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Attualità Leggi e diritto

L’Antitrust multa chi ha le mani in pasta.

L’Antitrust ha multato per complessivi 12,5 milioni il “cartello” delle pasta. Il Garante ha infatti deliberato che le società Amato, Barilla, Colussi, De Cecco, Divella, Garofalo, Nestlè, Rummo, Zara, Berruto, Delverde, Granoro, Riscossa, Tandoi, Cellino, Chirico, De Matteis, Di Martino, Fabianelli, Ferrara, Liguori, Mennucci, Russo, La Molisana, Tamma, Valdigrano, insieme all’Unipi, Unione Industriali Pastai Italiani, hanno posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza finalizzata a concertare gli aumenti del prezzo di vendita della pasta secca di semola da praticare al settore distributivo.

Sono invece risultate estranee all’intesa, a diverso titolo, le società Gazzola, Mantovanelle e Felicetti, nei confronti delle quali era stata ugualmente avviata l’istruttoria. I produttori sanzionati – fa sapere l’Antitrust con una nota – sono rappresentativi della stragrande maggioranza del mercato nazionale della pasta (circa il 90%) e Unipi è l’associazione di categoria più rappresentativa del settore.

L’Autorità ha sanzionato, con 1.000 euro, anche l’intesa realizzata da Unionalimentari, Unione Nazionale della Piccola e Media Industria Alimentare che, in quanto associazione d’impresa, ha divulgato una propria circolare per indirizzare gli associati verso un aumento uniforme di prezzo.

Garofalo: né cartello, né speculazione. Il pastificio Garofalo ribadisce con fermezza di non aver mai aderito a presunti accordi di cartello finalizzati ad influenzare la dinamica dei prezzi sul mercato e di non aver mai operato nessun tipo di speculazione nè alcun accordo lesivo degli interessi dei consumatori».

Barilla: stupiti. «Il provvedimento dell’Autorità Garante ci lascia stupiti. La nostra missione, da sempre, è quella di offrire alle persone prodotti di ottima qualità al giusto prezzo, operando in assoluta trasparenza, secondo i principi di sana concorrenza alla base del libero mercato», è il commento di Guido Barilla. «Non credo si possa parlare di speculazioni, ma di condizioni minime di sopravvivenza per un intero comparto industriale che, nonostante le forti tensioni interne, continua a garantire al nostro Paese, al costo di 1 euro, un pasto per una famiglia di quattro persone». Beh, buona giornata.
(fonte: ilmessaggero.it)

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

“L’attacco al diritto di sciopero è un attacco alla democrazia.”

ricevo e pubblico (Beh, buona giornata):

Con le nuove norme previste dal Governo sul diritto di sciopero si sta andando rapidamente verso un nuovo
e pericolosissimo capitolo del più vasto tema della limitazione delle libertà sindacali e costituzionali, della
democrazia nel mondo del lavoro e nella società.
Dietro un linguaggio formalmente tecnicistico, presentato come un intervento per il solo settore trasporti, il
governo predispone la legislazione per gestire la fase attuale e futura di grave crisi economica e le
conseguenti risposte dei lavoratori al tentativo di farne pagare a loro il costo. Ciò è confermato dal fatto che
il governo ha annunciato norme che dovrebbero impedire di bloccare strade, aeroporti e ferrovie, forme di
lotta utilizzate da tutti i lavoratori in casi particolarmente drammatici.
L’attacco al contratto nazionale, le nuove norme che si intendono introdurre sulla rappresentatività
sindacale, la nuova concertazione tra governo, confindustria e sindacati confederali che si è trasformata in
una vera e propria alleanza neocorporativa, sono elementi finalizzati ad impedire le rivendicazioni e la difesa
dei diritti dei lavoratori. Ciò avviene proprio quando più grave è la crisi economica, più pesanti le
conseguenze per i lavoratori e maggiore la necessità di risposte determinate.
Lo scopo del governo è quello di imporre per legge la pace sociale, vietando e criminalizzando il diritto
di sciopero. Di ridurre al silenzio i lavoratori mentre si celebrano i misfatti nel settore dei trasporti –
Fs , Tirrenia, Alitalia – con migliaia di esuberi, di messa in mobilità, di licenziamenti e il relativo
aggravio sulla qualità del servizio e dei costi
UN COLPO DI MANO CHE VA SVENTATO SUL NASCERE , INSIEME A TUTTI I TENTATIVI PROTESI A
METTERE AL BANDO LA COSTITUZIONE E I DIRITTI FONDAMENTALI.
Illegittima e autoritaria l’ipotesi di consegnare lo sciopero, che è un diritto individuale sancito dalla
Costituzione, alla disponibilità gestionale di sindacati che rappresentino il 50% dei lavoratori; assurdo
perché in molte aziende la sindacalizzazione non arriva neanche al 50%. Nonché il referendum preventivo
che tende a dilazionare e snaturare l’azione di sciopero, già oggi estremamente contrastata dalle limitazioni
della Commissione di Garanzia e dai ripetuti divieti del governo. Altrettanto improponibile è l’adesione
preventiva allo sciopero, un non senso giuridico che prevederebbe l’impossibilità del singolo di poter mutare
il proprio atteggiamento rispetto ad un’azione sindacale indetta. Inaccettabile infine la forma di lotta virtuale
che di fatto elimina il diritto di sciopero ed assegna alle parti la capacità/volontà di individuare la “penale”
per l’azienda in caso di “sciopero lavorato”, mentre ai lavoratori si ritira l’intera giornata di lavoro: quindi la
perdita secca della giornata per il lavoratore ed una impercettibile riduzione dei profitti per l’azienda.
Contro questo ennesimo tentativo di eliminare il diritto di sciopero rispondiamo con la mobilitazione
immediata contro governo e padroni, cisl, uil e ugl e finalizzando a questo obbiettivo gli scioperi già
programmati a partire da quello per il trasporto aereo del 4 marzo.
Il sindacalismo di base ha indetto una manifestazione nazionale a Roma il 28 marzo e uno
sciopero generale per il 23 aprile anche per difendere il diritto di sciopero e la democrazia
sindacale
Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale
26 febbraio 2009

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Attualità Salute e benessere

Le nuove centrali nucleari sono più pericolose di prima.

(da unita.it)

Le centrali nucleari di nuova generazione sono più pericolose, in caso di incidente, degli impianti che dovrebbero sostituire. A dirlo è un’inchiesta del quotidiano britannico «The Independent», secondo il quale alcuni documenti di natura industriale proverebbero come, in caso di incidente, la fuoriuscita di radiazioni da queste centrali sarebbe notevolmente più consistente e pericolosa che non in passato.

Documenti che provengono anche dalla francese Electricite de France. Si tratta di prove, scrive il quotidiano, «ben sepolte tra le carte della stessa industria nucleare» e che «mettono in dubbio le ripetute affermazioni secondo le quali i nuovi Epr, European Pressurised Reactors, sarebbero più sicuri delle vecchie installazioni». Semmai sarebbe vero il contrario: «Pare che un incidente ad un reattore o al sistema di smaltimento delle scorie, sebbene più difficile da verificarsi, potrebbe avere conseguenze ancor più devastanti in futuro». In particolare, tra gli studi esaminati, « ce n’è uno che suggerisce che le perdite umane stimate potrebbero essere doppie» rispetto al passato.
Un impianto della generazione Epr è già stato realizzato in Finlandia, due sono in fase di realizzazione o progettazione in Normandia. Quattro verrebbero realizzati dalla Edf in Gran Bretagna. L’India è interessata a costruirne sei.

«Finora questo tipo di centrali è stato generalmente considerato meno pericoloso di quelli attualmente in funzione», continua il giornale britannico, «solitamente perché dotato di maggiori misure di sicurezza e in grado di produrre meno scorie. Ma le informazioni contenute nei documenti da noi consultati dimostrano che in effetti producono una quantità di isotopi radioattivi di gran lunga maggiore tra quelli definiti tecnicamente «frazioni di rilascio immediato» proprio perché fuoriescono facilmente dopo un incidente».

Inoltre «i dati contenuti in un rapporto fornito dalla Edf suggeriscono l’idea che la quantità di particelle radioattive di rubidio, bromo, cesio e iodio sarebbero il quadruplo che con i reattori attualmente in uso». Un secondo rapporto, questa volta della Posiva Oy, una compagnia specializzata nel trattamento delle scorie nucleari e che è di proprietà di due ditte specializzate nella costruzione di centrali, «lascia intendere che la produzione di iodio 129 sarebbe addirittura sette volte superiore».
Non basta, c’è anche «un terzo dossier, redatto dalla Swiss National Co-operative for the Disposal of Radioactive Waste, che lascia concludere che il cesio 135 ed il cesio 137 sarebbero maggiori di
11 volte». Tanta disparità nei possibili effetti di un incidente è dovuta proprio all’idea attorno alla quale sono impostati i reattori di nuova generazione, che bruciano il loro combustibile nucleare ad una velocità doppia rispetto agli attuali«.
La Areva, l’azienda che progetta gli Epr, ha puntualizzato, una volta interpellata dall’Independent, «che la radioattività complessiva delle scorie in realtà aumenta solo in misura leggera». Inoltre «queste centrali sono state progettate esattamente per bloccare ogni fuga radiattiva».

Il quotidiano, però, ha fatto analizzare i dati ad alcuni esperti di propria fiducia. Conclusione: «Il motivo di preoccupazione è comunque la grande quantità di materiale radioattivo che può fuoriuscire», perché «nessun sistema dà la certezza matematica della sicurezza». A riguardo il commento della Edf è lapidario: «Siamo fiduciosi che i nuovi impianti possano essere costruiti e gestiti in assoluta sicurezza».

Per ora dunque, e proprio nel giorno in cui anche il governo Berlusconi prende accordi con la Francia per tornare al nucleare, pare non ci resti che la “fede”. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Il sindacato di Polizia contro le ronde: : “Esiste già il dovere civico dei cittadini di chiamare polizia e carabinieri se succede qualcosa, che senso hanno queste ronde?”

(AGI) – Milano, 24 feb. – Accuse di tradimento per le promesse non mantenute vengono lanciate dal Siulp di Milano al Governo.
“La decisione di istituire le ronde – ha detto Gabriele Ghezzi, segretario cittadino del Siulp – fa venire in mente una mancanza di fiducia da parte del Governo verso la polizia. Siamo frustrati, si autorizzano le ronde ma la nostra situazione è ferma da anni”.

Le lamentele da parte dei poliziotti milanesi arrivano il giorno dopo la visita al capoluogo lombardo del ministro dell’Interno Roberto Maroni, che ha visitato il comando regionale dei Carabinieri. Ieri in conferenza stampa il Ministro ha promesso 100 milioni di euro per nuove assunzioni e altri 100 per la manutenzione delle auto. “Per la benzina e le auto ferme servirebbe una finanziaria – attacca Ghezzi – altro che cento milioni”. E sulle ronde dice: ‘Esiste già il dovere civico dei cittadini di chiamare polizia e carabinieri se succede qualcosa, che senso hanno queste ronde?’. Il Siulp ha anche attaccato il questore di Milano, Vincenzo Indolfi e lo ha definito: “Inadeguato, ignaro a qualsiasi sollecitazione e in fuga mentre la nave affonda”.

Secondo il Siulp le colpe del Questore sarebbero di non fare abbastanza per consentire agli agenti di lavorare al meglio e cita alcuni esempi: “Il commissariato Greco Turro fatiscente, 13 poliziotti di un ufficio Digos costretti a lavorare in 12 metri quadri, e ancora la carenza di personale alla Polposta e Polstrada”. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Crisi economica globale: catastrofi e catastrofisti.

di Steve Watson – Infowars.net

Il crollo delle banche è già avvenuto. La crisi è la peggiore di sempre. Il sistema finanziario si è effettivamente disintegrato. Un’insurrezione sociale di massa è probabile.

Un’ondata di economisti, investitori e altri esperti finanziari durante il fine settimana ha pronunciato una serie di terribili ammonimenti riguardanti la crisi finanziaria globale, nei quali hanno dichiarato che una nuova era di caos ha preso piede in tutto il globo.
Alcuni hanno affermato che un collasso bancario totale sia già avvenuto, mentre altri hanno dichiarato che la recessione sia ormai la peggiore mai registrata, superando di gran lunga la grande depressione.

Il gestore di hedge fund e miliardario filantropo George Soros ha detto che il sistema finanziario si è effettivamente disintegrato, con turbolenze più gravi che durante la grande depressione e con un declino paragonabile alla caduta dell’Unione Sovietica.

L’ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker ha detto di non poter ricordare nessun momento, neppure nella grande depressione, in cui le cose siano andate giù in modo così veloce e altrettanto uniforme in tutto il mondo.

L’analista dei mercati finanziari Martin D. Weiss ha dichiarato che il crollo bancario si è già verificato e un grave tracollo di Wall Street è ormai imminente.

Un soggetto leader nelle previsioni, la National Association for Business Economics, ha messo in guardia sul fatto che la recessione è destinata a peggiorare e il tasso di disoccupazione potrebbe raggiungere il 9% quest’anno, il 10% l’anno prossimo e continuerà a crescere nel 2011. Nel 2008, il tasso di disoccupazione era in media del 5,8%, il più alto dal 2003.

Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, professori di finanza rispettivamente dell’Università del Maryland e dell’Università di Harvard, hanno detto che la crisi «non avrebbe potuto essere più grave», mentre avvertivano che, se mantenute le medie delle precedenti crisi, gli americani possono attendersi che la disoccupazione raggiunga l’11 o il 12 per cento, che i prezzi delle case calino a livello nazionale del 36%, le scorte  perdano più della metà del loro valore, e la produzione reale pro capite precipiti del 9,3%.

L’economista Nouriel Roubini della New York University ha previsto un decennio perduto di stagnazione in stile giapponese (una micidiale combinazione di stagnazione, recessione e deflazione), ma su base mondiale.
«L’economia mondiale è ormai letteralmente in caduta libera, poiché la contrazione dei consumi, della spesa in conto capitale, degli investimenti immobiliari, della produzione, dell’occupazione, delle esportazioni e importazioni, si sta accelerando anziché rallentare», ha scritto Roubini.

Sebbene l’amministrazione Obama abbia negato che stia pianificando di nazionalizzare gruppi di banche statunitensi, gli speculatori hanno affermato che ciò sta già avvenendo e continuerà se Obama converte le azioni privilegiate del governo in Citigroup Inc. in più comuni azioni ordinarie al fine di aiutare l’impresa a sopportare le perdite. Il Tesoro ha anche annunciato che è pronto a gettare via ancora più soldi nelle banche, in aggiunta ai trilioni di dollari dei contribuenti dileguatisi finora.

Mentre alcuni economisti si sono rassegnati ad accettare questa come “l’unica via d’uscita”, Jim Cramer della CNBC ha ammonito che la nazionalizzazione schiaccerebbe l’America e farebbe sprofondare il sistema finanziario in «un mondo di caos», che nel corso della storia ha portato a «gravissime rivolte e disordini sociali».

Analoghi reportage e analisi hanno recentemente previsto che il mondo sia alla vigilia di gravi disordini sociali a causa della crisi finanziaria. Il fine settimana ha visto le proteste raggiungere il punto di ebollizione in Irlanda, i governi in Islanda e Lettonia sono già stati rovesciati, mentre la polizia del Regno Unito si sta preparando per una “estate di scontento” e proteste di massa contro la cattiva gestione della crisi economica da parte del governo.

Un aumento delle esercitazioni addestrative sulla guerra urbana lungo tutti gli Stati Uniti non è di buon auspicio, alla luce di tali resoconti, dato in particolare che Northcom ha sottolineato che la partecipazione attiva di truppe all’interno degli USA sarà designata ad affrontare «disordini civili e di controllo della folla».

Naturalmente, da questo caos, come abbiamo sempre avvertito per oltre un decennio, si sta presentando un nuovo ordine. Oggi il primo ministro britannico Gordon Brown ha fatto appello a un “New Deal globale”, che contemplerebbe misure restrittive” del governo su tutti i mercati finanziari, compresi gli hedge fund.

In sostanza, questo sarebbe l’ultimo chiodo nella bara del libero mercato, e inaugurerebbe un nuovo periodo di governo regolato globale del sistema finanziario. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: Steve Watson, Analysts: New Era Of Chaos Has Taken Hold, Infowars.net
Traduzione di Pino Cabras per Megachip.

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Attualità Media e tecnologia

Il black out di Gmail.

di VITTORIO ZAMBARDINO da repubblica.it

Una cosa è certa, da San Francisco a Roma, da Londra a Sidney l’abbiamo saputo tutti allo stesso modo: su facebook e twitter. Le proteste si moltiplicavano col passare dei minuti. E la notizia è stata appresa grazie a questa gigantesca pubblicazione distribuita di massa: “Gmail, la posta di Google, è andata giù. Fate qualcosa.” Un’altra prova di quanto ormai la parte più attiva dell’utenza internet è dipendente da Google per la sua vita digitale quotidiana (Qui il servizio di Repubblica.it).

Tre ore e passa di sospensione del servizio. Non la prima volta per il motore. E un gran buio di dati oggettivi, anche se l’azienda ha subito ammesso che c’era un problema, cominciato alle 9,30 ora GMT, quindi le 10,30 in Italia e proseguito fino a dopo le 13 (ora italiana).

Gran buio perché nessuno sa quanti utenti siano stati coinvolti: secondo la Bbc, Gmail ha 113 milioni di iscritti, secondo Comscore ed altre società di rilevazione ha 238 milioni di utenti unici (che non equivalgono ai registrati). Secondo una fonte di Google Italia si tratta di “decine di milioni” in tutto il mondo. E pur volendo considerare che gran parte di coloro che usano il sistema risiedono negli Stati Uniti, che all’ora del blocco erano immersi nella notte, l’idea che “decine di milioni di persone” si siano viste bloccare non solo la posta ma anche i documenti di lavoro che sono ospitati nelle applicazioni on line, come Google Documents, è plausibile.

C’è stato chi, come un blog ufficiale del Guardian ha provato a fare un calcolo delle perdite economiche, visto che almeno 1 milione di piccole aziende nel mondo si affida a Google Mail per le proprie attività: ma francamente sembra un esercizio di fantamatematica, più che il processo di dati reali.

Che conclusione trarne? – Al buio attuale, cioè nella più completa mancanza di informazioni di merito, nessuna. E nessuno specialista si pronuncia. Semmai gli addetti ai sistemi di posta, sentiti al telefono, sollevano un argomento serio. Questo: che un servizio con 113 milioni di utenti, che ormai usano Gmail come archivio, prima che come servizio di posta, e sul quale vengono fatti viaggiare dati pesantissimi, come i video, rappresentano un volume di traffico talmente grande che non c’è poi da menar scandalo se c’è stato un problema.

Negli anni predigitali, a Natale e per decenni, i giornali hanno pubblicato la foto degli uffici postali paralizzati dai milioni di cartoline di auguri e pacchi postali. Forse è successo qualcosa di analogo, ma di certo nessuno lo sa.

E questo è il punto cruciale del discorso. Che Google non fornisce mai informazioni precise sulle questioni che lo/la riguardano. Che si tratti dei meccanismi che regolano l’asta per l’assegnazione della pubblicità o che si tratti di un black out di posta. Ma questo è un tema di trasparenza, non di inaffidabilità tecnica: problema rilevantissimo,perché nel momento in cui un servizio privato è alla base della quotidianità di decine di milioni di persone – ed oggetto di transazioni economiche, come per gli adsense – la chiarezza nell’informazione aziendale è questione costitutiva di un rapporto sano col mercato e con i clienti.

p.s.

un piccolo punto messo a segno dai telefoni mobili: Google Mail non si è mai fermata per chi accedeva con modalità diverse da quella web. Quindi iPhone e Blackberry hanno funzionato alla grande. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

Questa notizia è riservata a chi crede che immigrazione è uguale a criminalità.

(fonte:ilmessaggero.it)

Danno lavoro ad almeno mezzo milione di lavoratori, anche italiani. Sono i 165.114 immigrati titolari d’impresa. Tra i settori preferiti non solo l’etnico, ma anche lavanderie, saloni di estetica, pasticcerie, agenzie di viaggio e di traduzione. Figurano anche farmacie e piccole case di moda. Le imprese di immigrati dal 2000 sono cresciute al ritmo di 20 mila l’anno. In cinque anni, dal 2003 al 2008, gli imprenditori stranieri sono triplicati. Infine: ogni tre immigrati adulti due hanno un conto in banca.
Fondazione Ethnoland, realizzato in collaborazione con i ricercatori del Dossier immigrazione Caritas/Migrantes (ImmigratImprenditori, ed. Eidos), presentato oggi a Roma nella sede dell’Abi (Associazione bancaria italiana).

Il rapporto. E’ il quadro che emerge da un rapporto della

Aziende triplicate a giugno. Si tratta di un’azienda ogni 33 (il 2,7% di quelle registrate, il 3,3% di quelle attive) e rispetto al 2003 (quando erano appena 56.421) il loro numero, a giugno 2008, è triplicato. Un sesto degli imprenditori è donna. Le imprese di immigrati incidono quasi per il 10% nel lavoro dipendente.

La localizzazione delle imprese. Il maggior numero di imprese si trova in Lombardia (30 mila) e Emilia Romagna (20 mila). In Sardegna, Sicilia e Calabria gli immigrati hanno uguagliato il tasso di imprenditorialità degli italiani e in alcune regioni come il Piemonte e la Toscana è più soddisfacente della media nazionale. Tra gli italiani vi è un’impresa ogni 10 residenti, mentre tra gli immigrati una ogni 21. Se si uguagliasse il tasso di imprenditorialità nazionale, entro 10 anni l’ammontare delle nuove aziende straniere potrebbero salire di altre 200 mila raggiungendo un milione di occupati. A livello provinciale, al momento, spiccano Milano (17.297) e Roma (15.490).

I settori delle imprese degli immigrati. Quello privilegiato è l’industria con 83.578 aziende (50,6%); al suo interno prevale l’edilizia (64.549) e il tessile (10.470). Gli agricoltori sono appena 2.500, per via degli alti costi iniziali che comporta l’acquisto dei poderi. Gli imprenditori stranieri sono per lo più marocchini (in 5 anni sono aumentate del 27,4%), seguono i romeni (+61,2%), i cinesi (+24,4%), l’Albania (+48,5%). I marocchini sono per lo più dediti al commercio (67,5%), i romeni all’edilizia (80%), i cinesi si ripartiscono fra l’industria manifatturiera (46%) e il commercio (44,6%).

Il contributo al Pil. Il rapporto ricorda che il lavoro degli immigrati contribuisce alla formazione di circa un decimo del Pil. Nel 2007, il loro gettito fiscale è stato stimato in 5,5 miliardi di euro. Mentre, il costo a carico dei comuni – se si ipotizza che siano stati il 20% dell’utenza – si stima una spesa di 700 milioni di euro: «un livello comunque di neanche un quinto del totale delle entrate fiscali assicurate dagli stessi immigrati».

Voglia di riscatto. A spingere un immigrato ad avviare un’impresa è il maggior guadagno visto che se dipendenti la loro paga è appena il 60% di quello di un italiano. E poi, rileva il rapporto, gli immigrati vogliono «scrollarsi di dosso i pregiudizi dando di sè un’immagine più veritiera. La volontà di affermarsi è fortissima anche se a volte è frenata dagli ostacoli legislativi, burocratici, finanziari, ambientali». (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia

Agcom li multa, loro continuano. E’ una nuova strategia di marketing?

Negli ultimi mesi una serie di procedimenti diretti a verificare la corretta osservanza – da parte di alcuni operatori telefonici – delle norme in tema di portabilità del numero, servizi non richiesti, indici di qualità, applicando sanzioni per complessivi 2.804.000 euro, hanno portato, come annuncia la stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) a multare i cinque principali operatori nel mercato italiano: Vodafone è stata multata con 1.680.000 euro; Telecom Italia con 536mila euro; Opitel, che è l’azienda che gestisce Tele 2 Italia con 348mila euro; Bt Italia ed Eutelia con 120mila euro ciascuna.

Le sanzioni inflitte a Vodafone, per un totale di 1.680.000 euro, riguardano innanzi tutto la violazione delle norme relative alla mobile number portability e in particolare: 1.440.000 euro per aver illegittimamente ostacolato le richieste di trasferimento di utenti verso operatori concorrenti; 240.000 euro per aver utilizzato in modo improprio i dati dei clienti che avevano chiesto la portabilità del numero verso un altro operatore.

Telecom Italia viene invece multata per diverse violazioni della normativa a tutela dei consumatori: 240.000 euro per aver utilizzato in modo improprio i dati dei clienti che avevano chiesto la portabilità del numero verso un altro operatore; 180.000 euro per aver addebitato servizi a sovrapprezzo non richiesti; 116.000 euro per il mancato raggiungimento degli obiettivi di qualità stabiliti per l’anno 2007, sia per quanto riguarda il tasso di malfunzionamento delle linee di accesso più alto del dovuto, sia per i tempi di riparazione dei guasti superiori a quelli previsti.

Opitel (Tele2 Italia) viene punita per aver attivato servizi non richiesti ad utenti che si ritrovavano, senza saperlo, ad essere clienti della società; in questo caso l’Autorità non ha ritenuto sufficiente la proposta di impegni presentata dall’operatore, «in quanto non conteneva alcuna modifica migliorativa rispetto agli obblighi già imposti dalla normativa di settore a tutti i gestori».
Infine 240.000 euro complessivi (120.000 ciascuno) è la multa per Bt Italia ed Eutelia, per la violazione della normativa sui servizi a sovrapprezzo.
Quello che colpisce è la reiterazione delle infrazioni e il fatto che sia un costume generalizzato a tutti gli operatori. Tanto da far pensare che abbiano fatto “cartello”, cioè che si siano accordate sulla violazione della normativa. Dal che deriverebbe il fondato sospetto che venga calcolato il rischio delle eventuali sanzioni pecuniarie, a priori nei piani tariffari, tanto più che le somme dovute dalle sanzioni sono un costo accettabile, visti i fatturati delle compagnie telefoniche.
Il che configurerebbe una strategia di marketing, poco ortodossa, ma tutto sommato conveniente: forzo le norme, incamero i proventi, pago le sanzione e alla fine faccio comunque profitti. Non è etico? Tanto i clienti si incazzano, ma poi gli passa, anche perché, in barba alla concorrenza, non è che cambiando gestore cambia la situazione: lo fanno tutti! E possono continuare a farlo, perché la “class action”, cioè la possibilità di intentare cause civili collettive contro i cattivi comportamenti delle grandi compagnie è stata rinviata di due anni, dal decreto “milleproroghe” varato dal governo.
Due anni coincidono con la presunta durata dell’attuale crisi economica, che colpisce tutti i consumi, con il conseguente calo dei fatturati delle aziende. Però, la telefonia tiene, sia dal punto di vista dei consumi che dei fatturati. Forse adesso è chiaro perché. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Natura Salute e benessere

Energia nucleare? No, grazie.

“Dovremo affrontare la costruzione e la realizzazione di centrali nucleari in Italia”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto

Sicurezza: tolleranza zero? No, 60,9: ecco come la xenofobia copre la violenza di genere.

Gli autori delle violenze sessuali sono italiani in più di sei casi su dieci. E’ il dato rilasciato dal Viminale durante un convegno dedicato alla violenza sulle donne, che si è tenuto oggi a Roma. Il ministero dell’Interno ha reso noto che gli autori di stupro sono di nazionalità italiana nel 60,9% casi. Solo il 7,8% dei violentatori, invece, è romeno, mentre il 6,3% è marocchino.

I numeri sono nazionali, ma ci sono anche dati relativi alle singole zone e città. “Vicino Roma il dato cambia”, ha sottolineato il capo di gabinetto delle Pari opportunità, Simonetta Matone. Rimane la prevalenza degli italiani, ma nei dintorni della capitale la percentuale scende “al 48%”, mentre quella dei romeni “sale al 28%”.

Dalle informazioni a disposizione del Viminale si evidenzia anche che a Milano, ad esempio, le violenze sessuali sono diminuite nel triennio 2006-2008: si passa dai 526 episodi del 2006 ai 480 del 2008. Anche qui però prevalgono gli italiani tra gli autori del reato: nel 41% dei casi denunciati il responsabile è cittadino italiano, nell’11% romeno, nell’8% egiziano e nel 7% marocchino.

Il ministero precisa poi che le vittime sono donne nella gran parte dei casi (85,3%). Nel 68,9% sono di nazionalità italiana. Beh, buona giornata.

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Sicurezza: pestare un immigrato non è un reato?

«Olocausto rumeno». Una scritta  lunga due metri, seguita da una svastica, è apparsa questa mattina a Roma su un muro in via della Caffarelletta vicino al parco della Caffarella dove il giorno di San Valentino una quindicenne fu  aggredita e violentata insieme al fidanzato. I due presunti responsabili furono in novantasei ore arrestastati, grazie alla collaborazione tre la polizia italiana  e quella rumena. 

L’ incitamento all’odio raziale, l’apologia del nazifascismo, gli attentati incendiari contro gli esercizi commerciali e centri culturali degli immigrati,  le aggressioni fisiche contro cittadini stranieri inermi sono all’ordine del giorno a Roma e in Italia. Pestare un immigrato non è reato?

Ieri sera, nel primo canale della tv pubblica, un ministro delle Repubblica ha detto che “chi violenta una ragazina di 15 anni è una bestia”. Bell’esempio di civiltà del diritto.  Beh, buona giornata.

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Attualità

La ronda che fa la ronda alla ronda.

(fonte: ilmessaggero.it)

A Roma una ronda di sette donne tra i 18 e i 45 anni viene accompagnata da alcuni militanti della Destra perché, come ha sottolineato Stefano Ambrosetti, segretario della Destra nel XII Municipio, «non ci fidiamo a mandarle da sole in giro». Beh, buona giornata.

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L’emendamento anti-internet di D’Alia:”noi italiani dobbiamo sempre distinguerci, anche nelle misure illibertarie e stupide al tempo stesso.”

di Carlo Gubitosa – da giornalismi.info
E’ impossibile mettere un bavaglio politico alla rete: per un sito che viene chiuso in una Repubblica delle Banane, altri mille siti in altri cento paesi del mondo sono disposti ad ospitarne i contenuti ritenuti “scomodi” da una miope legislazione nazionale.

Un provvedimento inutile per reprimere reati affida al ministero dell’Interno il potere di oscurare interi servizi web.

Per questa ragione ogni tentativo di normare la comunicazione dal basso piu’ che un bavaglio e’ solo un “bavaglino”, come quelli che si mettono ai bambini per contrastare il loro istinto naturale di giocare col cibo, sperimentando, manipolando e lanciando tutto quello che gli passa per le mani e per la bocca.

E i bavaglini sono solo palliativi inutili, come ben sa chi ha scoperto a sue spese che nonostante i nostri sforzi i bambini riescono comunque a sporcare seggiolone, genitori, tavola e pareti.

Anche i tentativi di regolamentare una tecnologia intrinsecamente libertaria e creativa come internet sono pezze colorate che non potranno fermare con un colpo di penna la forza inarrestabile della comunicazione sociale, che segue tempi, regole e dinamiche di evoluzione non governabili per legge, nonostante il pugno dei governi cerchi da sempre di stringersi attorno alla sabbia della comunicazione orizzontale. Ma la sabbia si sposta altrove, e le mani dei governi restano vuote.

Inizialmente si e’ cercato di affermare la responsabilita’ dei fornitori dei servizi internet, obbligandoli a controllare tutti i siti che ospitano come se le compagnie telefoniche fossero responsabili dei reati organizzati con una telefonata. Poi questo principio e’ diventato talmente assurdo da essere comprensibile perfino a un parlamentare.

Poi si e’ maldestramente provato ad equiparare ogni pagina web ad una testata giornalistica, col risultato tragicomico di veder oscurato un sito sciocchino pieno di bestemmie su Padre Pio (Vedi http://beta.vita.it/news/view/3208/ ), ma solo dopo averlo elevato al rango di “prodotto editoriale”, come se fosse stato il Corriere della Sera e non un banale sfogo anticlericale.

Ora c’e’ la cosiddetta “dottrina Sarkozy”, che chiude i rubinetti della rete agli “utenti cattivi” e sta prendendo piede in vari paesi europei per minacciare e criminalizzare tutti quelli che condividono materiali culturali in rete senza guadagnarci un centesimo, proprio come fanno le biblioteche pubbliche, ma pagando di tasca propria i costi di connessione e delle bollette telefoniche.

Ma noi italiani dobbiamo sempre distinguerci, anche nelle misure illibertarie e stupide al tempo stesso. Ed ecco quindi l’ultimo “bavaglino politico” con cui si e’ cercato di piegare la rete alla visione di un singolo: l’articolo 50-bis del Ddl n° 773 gia’ approvato dal Senato, un emendamento del pacchetto sicurezza varato dal governo e presentato dal senatore Udc Gianpiero D’Alia, che a suo dire servirebbe a reprimere l’utilizzo di internet per commettere reati di opinione.

Alcune bestialita’ saltano subito all’occhio gia’ dalla prima lettura: se c’e’ una apologia di reato su una pagina web si oscura tutto il sito (un po’ come oscurare tutte le reti Mediaset perche’ hanno esaltato in una specifica trasmissione l’eroismo del mafioso Vittorio Mangano) e non e’ la magistratura che dispone “l’interruzione dell’attivita'” di un sito, ma il ministero dell’Interno con apposito decreto.

Il tutto con una formulazione talmente vaga da lasciare ampi e prevedibili margini di discrezionalita’ politica al “censore” di turno, che a seconda dei suoi orientamenti decidera’ se censurare “da destra” i filmati violenti e sanguinari che mostrano i reati commessi dai poliziotti durante il G8 genovese del 2001, oppure oscurare “da sinistra” i siti padani quando fanno apologia di reato inneggiando alla rivolta armata secessionista. Ce n’e’ per tutti i gusti.

Intervistato da Alessandro Gilioli (L’Espresso), D’Alia ha spiegato che secondo lui quando un video sconveniente fa capolino su youtube bisognerebbe oscurare tutto il servizio. Affermazioni sufficienti a scatenare la protesta del popolo della rete e di chi ha sottratto alla lobotomia televisiva i neuroni sufficienti a leggere e capire una norma scritta male.

Ma il senatore ha ribadito le convinzioni espresse a Giglioli con una lettera indirizzata a Vittorio Zambardino di Repubblica.It, in cui afferma che rifiutare il suo emendamento equivale a “legittimare gli insulti, le nefandezze di cui è già piena la nostra società reale” e concedere “diritto di parola di chi incita alla mafia, al terrorismo, alla violenza, alla pedofilia, agli stupri di gruppo”.

Ma nel testo dell’emendamento si parla di “delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali”, e allora se sono gia’ previsti dal codice e puniti dalla magistratura, che bisogno c’e’ di reprimerli anche con l’azione discrezionale del Ministro dell’Interno?

Questo dubbio e’ sollevato anche dalla dettagliata analisi giuridica di questo stupido bavaglino giuridico fatta da Elvira Berlingieri sulle pagine di Apogeonline (http://www.apogeonline.com/webzine/2009/02/11/fact-check-il-50-bis-secondo-dalia) in cui si afferma che tutte le brutture descritte dal senatore sono gia’ sanzionate “da adeguati strumenti già presenti nel nostro ordinamento”, e al tempo stesso “la pericolosità sociale dei reati individuati dall’articolo 50-bis sembra sproporzionata agli effetti che la norma potrebbe perseguire”.

Tra i “delitti contro l’ordine pubblico” puniti dal codice penale, c’e’ anche l'”istigazione a delinquere” (art. 414) che punisce con la reclusione fino a cinque anni “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati, per il solo fatto dell’istigazione”, oppure l'”Istigazione a disobbedire alle leggi” (art. 415), che sbatte in galera da sei mesi a cinque anni “chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali”.

C’era bisogno di altri strumenti repressivi da affidare al potere politico anziche’ a quello giudiziario? D’Alia e’ sempre piu’ convinto di si’, e nel testo inviato a Repubblica.it sostiene che la sua azione e’ mirata a colpire “chi insulta le vittime di Mafia, si mette a disposizione di Cutolo, inneggia alla Jihad o alle Brigate rosse, spiega come fabbricare un esplosivo, incita a picchiare i romeni o considera filantropi gli stupratori di Guidonia o i pedofili”.

Ma le vittime di Mafia che tira in ballo D’Alia saranno state interpellate?Sembra proprio di no, almeno a giudicare dalla reazione di Sonia Alfano, presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia: “invece di oscurare internet – sostiene la Alfano – si potrebbero ad esempio riaprire le inchieste sulle stragi di Ustica, Via D’Amelio, Capaci, Piazza Fontana, e molte altre, e far avere alle vittime delle molteplici stragi italiane la giustizia che non hanno mai ottenuto”.

Sul suo blog “piovono rane”, Giglioli racconta che “ho proposto via mail a D’Alia un di realizzare un dibattito audio-video da registrare qui a Kataweb e da pubblicare sul sito de L’espresso, in cui il senatore avrebbe potuto rispondere a tutte le accuse mossegli in questi giorni, confrontandosi con due giornalisti e due blogger”. Ma Il senatore D’Alia, tramite il suo addetto stampa, ha rifiutato il confronto. La “bonta'” delle sue idee e’ tale da non aver bisogno di dibattito per essere colta nella sua pienezza.

Dopo essere stata demolita sul versante giuridico, l’invenzione di D’Alia e’ stata attaccata anche sul fronte tecnico dal blogger Stefano Quintarelli ( http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/quel-biiip-di-biiip-ha-biiip-una-biiip-.html )

Oltre a rilevare “una sproporzione colossale tra il garantismo relativo alle intercettazioni telefoniche e il filtraggio di qualunque comunicazione internet”richiesto dall’emendamento D’Alia, Quintarelli dimostra con dati tecnici alla mano che “quanto richiesto dalla norma non è tecnicamente fattibile. Almeno non più di quanto sia fattibile combattere le inondazioni facendo evaporare l’acqua”.

Quintarelli prosegue affermando che “la rete non e’ un luogo diverso dal mondo reale; la rete e’ uno strumento che fa parte del mondo e quindi per i comportamenti attuati con questo strumento valgono gia’ le leggi esistenti! Ma forse il legislatore lo ignora. Sequestri di contenuti, imputazioni di reati, condanne di persone che hanno compiuto reati usando lo strumento Internet, avvengono gia’, su provvedimento delle autorità”. Ma non ancora su ordine del ministro dell’Interno.

Per commentare questo pastrocchio si e’ scomodata perfino la “Grande G” di Google, che per bocca del suo rappresentante italiano Marco Pancini ha denunciato l’ignoranza e la sordita’ delle istituzioni. “Non c’è dubbio che per chi non è un nativo digitale – scrive Pancini – non è semplice comprendere immediatamente le dinamiche delle nuove tecnologie. Ma per questo è importante il dialogo fra Istituzioni, industria e società civile”, lo stesso dialogo a cui D’Alia si e’ sottratto dopo le sue esternazioni unilaterali. Pancini fa riferimento esplicito al “filtraggio di tutti i siti Internet” auspicato da D’Alia, affermando senza mezzi termini che “non serve a combattere il crimine, perché basta segnalare un’attività illecita a qualunque Internet service provider perché questi la possa rimuovere: è già previsto dalla legge e dai contratti di tutti coloro che forniscono servizi online”. Ma allora qual e’ lo scopo di questi maldestri tentativi? Google non ha dubbi: “questo serve a controllare la Rete e in quanto tale è pericoloso per la nostra libertà”.

Che sia proprio questo l’obiettivo del pasticciaccio brutto innescato dal senatore UDC? Poche righe ben confuse per consegnare al ministro dell’Interno la chiave di un potentissimo lucchetto che puo’ chiudere un intero sito anche per una piccola istigazione a delinquere di due righe, qualcosa di tremendo e di sovversivo come “non ubbidite alle leggi ingiuste, stupide e repressive scritte da parlamentari ignoranti che non hanno la minima idea del funzionamento tecnico della rete, delle sue dinamiche sociali e degli strumenti gia’ a disposizione contro gli abusi”. (Oops! Mi e’ scappato! Speriamo che non se ne accorga nessuno senno’ si chiude baracca)

Di fronte alla superficialita’ cialtrona con cui si stanno affrontando nel nostro paese i problemi delle nuove tecnologie, viene voglia di rileggere la “Dichiarazione di Indipendenza del Ciberspazio”, scritta nel 1996 da John Perry Barlow, pioniere della difesa dei diritti civili in rete e cofondatore della “Electronic Frontier Foundation”.

Per reagire alle prime leggi che mettevano le briglie alla comunicazione elettronica, Barlow affermava che “queste misure sempre più ostili e coloniali ci mettono nella stessa posizione di quegli antichi amanti della libertà e dell’autodeterminazione che furono costretti a rifiutare l’autorità di poteri distanti e poco informati. Noi dobbiamo dichiarare le nostre coscienze virtuali immuni dalla vostra sovranità, anche se continuiamo a permettervi di governare i nostri corpi. Noi ci espanderemo attraverso il Pianeta in modo tale che nessuno potrà fermare i nostri pensieri”.

Tredici anni dopo, questa sfida e’ ancora valida. (Beh, buona giornata).

Note:

APPROFONDIMENTI

L’analisi tecnica di Stefano Quintarelli
http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/quel-biiip-di-biiip-ha-biiip-una-biiip-.html

L’analisi giuridica di Elvira Berlingieri
http://www.apogeonline.com/webzine/2009/02/11/fact-check-il-50-bis-secondo-dalia

La posizione del Senatore Dalia
http://zambardino.blogautore.repubblica.it/2009/02/17/risponde-il-sen-dalia-ma-quale-censura/

La posizione di Google
http://googleitalia.blogspot.com/2009/02/filtrare-la-rete-no-grazie.html

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Attualità Leggi e diritto Pubblicità e mass media

La TP contro l’Atac di Roma che ha censurato la tv di Al Gore.

COMUNICATO STAMPA

TP – Associazione Italiana Pubblicitari Professionisti,

dopo aver preso visione delle motivazioni censorie

adottate dall’ATAC di Roma (immagini pesanti,

inopportune, che avrebbero potuto offendere la

sensibilità dei cittadini) e le successive contrastanti

dichiarazioni del suo presidente Massimo Tabacchiera

sulla campagna VANGUARD della Tv satellitare Current,

campagna normalmente on air su Milano, realizzata

dall’agenzia CookiesADV di cui è direttore creativo il

nostro socio Massimo Guastini Vice Presidente

dell’Associazione,

chiede

un incontro urgente al Garante della concorrenza e del

mercato con audizione delle parti, allo scopo di valutare

se esistono i termini giuridici perché l’ATAC potesse

compiere tale azione.

TP provvederà anche a segnalare allo IAP la campagna in

oggetto per una valutazione su quanto accaduto.

Biagio Vanacore

Presidente TP – Associazione Italiana Pubblicitari

Professionisti

Milano, 23 febbraio 2009

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

La legge contro le intercettazioni:”Sì, il giornalismo italiano non ha alcuna intenzione di rispettare una norma che sequestra ai cittadini notizie importanti.”

di Roberto Natale * – da articolo21.info

E’ una battaglia che possiamo vincere: perché poche altre volte le ragioni della categoria dei giornalisti hanno avuto la limpida coincidenza che oggi c’è fra la difesa del nostro diritto-dovere di informare e il diritto – non meno fondamentale – di un’intera comunità civile ad essere informata, a non vedersi sottratta la conoscenza dei fatti che è l’alimento di base di una opinione pubblica degna di questo nome.

L’iniziativa pubblica contro il disegno di legge Alfano che si terrà martedì 24 febbraio, dalle 10,30, nella sede della Fnsi (corso Vittorio Emanuele II, 349), è una nuova tappa della mobilitazione che il giornalismo italiano ha messo in piedi dal giugno scorso, dal primo apparire di un testo pericoloso. Ad organizzarla è un insieme di sigle che dice quanto compatto sia il mondo dell’informazione: c’è la Federazione della Stampa, c’è l’Ordine, c’è l’Unione Cronisti, e stavolta a partecipare è anche la Fieg. Cosa rara, tanto più anomala in anni nei quali giornalisti ed editori sono divisi da un rinnovo contrattuale mai prima così lungo e conflittuale.

Noi giornalisti non siamo caduti nella tentazione cieca di pensare che le maximulte minacciate dal testo fossero un problema solo delle imprese chiamate a pagare. Gli editori, a loro volta, non si sono fatti affascinare dall’idea di mettere bocca nelle scelte di direttori e redazioni; anzi hanno denunciato con chiarezza che il disegno di legge stravolgerebbe il corretto funzionamento di una impresa editoriale scardinando i fondamenti dell’autonomia giornalistica.

Abbiamo capito bene, giornalisti ed editori, che non soltanto possiamo e dobbiamo procedere insieme, ma che le nostre ragioni sono così forti perché coincidono con un interesse e un diritto ben più vasti dei nostri: l’interesse e il diritto di un intero Paese a non veder scomparire la cronaca giudiziaria. Questo è il punto cruciale, che abbiamo saputo cogliere e tener fermo nelle analisi, senza farci distrarre o confondere dalle modifiche che il testo del disegno di legge ha via via subìto. 

Il carcere per i giornalisti – presente nel testo originario, poi tolto, poi inserito di nuovo – è stato ed è uno dei temi che rischiano di provocare confusione: così enorme la minaccia, da richiamare su di sé l’attenzione e le richieste di cancellazione. Misura medievale, certo, come è stato detto. Ma se anche fosse cancellata, il nostro giudizio negativo sull’impianto del disegno di legge Alfano non verrebbe attenuato: perché rimarrebbe intatto il suo nocciolo vero e più insidioso, la secretazione per anni di vicende di assoluta rilevanza pubblica. Così come non ci siamo fatti fuorviare dai ripetuti richiami alla privacy: la riservatezza sta a cuore anche a noi, ma basta pensare al crack Parmalat per capire che questa norma impedirebbe non indebite intrusioni nella vita privata (da impedire in altro modo), ma fatti di indubbia importanza sociale.

Di questo parleremo martedì con politici di entrambi gli schieramenti, con magistrati, con avvocati, con rappresentanti delle grandi confederazioni sindacali ed esponenti dell’associazionismo dei consumatori. Abbiamo la forza di argomenti che hanno fatto breccia anche nelle discussioni di questi ultimi giorni alla Camera. L’on. Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia, ha riconosciuto che “in aula dovremmo aprire una riflessione seria sul diritto di cronaca, che è incomprimibile, e sul previsto divieto di pubblicare anche per riassunto pure gli atti investigativi non coperti da segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari. Altrimenti la norma rischia di non essere rispettata”. Sì, il giornalismo italiano non ha alcuna intenzione di rispettare una norma che sequestra ai cittadini notizie importanti. E per questo nelle prossime, decisive settimane, farà tutto il possibile – proprio tutto – per evitare che il bavaglio divenga legge. (Beh, buona giornata).

* Roberto Natale (Presidente Fnsi)

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Attualità

Nessuno parla più di Gaza. Tranne due chirurghi inglesi.

di Dr. Ghassan Abu Sittah e Dr. Swee Ang – «The Lancet»* (da megachip.info)

Il dottor Ghassan Abu Sittah ed il dottor Swee Ang, due chirurghi inglesi, sono riusciti a raggiungere Gaza durante l’invasione israeliana. In questo articolo descrivono le loro esperienze, condividono le loro opinioni e ne traggono le inevitabili conseguenze: la popolazione di Gaza è estremamente vulnerabile e totalmente inerme davanti ad un eventuale attacco israeliano.
Le ferite di Gaza sono profonde e stratificate. Intendiamo parlare del massacro di Khan Younis del 1956, in cui 5mila persone persero la vita? Oppure dell’esecuzione di 35mila prigionieri di guerra da parte dell’esercito israeliano nel 1967? E la prima Intifada, in cui alla disobbedienza civile di un popolo sotto occupazione si rispose con un incredibile numero di feriti e centinaia di morti? Ancor di più, non possiamo non tener conto dei 5.420 feriti nel sud di Gaza durante le ostilità del 2000. Ma, nonostante tutto ciò, in questo articolo ci occuperemo esclusivamente dell’invasione che ha avuto luogo dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009.
Si stima che, in quei 23 giorni, siano state riversate sulla Striscia di Gaza un milione e mezzo di tonnellate di esplosivo. Per dare un’idea approssimativa di ciò di cui si sta parlando, è bene specificare che il territorio in questione copre una superficie di 360 kilometri quadrati ed è la casa di 1,5 milioni di persone: è l’area più densamente popolata del mondo. Prima dell’invasione, è stata affamata per 50 giorni da un embargo commerciale ma, in realtà, fin dall’elezione dell’attuale governo è stata posta sotto vincoli commerciali. Negli anni, l’embargo è stato parziale o totale, ma mai assente.
L’occupazione si è aperta con 250 vittime in un solo giorno. Ogni questura è stata bombardata, causando ingenti perdite tra le forze dell’ordine. Dopo aver spazzato via la polizia, l’esercito israeliano si è dedicato ai bersagli non governativi. Gli elicotteri Apache e gli F16 hanno fatto piovere morte dal cielo, mentre i cannoni della marina militare hanno condotto un attacco dal mare e l’artiglieria si è occupata della terra. Molte scuole sono state ridotte in macerie, tra cui l’American School of Gaza, 40 moschee, alcuni ospedali, vari edifici dell’ONU ed ovviamente 21mila case, di cui 4mila sono state rase al suolo. Circa 100mila persone sono divenute improvvisamente senzatetto.

Le armi israeliane

Gli armamenti impiegati, oltre alle bombe e agli esplosivi ad alto potenziale convenzionali, includono anche tipologie non convenzionali. Ne sono state identificate almeno quattro categorie:

Proiettili e bombe al fosforo
I testimoni oculari affermano che alcune bombe esplodevano in quota, rilasciando un ampio ventaglio di micro-ordigni al fosforo che si distribuivano su un’ampia superficie. Durante l’invasione via terra, i carri armati erano usi sfondare le mura delle case con proiettili ordinari per poi far fuoco al loro interno con proiettili al fosforo. Questo metodo permette di scatenare terribili incendi all’interno delle strutture, ed un gran numero di corpi carbonizzati è stato rinvenuto ricoperto da particelle di fosforo incandescente. Un preoccupante interrogativo è posto dal fatto che i residui rinvenuti paiono amalgamati ad un agente stabilizzante speciale, che gli conferisce la capacità di non bruciare completamente, fino all’estinzione. I residui di fosforo ancora coprono le campagne, i campi da gioco e gli appartamenti. Si riaccendono quando i bambini curiosi li raccolgono, oppure producono fumi tossici quando i contadini annaffiano le loro terre contaminate. Una famiglia, ritornata al suo orto dopo le ostilità, ha irrigato il terreno ed è stata inglobata da una coltre di fumo sprigionata dal suolo. La semplice inalazione ha prodotto epistassi. Questi residui di fosforo trattato con stabilizzante sono, in un certo senso, un analogo delle mine antiuomo. A causa di questa costante minaccia, la popolazione (specialmente quella infantile) ha difficoltà a tornare ad una vita normale.
Dagli ospedali, i chirurghi raccontano di casi in cui, dopo una laparotomia primaria per curare ferite relativamente piccole e poco contaminate, un secondo intervento ha rivelato aree crescenti di necrosi dopo un periodo di 3 giorni. In seguito, la salute generale del paziente si deteriora ed, entro 10 giorni, necessitano un terzo intervento, che mette in luce una massiccia necrosi del fegato. Questo fenomeno è, a volte, accompagnato da emorragie diffuse, collasso renale, infarto e morte. Sebbene l’acidosi, la necrosi del fegato e l’arresto cardiaco improvviso (dovuto all’ipocalcemia) siano tipiche complicazioni nelle vittime di fosforo bianco, non è possibile attribuirle alla sola opera di questo agente.
È necessario analizzare ed identificare la vera natura di questo fosforo modificato ed i suoi effetti a lungo termine sulla popolazione di Gaza. È anche urgente la raccolta e lo smaltimento dei residui di fosforo sulla superficie dell’intera regione. Queste sostanze emettono fumi tossici a contatto con l’acqua: alla prima pioggia potrebbero avvelenare tutta la Striscia. I bambini dovrebbero imparare a riconoscere ed evitare questi residui pericolosi.

Bombe pesanti
L’uso di bombe DIME (esplosivi a materiale denso inerte) risulta evidente, anche se non è stato determinato con chiarezza se sia stato impiegato uranio impoverito nelle aree meridionali. Nelle zone urbane, i pazienti sopravvissuti mostrano amputazioni dovute a DIME. Queste ferite sono facilmente riconoscibili perché i moncherini non sanguinano ed il taglio è netto, a ghigliottina. I bossoli e gli shrapnel delle DIME sono estremamente pesanti.

Bombe ad implosione
Tra le armi usate, ci sono anche i bunker-buster e le bombe ad implosione. Ci sono casi, come quello del Science & Technology Building o dell’università islamica di Gaza, in cui un palazzo ad otto piani è stato ridotto ad un mucchio di detriti non più alto di un metro e mezzo.

Bombe silenziose
La popolazione di Gaza ha descritto un nuovo tipo di arma dagli effetti devastanti. Arriva sotto forma di proiettile silenzioso, o al massimo preceduto da un fischio, e vaporizza tutto ciò che si trova in aree estese senza lasciare tracce consistenti. Non sappiamo come categorizzare questa tecnologia, ma si può ipotizzare che sia una nuova arma a particelle in fare di sperimentazione.

Esecuzioni
I sopravvissuti raccontano di tank israeliani che, dopo essersi fermati davanti agli appartamenti, intimavano ai residenti di uscirne. Di solito, i primi ad obbedire erano i bambini, gli anziani e le donne. Che, altrettanto prontamente, venivano messi in fila e fucilati sul posto. Decine di famiglie sono state smembrate in questo modo. Nello scorso mese, l’assassinio deliberato di bambini e donne disarmate è stato anche confermato da attivisti per i diritti umani.

Eliminazione di ambulanze
Almeno 13 ambulanze sono state vittima di sparatorie. Gli autisti e gli infermieri sono stati sparati mentre recuperavano ed evacuavano i feriti.

Bombe a grappolo
Le prime vittime delle bombe a grappolo sono state ricoverate all’ospedale Abu Yusef Najjar. Più della metà dei tunnel di Gaza sono stati distrutti, rendendo inutilizzabile gran parte delle infrastrutture atte alla circolazione dei beni primari. Al contrario di ciò che si pensa, questi tunnel non sono depositi per armi (anche se potrebbero essere stati usati per trafugare armi leggere), ma per carburante ed alimenti. Lo scavo di nuovi tunnel, che ora occupa un buon numero di palestinesi, ha talvolta innescato bombe a grappolo presenti sul suolo. Questo tipo di ordigni è stato usato al confine di Rafah e già cinque ustionati gravi sono stati portati all’ospedale dopo l’esplosione di queste trappole.

Conteggio dei morti
Al 25 gennaio 2009, la stima dei morti è arrivata a 1.350. Il numero è in continua ascesa a causa della mole di feriti gravi che continuano a morire negli ospedali. Il 60% dei morti è costituito da bambini.

Feriti gravi
Il numero dei feriti gravi è di 5.450, con un 40% di bambini. Si tratta in massima parte di pazienti ustionati o politraumatici. Coloro che hanno subito fratture ad un solo arto e coloro che, pur avendo riportato lesioni sono ancora in grado di camminare, non sono stati inclusi in questo conteggio.
Nelle nostre discussioni con infermiere e dottori, le parole “olocausto” e “catastrofe” sono state spesso menzionate. Lo staff medico al completo porta i segni del trauma psicologico dovuto al lavoro frenetico dell’ultimo mese, passato a fronteggiare le masse che hanno affollato le camere mortuarie e le sale operatorie. Molti dei pazienti sono deceduti nel Reparto Incidenti ed Emergenza, ancor prima della diagnosi. In un ospedale distrettuale, il chirurgo ortopedico ha portato a termine 13 fissazioni esterne in meno di un giorno.
Si stima che, tra i feriti gravi, 1.600 sono destinati a rimanere disabili a vita. Tra questi, molti hanno subito amputazioni, ferite alla colonna vertebrale, ferite alla testa, ustioni estese con contratture sfiguranti.

Fattori speciali
Durante l’invasione, il numero dei morti e dei feriti è stato particolarmente alto a causa dei seguenti motivi:

* Nessuna via di fuga: Gaza è stata sigillata dalle truppe israeliane, che hanno impedito a chiunque di fuggire dai bombardamenti e dall’invasione terrestre. Semplicemente, non c’era alcuna via di fuga. Anche all’interno dei confini di Gaza gli spostamenti dal nord al sud sono stati resi impossibili dai tank israeliani, che hanno tagliato ogni via di comunicazione. Al contrario della guerra in Libano dell’82 e del ‘06, in cui la popolazione poteva spostarsi dalle aree di bombardamento massiccio a quelle di relativa sicurezza, un opzione di questo tipo era preclusa a Gaza.

* La densità della popolazione di Gaza è eccezionale. E’ inquietante notare che le bombe impiegate dall’esercito israeliano sono “ad alta precisione”. Il loro tasso di successo, nel centrare palazzi affollati, è del 100%. Altri esempi? Il mercato centrale, le stazioni di polizia, le scuole, gli edifici dell’ONU (in cui gli abitanti erano confluiti per sfuggire ai bombardamenti), le moschee (di cui 40 sono state rase al suolo) e le case delle famiglie, convinte di essere al sicuro perché tra loro non si annidavano combattenti. Nei condomini, una sola bomba a implosione è sufficiente a sterminare decine di famiglie. Questa tendenza a prendere di mira i civili ci fa sospettare che gli obiettivi militari siano considerati bersagli collaterali, mentre l’obiettivo primario sia la popolazione.

* La quantità e la qualità delle munizioni sopra descritte ed il modo in cui sono state impiegate.

* La mancanza di difese che Gaza ha dimostrato nei confronti delle moderne armi israeliane. La regione non ha tank, aeroplani da guerra, nessun sistema antiaereo da schierare contro l’esercito invasore. Siamo stati testimoni in prima persona di uno scambio di pallottole tra un tank israeliano e gli AK47 palestinesi. Le forze in campo erano, per usare un eufemismo, impari.
L’assenza di rifugi antibomba funzionali a disposizione della popolazione civile. Sfortunatamente, anche se ci fossero non avrebbero alcuna chance contro i bunker-buster israeliani.

Conclusione
Se si prendono in considerazione i seguenti punti, è ovvio che un’ulteriore invasione di Gaza provocherebbe danni catastrofici. La popolazione è vulnerabile ed inerme. Se la Comunità Internazionale intende evitare ferimenti ed uccisioni di massa nel prossimo futuro, dovrà sviluppare una qualche forza di difesa per Gaza. Se ciò non accadrà, i civili continueranno a morire. (Beh, buona giornata).


Articolo originale: The wounds of Gaza, «The Lancet – Global Health Network», 2 febbraio 2009.
Traduzione di Massimo Spiga per Megachip.

* «The Lancet» è la rivista medica più autorevole del mondo.

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Attualità Lavoro

Crisi: ora sono gli italiani a “rubare” il lavoro agli immigrati.

da il messaggero.it

Da molti anni non succedeva più. Coloro che restano chiusi nelle cucine dei ristoranti a lavare i piatti sono, in grande maggioranza, del Bangladesh. O comunque stranieri (sono tanti anche i cinesi e c’è pure qualche nord africano). Da quattro mesi, da quando la crisi economica ha cominciato a farsi sentire anche a Roma, qualcosa è cambiato. E i titolari dei ristoranti si sono ritrovati a fare i conti con un fenomeno nuovo. A chiedere un posto da lavapiatti ora arrivano, sempre più spesso, anche gli italiani, anche i romani.

Prendiamo due punti di osservazione in centro storico, ma in due zone differenti. Trattoria Scavolino, nei pressi della Fontana di Trevi, ristorante frequentato da turisti ma anche da politici visto che il Parlamento non è tanto lontano: «E’ vero, negli ultimi mesi sta succedendo sempre più spesso – racconta Antonello, il titolare – D’altra parte, quando c’è bisogno di lavorare si accetta qualsiasi tipo di occupazione». Altro punto di osservazione, un altro ristorante molto conosciuto a Roma, il “Quattro Colonne”, in via della Posta Vecchia, a due passi da piazza Navona. Racconta Giancarlo Gilardini, il titolare: «Non mi piace chiamarli lavori umili, perché comunque qualsiasi tipo di lavoro fatto onestamente va rispettato. Però, è vero: prima a chiedere di fare i lavapiatti erano solo immigrati. Invece, da circa quattro mesi a questa parte mi sono accorto che stava succedendo qualcosa di differente.

Arrivano italiani, ci dicono che stanno cercando un’occupazione e che sono pronti a lavorare anche come lavapiatti». Magari sono studenti universitari che devono pagarsi gli studi… «No, chi viene nei ristoranti a chiedere lavoro come lavapiatti spesso ha 40-50 anni, è un padre di famiglia».

A volte hanno anche un’altra occupazione, ma magari un solo stipendio non basta per tirare avanti. In un ristorante romano il lavapiatti guadagna, in media, da un minimo di 600-700 euro a un massimo di 1000-1100. Nei ristoranti si è consolidata una sorta di specializzazione per gli immigrati del Bangladesh, perché hanno guadagnato fiducia nel settore in quanto sono rispettosi e lavoratori, dicono molti ristoratori. «Il problema vero – spiega Gilardini – è che non possiamo dire sì a tutti coloro che vengono a chiederci un lavoro. Però ci segniamo sempre i fati, se si apre un posto li chiamiamo».

Nella provincia di Roma ci sono in totale 4.800 ristoranti. Secondo uno studio dell’Ebtl del Lazio (l’ente bilaterale per il turismo) nella ristorazione sono occupati, in modo regolare, 36.500 lavoratori. Dagli chef ai camerieri, sono molti i romani che continuano a lavorare nei ristoranti. Ma già se si passa a monitorare i pizzaioli si scopre che la presenza degli immigrati è sempre più consistente. E i lavori più faticosi, quali appunto quello dei lavapiatti, è praticamente un monopolio degli immigrati. «Era impossibile – raccontano alla Trattoria Scavolino – che un italiano ti venisse a chiedere un’occupazione di quel tipo. Di fronte alla crisi economica, tutto questo sta finendo».

Altro punto di osservazione, quello degli hotel romani. A Roma gli ultimi dati disponibili parlano di 873 hotel (da una a cinque stelle) per un totale di oltre 43 mila camere. I posti di lavoro sono circa 15 mila. In questo caso i lavori che in maggioranza impegnano immigrati sono sempre quelli più faticosi: dalle pulizie ai piani ai facchini. «E anche nel nostro settore – assicura Giuseppe Roscioli, presidente degli albergatori romani – avvertiamo un mutamento delle abitudini e dei bisogni: per alcune tipologie di occupazione difficilmente in passato si faceva avanti un italiano. Da qualche mese non è più così. E la spiegazione è semplice: c’è bisogno di lavorare. Magari non ci sono stati licenziamenti, ma sempre più spesso non vengono rinnovati i contratti a tempo determinato». (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Attenzione: “Il rischio di politicizzazione della sicurezza è reale e ci riporta alla memoria tempi che credevamo superati”.

di VLADIMIRO POLCHI da repubblica.it

I City Angels battono le strade milanesi da 14 anni. Gli “assistenti civici” di Livorno sono invece pronti a debuttare in questi giorni. Il decreto anti-stupri del governo non fa che accelerare un processo in corso: decine sono le ronde già attive nei comuni del centro-nord. Il rischio? Le mani dei partiti sulla sicurezza.

Una parte delle ronde ha infatti un colore politico: in testa, sventolano le bandiere della Lega Nord, seguite da quelle di An, Destra di Storace, Forza Nuova e Fiamma tricolore. “Il rischio di politicizzazione della sicurezza – avverte l’Associazione nazionale dei funzionari di polizia – è reale e ci riporta alla memoria tempi che credevamo superati”.

Quello delle ronde non è un fenomeno omogeneo. Si va dai pensionati con block notes di Firenze, agli studenti-vigilanti di Bologna; dagli storici e apartitici City Angels lombardi, alle ronde targate Carroccio. Se infatti è vero che una parte del fenomeno è trasversale a tutte le amministrazioni comunali, di centrosinistra e centrodestra, un’altra parte mantiene precisi connotati politici.

Molte ronde sfilano oggi sotto le insegne leghiste. Le prime? Le “Ronde padane”, nate a Voghera nel 1997: “Stavamo raccogliendo le firme per chiedere una maggiore presenza di polizia nel centro storico – racconta uno dei fondatori, Gigi Fronti – quando ci venne in mente che noi stessi potevamo fare la nostra parte formando squadre che, disarmate, girassero per la città”. Quanti sono i volontari padani? Numeri ufficiali non ce ne sono, ma Mario Borghezio, già dieci anni fa, parlava di 8mila persone: “Da Cuneo e Trieste sono una quarantina i comuni coinvolti, anche grandi come Modena, Torino e Monza”.

La bandiera della sicurezza porta voti e fa gola a molti. Gli altri partiti non stanno a guardare: si muove Alleanza nazionale, con Azione Giovani a Torino, Padova e Venezia; muovono i primi passi le ronde della Destra di Francesco Storace alla periferia di Roma; la Fiamma Tricolore annuncia di aver cento militanti pronti a Trieste; Forza Nuova è già attiva a Foggia e Pescara.

Bisogna vedere ora cosa cambierà con la patente di legittimità promessa dal governo, sotto la responsabilità del prefetto. “Non solo le ronde sono una maldestra surroga alla mancanza di turn over tra le forze dell’ordine – sostiene Enzo Letizia, segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia – ma costituiscono un rischio reale di politicizzazione della sicurezza. Le ronde – prosegue – sono permeabili all’infiltrazione di organizzazioni criminali, come mafia e camorra e possono nascondere tra le loro fila delle squadracce di esaltati pericolosi”. Meno allarmato il giudizio del sociologo Marzio Barbagli: “Non serviranno a granché, ma non credo che siamo in presenza di fenomeni pericolosi, se disarmati e privi di colore politico. Una cosa però è certa: le ronde rappresentano una forma premoderna di sicurezza, di prima che nascesse la polizia. Se le si ritirano fuori, accanto all’uso dei militari in città, si mette in discussione la funzione stessa delle forze dell’ordine”. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Attenzione:”i testi che la maggioranza si appresta ad approvare incidono in profondità su alcune regole che, per anni, sono state considerate patrimonio giuridico irrinunciabile del Paese.”

 di CARLO FEDERICO GROSSO da lastampa. it

Le novità elaborate dal governo in materia di giustizia e sicurezza sono numerose. Le ronde sono già diventate legge con decreto d’urgenza e sono in attesa della conferma parlamentare. I disegni di legge in tema d’intercettazioni e processo penale sono ai nastri di partenza in Parlamento (rispettivamente in aula e in commissione). Il testamento biologico sta impegnando la commissione Sanità e dovrebbe presto approdare al dibattito plenario con un testo fortemente voluto dalla maggioranza.

Davvero innovazioni utili al bene comune? Sui diversi profili vi saranno sicuramente opinioni divergenti, ed è naturale che sia così. Ciò che è, invece, incontrovertibile è che i testi che la maggioranza si appresta ad approvare incidono in profondità su alcune regole che, per anni, sono state considerate patrimonio giuridico irrinunciabile del Paese. Ed è con questa modificazione di sistema che occorre fare i conti nel momento in cui si vuole esprimere una valutazione complessiva su ciò che, probabilmente, accadrà nei prossimi mesi.

Il disegno di legge in tema di intercettazioni prevede, sul versante dell’informazione, il divieto di rendere pubblico ogni contenuto degli atti di indagine preliminare. Ciò significa che, in spregio al diritto dei cittadini ad essere informati, nessuno potrà più pubblicare alcunché sulle indagini in corso fino al momento in cui esse si saranno esaurite. Viene meno, in questo modo, ciò che è stato considerato, da sempre, uno dei capisaldi della libertà di stampa.

L’essere cioè, la stampa, strumento indispensabile di controllo pubblico sull’esercizio dell’attività giudiziaria fin dal momento in cui iniziano le istruttorie.

Il disegno di legge sulla riforma del processo penale prevede che fino a quando verrà consegnato all’autorità giudiziaria un rapporto sull’esistenza di un reato, la polizia è legittimata a condurre le attività investigative senza controllo o pungolo da parte dei pubblici ministeri. Quello sulle intercettazioni prevede, sul versante delle indagini, che, ad eccezione dei reati di mafia e terrorismo, tale importante strumento di acquisizione probatoria possa essere utilizzato per tempi brevi e soltanto dopo che siano già stati altrimenti acquisiti «gravi indizi di colpevolezza» a carico di qualcuno. Il che significa azzerare, di fatto, la stessa utilizzazione delle intercettazioni, che sono utili, soprattutto, quando esistono soltanto sospetti di reità ed occorre acquisire indizi o prove.

Sulla base di tali innovazioni vengono intaccati quantomeno due importanti cardini del sistema di giustizia vigente: l’indipendenza dell’attività investigativa ed il potere dei pubblici ministeri, l’incisività dell’attività giudiziaria nel contrastare il mondo del crimine. La totale autonomia delle forze dell’ordine nella prima fase delle investigazioni aprirà infatti la strada alla possibilità di interferenze da parte del governo (dal quale la polizia dipende gerarchicamente) sull’esercizio dell’azione penale. L’azzeramento di fatto delle intercettazioni taglierà le unghie a molte indagini per reati gravi, nelle quali l’intercettazione può essere strumento decisivo per individuare i colpevoli. Basti pensare a reati quali la pedofilia, la violenza sessuale, la corruzione.

Il decreto legge che ha riconosciuto l’utilizzazione delle ronde, sia pure non armate, per il controllo del territorio ha determinato un’alterazione delle consuete competenze in materia di sicurezza. Si è attribuito al privato una porzione di ciò che costituisce, da sempre, competenza esclusiva dello Stato sul presupposto che soltanto l’istituzione pubblica sia in grado di assicurare, con le sue strutture, l’indispensabile correttezza nella gestione di settori (delicati) quali sono i servizi sicurezza ed ordine pubblico.

Che dire, infine, della legge sul testamento biologico? Se passerà davvero il principio secondo cui l’idratazione e l’alimentazione artificiale di chi si trova in coma persistente saranno imposte anche a chi ha manifestato, quando era cosciente, la sua volontà contraria a tale tipo di trattamento, risulterà alterato il principio costituzionale per il quale nessuno può essere obbligato, neppure dalla legge, a subire un trattamento sanitario che travalichi i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Ho fatto alcuni esempi di modificazioni «di sistema» conseguenti agli interventi legislativi in cantiere: si intacca la libertà di stampa, si consente di fatto al governo d’interferire sulla gestione dell’azione penale alterando la divisione dei poteri, si indebolisce l’incisività delle indagini penali, si attribuiscono pericolosamente ai privati competenze nella gestione della sicurezza, si contravviene al principio di autodeterminazione in materia di interventi sanitari. Poco conta, a questo punto, auspicare che la Corte Costituzionale, se le menzionate innovazioni diventeranno leggi, le cancelli con le sue sentenze: l’attuale maggioranza parlamentare, con il sostegno della maggioranza popolare che l’ha votata, potrebbe infatti cambiare anche il testo della Costituzione.

Ciascuno di noi, di fronte a ciò che sta accadendo, deve piuttosto domandarsi se è d’accordo, o non è d’accordo, con un progetto politico che, sotto l’etichetta formale delle libertà, nei fatti tende ad intaccare, passo dopo passo, i diritti e le garanzie dello Stato liberale. Di questo è oggi importante ragionare e discutere, al di là degli obiettivi specificamente perseguiti da ciascuna delle nuove leggi programmate. (Beh, buona giornata).

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Attualità Pubblicità e mass media

Ricapitolando una bizzarra storia di censura “all’amatriciana”.

Il presidente dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma ha bloccato l’uscita di una campagna pubblicitaria a favore di Current Tv. Si trattava di scene di sesso? Di droga? Di rock’n roll? Macché: era una semplice campagna, composta da due soggetti, a favore di “Vanguard”, un nuovo programma televisivo del canale satellitare fondato da Al Gore. La campagna  invita semplicemente alla visione del programma. In uno  dei soggetti si vede la foto di una bibbia trapassata da tre proiettili,  con il titolo”Cosa succede quando la camorra entra in chiesa?”; nell’altro soggetto si vede un mitra kalashnikov, col manico a stelle e strisce e reca il titolo:”La guerra segreta all’Iran”.  (http://current.com/items/89835233/leimmaginidicurrentcensuratearoma.htm )

Tutto qui, direte voi? No, c’è di più. Perché il presidente dell’Atac non ha resistito a esprimere giudizi  professionali sulla comunicazione.“I manifesti non vanno bene per dei mezzi in movimento, la gente non ha  il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, dice il presidente.

Vale a dire: cari pubblicitari adesso vi insegno io come si fa. Si fa che mi do una bella zappa sui piedi, parlando male della pubblicità sugli autobus “che la gente non ha il tempo di fermarsi a leggere.” Scusi, signor presidente degli autobus romani: non le viene i sospetto che parlare male della pubblicità sui mezzi pubblici significa danneggiare gli introiti che Atac raccoglie attraverso la pubblicità dinamica?

Non pago, il presidente dell’Atac dispensa lezioni di grafica: “I caratteri sono troppo piccoli per poterli leggere quando l’autobus è in movimento.” Cari ragazzi di Cookies Adv, (l’agenzia che ha ideato la campagna): non vi hanno  solo censurato la campagna, ma pure il carattere tipografico che avete usato nei layout.

Se non che dall’agenzia Cookies Adv fanno sapere che “I manifesti censurati non erano pianificati sui mezzi pubblici. Ma sugli spazi  delle stazioni della metropolitana”. Insomma, la campagna non era una dinamica, ma una affissione. La domanda è: che campagna ha visto il presidente dell’Atac?

Curiosamente, nello stesso errore cade anche il Campidoglio, l’azionista di riferimento dell’Atac , che in una nota dice: “La campagna utilizzava immagini inopportune e non adatte a essere apposte sui mezzi pubblici.”  Come già detto la campagna non era affatto pianificata sugli autobus. Quanto alle “immagini inopportune” la cosa è strana, visto che la campagna sarà on air sui mezzi pubblici di Milano a partire dal prossimo 26 febbraio.

Cosa c’ha di speciale Roma che non può tollerare una campagna pubblicitaria per Current TV che invece può essere vista dai milanesi?

Presto detto: “Immagini pesanti, inopportune, possono offendere la sensibilità dei cittadini, peraltro in un momento di grave tensione sociale, e per di più in una città come Roma che è la sede  della Chiesa Cattolica”. Parola del presidente dell’Atac.

Eccola, allora, tutta intera “la scomoda verità”, tanto per parafrasare  il titolo del famoso documentario di Al Gore, vincitore di un Oscar, il film e di un Nobel, l’autore.

Succede però che il Campidoglio smentisca fattori di ordine pubblico, rendendo pubblico che “nella scelta (di bloccare la campagna, ndr) non ha avuto nessun ruolo il problema della sicurezza”.

A questo punto, delle argomentazioni a supporto della censura contro la campagna di Current Tv rimarrebbe solo il riferimento alla città di Roma ”che è sede della Chiesa cattolica”. Se non fosse che da Current arriva una precisazione illuminante: “Peccato che chi ha preventivamente censurato la nostra campagna non si sia neanche preso la briga di capire a cosa si riferisse: è il lancio del nostro  Vanguard, una puntata dedicata ad un prete ucciso dalla camorra”. Firmato Tommaso Tessarolo, general manager di Current Italia.

Si è trattato molto semplicemente di un eccesso colposo di buona volontà da parte dell’azienda dei trasporti pubblici e del Comune di Roma?  Il solito, inutile, un poco grottesco eccesso di zelo, di cui spesso la creatività è vittima in Italia? 

Una cosa è certa: la decisione di censurare la campagna pubblicitaria è stata presa con troppa superficialità.

Sarebbe meglio ripensarci e permettere la campagna. Ci guadagnerebbero tutti: chi l’ha ideata (Cookies ADV), chi l’ha commissionata (Current Italia), chi l’ha pianificata (la concessionaria di pubblicità); chi incasserebbe il budget (l’Atac).

E poi: come potrebbe la campagna turbare la Chiesa cattolica,  dal momento che il programma tv rende omaggio al sacrificio di un sacerdote, che ha perso la vita per insegnare ai suoi fedeli il rispetto della legalità?

Un ripensamento farebbe bene anche al Campidoglio, sarebbe un gesto riparatore nei confronti di Current TV, una emittente, fondata da Al Gore, premio Nobel per la Pace, che ha scelto l’Italia come uno dei paesi in cui trasmettere i suoi programmi televisivi.

Infine, ci guadagnerebbero i cittadini della Capitale, i quali forse non si meritano di essere trattati come “gente che non ha il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, mentre i cittadini di Milano invece sì. Beh, buona giornata.

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