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“Mangano eroe? Così Dell’Utri manda messaggi ai boss in carcere”.

Ciancimino Jr: “Mangano eroe? Così Dell’Utri manda messaggi ai boss in carcere”-blitzquotidiano.it
“Mangano eroe? Un messaggio al popolo di Cosa nostra”. Non ha dubbi il pentito Massimo Ciancimino che, in un’intervista al quotidiano La Stampa commenta la sentenza della Corte di Appello di Palermo che ha condannato il senatore Marcello Dell’Utri a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Per il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, quando Dell’Utri ribadisce che Mangano è un eroe si rivolge ai mafiosi in carcere, come ad esortarli a non mollare. Gli dice, insomma, “siete dei martiri”.

Ciancimino Jr a quel processo avrebbe dovuto testimoniare e raccontare proprio dei rapporti tra Dell’Utri e la mafia, ma la richiesta del Procuratore Gatto di interrogarlo è stata respinta dai giudici. Ciancimino spiega: “La mia deposizione sarebbe stata ininfluente ai fini della decisione finale. Mio padre sapeva dei rapporti di Dell’Utri con la mafia da molto prima del 1992 e di questo ho lasciato documentazione alla Procura di Palermo che ne ha accertato l’autenticità”.

Il senatore, intanto, ha fatto sapere di apprezzare i silenzi di Ciancimino senior. Il figlio, senza scomporsi, risponde: “Io ho voluto denunciare i silenzi di mio padre perché volevo essere un altro esempio per mio figlio”. (Beh, buona giornata)

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Un’altra brillante performance di Augusto Minzolini, direttore del TgUno.

Dell’Utri, botta e risposta tra Repubblica e Tg1: “Lo avete quasi assolto”, “sparisce solo il vostro teorema”-blitquotidiano.it

Botta e risposta tra il quotidiano La Repubblica e il Tg1 di Augusto Minzolini. Oggetto della polemica il caso Dell’Utri: il senatore, martedì 29 giugno è stato condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa a 7 anni di carcere. La sentenza di secondo grado, però, riduce di due anni la pena e smentisce il ruolo del senatore nella presunta trattativa tra Stato e Mafia degli anni ‘90.

Il Tg1, nell’edizione delle 13:30 ha dato la notizia di Dell’Utri come seconda, subito dopo quella della morte di Pietro Taricone. Il “taglio” del servizio su Dell’Utri, però, non è piaciuto a La Repubblica che, sul suo sito accusa Minzolini di averne combinata un’altra, dando di sfuggita la notizia della condanna e mettendo enfasi sull’assoluzione.

In un pezzo a firma di Carlo Ciavone Repubblica attacca Minzolini e Tg1: “Nel servizio mandato in onda, dopo l’obbligatoria notizia della condanna sulal quale si spende una sola frase, abbondano frasi come “costruzione accusatoria spazzata via”, oppure “accuse di pentiti senza riscontri”, o ancora “doccia fredda per il Procuratore Generale Gatto”… Il quale però, sennatamente, fa in tempo a ricordare al microfono di Minzolini che occorrerà aspettare per conoscere soprattutto “perché” una parte delle accuse a Dell’Utri sono state ritenute infondate”. “Come dire che – affonda ancora Ciavone – tutto sommato, avere rapporti con la mafia non è poi così grave, se poi non si vada a chiedere i voti, in cambio di favori”.

La replica del Tg1 al quotidiano di Enzo Mauro arriva qualche ora dopo sul sito internet ed è affidata a un pezzo non firmato, aggressivo già dal titolo: “Se a sparire sono i teoremi di Repubblica”. Per il Tg1 la notizia è stata raccontata nel “modo più corretto, da cronisti, facendo ascoltare il dispositivo letto dal presidente della Corte d’appello che partiva proprio dall’assoluzione per il senatore per poi passare alla riduzione della condanna. Microfono poi alla pubblica accusa e infine alla difesa”.

A sparire, quindi, almeno secondo il Tg1 non è la condanna di Dell’Utri ma i teoremi di Repubblica. Come? Scrive il Tg1 che “il teorema fu cavalcato con grande enfasi da Repubblica. Il teorema fu subito smentito da un boss che doveva confermare le dichiarazioni del primo. Il teorema attendeva ora che la corte d’appello ne confermasse la validità. Il teorema è stato smentito dai giudici”. Quindi, conclude il pezzo del sito del Tg1: sparisce “il teorema che non ha retto al giudizio di una Corte. E’ questa forse la ragione di una polemica montata sul nulla”.

Ma se la polemica è “montata sul nulla” c’era davvero bisogno di una risposta?
(Beh, buona giornata).

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Sette anni in Appello al senatore Dell’Utri, condannato in secondo grado per per concorso esterno in associazione mafiosa: “Cercherò il procuratore Gatto e gli farò le condoglianze”.

“È una sentenza pilatesca sapevo che non sarei stato assolto”.

“Hanno dato un contentino alla procura palermitana e una grossa soddisfazione all’imputato, perché hanno escluso tutto ciò che riguarda le ipotesi dal 1992 in poi”.

“Aspetto la Cassazione con animo fiducioso, spero di trovare un giudice che dica: che avete fatto fino a ora?”.

“15 anni di tempo perso e sofferenza data alle persone”.

“Cercherò il procuratore Gatto e gli farò le condoglianze”.

Queste le parole del senatore Dell’Utri, durante la conferenza stampa tenuta a Milano, dopo la condanna in Appello a sette anni per per concorso esterno in associazione mafiosa. Per la cronaca, il senatore Dell’Utri è uno degli uomini più vicini al presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi. Beh, buona giornata.

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1° Luglio 2010, per la libertà di stampa e la libertà dell’informazione in Italia.

NO AL DDL INTERCETTAZIONI, NO AL SILENZIO DI STATO
Il 1° luglio 2010 a Roma, dalle ore 17, in piazza Navona

“Una grande mobilitazione per dire no al disegno di legge Alfano, che ostacola il lavoro di magistrati e giornalisti e rende i cittadini meno sicuri e meno informati; per dire no ai tagli alla cultura italiana previsti dalla manovra economica.
Una manifestazione per far sentire che non può essere sottratto al Paese il racconto di vicende giudiziarie di rilievo pubblico, pur nel rispetto del diritto delle persone alla riservatezza; per respingere gli interventi punitivi ai danni della produzione culturale e salvaguardare il diritto dei cittadini alla conoscenza; per contrastare il pericolo di chiusura di testate giornalistiche colpite dall’indiscriminata riduzione dei fondi pubblici; per tenere accese le luci dei media sul mondo del lavoro e sui drammatici effetti della crisi.
Un’iniziativa a difesa della Costituzione, per dare voce ai tanti soggetti e temi che rischiano l’oscuramento”.

Comitato per la libertà e il diritto all’informazione e alla conoscenza

Il primo luglio è prevista anche una ‘notte bianca’ della Fnsi, dell’Associazione di Stampa dell’Emilia-Romagna, dell’Anpi e dell’amministrazione cittadina a Conselice, il comune del Ravennate dove c’è l’unico monumento italiano alla libertà di stampa.

Info e aggiornamenti sul sito della Fnsi
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Natura Popoli e politiche

Il piccoletto Berlusconi cerca di difendere la piccola figura dell’Italia a un vertice piccino.

“I giornali disinformano. I lettori dovrebbero scioperare per insegnare a chi scrive a non prenderli in giro”. Il premier Silvio Berlusconi, a San Paolo del Brasile per una visita istituzionale, ha inaugurato il viaggio attaccando la copertura dedicata dalla stampa italiana al vertice G20 in Canada: “I resoconti sono l’esatto contrario della riunione”, ha detto. “Da molti mesi”, ha aggiunto, “vedo una disinformazione inconcepibile”. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro

Aspettando la manovra finanziaria del governo Berlusconi, quello che non metteva le mani nelle tasche degli italiani.

L’Italia sale al quinto posto nella classifica europea: lo scorso anno il peso del fisco sul pil è stato del 43,2%, in aumento rispetto al 2008. Debito pubblico è sempre il più alto d’Europa: nel 2009, in rapporto al prodotto interno lordo, è aumentato di quasi 10 punti rispetto all’anno precedente. Lo dice l’Istat. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

La bolla speculativa del Vaticano: “Nel corso degli anni si è progressivamenbte fatta strada la consapevolezza della necessità di migliorare la redditività del patrimonio immobiliare e finanziario”

Inchiesta G8, il Vaticano su Propaganda Fide:”Sono stati fatti errori di valutazione”-repubblica.it

In una lunga nota, la Santa Sede ha difeso oggi la “buona fama” del Dicastero per l’evangelizzazione dei popoli, già Propaganda Fide, pur ammettendo che esso, nell’amministrazione del proprio patrimonio immobiliare, può “essere esposto ad errori di valutazione e alle fluttuazioni del mercato internazionale”.

Propaganda Fide è finita nell’inchiesta sulla “cricca degli appalti”, in relazione alla gestione avvenuta sotto la guida del cardinal Crescenzio Sepe, dal 2001 al 2006, attualmente indagato per “corruzione” dai magistrati di Perugia.

Nel corso ”degli ultimi anni – si legge nella nota del Vaticano – si è progressivamente fatta strada la consapevolezza della necessità di migliorare la redditività” del patrimonio ”immobiliare e finanziario” di Propaganda Fide e, a questo scopo, ”sono state istituite strutture e procedure tese a garantirne una gestione professionale e in linea con gli standard più avanzati”.

Lo spiega una nota della Sala Stampa vaticana diffusa oggi per spiegare il funzionamento e i compiti della Congregazione dopo le recenti notizia giudiziarie che hanno coinvolto anche l’ex-prefetto, l’arcivescovo di Napoli card. Crescenzio Sepe. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia Società e costume Sport

L’Italia fa fiasco nel calcio. Nella politica. Nell’economia. Nella democrazia. Nella giustizia. Nei conti pubblici. Nella disoccupazione.L’Italia fa fiasco nel governo.

La stampa straniera ci deride, L’Equipe: “Italia, l’altro fiasco”-tgcom.com
Un misto di ironia e triste realtà nei titoli dei quotidiani online dopo la debacle azzura ai Mondiali sudafricani. I francesi de L’Equipe titolano “Italia, l’altro fiasco” riferendosi proprio alla loro eliminazione. In Spagna Marca titola in italiano: “Arrivederci Italia” e As: “Ridicolo Italia, fuori dal Mondiale”. Il Sun scrive anche: “Arrivederci”. Infine Bild: “Italien raus, quelli che nel 2006 hanno fatto kaputt della nostra estate di sogno”.

In Italia La Gazzetta dello Sport scrive “A casa con vergona”, mentre Tuttosport non ha dubbi. C’è un solo colpevole: Lippi. Il Corriere dello Sport titola: “Italia che vergogna, fuori e ultima nel girone”. Passando ai generalisti. “Mai così brutti: l’Italia torna a casa” scrive La Repubblica e Il Corriere della Sera: “Italia, addio al Mondiale”. Infine La Stampa: “Naufragio Italia, si torna a casa”. (Beh, buona giornata).

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A Pomigliano lo scontro capitale-lavoro all’epoca della globalizzazione della crisi econimica: “Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.”

A Pomigliano comincia l’epoca dopo Cristo, di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it
TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n’è una che è d’una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: “Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa”.
Il dopo Cristo per l’amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un’epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.

In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare. I sindacati che hanno firmato l’accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d’un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l’hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell’opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.

Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l’apripista d’un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.

Chi pensa di fermare l’alta marea costruendo un muro che blocchi l’oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell’opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?

Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l’obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell’epoca “prima di Cristo” debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell’epoca del “dopo Cristo”. Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.

Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall’emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l’inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, “buscando el levante por el ponente”, cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.

C’è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall’Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all’esame del G8 e del G20 appositamente convocati. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell’Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l’ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.

La Cina ha già risposto positivamente; l’Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell’Eurozona le seguenti domande: “Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell’Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l’entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell’occhio del ciclone?” (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all’interno dei paesi. Non c’è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.

Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell’articolo 41 della nostra Costituzione.
Quell’articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell’urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell’abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l’abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l’intento di stravolgere l’architettura democratica del patto sociale.

Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all’Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l’ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti. (Beh, buona giornata).

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Come la crisi economica diventa la crisi della democrazia occidentale.

Con la crisi democrazie a rischio, di Barbara Spinelli, la Stampa, 20 giugno 2010

In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.

Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato – l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 – ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».

La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l’altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.

Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro(…) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).

La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.

È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.

In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali.

Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma – quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi – sta precipitando».

Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.

La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.

Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.

L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica. (Beh, buona giornata).

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Non metteremo le mani nella tasche degli italiani? Ecco le conseguenze della manovra economica del governo, e la sudditanza politica della nuova giunta della Regione Lazio.

(fonte: ilmessaggero.it)
«Lo tsunami è arrivato – dice il capogruppo Pd alla Regione Lazio, Esterino Montino – L’aumento delle aliquote irpef e Irap oltre l’aliquota massima già in vigore dal 2006 è un dato di fatto.

Lo ha confermato oggi un autorevole esponente Pdl, esperto delle questioni legate alla sanita del Lazio. Putroppo è solo un carissimo antipasto che preleverà dalle tasche e dai bilanci delle imprese del Lazio 330 milioni.

A breve, infatti, e cioè dopo il 30 giugno, come scritto sui decreti del Commissario ad acta, seguiranno l’introduzione di ulteriori ticket su medicinali e specialistica e quello sul pronto soccorso.

Se a questo regalo della Polverini si aggiunge quello preparato dal sindaco Alemanno che prevede un ulteriore aumento dell’Irpef, raddoppio della retta per le mense scolastiche, e dal 2011 anche rinacari del biglietto metrebus e degli abbonamenti per il trasporto pubblico, si arriva ad un prelievo dalle tasche di cittadini e imprese di oltre 2 miliardi, vuol dire che si è deciso di affossare questa Regione.

Constato con profonda amarezza che l’unico atto di governo del centrodestra quando amministra è l’introduzione delle tasse. L’aumento di quelle regionali del 2006, infatti, derivò automaticamente dall’enorme disavanzo, 11 miliardi, prodotto per il 90% dalla stessa coalizione che governa oggi e di cui faceva parte il nuovo assessore Ciocchetti.

Siamo di fronte ad una stangata storica, proprio nel momento in cui la crisi morde di piu il tessuto produttivo regionale, proprio nel momento in cui aumentano i disoccupati.

L’aumento ulteriore delle aliquote Irpef e Irap regionali si poteva evitare. A febbraio la precedente amministrazione regionale aveva inoltrato richiesta formale dei Fondi Fas (Fondi aree sottoutilizzate, ndr) per coprire il disavanzo 2009.

L’impegno delle parti era che, a fronte della consegna dei provvedimenti richiesti, in particolare firma dei contratti e budget delle strutture private accreditate e piano di riordino della rete ospedaliera, quelle risorse sarebbero state disponibili. I due atti erano pronti. La data ultima per provvedere allo sblocco era quella del 19 maggio.

La Presidente bucò deliberatamente quell’appuntamento, e, nonostante fosse stata nominata Commissario un mese prima, il 23 aprile, non consegnò alcun documento, chiudendo cosi la possibilità di utilizzare le risorse Fas e aprendo la strada all’aumento delle tasse.

Non aver evitato il nuovo salasso è dunque responsabilità diretta, assoluta e documentata della presidente Polverini che è stata impegnata, e lo è ancora, a formare la sua Giunta: la più cara d’Italia e con assessori Avatar al posto degli eletti dal popolo. Si è toccato il fondo». (Beh, buona giornata.

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NO alla legge bavaglio, ma neanche alla benda sugli occhi.

La legge bavaglio, nasce con Prodi, arriva al sublime con Berlusconi. Ha radici lontane e i politici la vogliono tutti-blitzquotidiano.it
Leggere le varie versioni della legge bavaglio, nella sua evoluzione fino a oggi, insegna molte cose.

Insegna, innanzi tutto, che il bavaglio c’è sempre stato, solo che era punito in modo così blando che nessuno ne teneva conto. Dice infatti l’articolo 114 del codice di procedura penale, intitolato Divieto di pubblicazione di atti e di immagini, in vigore dall’inizio della Repubblica e negli anni perfezionato:

1. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto.

2. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

3. Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del pubblico ministero , se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello. E’ sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni.

4. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse nei casi previsti dall’articolo 472 commi 1 e 2. In tali casi il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti utilizzati per le contestazioni. Il divieto di pubblicazione cessa comunque quando sono trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato ovvero è trascorso il termine di dieci anni dalla sentenza irrevocabile e la pubblicazione è autorizzata dal ministro di grazia e giustizia.

5. Se non si procede al dibattimento, il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione di atti o di parte di atti quando la pubblicazione di essi può offendere il buon costume o comportare la diffusione di notizie sulle quali la legge prescrive di mantenere il segreto nell’interesse dello Stato ovvero causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o delle parti private. Si applica la disposizione dell’ultimo periodo del comma 4.

6. E’ vietata la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni. È altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possano comunque portare alla identificazione dei suddetti minorenni. Il tribunale per i minorenni, nell’interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne che ha compiuto i sedici anni, può consentire la pubblicazione .

6-bis. E’ vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta.

7. E’ sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto.

Vale la pena di soffermarsi sul punto 6 bis, che vieta di pubblicare foto di gente in manette. Ancora di recente si è verificato un episodio che dimostra come, comunque, della legge nessuno tenga conto più di tanto.

Altra cosa che insegna un minimo di ricerca è che la classe politica è tutta o quasi d’accordo e che in queste ultime settimane abbiamo assistito a sceneggiate ipocrite. Ci sono delle voci sincere, come Giuseppe Giulietti e Gerardo D’Ambrosio, ma gli spiriti liberi non abbondano in natura e meno che mai in politica e Giulietti lo sa bene.

Insegna inoltre che l’impianto originale della legge è del governo Prodi; la prima versione porta la firma di Clemente Mastella e di Giuliano Amato, ministri della Giustizia e delle Finanze in quel Governo, con la benedizione formale e richiesta di Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca nei panni oggi indossati da Giulio Tremonti Relatore un ex magistrato, Felice Casson.

Le norme bavaglio c’erano già tutte.

Ecco il testo, come è uscito dalla Camera dei deputati, il 17 aprile del 2007.

È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare»;

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misure cautelari. Di tali atti è tuttavia consentita la pubblicazione nel contenuto dopo che la persona sottoposta alle indagini ovvero il suo difensore abbiano avuto conoscenza dell’ordinanza in materia di misure cautelari, fatta eccezione per le parti che riproducono gli atti di cui al comma 2-bis»;

Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello. È sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni o dei quali sia data lettura in pubblica udienza;

Salvo quanto previsto [sopra], è consentita la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti dal segreto.

Queste norme furono accolte dal plauso di tutte le forze politiche, e le dichiarazioni di voto dei deputati della sinistra, inclusi verdi e rifondazione comunista, erano di grande soddisfazione.

Forse questo non bastava a Berlusconi, che ha avuto la sfortuna di tornare al governo troppo presto. Ancora un anno e propbabilmente si sarebbe trovato la legge bavaglio bella e pronta, senza dover tanto penare.

Invece, tornato al governo e ripresa in mano la materia, Berlusconi doveva proprio caricarla di tutto il suo risentimento, semplicemente perché non avrebbe mai accettato di riconoscere un qualche valore a una legge della odiata sinistra. Con il risultato che si è infilato in un guaio.

Ed ecco il testo della legge approvata dal Senato il 10 giugno 2010, firmata dal ministro della Giustizia Angelinio Alfano e approvata dalla Camera un anno fa.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misure cautelari. Di tali atti è tuttavia consentita la pubblicazione nel contenuto dopo che la persona sottoposta alle indagini o il suo difensore abbiano avuto conoscenza dell’ordinanza del giudice, fatta eccezione per le parti che riproducono la documentazione e gli atti di cui al comma 2-bis».

Sono vietate la pubblicazione e la diffusione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai procedimenti e processi penali loro affidati. Il divieto relativo alle immagini non si applica all’ipotesi di cui all’articolo 147 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, nonché quando, ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca, la rappresentazione dell’avvenimento non possa essere separata dall’immagine del magistrato».

È in ogni caso vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione ai sensi degli articoli 269 e 271. È altresì vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni telematiche riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta.

Cambiano un po’ le parole, ma la sostanza è quella: è vietata la pubblicazione di tutto…

Quel che incattivisce la legge, nella versione uscita dal Senato il 10 giugno, è l’utilizzo dell’Ordine dei giornalisti e del Consiglio superiore della magistratura come strumenti repressivi. A tanto Prodi e i suoi non erano arrivati.

La norma ha origini lontane, perché già fu presentata, come emendamento alla legge Mastella, da Roberto Castelli, leghista ed ex ministro della Giustizia. Essa prevede che «di ogni iscrizione nel registro degli indagati per fatti costituenti reato di violazione del divieto di pubblicazione commessi dalle persone indicate al comma 1, il procuratore della Repubblica procedente informa immediatamente l’organo titolare del potere disciplinare, che nei successivi trenta giorni, ove siano state verificate la gravità del fatto e la sussistenza di elementi di responsabilità, e sentito il presunto autore del fatto, dispone la sospensione cautelare dal servizio o dall’esercizio della professione fino a tre mesi».

Il comma 1, dell’art.115 del codice di procedura penale, è lì da anni e dice che, in caso di Violazione del divieto di pubblicazione,

Salve le sanzioni previste dalla legge penale (684 c.p.), la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lett. b) costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, leggesi magistrati e giornalisti.

Solo che non era previsto alcun provvedimento punitivo, ma semplicemente che di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l`organo titolare del potere disciplinare.

Dato che cane non morde cane, nessuno aveva mai segnalato nulla e nessun provvedimento disciplinare risulta essere stato preso. Ora, invece, con questa norma, il provvedimento è obbligatorio, a discrezione c’è solo la durata della sospensione e per i giornalisti si profilano momenti cupi, visto che a giudicarli saranno loro colleghi, senza una preparazione giuridica adeguata, in una categoria sempre più lacerata dalle passioni della lotta politica.(…). (Beh, buona giornata).

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“Legge bavaglio”: io non sto zitto.

Il 1° luglio tutti in piazza contro la legge – bavaglio
IL SILENZIO UCCIDE LA LIBERTA’, di Giulio Gargia-3Dnews, settimanale allegato al quotidiano Terra.

Ora sembrano che facciano marcia indietro. Ora che perfino l’OSCE, l’organizzazione europea per la sicurezza, quella che in genere interviene in Kirghizistan o in Kurdistan, critica questo bavaglio contro giudici e giornalisti e dice che l’hanno fatta grossa, ora che Fini rilancia e Bossi si sfila, ora insomma… si prendono una pausa.

Si profila perciò uno stop, almeno temporaneo, della più sciagurata e malfatta legge tra tutte quelle pessime concepite e approvate in questi anni. Un provvedimento che ha paura non solo dei cronisti, ma perfino dei blogger, cui vuole applicare gli stessi criteri del Corriere della Sera. Ma nessuno si illuda che rinunceranno. Prima o poi, appena una notizia casuale o gonfiata ad arte farà cambiare il vento, ci riproveranno. Perciò, non solo non bisogna fermare la mobilitazione, ma rilanciarla e darle degli obiettivi che non siano più solo difensivi.

Attaccare sul terreno dell’avversario, quello mediatico. Riproporre leggi che levino la RAI alla politica e la restituiscano ai cittadini, come quella firmata da Tana De Zulueta e abbandonata in una commissione del governo Prodi. Costruire iniziative come “RAI per una notte”, cose che non “parlino” di comunicazione, ma la “facciano”, che si possa vedere, questa comunicazione. Come ha fatto Santoro quella notte, rilanciato e moltiplicato da centinaia, migliaia di Tv regionali, locali, satellitari, digitali.

Chiediamo alla Federazione Nazionale della Stampa di farsi carico di organizzare ancora – con o senza Santoro – iniziative come quella, che facciano parlare “ oscurati e oscurandi”, per dirla come Giulietti, tutte le sorelle di Cucchi, le madri di Aldrovandi, gli amici di Sandri, i padri di Agostino ( il poliziotto di Palermo ammazzato da un intrigo di mafia e apparati deviati) che hanno nll’opinione pubblica la loro prima, immediata difesa. Al di là e al di sopra del processo, che ha tempi e articolazioni e obiettivi diversi.

Se i cingolati del premier si sono fermati, un po’ è merito anche degli sforzi di quei tanti ragazzi, cittadini e professionisti che hanno messo con determinazione, metaforicamente e no, il loro corpo davanti ai carri armati del premier che stanno per occupare la nostra Tien A Men. Sappiamo che finchè ci sarà una telecamera accesa a riprenderli, sarà più difficile schiacciarli.

Quello di queste settimane è stato un grande esempio di “ giornalismo partecipativo”, di chi ha “ fatto notizia” per non farsi strappare le notizie. Buon segno, ma non basta. Non abbassiamo il microfono. E il 1° luglio, tutti in piazza Navona. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Popoli e politiche

Addio a Josè Saramago. “E considerava la Chiesa gerarchica di Ratzinger una nuova nube di oscurantismo.”

Saramago, l’uomo che chiamava le ingiustizie per nome, di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano-micromega.
José Saramago era il più grande scrittore vivente. Uno di quei rarissimi scrittori che quando incontri un suo libro – per te il primo – poi li leggi tutti, uno dopo l’altro, perché entri in un intero mondo che senza di lui non sarebbe mai esistito. Per questo era un classico già in vita. Prima di Saramago, mi era capitato solo con un altro scrittore, Bohumil Hrabal, e quando seppi della sua morte fu come fosse morta una persona che conoscevo, una persona cara. José Saramago ho invece avuto la fortuna di conoscerlo davvero, anche se troppo tardi, di vivere – mia moglie Anna ed io – con lui e con la sua Pilar una nuova amicizia, cosa che quando si va avanti con gli anni diventa cosa rarissima.

L’amicizia di un uomo straordinario per semplicità e profondità, che continuava ad avere una carica di passione civile anche nel declinare brutale delle forze. Lo avevo incontrato l’ultima volta qualche mese fa a Roma –quando era venuto a presentare il suo libro “Quaderno”, rifiutato da una casa editrice, Einaudi, ormai prona per non scontentare il ducetto, che nel libro veniva trattato come meritava, e pubblicato da Bollati Boringhieri – e nei pochi anni passati dal precedente incontro mi era sembrato cambiato moltissimo, dal punto di vista fisico, della sofferenza fisica, della stanchezza. Ma era assolutamente lo stesso per la generosità che lo animava, la voglia di continuare a combattere su ogni fronte che gli si offrisse. Questo era il suo amore per la vita, che in lui faceva tutt’uno con tutte le altre gioie della vita, e con il suo amore per Pilar che traspariva in ogni gesto.

Saramago poteva “vivere di rendita” anche civilmente, anche politicamente, essere un “monumento vivente”, che piace a tutti perché dice “grandi” cose (e magari giuste) sulla pace, sulla eguaglianza, sull’ecologia… Essere insomma politicamente innocuo e superfluo, come tanti personaggi famosi sulla scena mondiale, che non sono mai scomodi per i potenti con nome e cognome. Saramago invece era l’opposto, sapeva che ogni in giustizia ha un nome, di persona o di istituzione, perché i peccati, da che mondo è mondo, sono sempre gli stessi, e non ha senso denunciarli se nonsi denuncia anche il peccatore.

Considerava Berlusconi un pericolo per la democrazia in Europa, un virus contro le libertà, capace di contagiare altri Paesi, per questo non si stancava di denunciarlo e di stigmatizzare la superficialità e la disattenzione con cui il suo regime sempre meno distante dal fascismo veniva trattato dai media europei. Quasi si trattasse di una pochade, anziché di una tragedia.

E considerava la Chiesa gerarchica di Ratzinger una nuova nube di oscurantismo. Proprio su questo giornale, aveva scritto che forse era venuto il momento di un “ateismo militante”, a cui come ateo “tranquillo” (l’ateismo come condizione ovvia di ogni spirito critico) non aveva in precedenza mai pensato. Lui, ateo, dalla parte degli ultimi, sempre, e perciò sempre più contro una Chiesa dedita a Mammona e a reprimere le libertà umane dalla nascita alla morte.
José mi mancherà moltissimo. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

A Pomigliano la Fiat tenta di andare a mille contro gli operai. Intanto la 500 la fanno in Polonia.

(fonte: Agenzia Ansa).
”Marchionne la smetta e si vergogni”: cosi’ Giorgio Cremaschi ha replicato all’ad Fiat che aveva attaccato i sindacati. ”Se ci riesce – ha detto il segretario della Fiom – impari a fare l’imprenditore per tutti quegli industriali meno famosi e ricchi di lui che riescono a farlo in Italia rispettando leggi, contratti e Costituzione”. Marchionne aveva detto: ”A Termini Imerese si e’ scioperato perche’ giocava l’Italia e cosi’ si fa a Pomigliano e negli altri stabilimenti”.
Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Ecco il palinsesto autunnale della Rai: all’appello manca Santoro.

Raiuno. Molti cambiamenti nel day time, dalla programmazione festiva, con l’approdo sulla rete ammiraglia di In famiglia, storico contenitore di Michele Guardì, e la nuova conduzione di Lorella Cuccarini a Domenica In; nei giorni feriali, Antonella Clerici torna a condurre La prova del cuoco, mentre nel pomeriggio Maurizio Costanzo riapre il sipario su Bontà loro, seguito dal contenitore familiare Festa Italiana. Sarà affiancato da Mara Venier alla guida de La vita in diretta Lamberto Sposini, mentre Carlo Conti torna con L’eredità e Fabrizio Frizzi con I soliti ignoti, promosso anche in prime time, il sabato sera per una versione con concorrenti vip.

Per la programmazione serale, dopo Miss Italia, si aprirà una grande stagione di fiction, calcio della nazionale e intrattenimento, con la nuova edizione di Ti lascio una canzone, con Antonella Clerici, e I migliori anni, abbinato alla Lotteria Italia e condotto da Carlo Conti. In seconda serata si segnala la conferma dei quattro appuntamenti di Porta a Porta, di e con Bruno Vespa.

Raidue. Tornano dal lunedì al venerdì I fatti vostri con Giancarlo Magalli e il sabato e la domenica Mezzogiorno in famiglia con Amadeus e Laura Barriales, mentre la fascia per i ragazzi si arricchisce di due nuovi segmenti, telefilm e programmi per ragazzi. Al pomeriggio, prendono il via un nuovo contenitore, affidato a Caterina Balivo, e I gialli sul due, che abbina un classico del genere, La signora in giallo, a uno di nuova generazione come Numbers.

Dopo lo sport, appuntamento con la striscia di X-factor, mentre il sabato è confermato quello con Top of the pops. Nel prime time, arriva l’atteso Persone sconosciute, la coproduzione Rai-BBC-Fox, firmata da Bryan Singer (il regista de I soliti sospetti) che negli USA sta sbancando gli ascolti. E poi nuovi episodi per i cult NCIS, Castle, Cold Case, Criminal Minds. Sempre in prima serata tornano Voyager e X-Factor, condotto da Francesco Facchinetti e Alessandra Barzaghi e con Elio in giuria, e arriva un nuovo programma di intrattenimento condotto da Monica Setta, Solo per amore. Informazione in seconda serata, con la rubrica economica di Barbara Carfagna e gli approfondimenti di Gianluigi Paragone.

Raitre. Diventa mattiniero Andrea Vianello, per condurre un nuovo programma dalla parte dei cittadini, dal lunedì al venerdì, seguito da un nuovo talk show condotto da Michele Mirabella. Il sabato TV Talk, la tv che fa conoscere la televisione, si sposta al pomeriggio. Confermati Le storie di Corrado Augias, i telefilm, la programmazione per i ragazzi, Geo & Geo con Sveva Sagramola.

In fascia access, il nuovo Zaum, nome futurista per una sorta di ‘blob’ tematico, insieme allo stesso Blob e ai nuovi episodi di Un posto al sole. Al sabato e alla domenica torna Che tempo che fa, di Fabio Fazio con Luciana Littizzetto, seguito dal programma Report di Milena Gabanelli, da Elisir con Michele Mirabella, il sabato da Ritorno al futuro, con Alex Zanardi, e poi Nati liberi, di Licia Colò.

Nel prime time feriale, il nuovo programma di intrattenimento e memoria, affidato a Pippo Baudo, il debutto di Hotel Patria, dedicato alle domande di cittadini e con esperti in studio, le conferme del programma di informazione di Giovanni Floris Ballarò e di quello di servizio condotto da Federica Sciarelli Chi l’ha visto?, la scommessa di Fabio Fazio e Roberto Saviano, Vieni via con me. In seconda serata, spazio all’ironia con Gene Gnocchi la domenica e con Serena Dandini a Parla con me nelle seconde serate feriali, ma anche alla Storia e alle ‘storie’: le Storie maledette di Franca Leosini, o quelle di Amore criminale e di Un giorno in pretura. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Natura

Stanno “usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate.”

L’alternativa a Marchionne, di Guido Viale – il manifesto.

Non c’è alternativa. Questa sentenza apodittica di Margaret Thatcher per la quale è stato creato anche un acronimo (Tina: there is no alternative) è la silloge del cosiddetto «pensiero unico» che nel corso dell’ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno «scientifiche» da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (a parole, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche);

poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell’industria dai piedi d’argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio, usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate. Così la ricetta che non contempla alternative oggi è libertà dell’impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall’art. 41 della Costituzione italiana.

A enunciarlo in forma programmatica è stato Berlusconi, subito ripreso dal ministro Tremonti e, a seguire, dall’autorità sulla concorrenza, che non ha mai mosso dito contro un monopolio. A tradurre in pratica quella ricetta attraverso un aut aut senza condizioni, subito salutato dagli applausi degli imprenditori giovani e meno giovani di Santa Margherita Ligure, è stato l’amministratore delegato della Fiat, il Valletta redivivo del nuovo secolo. Eccola. Limitazione drastica (e anticostituzionale, ma per questi signori la Costituzione va azzerata; e in fretta!) del diritto di sciopero e di quello di ammalarsi.

Una organizzazione del lavoro che sostituisce l’esattezza cronometrica del computer alla scienza approssimativa dei cronometristi (quelli che un tempo alla Fiat si chiamavano i «vaselina», perché si nascondevano dietro le colonne per spiare gli operai e tagliargli subito i tempi se solo acceleravano un poco per ricavarsi una piccola pausa per respirare). Una turnazione che azzera la vita familiare, subito sottoscritta da quei sindacalisti e ministri che due anni fa erano scesi in piazza per «difendere la famiglia»: la loro, o le loro, ovviamente. È un ricatto; ma non c’è alternativa. Gli operai non lo possono rifiutare e non lo rifiuteranno, anche se la Fiom, giustamente, non lo sottoscrive. L’alternativa è il licenziamento dei cinquemila dell’Alfasud – il «piano B» di Marchionne – e di altri diecimila lavoratori dell’indotto, in un territorio in cui l’unica vera alternativa al lavoro che non c’è è l’affiliazione alla camorra.

Per anni, a ripeterci «non c’è alternativa» sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari e soprattutto bancarottieri. Adesso, forse per la prima volta, a confermarlo con un referendum, sono chiamati i lavoratori stessi che di questo sopruso sono le vittime designate. Ecco la democrazia del pensiero unico: votate pure, tanto non c’è niente da scegliere.

Effettivamente, al piano Marchionne non c’è alternativa. Nessuno ci ha pensato; neanche quando il piano non era ancora stato reso pubblico. Nessuno ha lavorato per prepararla, anche quando la crisi dell’auto l’aveva ormai resa impellente. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato necessario averne una, anche se era chiaro da anni che prima o poi – più prima che poi – la campana sarebbe suonata: non solo per Termini Imerese, ma anche per Pomigliano.

Ma a che cosa non c’è alternativa? Al «piano A» di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano – e vendano – sei milioni di auto all’anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.

Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all’«opinione pubblica» e al paese, è invece subordinato alla «ripresa» del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all’anno. Come dire: «il piano A» non si farà mai.

Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l’entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l’ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all’anno: il doppio delle vendite pre-crisi. Un’autentica follia.

Dunque il «piano A» non è un piano e non si farà. L’alternativa in realtà c’è, ed è il «piano B». Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e governo (che agli «errori» delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l’impianto – cosa tutt’altro che scontata – a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non «tirerà» come si era previsto

Hai voglia! Il mercato europeo dell’auto è in irreversibile contrazione; l’auto è un prodotto obsoleto che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: «tirano», per ora, solo i paesi emergenti – fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch’essi – ma le vetture che si vendono là non sono certo quelle che si producono qui: né in Italia né in Polonia.

Anche se la cosa non inciderà sulle scelte dei prossimi mesi, è ora di dimostrare che non è vero che non c’è alternativa.

L’alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo – e dei nostri consumi – a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l’automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all’efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all’agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all’edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro – e persino le emissioni a un certo punto verranno tassate – mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l’inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall’efficienza nell’uso dell’energia.

L’industria meccanica – come quella degli armamenti – può essere facilmente convertita alla produzione di pale e turbine eoliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione. Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare – densificando l’abitato – dalle fondamenta.

Ma chi finanzierà tutto ciò? Se solo alle fonti rinnovabili fosse stato destinato il miliardo di euro che il governo italiano (peraltro uno dei più parsimoniosi in proposito) ha gettato nel pozzo senza fondo delle rottamazioni, ci saremmo probabilmente risparmiati i due o tre miliardi di penali che l’Italia dovrà pagare per aver mancato gli obiettivi di Kyoto. Ma anche senza incentivi, le fonti rinnovabili si sosterranno presto da sole e i flussi finanziari oggi instradati a cementare il suolo, a rendere irrespirabile l’aria delle città, impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni per rendere sempre più sterili i suoli agricoli, a sostenere un’industria delle costruzioni che vive di olimpiadi, expo, g8, ponti fasulli e montagne sventrate potranno utilmente essere indirizzati in altre direzioni. È ora di metterci tutti a fare i conti!

Ma chi potrà fare tutte queste cose? Non certo il governo. Né questo né – eventualmente – uno di quelli che abbiamo conosciuto in passato; e meno che mai la casta politica di qualsiasi parte. Continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita e stanno riportandoci all’età della pietra. La conversione ecologica si costruisce dal basso «sul territorio»: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città.

Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato «spazio pubblico», senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell’attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative: dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali.

E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas (non ci sono solo i «giovani imprenditori» di Santa Margherita); e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.
Il tessuto sociale di oggi non è fatto di plebi ignoranti, ma è saturo di intelligenza, di competenze, di interessi, di saperi formali e informali, di inventiva che l’attuale sistema economico non sa e non vuole mettere a frutto.

Certo, all’inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l’organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?
(Beh, buona giornata).

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La Fiat porta Pomigliano d’Arco in Polonia: localizza la delocalizzazione.

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2010

Marchionne e Tremonti, con l’imposizione del “modello Pomigliano”, vogliono dimostrare a tutti i costi (costi pesantissimi, per gli operai) che aveva ragione il vecchio Marx a sostenere che il sistema capitalistico, per massimizzare il profitto, tende a precipitare il salario del lavoratore al minimo necessario per la mera riproduzione fisica della forza-lavoro. Per dirla in soldoni, a salari di fame.

Qualche operaio, che pure si appresta a subire il diktat di Marchionne, ha detto che saranno condizioni di lavoro “da schiavi”. Si sbaglia, ma solo perché in Italia ci sono le condizioni di lavoro-schiavitù di Rosarno. Verso le quali tenderanno comunque le condizioni di tutti i lavoratori salariati, se verrà interiorizzata – come sempre più avviene anche presso coloro che ne sono vittime – la “sovranità della globalizzazione”.

La cui logica è semplice: i capitali, nel senso finanziario e degli impianti, possono spostarsi liberamente, e così anche la forza-lavoro necessaria, ma senza portarsi dietro i diritti e le conquiste, salariali e non, che i lavoratori hanno ottenuto in un paio di secoli di lotte. In questo modo è lapalissiano che le condizioni dell’operaio italiano si avvicineranno progressivamente, e con ritmi che diventano sempre più rapidi, a quelle dell’operaio di Shanghai o bene che vada di Bucarest, visto che il padrone altrimenti trasloca l’intera produzione nei paesi dove il salario è letteralmente da “fame” e i diritti sindacali un miraggio.

Se la “profezia” di Marx risultò clamorosamente sbagliata fu infatti solo perché le lotte dei lavoratori, e dell’opinione pubblica che le appoggiò, portò i governi a imporre camicie di forza al “capitale” e al grado di plusvalore che potesse essere spremuto lecitamente dalla forza lavoro. Le otto ore, per dire, la proibizione del lavoro minorile, e poi le condizioni igieniche, di sicurezza, la tutela dei sindacalisti, fino insomma allo “statuto dei lavoratori”.

Il “modello Pomigliano” di tutto questo fa carta straccia (con gli straordinari ad libitum l’orario vero diventa di oltre nove ore giornaliere). Ma passerà, se continuerà la “guerra tra poveri”, precari contro occupati, disoccupati contro precari, e tutti contro gli immigrati. Perché la ricchezza complessiva in Italia continua a crescere, seppure in modo rallentato, ma cresce a dismisura la sua distribuzione diseguale. Contro questa esplosione del privilegio dovrebbero unirsi le vittime della crisi, anziché ingrassarne i responsabili dividendosi. (Beh, buona giornata).

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Formigoni sbugiarda Berlusconi: “Questa manovra economica mette le mani nelle tasche degli italiani”.

(fonte: blitzquotidiano.it)
“Se la manovra non cambia saremo costretti a tagliare i servizi o ad aumentare le tasse, cioé a mettere le mani nelle tasche dei cittadini. E’ il contrario della politica che il centrodestra sostiene”. E’ quanto afferma il Governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, in una intervista a Repubblica in cui spiega che “gli sprechi sono a Roma, non nelle regioni virtuose”.

Secondo Formigoni occorre “dividere i tagli per i quattro comparti pubblici: ministeri, Regioni, Province e Comuni. Una modifica elementare che renderebbe la manovra sopportabile”. In caso contrario, rileva, “gli effetti ricadrebbero sui contributi alle imprese, sul trasporto locale, l’ambiente e la scuola. Proprio i capitoli di spesa che passeranno alle Regioni con il federalismo”.

Formigoni dice di non contestare la manovra, né la sua entità, ma precisa che “se i tagli saranno orizzontali, uguali per tutti, regioni virtuose e non, sarà come non aver cambiato nulla. Se lo Stato ci taglierà altri fondi saremo costretti a scegliere tra introdurre nuove tasse, tagliare i servizi o le strutture della sanità: tutte ipotesi. Beh, buona giornata

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Il governo ha mentito sulla crisi:” Il 60% degli italiani considera i problemi economici (disoccupazione e prezzi) prioritari, nell’agenda delle emergenze da affrontare.”

IL SONDAGGIO
Italia, sfida alla crisi.Il cattivo umore di un Paese
Nella rilevazione Demos-Coop emerge una maggiore ansia per l’economia e meno paura degli immigrati. Gli ultimi mesi hanno cambiato il termometro del Paese, di ILVO DIAMANTI-repubblica.it

L’economia e la società attraversano tempi duri. Come avviene da anni, per la verità. La differenza è che oggi gli italiani ne sembrano consapevoli. Dopo un lungo periodo durante il quale apparivano convinti che, comunque, sarebbero riusciti a superare anche questa crisi. Perché noi italiani “ce la caviamo sempre”, tanto più quando tutti ci danno per spacciati. Questa volta, però, qualche serio dubbio, al proposito, affiora. È ciò che suggerisce il sondaggio condotto da Demos-Coop per l’Osservatorio sul Capitale sociale.

Quasi il 60% degli italiani, infatti, considera i problemi economici (disoccupazione e prezzi) prioritari, nell’agenda delle emergenze da affrontare. Tre anni fa, questa componente della popolazione era di 20 punti più ridotta: il 37%. Un segno che il clima d’opinione sta cambiando in fretta. In peggio. La maggioranza degli italiani pensa, infatti, che, fino a ieri, il governo abbia mentito, sulla crisi. Ostentando un ottimismo fuori luogo.

Né consola il fatto che altrove, in Europa, le cose vadano peggio. Anzi, metà delle persone intervistate, non a caso, teme che anche da noi capiti quel che è successo in Grecia. Questo brusco cambiamento d’umore, come abbiamo sottolineato una settimana fa, dipende, sicuramente, dalla manovra finanziaria del governo. Che promette sacrifici molto duri, ai cittadini, dopo mesi e mesi di rassicurazioni. Ma il pessimismo è suggerito, soprattutto, dal peggioramento della condizione familiare. Che ha raggiunto livelli di guardia.

Il 18% degli italiani, nel sondaggio Demos-Coop, dichiara che, nella sua famiglia, qualcuno ha perso il lavoro (5 punti in più di due anni fa). Il 24% sostiene che un familiare è stato messo in cassa integrazione (il doppio rispetto al 2008). Infine, il 27% degli intervistati (5 punti in più di due anni fa) afferma di aver dovuto ricorrere a prestiti presso genitori, parenti oppure amici. Considerando questi segni di difficoltà, il 17% delle famiglie italiane appare in condizione di grave disagio. Due anni fa questa cerchia era già ampia, ma si fermava al 12%.

Un ulteriore 30% degli intervistati manifesta episodi di difficoltà familiare. Due anni fa era il 22%. Il profilo degli italiani in difficoltà economica risulta piuttosto chiaro. Si tratta di persone che risiedono, maggiormente, nel Mezzogiorno (anche se il peso della cassa integrazione è rilevante anche nel Nord). Di età media (40-55 anni), ma anche giovane (25-40 anni). Occupati (o disoccupati) come lavoratori dipendenti del settore privato. Ma le difficoltà colpiscono, in misura superiore alla media, anche i lavoratori autonomi.

Il montare della crisi economica e occupazionale ha largamente “saturato” lo spazio delle preoccupazioni, ridimensionando le paure suscitate dalla criminalità comune e dagli immigrati – perlopiù connessi, in un binomio inscindibile. L’atteggiamento verso gli immigrati, in particolare, sembra cambiato profondamente, sotto diversi profili.

Si è ridotta la quota di coloro che li percepivano come un pericolo per la sicurezza, ma anche per l’occupazione. Mentre si è ridotto il peso di chi vede negli stranieri una “minaccia all’identità e alla religione”. Parallelamente, è cresciuta la disponibilità a considerarli una risorsa per la nostra economia. Oltre che dalle preoccupazioni economiche, questo cambiamento del clima di opinione è stato favorito dalla minore intensità della campagna mediatica sui temi dell’immigrazione e della sicurezza (come mostrano i dati dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza).

Non vanno, tuttavia, trascurati gli effetti della diffusione dei rapporti con gli stranieri, messa in luce dall’Osservatorio Demos-Coop. Ci riferiamo alla crescente presenza degli stranieri nei luoghi di vita e di lavoro degli italiani. Come colleghi, amici, collaboratori, studenti, genitori di figli che studiano e giocano insieme ai nostri figli. Tutto ciò li ha resi meno “altri”, agli occhi degli italiani.

La crisi, tuttavia, può distogliere lo sguardo dal problema della sicurezza personale. Ma alimenta, comunque, la diffidenza. Tra gli italiani in maggiore difficoltà, infatti, la sfiducia nel futuro è molto superiore alla media. Ma anche la sfiducia negli altri e, in particolare, verso gli stranieri. Le persone in difficoltà economica familiare, infatti, risultano anche le meno tolleranti e disponibili verso gli immigrati. Percepiti come concorrenti. Nell’accesso al mercato del lavoro, ma anche ai servizi.

La percezione della crisi, tuttavia, sta indebolendo anche la fiducia nella politica. La quota di popolazione che esprime un giudizio positivo sull’operato del governo è, infatti, del 42% (il livello più basso degli ultimi 2 anni). Ma scende al 34% tra le persone in difficoltà economica e occupazionale. La stessa, esatta tendenza emerge nei confronti del premier: 42% di giudizi positivi nella popolazione; 34% nella componente sociale più precaria. Ma anche il consenso per Tremonti, che supera il 50% nella popolazione, tra i più “marginali” si riduce al 40%.

Si tratta di una novità. Visto che, negli ultimi anni, il governo Berlusconi aveva attraversato le crisi economiche senza pagare un prezzo significativo, dal punto di vista del consenso politico. Ora qualcosa si è rotto, in questo meccanismo.

Anche se ciò non implica, necessariamente, una svolta. Visto che il giudizio verso l’opposizione e il suo leader resta egualmente basso: nella popolazione come tra le persone socialmente in difficoltà. Il che suona come un avvertimento. Perché i mutamenti del sentimento sociale si traducano in termini elettorali occorre un’alternativa credibile e creduta. Che ancora non c’è. (Beh, buona giornata).

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