione del 2008 la stima della percentuale di 18-24enni che votavano Pd non si discostava dal valore dell’intero elettorato. Il fenomeno peraltro rappresenterebbe la conferma di un trend rilevato già nel periodo pre-elettorale: nel corso del 2012, infatti, le intenzioni di voto per il M5S erano cresciute esponenzialmente prima e dopo la tornata di elezioni comunali, e con una velocità maggiore proprio nella fascia 18-24 anni (4). Nello stesso senso vanno anche i risultati di una recentissima indagine pubblicati sul Corriere della Sera: Tecné, infatti, stima che il 37,9 per cento degli elettori con meno di 30 anni hanno votato M5S alle ultime elezioni politiche (5).

CONCLUSIONI

I dati di survey pre-elettorali lasciavano intravvedere che l’attesa crescita dei consensi verso il M5S fosse trainata dai new voters o, comunque, dagli elettori più giovani. I risultati delle elezioni del 24-25 febbraio sembrano aver confermato (e rafforzato) questo fenomeno, tanto che è plausibile argomentare che il voto “grillino” abbia agito in modo deflagrante sulle dinamiche elettorali anche sul piano generazionale. La nostra tesi è che probabilmente siamo di fronte a una nuova dinamica del comportamento elettorale, con un forte e rapido allineamento del voto (anche) su basi generazionali. L’emergere di tale dinamica è di particolare rilevanza non solo dal punto di vista della soluzione del puzzle dell’assenza del conflitto generazionale, ma anche perché i giovani, al primo o al secondo voto importante, potrebbero avere trovato il loro partito e iniziato a esprimere un chiaro pattern politico, diverso da quello delle altre generazioni, con conseguenze importanti per le future tornate elettorali. Se ciò non fosse avvenuto, e il differenziale positivo di voti per il M5S alla Camera risultasse effettivamente da una generalizzazione su larga scala del voto disgiunto, saremmo di fronte a uno dei più rilevanti spostamenti di voto della storia elettorale italiana, assolutamente inatteso almeno quanto il riallineamento compatto dei giovani attorno a un nuovo partito. Attendiamo dati più solidi per scoprire il seguito. (Beh, buona giornata).

(1) Börsch-Supan, A. (2007) European Welfare State Regimes and their Generosity Towards the Elderly, in «Mea Discussion Papers», n. 128.
(2) Si veda ad esempio Arber, S. e Attis-Donfut, C., 2007, “The myth of generational conflict”, Routledge.
(3) Si veda l’indagine Demos 2008, http://www.demos.it/a00200.php
(4) Corbetta, P.G. e Gualmini, E. 2013 “Il partito di Grillo”, Il Mulino. Pagina 96.
(5) http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1T9KQJ

Bio dell’autore
Marco Albertini: è ricercatore presso l’Università di Bologna e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Carlo Cattaneo. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la sociologia della famiglia e i sistemi di welfare. Sito personale https://sites.google.com/site/mrcalbe. Twitter @madmakko.

Roberto Impicciatore: è ricercatore presso l’Università di Milano e membro del Consiglio Scientifico dell’Associazione Italiana per gli Studi di Popolazione. Si occupa di comportamenti demografici e transizione allo stato adulto.

Dario Tuorto: È ricercatore presso l’Università di Bologna, membro di Itanes (Italian National Election Studies). Ha fatto ricerca e pubblicato prevalentemente nell’ambito della sociologia politica.

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Attualità democrazia Movimenti politici e sociali Politica

Se avessimo votato col proporzionale?

di Giovanni Bronzino –

L’incertezza politica in cui versa l’Italia dopo le ultime elezioni politiche è stata da più parti addebitata al fatto che per la terza volta si è votato con le regole del cosiddetto porcellum. Nonostante per anni i partiti si fossero dichiarati quasi unanimamente d’accordi sulla necessità di una nuova legge elettorale, non si è mai riusciti a trovare un accordo che soddisfacesse tutti. Anche perché da anni il vizio d’origine è che le leggi elettorali non devono essere neutre, ma costruite su misura delle esigenze di questo o quel partito.

In verità stavolta il porcellum c’entra poco. La legge elettorale di Calderoli non ha comunque smentito la sua impressionante capacità di deformare il parlamento e la volontà del popolo sovrano secondo un bislacco sistema di sbarramenti plurimi, ma ad aver destabilizzato la relativa quiete della seconda Repubblica è stato semplicemente il fatto che il MoVimento 5 Stelle abbia preso il 25,55% dei voti validi.

Ipotizziamo che la ripartizione dei seggi alla Camera dei Deputati fosse avvenuta con la vecchia legge elettorale (ex art. 77 del DPR 361/1957) in vigore fino al 1993: un democratico proporzionale con attribuzione dei resti più alti col metodo del collegio unico nazionale e lasciando immutata la quota estero e l’uninominale della Valle d’Aosta, avremmo avuto questa situazione:

Si può notare che ci saremmo ritrovati con 5 liste extraparlamentari in meno (Rivoluzione Civile, Fare, La Destra, Grande Sud-Mpa e Die Freiheitlichen), e quindi oltre un milione e mezzo di cittadini avrebbero avuto una loro legittima rappresentanza in Aula, ma ai fini della cosiddetta governabilità sarebbe cambiato poco.

Le sinistre (Pd, Sel, Rc, Cd, Svp) avrebbero avuto 209 seggi contro i 190 delle destre (Pdl, Ln, Fd’I, Fare, La Dx, Gs-Mpa, Die Freih.) e i 66 del centro (Sc, Udc). Fatichiamo a collocare i 4 deputati Vallée d’Aoste, Maie e Usei, anche se dovrebbero essere di centro.

A fare pertanto la differenza anche con questa legge elettorale sarebbero i 161 grillini. Tuttavia la prassi del proporzionale imporrebbe in questo caso al M5s l’onere e l’onore di dover formare un governo e quindi ai grillini di doversi cercare in aula gli almeno 155 deputati necessari per formare una maggioranza. Non è una cosa da poco.

Poiché il porcellum ha dato una maggioranza d’ufficio alla coalizione di Bersani, tocca a quest’ultimo rincorrere Grillo e Casaleggio e rimanere in attesa di un sì o un no come in certi film i gladiatori sconfitti guardavano alla mano dell’imperatore per capire se avrebbero visto la luce del giorno dopo. Con un proporzionale onesto invece chi gode della massima popolarità nell’elettorato avrebbe dovuto farsi subito carico di tutto il peso dell’essere il partito più votato del paese. (Beh, buona giornata).

Se avessimo votato col proporzionale oggi sarebbe Grillo a inseguire Bersani.
Se avessimo votato col proporzionale oggi sarebbe Grillo a inseguire Bersani.

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democrazia Leggi e diritto Movimenti politici e sociali Politica Potere

Attenti al voto futile.

Tra poche ore si vota. Si vota prima della scadenza, perché il partito di Berlusconi ha tolto la fiducia parlamentare al governo Monti. Berlusconi, che era stato costretto alle dimissioni per manifesta incapacità di governare un paese in crisi, ha scatenato una campagna elettorale furibonda, a colpi di promesse irrealizzabili, come la presunta restituzione della tassa Imu sulla prima casa, invadendo i media, come in nessun altro paese del mondo gli sarebbe stato permesso.

Non solo, Berlusconi ha trascinato il paese alle elezioni politiche anticipate con una legge elettorale truffaldina, detta, appunto, “porcellum”. Berlusconi va punito per sempre perché ha fatto di tutto per non cambiare questa legge. Vanno puniti con lui tutte le forze politiche e sociali che lo hanno sostenuto anche in questa ultima sciagurata avventura: la Lega Nord, la Destra, Grande Sud e tutta quella “corte dei miracoli” al seguito, composta da partitini, formati da piccole personalità di grande appetiti di potere, sparse in tutt’Italia. Vanno puniti i candidati nelle liste del Pdl, liste piene di inquisiti dalla magistratura, liste di mezze figure, sia dal punto di vista politico che etico.

L’attuale “offerta” politica che si offre domani agli elettori italiani è apparentemente ricca di scelte. Dico apparentemente, perché in realtà l’unica possibilità di fermare Berlusconi e i suoi accoliti è una vittoria al Senato del centrosinistra.

Infatti, quello che è consigliabile è tenere ben presente che, proprio per colpa di Berlusconi, andremo a votare con due sistemi elettorali, uno alla Camera e uno al Senato. Alla Camera i sondaggi, finché sono stati pubblici, non segnalavano grandi chances per il partito di Berlusconi. Qui votare chi ognuno pensa possa svolgere un ruolo migliore non troverebbe ostacoli.

Il pericolo viene dal Senato: se in alcune regioni, per esempio come la Lombardia, la legge elettorale dovesse premiare il partito di Berlusconi, ecco che egli riuscirebbe a mettere un’ipoteca sulla formazione del nuovo governo. Sono convinto che chi vota Grillo o Monti o Giannino o Ingroia certo non vorrebbe succedesse un Berlusconi ancora in sella.

Si è parlato del ricatto del voto utile. Io direi, piuttosto, del pericolo del voto futile: chi è conservatore come Monti, di sinistra come Ingroia, barricadero come Grillo, o moderato come Giannino (al netto dei titoli di laurea) non è giusto che non abbia la possibilità di esprimere il proprio voto. Ma è proprio quello su cui contano Berlusconi e accoliti: sfruttare i vantaggi del “porcellum” e fregare ancora una volta la democrazia, i cittadini, gli elettori, grazie al differente meccanismo elettorale.

Dunque, perché il voto non sia una esercitazione futile, è necessario prendere seriamente in considerazione il “voto disgiunto” tra Camera e Senato. Per sicurezza, consiglierei di fare lo stesso anche per le Regionali in Lombardia e nel Lazio. Maroni e Storace, sodali di Berlusconi
devono perdere sonoramente. Solo così, sconfitto su tutti i fronti, Berlusconi uscirà dalla cronaca politica e per entrare, senza più ostacoli in quella giudiziaria. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Politica

Luciano Gallino: “altre politiche per il lavoro, la spesa pubblica, il welfare.”

luciano-gallinodi Sbilanciamoci.info –

Quattro milioni di senza lavoro, decine di miliardi di reddito perduto, la crisi che non finisce mai, disoccupazione che crea disoccupazione. Ma altre politiche sono possibili, per il lavoro, la spesa pubblica, il welfare. La rotta d’Italia secondo Luciano Gallino

Appese alle pareti della casa di Luciano Gallino, le foto della moglie Tilde mescolano molteplici piani attraverso giochi di specchi, spingendosi oltre la percezione di un istante e cogliendo la sfuggente complessità d’insieme. È uno sforzo, questo, che si ritrova poco più in là, negli scaffali ricolmi di libri del professore, perché afferrare la complessità, arrivare al cuore delle cose, necessita di uno studio meticoloso e incessante. E spiegarla, poi, richiede un impegno altrettanto esigente, senza sosta, né risparmio: un impegno generoso, che passa per conferenze in Italia e all’estero, interviste e un nuovo libro per raccontare cos’è accaduto e come mai la gente continua a farlo accadere. Nel contesto odierno, dominato da semplificazioni populistiche e una visione neoliberista talmente radicata e potente da riuscire nel paradosso di gestire l’incendio dopo aver appiccato il fuoco, la voce di Luciano Gallino è un punto di riferimento prezioso per tracciare la rotta da seguire.

Una rotta che nasce dalla necessità del lavoro. “In Italia, ci sono circa quattro milioni di persone fra disoccupati e non occupati. Di conseguenza, una ricchezza pari a decine di miliardi l’anno non viene prodotta e non diventa domanda, commesse per le imprese, consumi. Il risultato è che la disoccupazione crea disoccupazione”.

Per creare occupazione bisogna seguire l’esempio di Roosevelt. “Con il New Deal, lo Stato si è impegnato a creare direttamente occupazione e in alcuni mesi furono assunti milioni di persone”. Un New Deal italiano permetterebbe non solo di creare ricchezza, ma anche di risolvere annosi problemi. A cominciare dal suolo. “Il dissesto idrogeologico riguarda più di un terzo del Paese. È un campo in cui i soldi si trovano sempre a posteriori, quando sono stati distrutti o allagati interi quartieri o quando ci sono frane, morti. Allora sì che si trovano i miliardi per riparare i danni. Sarebbe meglio spenderli prima, oculatamente, in opere da individuare”.

Prioritaria è anche la terribile situazione delle scuole. “Il 48% delle scuole italiane non ha un certificato che assicuri che l’edificio è a norma dal punto di vista della sicurezza statica. È possibile che i ragazzi italiani vadano in scuole metà delle quali non è a norma dal punto di vista della sicurezza? Non si tratta di pavimenti sconnessi o rubinetti che perdono, o servizi inadeguati, ma di muri, tetti, fondamenta, che bisognerebbe rivedere e rimettere a norma”.

La miopia riguarda anche il potenziale punto di forza dell’Italia. “Il degrado del nostro immenso patrimonio culturale è per molti aspetti sotto gli occhi di tutti. Negli anni si è puntato a migliorare i punti di ristoro nei musei, insistendo sulla fruibilità da parte di pubblici sempre più vasti, invece di intervenire sulla catalogazione digitale, sulla tutela effettiva, sulla custodia. Un’azione mirata può creare centinaia di migliaia di posti di lavoro”.

C’è poi il problema della riconversione del modello produttivo. “Il modello produttivo attuale è finito nell’estate del 2007. È impensabile che i posti di lavoro che si sono persi in questi anni siano ricostituiti, ripercorrendo lo stesso modello produttivo. Processi come l’automazione e la razionalizzazione hanno soppresso quote impressionanti di posti di lavoro e molte imprese si dirigono sempre di più verso Paesi in cui i salari, le condizioni ambientali o fiscali sono più favorevoli. Occorrerebbe pensare a forme di ecoindustria, cercando di evitare errori e compromessi che hanno, in alcuni casi, caratterizzato lo sviluppo di nuovi settori, come ad esempio si è visto con la creazione di parchi eolici”.

Una riconversione che riguarda anche l’agricoltura. “Anche qui, l’epoca in cui la lattuga del Cile o i pomodori di un altro Paese facevano 10 o 20 mila km prima di arrivare sulla tavola di qualcuno probabilmente è finita. Il costo dei carburanti, degli aerei e della logistica stanno in qualche modo imponendo forme di consumi agricoli, consumi alimentari che non saranno a km zero, ma certamente non a km 10 mila o 20 mila, come è stato invece per molti anni. Il ministero dell’agricoltura dovrebbe occuparsi della riduzione dei km che pomodori, lattuga e formaggi e altro percorrono prima di arrivare sulle nostre tavole”.

Per creare occupazione, l’ideale sarebbe un’agenzia centrale. “So che a molti sale la temperatura quando sentono parlare di Stato che occupa le persone. Bisognerebbe creare un’agenzia centrale che determina i limiti e che incassa i soldi da varie fonti, magari appunto dallo Stato stesso o da una rivisitazione degli ammortizzatori sociali. L’assunzione diretta può essere affidata ai cosiddetti territori, al non profit, al volontariato, ai servizi per l’impiego, alla miriade di entità locali, comprese piccole e medie imprese”.

L’occupazione diretta servirebbe molto di più dei soliti incentivi. “Una miriade di rapporti e documenti testimoniano che, se voglio creare un posto di lavoro, è molto più conveniente dare mille euro al mese a uno che lavora piuttosto che trasformarli in sconti fiscali, contributi alle imprese, nel caso assumano qualcuno. L’assunzione diretta ha un effetto immediato sulla persona e sull’economia, perché il giorno dopo che ho versato a qualcuno mille euro di stipendio, quello li spende contribuendo così al lavoro di qualcun altro. L’incentivo all’impresa, lo sgravio fiscale, la riduzione del cuneo fiscale e altre cose del genere hanno, invece, effetti molto più ritardati”.

E sotto attacco finirebbero ancora i meccanismi di protezione sociale. “Quando si parla di riduzione del cuneo fiscale, si ha in mente la riduzione dei contributi per le pensioni, la sanità e altro. La riduzione dei contributi implica che qualcuno pagherà ticket sanitari più elevati, magari a fronte di mezzi familiari scarsi, o che subirà un’ulteriore riduzione della pensione. Si annuncia di ridurre il cuneo fiscale, ma non si precisa come si recuperano quei contributi che vengono a mancare”. Un modo sottile per continuare a prosciugare il welfare.

Ma come finanziare gli interventi proposti? Per capirlo, bisogna ragionare su vari aspetti. Innanzi tutto il ruolo della Banca Centrale Europea. “Noi non disponiamo di una moneta sovrana, dipendiamo da una moneta che per certi aspetti è una moneta straniera. Non vuole essere una polemica contro l’euro, perché le polemiche contro l’euro sono semplicemente idiote e non vorrei minimamente essere accostato a quelle. Resta, però, il fatto che, mentre la Federal Reserve può creare quanto denaro vuole, noi non possiamo prendere in prestito soldi direttamente dalla Banca centrale per creare occupazione”.

Il problema è che i soldi ci sono, ma non arrivano a destinazione. “Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012, la BCE ha prestato alle banche 1.100 miliardi di euro, con un interesse dell’1%. E li ha prestati senza chiedere nulla. Alla fine, si è scoperto che soltanto un rivoletto di quei 1.100 miliardi è finito alle imprese, al lavoro, all’economia reale”. E allora? “Allora, è davvero politicamente impossibile pretendere in sede europea che la BCE presti soldi soltanto se questi vengono destinati, attraverso le banche, all’economia reale e se le imprese e le società non profit che li prendono a prestito firmano l’impegno scritto di creare occupazione?”

Un altro aspetto importante riguarda la cassa integrazione. “La cassa integrazione ha superato il miliardo di ore. È denaro che è sacrosanto spendere per sostenere le famiglie, per porre un argine alla disperazione. Tuttavia, invece di pagare 750 euro al mese con il vincolo di non fare nessun altro lavoro, si potrebbe pensare di aggiungere 300/ 400 euro a quei 750 e convertirli, così, in un salario pagato dallo Stato: lo scopo sarebbe quello di far assumere da imprese non profit, imprese private, servizi per l’impiego, comuni e regioni le persone in cassa integrazione che sono disposte a fare altri lavori. In questo modo, si produrrebbe ricchezza e molti soggetti da passivi diverrebbero attivi. Pensiamo ai benefici economici che si genererebbero attraverso i cosiddetti moltiplicatori”.

Le risorse potrebbero essere ricavate, poi, dal rivedere spese apparentemente insensate. “L’idea di comprare un cacciabombardiere, che pare pure pessimo dal punto di vista strategico e militare, impegnando circa 15 miliardi, a fronte dello scandalo disoccupazione, a me pare uno scandalo per certi aspetti altrettanto grave”.

Infine, sul piano del fisco, non si può prescindere dall’economia sommersa. “L’economia sommersa c’è da ogni parte, ma in Francia, Germania, Gran Bretagna, è tra il 5 e il 10% del Pil, mentre in Italia è al 22% del Pil. Tra l’altro, con la crisi, i tagli alle pensioni e le riforme cosiddette del mercato del lavoro, l’economia sommersa ha fatto ulteriori passi avanti e fornisce incentivi molto convincenti a chi deve fare i conti con ogni singolo euro per arrivare alla fine del mese. Ridurre l’economia sommersa al livello di Francia o Germania significherebbe, per lo Stato, incassare almeno 60 o 70 miliardi l’anno di maggiori imposte di vario genere, dall’Iva alle imposte dirette”. (Beh, buona giornata).

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Elezioni, pareggio di bilancio e recessione: attenti alle frottole.

di MARCO PALOMBI-Il Fatto Quotidiano
Quale sarà la vera agenda del prossimo governo? È questa la domanda da cui siamo partiti per spiegare che la libertà d’azione macroeconomica di qualunque esecutivo si insedi a marzo sarà, per usare un eufemismo, piuttosto limitata. Se si volesse usare uno slogan, ad esempio, si potrebbe dire che le vere elezioni italiane saranno quelle tedesche del prossimo ottobre: è tutto nel rapporto con l’Unione europea infatti – e, ancor più, con gli altri paesi dell’eurozona – che si gioca il destino del nostro paese e, per quelli a cui interessa, del prossimo governo. Ecco un breve riassunto per capitoli dello stato dell’arte e di quel che c’è da aspettarsi tra poche settimane.

Il punto di partenza. Gli schieramenti in campagna elettorale possono promettere molto, ma occorre sempre ricordare che gli esecutivi si muovono ormai in un meccanismo di sovranità limitata. Il governo italiano, infatti, non solo ha rinunciato tempo fa alla leva monetaria, ma in sostanza anche a quella fiscale: il pareggio di bilancio inserito in Costituzione, e promesso ai partner continentali entro quest’anno, lo obbliga infatti ad agire in una sola direzione. La faccenda si farà ulteriormente complicata con la legge di stabilità del prossimo anno: dal 2015 scatta, infatti, l’obbligo sancito dal Fiscal compact (approvato in tutta fretta dalla strana maggioranza nell’ultimo scorcio di legislatura) di diminuire la parte del debito pubblico che supera il 60% del Pil di un ventesimo l’anno. In soldi fanno una cinquantina di miliardi l’anno: siccome i conti si faranno sul prodotto nominale – e non quello depurato dall’inflazione – il problema non sarebbe insormontabile se ci fosse un po’ di crescita. Solo che non c’è, e qui veniamo al vero problema.

La recessione. Dall’inizio della crisi abbiamo perso 7 punti di Pil, dice Bankitalia, e l’emorragia non accenna a finire e colpisce ormai la struttura stessa del tessuto produttivo che ha fatto grande l’economia del nostro paese. Sempre dal 2008, per dire, la produzione industriale è scesa del 25%, il suo volume rilevato all’indice grezzo segna 82,9, al minimo dal 1990. Riassunto: le aziende chiudono, aumentano i disoccupati, calano i consumi e le entrate dell’erario. Questa è la spirale, questa è la priorità di qualsiasi governo nell’immediato. Poteri di intervento? Nei limiti di bilancio di cui abbiamo parlato, molto pochi, anche perché lo stato dei conti pubblici non è quello raccontato da Mario Monti in questi mesi (“siamo fuori dall’emergenza”).

Una nuova manovra? Forse sarà la prima cosa che il prossimo esecutivo dovrà fare per ottenere il famoso pareggio di bilancio obbligatorio, nonostante sia pensiero comune che la cosa non farà che peggiorare la recessione in atto (se mi tassi spendo meno, se lo stato spende meno qualcuno – pensionati, lavoratori, aziende – vedrà diminuire i suoi introiti e spenderà meno). I problemi sono due. Intanto nel bilancio pubblico 2013 ci sono alcune spese non finanziate interamente: le missioni militari all’estero sono scoperte da settembre, il rinnovo dei contratti di oltre 200mila precari della P.A. da giugno e anche le risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione in deroga su tutti) scarseggiano. Totale: 5-7 miliardi di euro. In secondo luogo, le previsioni del governo sulla (non) crescita sono assai ottimiste: -0,2% nel 2013, mentre quelle di Bankitalia, Confindustria, Fmi etc veleggiano verso una contrazione dell’1%. Essendo il rapporto deficit/Pil appunto un rapporto, se il denominatore è più basso il risultato è peggiore. In sostanza la manovra necessaria potrebbe aggirarsi attorno ad un punto di Pil – circa 15 miliardi – ma fonti della Ragioneria generale dello Stato hanno parlato negli ultimi giorni di un importo più contenuto (7-10 miliardi). È tanto vero che il governatore della Banca d’Italia ha appena ribadito che “l’Italia non deve abbassare la guardia” sui conti pubblici e che per farlo servono “ulteriori, prolungati sforzi”.

Soluzioni. Mantenendo inalterata la struttura dei rapporti con l’Europa (moneta unica e relativi trattati di funzionamento), l’unica via d’uscita è rappresentata dalle scelte della Germania. Negli ultimi anni Berlino ha basato la sua strategia economica sulle esportazioni, in particolare nei paesi dell’eurozona, tenendo bassi i suoi salari e la sua inflazione. Il risultato è che ha mandato in deficit i suoi partner europei che ora, però, hanno smesso di comprare i suoi prodotti (e infatti recentemente le stime di crescita tedesca sono state tagliate). Ha spiegato al nostro giornale, ad esempio, il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo: “La nostra parte noi l’abbiamo fatta, ora la Germania deve fare la sua. Ha due strade: o rilancia la sua domanda interna aumentando i salari e/o la spesa pubblica oppure consente un certo grado di europeizzazione dei debiti pubblici”. Sulla stessa linea il responsabile economia del Pd Stefano Fassina: “La Germania deve fare la sua parte aumentando i salari e spingendo la sua domanda interna e poi basterebbe una diversa politica di bilancio Ue che escludesse alcuni investimenti dai saldi validi per il Patto”. A guardare la campagna elettorale tedesca – Cdu o Spd non fa differenza – non c’è molto da sperare: non solo nessuno propone politiche espansive interne per essere davvero “la locomotiva d’Europa”, ma tutto si gioca sulla critica ai cosiddetti Piigs fannulloni (e, in qualche caso, ai “terroni germanici”, che sono i poveri del nord e dell’est).

Sogni elettorali. In questo contesto le promesse di mirabolanti tagli di tasse fatte soprattutto da Silvio Berlusconi e Mario Monti non solo sono poco credibili, ma non sembrano tener conto delle priorità nella situazione attuale: come ha recentemente ribadito un working paper del Fmi – firmato dal capo economista Olivier Blanchard e da Daniel Leigh – non solo l’austerità fa male, ma il moltiplicatore (l’effetto positivo/negativo delle varie politiche economiche) della spesa pubblica, in particolar modo quella per investimenti, è assai superiore a quello fiscale. Tradotto: in una recessione bisogna fare politiche anticicliche e, tra queste, meglio che lo Stato spenda di più piuttosto che tagliare le tasse. Una proposta in questo senso in campagna elettorale l’ha lanciata ad esempio Pier Luigi Bersani sui debiti della P.A. verso le imprese. Si tratta, ma non c’è una stima ufficiale, di 90 miliardi in tutto che, al momento, non sono registrati dal nostro bilancio: tutti sanno che c’è un debito e che andrà saldato ma, secondo le stesse regole Ue, può essere tenuto fuori dai conti finché lo Stato non paga. Il Pd adesso propone di stanziare 50 miliardi per rifondere le Pmi emettendo titoli di stato vincolati a quel fine. Il problema? È un’uscita che inciderebbe significativamente tanto sul deficit quanto sul debito pubblico e per fare una cosa del genere – o altre che prevedano questi livelli di spesa – serve il permesso di Bruxelles. Ce lo daranno? (Beh, buona giornata).

Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall'altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.
Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall’altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.

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