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di John Pilger-www.johnpilger.com

La minaccia del governo britannico di irrompere nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e trascinare via Julian Assange assume un significato storico. David Cameron, già uomo di pubbliche relazioni per un truffatore dell’industria televisiva e venditore di armi ad emirati, è sul punto di disonorare le convenzioni internazionali che hanno protetto i cittadini britannici nelle zone calde del pianeta. Proprio come l’invasione dell’Iraq da parte di Tony Blair ha portato direttamente agli atti di terrorismo registrati a Londra il 7 luglio 2005, così Cameron e il Ministro degli Esteri William Hague hanno compromesso la sicurezza dei cittadini britannici in tutto il mondo.

Minacciando di abusare di una legge progettata per espellere assassini da ambasciate straniere, e al contempo diffamando un innocente come “presunto criminale”, Hague ha reso la Gran Bretagna lo zimbello di tutto il mondo, ma questo è in gran parte occultato nel paese anglosassone. Gli stessi “coraggiosi” giornali e le emittenti che hanno appoggiato la parte giocata dalla Gran Bretagna in epici crimini di sangue, dal genocidio in Indonesia alle invasioni di Iraq e Afghanistan, adesso danno addosso alla “situazione dei diritti umani” in Ecuador, il cui vero crimine è quello di contrastare i bulli di Londra e Washington.

È come se i festosi applausi delle Olimpiadi fossero stati rimpiazzati di punto in bianco da una rivelatrice folata di teppismo coloniale. Vedi Mark Urban, l’ufficiale dell’esercito trasformato in reporter della BBC “intervistare” un ragliante Sir Christopher Meyer, ex apologeta di Blair a Washington, davanti all’ambasciata ecuadoregna. La coppia procede a sfogarsi con patriottico sdegno e comico nazionalismo sul fatto che il non classificabile Assange e l’indomito Rafael Correa, mostrino al mondo il rapace sistema di potere occidentale. Un simile attacco irrompe dalle pagine del Guardian, che consiglia ad Hague di “essere paziente” e che un assalto all’ambasciata causerebbe “più problemi di quanto vale”. Assange non è un rifugiato politico, ha dichiarato il Guardian, e “in ogni caso, né la Svezia, né il Regno Unito deporterebbero qualcuno che potrebbe rischiare la tortura o la pena di morte”.

L’irresponsabilità di questa affermazione corrisponde perfettamente al ruolo perfido del Guardian in tutta la vicenda Assange. Il giornale sa benissimo che i documenti rilasciati da Wikileaks dimostrano come la Svezia sia costantemente sottoposta alle pressioni degli Stati Uniti in materia di diritti civili. Nel dicembre del 2001, il governo svedese aveva bruscamente revocato lo status di rifugiati politici a due egiziani, Ahmed Agiza e Mohammedel-Zari, che furono poi consegnati a una squadra-sequestri della CIA all’aeroporto di Stoccolma e “resi” all’Egitto, dove vennero torturati. Un’indagine del difensore civico svedese per la giustizia rilevò che il governo aveva “gravemente violato” i diritti umani dei due uomini. Nel 2009 un cablogramma dell’ambasciata USA ottenuto da Wikileaks, dal titolo “Wikileaks getta la neutralità nella pattumiera della storia”, la tanto decantata reputazione dell’élite svedese per la neutralità è mostrata come una farsa. Un altro cablogramma USA rivela che “la portata della cooperazione [militare e di intelligenza della Svezia] [con la Nato] non è molto conosciuta”, e se non fosse tenuta segreta “avrebbe esposto il governo a critiche interne”.

Il ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, ha svolto un ruolo di primo piano nel famigerato Comitato per la Liberazione dell’Iraq di George W. Bush, e mantiene stretti legami con l’estrema destra del Partito Repubblicano. Secondo l’ex direttore del pubblico ministero svedese Sven-Erik Alhem, la decisione della Svezia di chiedere l’estradizione di Assange sui presunti casi di comportamento sessuale riprovevole è “irragionevole e poco professionale, oltre che ingiusta ed esagerata”. Dopo aver offerto se stesso per un interrogatorio, ad Assange è stato dato il permesso di lasciare la Svezia per Londra, dove, ancora una volta, si è reso disponibile ad essere interrogato. Nel mese di maggio, in un’ultima sentenza d’appello sull’estradizione, la Corte Suprema della Gran Bretagna ha aggiunto farsa a farsa facendo riferimento ad “accuse” inesistenti.

Abbinata a tutto ciò c’è stata un’infamante campagna personale contro Assange. Gran parte di questa è opera del Guardian, che, come un amante respinto, si è rivoltato contro la sua stessa fonte, dopo aver enormemente beneficiato delle rivelazioni di Wikileaks. Senza che un centesimo andasse ad Assange e a Wikileaks, un libro del Guardian ha portato ad un redditizio accordo cinematografico con Hollywood. Gli autori, David Leigh e Luke Harding, insultano arbitrariamente Assange come essere dalla “personalità danneggiata” e “insensibile”. Rivelano perfino la password segreta che lui, fidandosi, aveva dato al giornale, e che proteggeva un file digitale contenente i cablogrammi dell’ambasciata degli Stati Uniti. Il 20 agosto, Harding era davanti all’ambasciata ecuadoregna, gongolando sul suo blog che “Scotland Yard potrebbe avere l’ultima risata”. È ironico, pur essendo completamente calzante, che un editoriale del Guardian che affonda il coltello in Assange assomigli sorprendentemente alla prevedibile ipocrisia della stampa di Murdoch accanita sullo stesso argomento. Come la gloria di Leveson, Hackgate e l’onorato giornalismo indipendente svaniscono come un puntino nel nulla.

I suoi stessi aguzzini valutano la persecuzione di Assange. Accusato di nessun crimine, non è un latitante. Documenti svedesi del caso, tra cui i messaggi di testo delle donne coinvolte, dimostrano chiaramente l’assurdità delle accuse sessuali – accuse quasi interamente ed immediatamente respinte dal procuratore di Stoccolma, Eva Finne, prima dell’intervento di un politico, Claes Borgstrom. Al processo preliminare di Bradley Manning, un investigatore dell’esercito degli Stati Uniti ha confermato che l’FBI stava segretamente prendendo di mira i “fondatori, proprietari o gestori di Wikileaks” per spionaggio.

Quattro anni fa, un documento del Pentagono, a malapena notato, e fatto trapelare da Wikileaks, descriveva come Wikileaks e Assange sarebbero stati distrutti con una campagna diffamatoria che avrebbe portato a “procedimenti penali”. Il 18 agosto, il Sydney Morning Herald, avvalendosi della Libertà di Rilasciare Informazioni, ha reso noto che il governo australiano era stato più volte informato che gli Stati Uniti stavano conducendo una caccia “senza precedenti” ad Assange, ma non ha sollevato obiezioni. Tra le ragioni dell’Ecuador per la concessione dell’asilo politico c’è l’abbandono di Assange “da parte dello Stato di cui è cittadino”. Nel 2010, un’inchiesta della polizia federale australiana ha rilevato che Assange e Wikileaks non hanno commesso alcun crimine.

La loro persecuzione è una violenza a tutti noi e alla libertà.

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Cinema Fumetti. Società e costume Televisione

3DNews/I Simpson ospitano Julian Assange.

Da http://insidetv.ew.com

Julian Assange interpreterà sé stesso nella 500esima puntata dei Simpson. Lo ha rivelato il sito di Entertainment Weekly, secondo cui quest`estate il fondatore e redattore di Wikileaks avrebbe registrato la sua voce per l`iconica puntata che andrà in onda, negli Stati Uniti, il prossimo 19 febbraio.

Il produttore esecutivo, Al Jean, ha detto che il creatore della serie, Matt Groening, aveva sentito dei “rumors” secondo cui il creatore di Wikileaks era interessato a una comparsata. «Quindi – ha spiegato Jean – abbiamo chiesto al direttore del casting Bonnie Pietila, che in passato, oltre ad aver coinvolto l`ex primo ministro inglese Tony Blair, era stato capace di scovare l`altrettanto sfuggente scrittore Thomas Pynchon, di trovare Assange. E lo ha fatto».

Assange ha registrato la propria voce in un luogo sconosciuto ai produttori dei Simpson, mentre era agli arresti domiciliari in Inghilterra, ricevendo istruzioni da Los Angeles. Jean ha spiegato che gli era stato fornito «solo un numero di telefono». Nell`episodio, Homer e Marge scoprono che i cittadini di Springfield hanno organizzato un consiglio cittadino segreto per scacciarli dalla città.
«I Simpson si danno pertanto alla macchia – ha spiegato Jean – e come nuovo vicino, al posto di Flanders, si ritrovano Assange che li invita in casa sua a guardare un film, un matrimonio afgano che viene bombardato».

«È un personaggio controverso. C`è una ragione per cui è controverso – ha detto Jean – c`è stata una discussione interna per decidere se ospitarlo allo show, ma alla fine abbiamo deciso di fare la puntata». In fin dei conti, ha assicurato il produttore, la puntata «non ha nulla a che fare con la situazione legale in cui si trova Assange. volevamo accertarci che la sua apparizione fosse satirica, e lui era d`accordo».

Per il biondo “pirata” australiano è un periodo di intensa attività nel mondo dello spettacolo. A marzo, infatti sarà anche conduttore di un nuovo show (in inglese) che verrà. In ogni caso ‘interpretazione più importante è quella prevista per domani, quando comparirà davanti alla Corte Suprema britannica per l’udienza di appello contro la sua estradizione in Svezia, dove è stato accusato di aver commesso crimini sessuali.
Assange non è il solo ospite illustre del 500esimo episodio , c’è un coppia di altri camei di personaggi che sono meno controversi e più familiari ai fans dello show come Kiefer Sutherland, Micheal Cera, Jane Lynch, Andy Garcia, e Jeremy Irons. (Beh, buona giornata.)

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Attualità democrazia

Avviso agli uomini della polizia italiana: e se i black block fossero nel governo?

(fonte: repubblica.it)

Il rapporto italiano sulla morte di Nicola Calipari in Iraq, almeno nella parte che definiva l’uccisione del funzionario dei servizi da parte di un posto di blocco americano come “non intenzionale”, era costruito “specificatamente” per evitare ulteriori inchieste della magistratura italiana. Lo si legge in un cable siglato dall’ambasciatore Usa a Roma, Mel Sembler, nel maggio 2005, diffuso dal Guardian, media partner di Wikileaks.

Il governo Berlusconi, secondo il documento, voleva “lasciarsi alle spalle” la vicenda, che comunque non avrebbe “danneggiato” i rapporti bilaterali con Washington. Nicola Calipari fu ucciso la notte del 4 marzo 2005. L’agente era in un’auto dei servizi assieme alla giornalista Giuliana Sgrena, appena rilasciata dai suoi rapitori dopo una lunga mediazione. L’auto si ndirigeva all’aeroporto di Bagdad quando dal check-point americano partirono alcuni colpi d’arma. Calipari fece scudo col suo corpo per difendere la giornalista e fu ucciso da un proiettile alla testa. Il soldato che sparò fu poi identificato in Mario Lozano, addetto alla mitragliatrice al posto di blocco.

ll cablo, datato 3 maggio 2005, il giorno dopo gli incontri a Palazzo Chigi tra l’ambasciatore Sembler e, tra gli altri, l’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta e il capo del Sismi Niccolò Pollari, per discutere del rapporto italiano sulla morte di Calipari. Il governo italiano, scriveva l’ambasciatore Sembler, “bloccherà i tentativi delle commissioni parlamentari di aprire indagini”, malgrado vi siano già delle precise richieste delle opposizioni in proposito, sostenendo la tesi del “tragico incidente”. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

WikiLeaks: il ministro Frattini non ci ha capito niente.

Chi ha paura della glasnost, di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

SOLO chi ha un’idea cupa dell’informazione indipendente, e paventa persecuzioni non appena se la trova davanti, e per di più nulla sa della rivoluzione in corso nell’universo dei blog, può parlare, come il ministro Frattini, di un 11 settembre della diplomazia scatenato da WikiLeaks contro il mondo bello, composto e civile nel quale siamo supposti vivere. Solo chi fantastica planetarie offensive contro le notizie che da tempo circolano senza confini può credere che al caos comunicativo si debba rispondere, come negli attentati del 2001, con una bellicosa e “compatta alleanza: senza commentare, senza retrocedere sul metodo della diplomazia, senza lasciarsi andare a crisi di sfiducia”.

WikiLeaks non è una cellula terrorista e il suo fondatore, Julian Assange, è magari indagato per violenza privata ma comunque non è un uomo che – la fine osservazione è del ministro – “vuol distruggere il mondo”. Alla mutazione mediatica nata prima di lui non si replica con un globale schieramento, per “continuare a far vivere un metodo della diplomazia” che ha fatto disastri.

Mettere insieme in una battaglia contro Internet Roma e Mosca, Berlino e Kabul prefigura il Brave New World di Huxley, fatto di gente china e sedata dalla droga, il “soma” che rilassandoti uccide ogni critica. Più che un’utopia: una distopia.

Il mostro tanto temuto è la glasnost che d’un tratto irrompe in una zona politica non solo opaca ma sommamente inefficace: la diplomazia, il più chiuso dei recinti, dove il segreto, non sempre immotivatamente, è re. La glasnost è una corrente sotterranea potente, non un breve tumulto come fu Al Qaeda, e l’unica cosa da dire è: la politica ancora non sa fronteggiarla, organizzandosi in modo da disgiungere il segreto indispensabile dal superfluo. Se quello necessario viene alla luce è sua colpa, non di WikiLeaks. In realtà i 250.000 cabli non sono affatto top secret. Sono consultabili da ben 3 milioni di funzionari americani, e disponibili in siti interni al ministero della difesa Usa (Siprnet). Nella globale ragnatela Internet le fughe di notizie (i leaks) sono inevitabili. Scrive Simon Jenkins, sul Guardian: “Un segreto elettronico è una contraddizione in termini”.

Nei paesi democratici, dove l’informazione indipendente esiste, il diplomatico è alle prese con una trasparenza non di rado ostacolata come in Italia, ma tangibile. Non è cancellata dalle ghignanti foto di gruppo dei vertici internazionali, che s’accampano monotoni su giornali e tv. Gli ambasciatori a Roma o Parigi raccontano quel che leggono nei giornali più liberi, che apprendono dai blog, che ascoltano da chi non nasconde il vero.

Si dice: “Ce n’è per tutti”, nei dispacci. Per il Cancelliere tedesco, il regno britannico, l’Eliseo, oltre che per Roma. Nulla di più falso. Se la Merkel appare “refrattaria al rischio e poco creativa”, Berlusconi “suscita a Washington sfiducia profonda”: è “vanitoso, stanco da troppi festini, incapace come moderno leader europeo”. Inoltre “sembra il portavoce di Putin in Europa”. Un abisso separa i due leader. Resta che nelle democrazie le rivelazioni non sono fulmini che squarciano cieli tersi, neanche da noi. I diplomatici Usa comunicano quello che da 16 anni gli italiani hanno sotto gli occhi, sempre che non se li bendino per vivere in bolle illusorie e ingurgitare “soma televisivo”. Sanno dei festini in dimore private spacciate per pubbliche. Sanno che Berlusconi coltiva con Putin rapporti personali torbidi, lucrosi, di cui non rende conto né all’Europa né al popolo che pure tanto s’affanna a definire sovrano. Non c’è bisogno di WikiLeaks per conoscere la pasta di cui son fatti i governanti, per capire lo scredito internazionale che non da oggi li colpisce, per allontanarli dal potere che democraticamente hanno occupato, e poco democraticamente esercitato.

Non così lì dove non c’è democrazia e nelle aree di crisi, nonostante le verità siano in larga parte note anche qui, a chi voglia davvero sapere. Non c’è praticamente notizia che i blog non dicano da anni (Tom Dispatch, Antiwar. com, Commondreams, Counterpunch, e in Italia, nel 2005-2010, Contropagina di Franco Continolo).

L’altra cosa che va detta è che gli ambasciatori che divulgano informative non sono sempre di qualità eccellente, e forse anche questo, in America, crea imbarazzo. Nelle aree critiche – Italia compresa, dove gli equilibri democratici vacillano – non hanno idee meticolosamente maturate, né si azzardano in analitici suggerimenti e prognosi. Fotografano l’esistente, sono figli essi stessi di Internet, tagliano e incollano schegge di verità senza osare approfondimenti. Nulla hanno in comune, ad esempio, con l’immensa ricerca in cui si sobbarcò George Kennan nel ’44-46, lavorando per la missione Usa a Mosca. Il “lungo telegramma”, che inviò nel febbraio ’46 al Segretario di Stato James Bynes, descrive la natura oscura del sistema sovietico: le sue forze, le fragilità, il suo nevrotico bisogno di un mondo ostile. Ne scaturì l’articolo scritto nel luglio ’47 su Foreign Affairs, firmato X: fondamento di una politica (il containment) che per decenni pervase la guerra fredda senza infiammarla.

Nulla di analogo nei dispacci odierni, ma messaggi raccogliticci, frammentari, pericolosi infine per le fonti, nei paesi a rischio. Non la forza americana è esposta alla luce, ma la sua inconsistenza. Non un impero nudo, ma una finzione d’impero che addirittura usa i propri diplomatici – colmo di insipienza e mala educazione da parte di Hillary Clinton – come spie all’Onu. L’occhio Usa non scruta il lontano ma l’oggi, sposando non pochi luoghi comuni locali. La glasnost online sbugiarda questo modo di scrutare, e non è male che avvenga. Fa vedere l’impotenza, l’approssimazione, l’inefficacia americana. Inefficacia pur sempre limitata, perché i dispacci non paiono contaminati dai conformismi di tanti commentatori italiani: difficile trovare accenni, nei cabli, alla “rivoluzione liberale” o all’epifanico ruolo di Berlusconi nelle crisi mondiali.

Il vero scandalo è lo spavento che tutto questo suscita, lo sbigottimento davanti a notizie spesso banali, solo a tratti rivelatrici (è il caso, forse, del nesso stretto Nord Corea-Iran), l’imperizia Usa nel tutelare confidenze e confidenti. Ora si vorrebbe fare come se nulla fosse, “tener viva la diplomazia” così com’è: ottusamente arcana, lontana dallo sguardo dei cittadini. Ma quale diplomazia? Nel caso italiano una diplomazia chiamata commerciale dal governo perché essenzialmente fa affari, e all’estero riscuote in realtà “sfiducia profonda”.

Dicono che Berlusconi si sia fatto una gran risata, non appena letti i dispacci. Forse ha capito più cose di Frattini, perché lui la diplomazia classica l’ha già distrutta. E non solo la diplomazia ma l’informazione indipendente, e in Europa la solidarietà energetica. Forse ride delle banalità diffuse da WikiLeaks. Forse intuisce che se si parlerà molto di festini, poco si parlerà di conflitto d’interessi, controllo dei media, mafia. È il limite di Assange, enorme: avrà minato la fiducia nella diplomazia Usa, senza dare informazioni autenticamente nuove (la più calzante parodia del cosiddetto 11 settembre di Assange l’ho trovata su un sito di cinefili 1).

Resta la sfida alla stampa: sfida al tempo stesso ominosa e straordinariamente promettente. È vero: nel medio-lungo periodo crescerà il numero di chi si informerà su Internet, più che sui giornali cartacei. Ma da quest’avventura la stampa esce come attore principe, insostituibile: messa di fronte ai 250 milioni di parole sparse come polvere sugli schermi WikiLeaks, è lei a fare la selezione, a stabilire gerarchie, a rendere intelligibile quello che altrimenti resta inintelligibile caos, ad assumersi responsabilità civili contattando le autorità politiche e nascondendo il nome di fonti esposte dai leaks a massimi rischi. Alla rivoluzione mediatica ci si prepara combinando quel che è flusso (Internet) e quel che argina il flusso dandogli ordine (i giornali scritti). L’unica cosa che non si può fare è ignorare la sfida, negare la rivoluzione, opporle sante alleanze conservatrici del vecchio.

Immagino che non fu diversa l’alleanza anti-Gutenberg quando nel XV secolo apparve la stampa, e anche allora vi fu chi, con le parole di quei tempi, parlò di un 11 settembre contro gli establishment: politici e culturali, delle chiese e degli imperi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

About Wikileaks.

Alexander Stille- la Repubblica

Le prime rivelazioni sui comunicati diplomatici fatti uscire da Wikileaks provocano varie riflessioni. Come giornalista sono una miniera di particolari affascinanti del mondo chiuso della diplomazia, particolari che rendono fresche e colorate quelle che sono normalmente le noiose strette di mano che vediamo fotografate sulle prime pagine del giornale, la materia prima di cui è fatta la storia, per cui di solito bisogna aspettare decenni prima che si possano aprire gli archivi.

Dal punto di vista del cittadino questo flusso continuo di materiale riservato desta qualche preoccupazione: diventa sempre più difficile condurre la diplomazia, basata sulla riservatezza e la possibilità di offrire giudizi candidi ai propri colleghi e superiori.

Finora viene fuori un’immagine abbastanza positiva del livello dei diplomatici americani come ha scritto la storico Timothy Garton Ash: “La mia opinione personale del Dipartimento di Stato si è alzata di diversi gradi…molto di quello che troviamo qui è lavoro di prim’ordine”. Da quello che si legge si capisce l’enorme complessità e difficoltà dell’attuale situazione internazionale, le mille insidie e minacce presentate dal terrorismo, l’intreccio complesso di interessi strategici, le fragili personalità umane. Si vede spesso con occhio disincantato i grandi della terra, dove il potere (soprattutto il potere quasi senza limiti) porta a comportamenti stravaganti e spesso paranoici. Pensiamo alle descrizioni del dittatore libico Gheddafi, che viaggia sempre con la sua infermiera ucraina o il leader ceceno che balla ad un matrimonio in un bagno di vodka, pistola in tasca, insieme a connazionali musulmani.

Nel caso italiano i diplomatici americani hanno colto due elementi importanti. Il delirio di onnipotenza di Berlusconi, la sua vita privata stravagante e disordinata e la sua incapacità di distinguere tra interessi privati e quelli pubblici l’hanno reso una persona inaffidabile. La situazione va molto oltre i problemi posti dai festini del Presidente del Consiglio. La preoccupazione, espressa ai più alti livelli anche dal Segretario di Stato Hillary Clinton, è che ci potrebbero essere affari economici sottobanco tra il presidente russo Vladimir Putin e Berlusconi. Certamente c’è qualcosa di molto strano e di molto malsano in questo rapporto: i lunghi viaggi in Russia di Berlusconi, spesso con appuntamenti ufficiali limitati, le vacanze di Putin e famiglia nelle ville in Sardegna di Berlusconi, la rivelazione sconcertante che la prostituta Patrizia d’Addario ha passato la notte in quello che Berlusconi ha chiamato “il letto di Putin”. Non sono rapporti normali da capi di Stato.

È arcinota la tendenza del Presidente del Consiglio, da vecchio imprenditore, di captare al volo opportunità imprenditoriali in qualsiasi momento e situazione: in un paese normale ci sarebbe già una commissione parlamentare per chiarire se ci sono rapporti d’affari tra il leader russo e quello italiano. A sentire le voci, Putin con il controllo quasi assoluto della ricchezza energetica del suo paese sarebbe in grado di canalizzare una parte de flusso energetico dove gli pare, arricchendo se stesso e i suoi partner scelti con contratti che valgono miliardi. Se cosi fosse con il leader italiano, Putin avrebbe la possibilità di condizionare pesantemente la politica estera di uno dei membri chiave dell’Unione Europea e della Nato. Effettivamente, come ha osservato la diplomazia americana, Berlusconi è sembrato il portavoce di Putin in Europa. E quindi il sospetto c’è. Sarebbe giusto sapere se fondato o meno.

Non so se introdurre questi elementi di franchezza nel mondo cortese e un po’ ipocrita della diplomazia faccia del bene o del male. Molto spesso la diplomazia esige che si faccia buon viso a cattivo gioco, che si vada d’accordo con persone che non piacciono particolarmente e che ci sia una certa ipocrisia (una qualità spesso troppo denigrata), necessaria per armonizzare gli interessi conflittuali e separare i sentimenti privati dal bene pubblico.

In questo caso sono particolarmente affascinanti le discussioni private su molti leader Arabi che in privato incitano gli stati Uniti a fermare il programma nucleare iraniano, mentre in pubblico protesterebbero se gli Stati uniti o Israele facessero qualcosa di concreto. La situazione mi ricorda un’osservazione molto acuta di Thomas Friedman, un giornalista con molta esperienza nel Medio Oriente: mentre in molti casi conta di più cosa dicono in leader in privato rispetto a quello che dicono in pubblico, Friedman sostiene che nel mondo arabo conta di più quello che dicono in pubblico rispetto a quello che dicono in privato. Quindi il fatto che molti leader arabi si dimostrino ragionevoli sulla coesistenza con Israele in privato, ma gridano ‘morte ad Israele’ davanti alle folle nei loro paesi, è indicativo, perche si sentono vincolati dall’opinione pubblica dei loro paesi, e quindi in questi casi vale di meno la parola privata. Perciò sarà interessante vedere se chiudere il divario tra dichiarazioni private e pubbliche sia un bene o un male. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche

Wikileaks è «l’11 settembre della diplomazia» o «l’11 settembre di internet»?

di Pino Cabras – Megachip.

Ora che ci dicono che con le prime nuove soffiate di Wikileaks sta esplodendo «l’11 settembre della diplomazia» ovvero «l’11 settembre di internet», deve valere una premessa: non ci sono individui, e neanche organizzazioni, che siano in grado di leggere 250mila documenti in breve tempo. Quindi ci arriva solo un flusso filtrato di documenti. E chi lo filtra, per ora, è la vecchia fabbrica dei media tradizionali. Se di un 11 settembre si trattasse, saremmo nella fase del trauma mediatico iniziale, quella che ci dà l’imprinting, l’apprendimento base del nuovo mondo su cui ci affacciamo e delle nuove credenze sulle quali far fede. Una volta educate le menti con questo shock, le sue riletture successive andranno controcorrente e perciò partiranno sfavorite.

Il primo imprinting è proprio nell’idea del trauma, l’idea dell’ora zero dell’evento. Il mezzo è il messaggio. Mezzo e messaggio sono: vivere un trauma. Come se prima del percolare dei segreti attraverso Wikileaks non vi fosse modo di interpretare la politica, la diplomazia, i segreti, le normali trame degli Stati. Come se l’interpretazione storica – anch’essa basata su archivi e documenti, ma in tempi più lunghi e meditati – adesso dovesse cedere il passo e appiattirsi sull’evento emotivo.

Il secondo imprinting è sull’importanza attribuita ai temi cari alla diplomazia statunitense. Leggiamo i dispacci degli ambasciatori, scritti in modo franco e brutale, ma non per questo esenti da falsità, errori prospettici, pregiudizi, goffe banalità, chiusure. Vediamo cioè soltanto i pezzi di una visione del mondo che tuttavia non è l’unica in campo. Si continua a enfatizzare e cristallizzare per esempio la paura dell’inesistente atomica iraniana, mentre si continuano a ignorare le esistenti atomiche israeliane. Wikileaks e i media tradizionali, se combinati assieme, confermano insomma i temi dell’agenda dominante ma sconvolgono i codici della diplomazia. Proprio quel che fa la guerra, specie nella sua variante della guerra psicologica.

Il terzo imprinting è lo scompiglio sul web, talmente forte da risvegliare coloro che dal caos vorrebbero trarre un nuovo ordine sulla Rete. Due anni fa pubblicammo l’allarme del giurista che meglio conosce la Rete, Lawrence Lessig, il quale prediceva che «sta per accadere una specie di ’11 settembre di internet’», un evento che catalizzerà una radicale modifica delle norme che regolano la Rete. Lessig rivelava che il governo USA, così come aveva già pronto il Patriot Act ben prima dell’11 settembre, aveva già «un ‘Patriot Act per la Rete’ dentro qualche cassetto, in attesa di un qualunque considerevole evento da usare come pretesto per cambiare radicalmente il modo in cui funziona internet». Così come George W. Bush, anche Obama sta facendo di tutto per avere, oltre alla valigetta nucleare, anche i bottoni per spegnere il web. L’evento in corso potrebbe spingere molti governi a voler affidare a qualcuno la nuova valigetta del potere. La Cina traccia il solco da tempo, del resto.

Il quarto imprinting è l’idea che i segreti siano tutti registrati, ben custoditi dai fogli con la carta intestata degli apparati, e perciò prima o poi inevitabilmente rivelati, con tanto di numero di protocollo e firma. Gran parte del vero potere è invece fuori scena: non scrive i suoi ordini, non ha catene di comando interamente tracciabili, è silente, sta in circuiti extraistituzionali, si giova di strati di copertura, di strutture parallele, di leve lunghe. Si avvale nondimeno di apparati e procedure legali, ma senza dichiararne le vere finalità. È un’illusione tanto ingenua ritenere che Wikileaks possa scoperchiare tutti gli strati del potere, tanto quanto ritenere che i veri potenti si possano combattere solo amplificando la trasparenza liberale.

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A margine, qualche considerazione dal lato italiano sul caso Wikileaks. Il Caimandrillo (caimano e mandrillo) ha intuito che il colpo per lui c’è, ed è forte. Dice di essersi fatto una risata. Ma forse non è stata troppo fragorosa. Lui, padrone di un medium tradizionale, la Tv, che ha portato alle sue estreme conseguenze, diffida di un medium, il web, che gli è forestiero né potrà mai controllare. Nel mondo ci sono altri caimani e ora vorrebbe anche farlo sapere in giro, fra un “wild party” e un altro, quando scatena i suoi comunicatori per denunciare un complotto internazionale contro di lui. Gli inventori del “trattamento Boffo” nulla potranno però contro un trattamento Boffo al cubo.

Il Caimandrillo ha voluto partecipare al grande gioco mondiale non da leader che trascina una nazione, ma da padrone che la divide, la estenua e non la porta tutta. Nel grande gioco ora appare ritratto in mutande, lo vedono per quel che è: non è il padrone dell’Italia, è solo il padrone di un suo segmento affaristico. Altri padroni si preparano a spolpare il paese diviso, senza che sia in pista una classe dirigente in grado di instaurare un minimo di sovranità nazionale capace di difendere gli interessi vitali dell’Italia. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

Wikileaks: Berlusconi? “incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno”. Parola di Elizabeth Dibble, dell’ambasciata USA a Roma. A quando le dimissione del leader “fisicamente e politicamente debole” le cui “frequenti lunghe nottate e l’inclinazione ai party significano che non si riposa a sufficienza”?

Berlusconi incapace, portavoce di Putin. “Incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno”: questo il giudizio dell’incaricata d’affari americana a Roma Elizabeth Dibble sul presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Non solo: il presidente del Consiglio italiano è un leader “fisicamente e politicamente debole” le cui “frequenti lunghe nottate e l’inclinazione ai party significano che non si riposa a sufficienza”. Secondo i documenti svelati da Wikileaks, il premier italiano è visto con scarsa fiducia, se non con aperto sospetto, per i suoi rapporti con Vladimir Putin, di cui viene definito il “portavoce in Europa”. I rapporti americani parlano di rapporti sempre più stretti tra i due leader, conditi da “regali sontuosi” e da “contratti energetici lucrativi”. I diplomatici segnalano anche la presenza di “misteriosi intermediari”. Nei documenti appare anche il ministro degli Esteri Franco Frattini, che avrebbe espresso “frustrazione per il doppio gioco di espansione verso l’Europa e l’Iran da parte della Turchia”. Beh, buona giornata.

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