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Prove tecniche di Terza repubblica: “Il caso Englaro è stato derubricato l’altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza.”

Non poteva esserci scempio più atroce

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it
Il caso Englaro appassiona molto la gente poiché pone a ciascuno di noi i problemi della vita e della morte in un modo nuovo, connesso all’evolversi delle tecnologie. Interpella la libertà di scelta di ogni persona e i modi di renderla esplicita ed esecutiva. Coinvolge i comportamenti privati e le strutture pubbliche in una società sempre più multiculturale. Quindi impone una normativa per quanto riguarda il futuro che garantisca la certezza di quella scelta e ne rispetti l’attuazione.

Ma il caso Englaro è stato derubricato l’altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza. Non ci poteva essere operazione più spregiudicata e più lucidamente perseguita.

Condotta in pubblico davanti alle televisioni in una conferenza stampa del premier circondato dai suoi ministri sotto gli occhi di milioni di spettatori.
Non stiamo ricostruendo una verità nascosta, un retroscena nebuloso, una opinabile interpretazione. Il capo del governo è stato chiarissimo e le sue parole non lasciano adito a dubbi. Ha detto che “al di là dell’obbligo morale di salvare una vita” egli sente “il dovere di governare con la stessa incisività e rapidità che è assicurata ai governanti degli altri paesi”.

Gli strumenti necessari per realizzare quest’obiettivo indispensabile sono “la decretazione d’urgenza e il voto di fiducia”; ma poiché l’attuale Costituzione semina di ostacoli l’uso sistematico di tali strumenti, lui “chiederà al popolo di cambiare la Costituzione”.

La crisi economica rende ancor più indispensabile questo cambiamento che dovrà avvenire quanto prima.
Non ci poteva essere una spiegazione più chiara di questa. Del resto non è la prima volta che Berlusconi manifesta la sua concezione della politica e indica le prossime tappe del suo personale percorso; finora si trattava però di ipotesi vagheggiate ma consegnate ad un futuro senza precise scadenze. Il caso Englaro gli ha offerto l’occasione che cercava.

Un’occasione perfetta per una politica che poggia sul populismo, sul carisma, sull’appello alle pulsioni elementari e all’emotività plebiscitaria.

Qui c’è la difesa di una vita, la commozione, il pianto delle suore, l’anatema dei vescovi e dei cardinali, i disabili portati in processione, le grida delle madri. Da una parte. E dall’altra i “volontari della morte”, i medici disumani che staccano il sondino, gli atei che applaudono, i giudici che si trincerano dietro gli articoli del codice e il presidente della Repubblica che rifiuta la propria firma per difendere quel pezzo di carta che si chiama Costituzione.

Quale migliore occasione di questa per dare la spallata all’odiato Stato di diritto e alla divisione dei poteri così inutilmente ingombrante? Non ha esitato davanti a nulla e non ha lesinato le parole il primo attore di questa messa in scena. Ha detto che Eluana era ancora talmente vitale che avrebbe potuto financo partorire se fosse stata inseminata. Ha detto che la famiglia potrebbe restituirla alle suore di Lecco se non vuole sottoporsi alle spese necessarie per tenerla in vita.

Ha detto che i suoi sentimenti di padre venivano prima degli articoli della Costituzione. E infine la frase più oscena: se Napolitano avesse rifiutato la firma al decreto Eluana sarebbe morta.

Eluana scelta dunque come grimaldello per scardinare le garanzie democratiche e radunare in una sola mano il potere esecutivo e quello legislativo mentre con l’altra si mette la museruola alla magistratura inquirente e a quella giudicante.

Questo è lo spettacolo andato in scena venerdì. Uno spettacolo che è soltanto il principio e che ci riporta ad antichi fantasmi che speravamo di non incontrare mai più sulla nostra strada.

Ci sono altri due obiettivi che l’uso spregiudicato del caso Englaro ha consentito a Berlusconi di realizzare.
Il primo consiste nella saldatura politica con la gerarchia vaticana; il secondo è d’aver relegato in secondo piano, almeno per qualche giorno, la crisi economica che si aggrava ogni giorno di più e alla quale il governo non è in grado di opporre alcuna valida strategia di contrasto.

Dopo tanto parlare di provvedimenti efficaci, il governo ha mobilitato 2 miliardi da aggiungere ai 5 di qualche settimana fa. In tutto mezzo punto di Pil, una cifra ridicola di fronte ad una recessione che sta falciando le imprese, l’occupazione, il reddito, mentre aumentano la pressione fiscale, il deficit e il debito pubblico. Di fronte ad un’economia sempre più ansimante, oscurare mediaticamente per qualche giorno l’attenzione del pubblico depistandola verso quanto accade dietro il portone della clinica “La Quiete” dà un po’ di respiro ad un governo che naviga a vista.

Quando crisi ingovernabili si verificano, i governi cercano di scaricare le tensioni sociali su nemici immaginari. In questo caso ce ne sono due: la Costituzione da abbattere, gli immigrati da colpire “con cattiveria”.

Il Vaticano si oppone a quella “cattiveria” ma ciò che realmente gli sta a cuore è mantenere ed estendere il suo controllo sui temi della vita e della morte riaffermando la superiorità della legge naturale e divina sulle leggi dello Stato con tutto ciò che ne consegue. Le parole della gerarchia, che non ha lesinato i complimenti al governo ed ha platealmente manifestato delusione e disapprovazione nei confronti del capo dello Stato ricordano più i rapporti di protettorato che quelli tra due entità sovrane e indipendenti nelle proprie sfere di competenza. Anche su questo terreno è in atto una controriforma che ci porterà lontani dall’Occidente multiculturale e democratico.

Nel suo articolo di ieri, che condivido fin nelle virgole, Ezio Mauro ravvisa tonalità bonapartiste nella visione politica del berlusconismo. Ha ragione, quelle somiglianze ci sono per quanto riguarda la pulsione dittatoriale, con le debite differenze tra i personaggi e il loro spessore storico.

Ci sono altre somiglianze più nostrane che saltano agli occhi. Mi viene in mente il discorso alla Camera di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, cui seguirono a breve distanza lo scioglimento dei partiti, l’instaurazione del partito unico, la sua identificazione con il governo e con lo Stato, il controllo diretto sulla stampa. Quel discorso segnò la fine della democrazia parlamentare, già molto deperita, la fine del liberalismo, la fine dello Stato di diritto e della separazione dei poteri costituzionali.

Nei primi due anni dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva conservato una democrazia allo stato larvale. Nel novembre del ’22, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, aveva esordito con la frase entrata poi nella storia parlamentare: “Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”.

Passarono due anni e non ci fu neppure bisogno del bivacco di manipoli: la Camera fu abolita e ritornò vent’anni dopo sulle rovine del fascismo e della guerra.
In quel passaggio del 3 gennaio ’25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.
Alcuni (pochi) resistettero con intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.

Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.
Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel “rinsavimento” sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione. Sui problemi della sicurezza e della giustizia la divaricazione tra la maggioranza e le opposizioni è ormai incolmabile. Sulla riforma della Costituzione il territorio è stato bruciato l’altro ieri.

E tutto è sciaguratamente avvenuto sul “corpo ideologico” di Eluana Englaro. Non ci poteva essere uno scempio più atroce. (Beh, buona giornata).

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Prove tecniche di Terza repubblica: “La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli.”

Il potere apparente della Chiesa

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

Solo in apparenza c’è contraddizione fra l’enorme caduta di autorità manifestatasi ai vertici della Chiesa in occasione della riabilitazione dei vescovi lefebvriani e il potere non meno grande che il Vaticano ha esercitato, e sta esercitando, sul caso Englaro e sullo scontro tra istituzioni in Italia. Nel lungo periodo il primo caso finirà forse col pesare di più: i libri di storia racconteranno nei prossimi secoli quel che è accaduto nella Santa Sede, quando un Pontefice volle metter fine a uno scisma, tolse la scomunica ai vescovi di Lefebvre, e mostrò di non sapere bene quello che faceva. Mostrò di ignorare quel che la setta sostiene, e quel che un suo rappresentante, il vescovo Williamson, afferma sul genocidio nazista degli ebrei: genocidio che il vescovo nega («gli uccisi non furono 6 milioni e non morirono in camere a gas») e che non giustificherebbe il senso di colpa della Germania. Un papa tedesco inconsapevole di quel che Williamson divulga da anni fa specialmente impressione.

I libri di storia racconteranno com’è avvenuto il ravvedimento, non appena il cancelliere Angela Merkel gli ha chiesto d’esser «più chiaro»: i giornali tedeschi, impietosi, descrivono il suo cedimento alla politica, la sua caduta nel peccato (è un titolo della Süddeutsche Zeitung), la fine di un’infallibilità che è dogma della Chiesa dal 1870, per volontà di Pio IX. Il rapporto con il caso Eluana c’è perché anche quando esercita poteri d’influenza sproporzionati, nei rapporti con lo Stato italiano, la Chiesa pare agire come per istinto, senza calcolare a fondo le conseguenze: interferisce nelle leggi del potere civile, sorvola su sentenze passate in giudicato, disturba gravemente lo scabro equilibrio fra Stato italiano e Vaticano. Difende l’idea che lo Stato debba essere etico, e che solo il Vaticano possa dire l’etica. Dopo essersi rivelato impotente di fronte al mondo – impotente al punto di «piegarsi» sulla questione lefebvriana – è come se il Vaticano si prendesse una rivincita locale in Italia, esibendo una forza che tuttavia è più apparente che reale. È apparente perché le questioni morali poste dalla Chiesa sono usate dai politici per scopi a essa estranei.

Nell’interferire, la Chiesa non mostra autorità né autentica forza di persuasione. Mostra di possedere quel che viene prima del potere di governo (prima di quello che nella Chiesa è chiamato donum regiminis, un carisma da coniugare col «dono della contemplazione»): esibisce pre-potenza. Proprio questo accadde nel 1870: il Papa stava perdendo il potere temporale, e per questo accampò l’infallibilità spirituale. La prepotenza ecclesiastica verso Eluana e verso chi dissente dalla riabilitazione dei vescovi sembra avere tratti comuni. Ambedue i gesti hanno radici nella superficialità, e in una sorta di volontaria, diffusa incoscienza. Riconciliandosi con la setta, non mettendo subito alcune condizioni irrinunciabili e accennando enigmaticamente a una «comunione non ancora piena», il Papa ha trascurato molte altre cose, sostenute nelle confraternite da decenni. Gli scismatici non si limitavano a dire la messa in latino, volgendo le spalle ai fedeli. Si opponevano con veemenza alle aperture del Concilio Vaticano II, e soprattutto alla dichiarazione di Paolo VI sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra Aetate, 1965). Totale resta la loro opposizione al dialogo con chi crede e pensa in modo diverso.

Granitica la convinzione, contro cui insorge la dichiarazione di Paolo VI, che gli ebrei non convertiti siano gli uccisori di Cristo. Nostra Aetate non parla solo dell’ecumenismo cristiano. Parla di tutti i monoteismi (Ebraismo, Islam) e anche di religione indù e di buddismo. Apre a altri modi di credere, non ritenendo che la Chiesa romana sia unica depositaria della verità e della morale. Rispondendo a Alain Elkann, monsignor Tissier de Mallerais della confraternita San Pio X dice: «Noi non cambiamo le nostre posizioni ma abbiamo intenzione di convertire Roma, cioè di portare il Vaticano verso le nostre posizioni» (La Stampa, 1-2-09). L’atteggiamento che la Chiesa ha verso l’autonomia dello Stato di diritto in Italia non è molto diverso, nella sostanza, da alcune idee lefebvriane. Il diritto e la Costituzione tengono insieme, per vocazione, etiche e individui diversi. Il dubbio su questioni di vita e morte è in ciascuna persona, e proprio per questo si fa parlare la legge e si separa lo Stato dalle chiese.

È quello che permette allo Stato di non essere Stato etico, dunque ideologico. Nell’ignorare la necessità di questi vincoli il Vaticano non si differenzia in fondo da Berlusconi, oscurando quel che invece li divide eticamente. L’interesse o la morale del principe contano per loro più della legge, della costituzione. Il particolare, sotto forma di spirito animale dell’imprenditore-re o di convinzione etica del sacerdote-guida, non si limita a chiedere un suo spazio d’espressione e obbedienza (com’è giusto), ma esige che lo Stato rinunci a fare la laica sintesi di opinioni contrarie. La laicità non è un credo antitetico alla Chiesa, ma un metodo di sintesi. Su questi temi sembra esserci affinità della Chiesa con Berlusconi e perfino con i lefebvriani, favorevoli da sempre al cattolicesimo religione di Stato. I vertici del Vaticano si sono rivelati in queste settimane assai deboli e assai forti al tempo stesso. Deboli, perché per ben 14 giorni Benedetto XVI è apparso prima ignaro, poi male informato, infine – appena seppe quel che faceva – paralizzato.

Il cardinale Lehman ha accennato a errori di management e comunicazione, ma c’è qualcosa di più. Aspettare l’intervento della Merkel è stato distruttivo di un’autorità. Nei libri di storia alcuni parleranno di clamoroso fallimento di leadership. Una leadership così scossa, è cosa triste recuperarla su Eluana. La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli. Non si capisce come questo aiuti la Chiesa. Condannando Napolitano, la Chiesa non sceglie la maestà della legge e la vera sovranità: dice solo che le leggi di uno Stato pesano poco, e invece di usare la politica ne è usata in maniera indecente. La questione Englaro non divide religiosi e non religiosi, fautori della vita e della morte. Divide chi rispetta la legge e chi no; chi auspica rapporti di rispetto fra due Stati e chi ritiene che lo Stato vaticano possa legiferare al posto dell’italiano. Sono ministri del Vaticano che hanno attaccato Napolitano: dal cardinale Martino presidente del consiglio Pontificio Giustizia e Pace al cardinale Barragan, responsabile per la Sanità nello Stato della Chiesa.

Il loro dovere istituzionale sarebbe stato quello di tacere, come laicamente ha deciso di fare, unico e solitario nella maggioranza, Gianfranco Fini Presidente della Camera. Come difendere la Chiesa, ora che non ha più potere temporale e che vacilla? La questione sembrava risolta: non lo è. Non si tratta di seguire l’opinione dominante: sarebbe autodistruttivo, proprio in questi giorni il Papa ne ha fatto l’esperienza. Si tratta di ascoltare il diverso, di documentarsi su quel che dicono i tribunali e la scienza, come rammenta Beppino Englaro. Sull’accanimento terapeutico e l’alimentazione-idratazione artificiale si possono avere opinioni diverse e si hanno comunque dubbi, per questo urge una legge sul testamento biologico: non discussa precipitosamente tuttavia. Non perché una maggioranza, adoperando il povero corpo vivo-morto di Eluana, accresca i suoi poteri. Non annunciando che «Eluana può generare figli» come dice, impudicamente, Berlusconi. Prima d’annunciare e sparlare occorre informarsi, studiare, capire. È il dono di governo e contemplazione che manca tragicamente sia in chi conduce la Chiesa, sia in chi governa la Repubblica. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Non si esce dalla crisi se non si esce dal neoliberismo.

di Duccio Cavalieri – da www.economiaepolitica.it

La crisi economica globale del sistema capitalistico, oggi in atto, deve indurre gli economisti teorici ad interrogarsi su quanto sta accadendo e a cercare di prevederne i prossimi sviluppi e gli esiti. Uno dei compiti storici della scienza economica è infatti la spiegazione e la previsione di quanto avviene nella realtà.

Un primo punto sembra sufficientemente chiaro. Si tratta di una crisi che ha avuto inizio nel mondo della finanza e che ha poi contagiato l’economia reale. E’ emersa la forte instabilità di un sistema di intermediazione finanziaria che anziché incoraggiare il risparmio delle famiglie e assicurare che esso affluisse senza ostacoli agli investimenti delle imprese e agli impieghi delle amministrazioni pubbliche, è stato utilizzato per finanziare pericolose operazioni speculative compiute sul mercato dei capitali e su quello dei cambi. Questo è avvenuto in un contesto di bassi livelli dei salari reali e in presenza di una politica dell’amministrazione repubblicana degli Stati Uniti che ha alimentato nei lavoratori una forma inedita e sottile di illusione monetaria, consentendo alle banche e ad altre istituzioni finanziarie di concedere loro ampio credito e mutui ipotecari a condizioni molto facili (i subprime mortgages a tassi variabili) per indurli ad acquistare di più e consumare di più, nonostante i bassi salari.

Una situazione di questo tipo non può durare indefinitamente. Quando le banche cominciano a incontrare delle difficoltà nel rientro dei capitali prestati e vengono a trovarsi a corto di liquidità per l’insolvenza dei debitori, il flusso del finanziamento bancario alle imprese di produzione tende necessariamente ad interrompersi. Per allontanare nel tempo questa evenienza, le banche hanno fatto ricorso a strumenti innovativi di ingegneria finanziaria allo scopo di attuare una strategia finanziaria tutt’altro che nuova: quella della Ponzi finance, efficacemente descritta da Hyman Minsky. Hanno infatti cercato di trasformare i crediti in sofferenza in fonti di nuove rendite finanziarie, facendo ricorso a operazioni di cartolarizzazione (securitization) e successiva inclusione dei crediti frazionati in prodotti finanziari derivati, con l’intento di arrivare a disperdere il rischio individuale.

In tali condizioni, chi comprende come stanno andando le cose e dispone di liquidità non la investirà più, ma la tratterrà, ripromettendosi di farne uso in seguito, quando la crisi avrà prodotto i suoi effetti più devastanti, per acquistare le attività patrimoniali superstiti a prezzi stracciati. Viene in essere cioè una situazione abbastanza simile a una trappola della liquidità, ma in presenza di tassi di interesse non ancora ridotti al minimo. Tale situazione non può tuttavia durare a lungo. Essa è destinata a cambiare non appena sul mercato dei capitali i tassi scendono ulteriormente e diventa possibile compiere operazioni vantaggiose di acquisto di capitale azionario, anche finanziandole a credito. Ossia creando degli appositi consorzi finanziari che si indebitano per acquistare imprese (è il cosiddetto leverage buyout) e che possono conteggiare il debito come un costo detraibile dalle tasse, scaricandone l’onere sulle società acquistate (che non di rado vengono poi abbandonate al loro destino di bad companies).

Questo contribuisce ad aumentare la scarsità di liquido e tende a determinare una crisi del mercato interbancario. Per l’eccessivo livello dell’indebitamento, le banche non si fidano più l’una dell’altra e non si prestano denaro tra loro. La crisi è aggravata dal fatto che nel frattempo si diffondono voci allarmanti sull’esito di investimenti troppo rischiosi effettuati dalle banche e i risparmiatori tendono di conseguenza a ritirare i loro depositi e a compiere spostamenti di capitali dai titoli privati a quelli pubblici, ritenuti più solidi, anche se non del tutto sicuri in una situazione di rischio sistemico.

Ne risulta appunto una sorta di trappola anomala della liquidità, che penalizza chi ha bisogno di prestiti per motivi non speculativi. E quindi danneggia in primo luogo le imprese, che possono essere costrette dapprima a ridurre e poi addirittura a cessare la loro attività. A questo punto la crisi diventa generale e coinvolge l’economia reale, a ulteriore dimostrazione della non neutralità della moneta. E attraverso nuovi meccanismi di trasmissione degli impulsi monetari e finanziari sulle variabili reali, che meriterebbero di essere ulteriormente indagati, la crisi si scarica per intero sui lavoratori e sulle loro famiglie.

Le principali cause della fragilità strutturale del sistema finanziario possono a questo punto facilmente individuarsi. Sono la tendenza a un eccessivo ricorso al finanziamento esterno da parte delle imprese; la diffusa pratica bancaria consistente nell’utilizzare credito a breve termine, continuamente rinnovato, per finanziare impieghi di capitale a medio e lungo termine;  la facilità con cui vengono realizzate operazioni finanziarie e creditizie ad alto rischio; la scarsa trasparenza di molte operazioni finanziarie, che alimenta la possibilità di compiere vere e proprie frodi nel trasferimento dei rischi. Frodi che sono messe in atto dagli intermediari finanziari ai danni dei risparmiatori e vengono non di rado avallate da compiacenti agenzie di valutazione (rating companies), che, male interpretando le proprie funzioni, mettono in grado alcune società di indebitarsi per somme molto superiori al loro effettivo valore di mercato.

In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo e di riconosciuta necessità di ricorrere ad interventi pubblici per salvare banche e aziende in difficoltà, anziché lasciare che il mercato penalizzi l’insuccesso delle iniziative economiche meno efficienti. Al vecchio paradigma dell’efficienza allocativa del mercato oggi credono ancora solo pochi epigoni della Mont-Pélerin Society, della scuola di economia di Chicago e della London School of Economics. Quelli che hanno sempre insistito nel presentare il neoliberismo come antitesi al keynesismo e al dirigismo economico degli anni ’30; e che hanno ispirato il programma economico conservatore di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e quello di Ronald Reagan negli USA, l’uno e l’altro favorevoli alla deregolamentazione, alle privatizzazioni e a un contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica per finalità sociali.

E’ un duro colpo per il neoliberismo, un indirizzo di pensiero che ha cercato di affossare le conquiste dello Stato sociale e ha inquinato il quadro teorico con la supply side economics e la ‘critica di Lucas’ all’efficacia della politica economica. Dopo la dissoluzione dei regimi economici dei paesi del cosiddetto ‘socialismo reale’ il neoliberismo ha creduto di avere ormai partita vinta e si è apprestato a seppellire definitivamente l’interventismo statale di tipo keynesiano. Ma oggi il neoliberismo subisce una dura lezione dalla storia. Perfino i più tenaci assertori di questo indirizzo di pensiero, posti di fronte alla drammatica alternativa tra aiutare Wall Street a uscire dalla crisi, sovvenzionando un sistema capitalistico dimostratosi largamente corrotto, o lasciare che esso precipitasse nel caos finanziario più assoluto, sono stati indotti a invocare un intervento straordinario dello Stato nella sfera economica per salvare dal fallimento grandi banche ed imprese. Con l’intenzione di addossare al Tesoro, ossia ai contribuenti, l’onere dell’acquisto dei crediti inesigibili. Senza quindi arrivare a delle vere e proprie nazionalizzazioni.

Ma non è stata, a ben guardare, una vittoria del keynesismo. L’odierna crisi globale ha semplicemente mostrato la necessità della politica economica, riaprendo in un certo senso il confronto teorico tra liberismo e keynesismo. Ma l’aumento della spesa pubblica, che oggi da tante parti si invoca, non riguarda la spesa sociale in istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione. Riguarda il sostegno di banche e società finanziarie in difficoltà e il salvataggio di grandi imprese industriali. Un salvataggio che ci si propone di realizzare continuando a comprimere i salari reali e le pensioni. E’ quindi un sostegno non alla domanda, ma all’offerta.

Tutto questo ha ben poco di keynesiano. E può accrescere il divario tra l’offerta e la domanda, anziché aiutare a superare le difficoltà di realizzo della produzione sul mercato. Difficoltà dovute alla maldistribuzione del reddito e tipiche di un sistema in cui il capitale non riesce a porsi fini diversi da quello del proprio continuo accrescimento. Tali difficoltà oggi non presentano più carattere esclusivamente ciclico, ma tendono ad assumere carattere strutturale. Segno che il capitalismo resta un problema (il problema di fondo) e che il problema tende ad aggravarsi. (Beh, buona giornata).

 

*Professore ordinario di economia politica nell’Università di Firenze.

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Attualità Leggi e diritto

Poniamo fine a questa indecente danza macabra attorno al capezzale di Eluana Englaro.

Il padre di Eluana, Beppino Englaro, attraverso un comunicato stampa invita il premier e il capo dello Stato a visitare la figlia. Ecco il testo:

“Sono il tutore di Eluana Englaro, ma in questo momento parlo da padre a padre, rivolgendomi al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per invitare entrambi, ed essi soli, a venire ad Udine per rendersi conto, di persona e privatamente, delle condizioni effettive di mia figlia Eluana, su cui si sono diffuse notizie lontane dalla realtà che rischiano di confondere e deviare ogni commento e convincimento”. 

Il che dimostra che ministri e cardinali, con l’ausilio di commentatori da strapazzo hanno finora aperto bocca per sentito dire. E’ un atteggiamento “normale” in un paese che ha ridotto l’informazione a propaganda. E’ un fatto semplicemente ripugnante che lo scontro politico avvenga strumentalizzando, in modo sconcio, la vicenda umana di Eluana e di suo padre.

Abbiano il coraggio di dire pubblicamente, apertamente, senza nascondersi dietro dicerie, che il vero obiettivo dello scontro istituzionale  in atto è la modifica sostanziale della nostra democrazia parlamentare. La politica italiana con le sue schiere di mezze calzette  parlanti ci hanno abituato da tempo agli annunci e alle smentite. Anche oggi il premier accusa la lettera del capo dello Stato di essere a favore dell’eutanasia, per poi smentirlo neanche due ore dopo. Anche oggi il Papa allude a fatti che non conosce e che forse proprio non vuole conoscere. E’ già recentemente successo nella brutta vicenda del vescovo Williamson e le sue orribili teorie negazioniste dell’Olocausto degli ebrei. 

I confini del ruolo del capo del governo sono stati giustamente ricordati dalla lettera del Presidente Napolitano: fino a prova contraria, l’Italia è una democrazia parlamentare, la cui architettura costituzionale mal sopporta la continua decratazione d’urgenza. Tanto più se essa è un trucco per invalidare l’esecuzione di sentenze emesse dal Tribunale.

 I confini  di azione del capo dello Stato Vaticano non gli consentono ingerenze nella vita politica dello Stato italiano. I confini di iniziativa del capo spirituale della religione cattolica non gli consentono di invadere, neppure sui temi etici, il terreno della laicità dello Stato.

Se il presidente  della Repubblica ha “deluso” queste aspettative è solo e soltanto perché egli ha fatto il suo dovere di garante della Costituzione. E di questo, anche fosse solo per questo, tutti i cittadini italiani non possono che essergli grati .  

Adesso, però basta. La pantomina della trasformazione di un decreto legge in un disegno di legge da far discutere a tappe forzate dal Parlamento è un’ulteriore provocazione: la quarta carica dello Stato (il presidente del consiglio) vuole imporre il suo volere alla seconda e alla terza carica dello Stato (i presidenti dei due rami del Parlamento) per prendersi una rivincita contro la prima carica dello Stato (il presidente della Repubblica).

Si ribellino a questa sudditanza i parlamentari della Repubblica, eletti democraticamente. Esercitino il loro mandato in piena autonomia dal potere esecutivo. Al Senato è già all’esame un testo di legge sul testamento biologico. Quella è la procedura corretta, quella è la via  maestra per un pronunciamento del Parlamento.

L’invito è esplicito: ponete fine a questa indecente danza macabra attorno al capezzale di Eluana Englaro. Restituite dignità di uomo e di padre a Beppino Englaro. Ma soprattutto, restituite i diritti costituzionali a Eluana e a Beppino: sono due cittadini della Repubblica Italiana, lo Stato ha il dovere di tutelarli. Beh, buona giornata. 

 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Gli italiani e la crisi dei consumi. Un monito per la pubblicità italiana: meno tv, più comunicazione; meno emozioni, più concrete informazioni. Insomma: meno blàblàblà, più creatività.

di MAURIZIO RICCI da repubblica.it

STARBUCKS, la leggendaria catena del caffè e degli yuppies, taglia 7 mila posti e 300 negozi. McDonald’s, il re degli hamburger, apre 300 ristoranti e assume 12 mila persone. Non è solo la storia divergente di due aziende, ma di come la crisi che scuote il mondo stia stravolgendo i nostri stili di vita. Alle spalle le luci soffuse, l’atmosfera rilassata, la scelta tra un (costoso) caffè della Colombia e un (costoso) caffè dell’Ecuador, con il Mac sulle ginocchia a chattare con gli amici. E’ il momento delle luci crude, i tavoloni di formica affollati, i panini politicamente scorretti, da consumare in fretta, ma spendendo poco. Dal superfluo al necessario.

Come dicono sconsolati gli analisti di Goldman Sachs, esaminando il bilancio sconfortante di Polo Ralph Lauren, un simbolo del vestire con classe, nei consumatori l’aspirazione (“con questa cosa faccio un figurone”) è stata sostituita dalla disperazione (“ma davvero devo spendere tutti questi soldi?”). Un rapporto sui consumi di una grande banca, Credit Suisse, sottolinea che l’unico comparto che regge è l’alimentare: a mangiare non si rinuncia.

Tutto intorno, la spirale della deflazione è nel suo giro più maligno: i prezzi scendono, ma non abbastanza da stimolare la domanda. In Inghilterra, a dicembre, le vendite di beni non alimentari sono aumentate del 4 per cento. Ma i relativi incassi sono diminuiti dell’1,4 per cento, devastando i bilanci delle aziende e avvitando di più verso il basso la spirale della deflazione.

Non c’è da sorridere, comunque, per nessuno. Negli Stati Uniti, Saks e Neiman Marcus, gli Starbucks dell’abbigliamento, hanno visto a dicembre le vendite scendere fra il 20 e il 30 per cento, nonostante i saldi iniziati, spesso, il pomeriggio della vigilia di Natale. Wal-Mart, il McDonald’s della grande distribuzione, le ha aumentate, ma solo dell’1,7 per cento. Dice Giorgio Santambrogio, direttore generale al marketing di Interdis, una grande catena di supermercati italiana, con quasi 3 mila punti vendita: “Un fatturato che regge è già un successo”.

L’esempio più immediato lo troviamo nei luoghi che del risparmio – la carta vincente, oggi, per i consumatori – fanno la loro ragion d’essere. I mercatini dell’usato, online e sulle bancarelle, vanno alla grande e soddisfazione c’è anche nel più grande dei mercati dell’usato: l’auto. L’anno scorso, gli italiani hanno comprato quasi 3 milioni di macchine usate, contro poco più di 2 milioni di macchine nuove. Ormai, si vendono (comprese quelle cedute ai concessionari quando si acquista un’auto nuova) 138 macchine usate ogni 100 nuove.

Anche l’usato, in realtà, dall’autunno, secondo le stime di CarNext, una società del settore, ha subito una flessione nei numeri venduti, ma meno di un terzo, rispetto a quanto è avvenuto nel nuovo. E, intanto, la quota del fatturato, rispetto al nuovo, si allarga: nel 2008, i rivenditori di auto usate hanno incassato 24 miliardi di euro, il 56 per cento del giro d’affari delle auto nuove. Dove, a salvarsi, sono state solo le superutilitarie e quelle che, almeno, con gpl o metano, risparmiano sul carburante. Piano, però, a generalizzare l’effetto-risparmio.

Se, in effetti, il parametro decisivo è l’incrocio fra prezzo e necessità, sembrerebbe logico dedurre che, anche al di là dell’auto, i meglio attrezzati a galleggiare sulla crisi siano i profeti del discount, gli alfieri del prezzo scontato, spesso giganti globali: Wal-Mart, Carrefour, Tesco, Metro. E le loro repliche locali. Ma la psicologia dei consumatori è più complicata di così e la crisi morde in modo più selettivo. In termini generali, questa è l’era del discount: secondo i dati della Nielsen, nella prima metà del 2008, il 63,5 per cento degli italiani è andato a fare la spesa nei discount. Dallo scorso luglio, questa quota è salita al 72 per cento.

Eppure, un gigante degli ipermercati, paradiso del prezzo basso, come Carrefour, nel 2008 ha visto diminuire di quasi il 2 per cento le sue vendite in Italia e ha dovuto ridimensionare drasticamente il suo grande ipermercato della Romanina, nella capitale.

Metro sta tagliando il personale. Che succede? Ce lo fa capire Alessandro, direttore del discount Tuo a Roma, nel quartiere Gianicolense: “Noi – dice – più o meno vendiamo come prima. Ma sa qual è la differenza, rispetto ad un anno fa?” Con il mento indica i clienti che si muovono fra gli scaffali spartani: “Vediamo ogni giorno le stesse facce. Prima venivano una volta a settimana e riempivano il carrello. Adesso, vengono ogni giorno e se ne vanno con una bustina”. “E’ finita – spiega Santambrogio – l’epopea della shopping expedition, quando si partiva per riempire il bagagliaio della macchina con la spesa per un mese”.

Il consumatore italiano non pensa di potersi permettere progetti di spesa per più di due-tre giorni. “Noi – dice Santambrogio – facciamo più scontrini, ma ognuno per una cifra inferiore a prima”. Nielsen conferma: lo scontrino medio dei discount è passato da 69,7 a 63,6 euro. A soffrirne sono proprio gli ipermercati alla periferia delle città: il viaggio non vale più la pena. Le analisi di mercato di Infoscan dicono che, a novembre (ultimo dato disponibile prima che le vendite venissero drogate dallo shopping natalizio), gli ipermercati hanno venduto l’1,6 per cento in meno, rispetto ad un anno prima, e incassato il 3,1 per cento in meno. I supermercati, secondo Santambrogio che, da Interdis, segue marchi come Dimeglio e Sidis, in particolare quelli di quartiere, sono meglio in grado di adattarsi alle caratteristiche della clientela locale, ad una prevalenza di clienti anziani, piuttosto che di coppie con figli. Infoscan registra che, a novembre, gli incassi dei supermercati sono cresciuti dell’1,7 per cento rispetto al 2007.

Il consumatore italiano, insomma, pensa in piccolo e tira la cinghia. Tuttavia, i contorni della crisi italiana sono ancora fluidi e incerti. Gennaio è il mese dei saldi e delle tredicesime ancora in tasca, la massa dei precari tagliati il 31 dicembre ha ancora un mese di stipendio, le ondate di licenziamenti e di cassa integrazione si stanno materializzando solo adesso. Il picco della crisi deve, forse, ancora arrivare. Oppure la crisi italiana sarà diversa da quella dei paesi dove, oggi, sta colpendo più duro.

Stefano Beraldo, amministratore delegato del gruppo Coin-Oviesse, ha un osservatorio privilegiato: i negozi Oviesse hanno un’offerta economica, mentre l’offerta di abbigliamento Coin si rivolge ad un segmento di mercato più alto. “Francamente – dice Beraldo – io non vedo differenze. Natale 2008 è andato, più o meno, come il 2007 e, anzi, forse Coin è andata meglio di Oviesse. Anche i saldi sono andati bene in tutt’e due le catene. Certo, non ci sono più i turisti russi e giapponesi a tenere su le vendite, le donne si concedono meno sfizi e tutti sono più attenti al rapporto qualità/prezzo. Fare il nostro mestiere è diventato più difficile. Ma niente di paragonabile al massacro cui assistiamo su mercati come quello americano, inglese o spagnolo. Magari il consumatore italiano è più resistente. Oppure stava peggio già prima”.

In effetti, in Italia non c’è stato ancora nulla di paragonabile allo “sboom” dei paesi in cui lo sgonfiarsi della bolla immobiliare prima, del credito al consumo e delle carte di credito, poi, ha determinato un crollo repentino, verticale, devastante delle vendite. Non c’è stato lo sboom, perché, prima, non c’era stato il boom: da anni, redditi e consumi italiani sono ai limiti dell’asfittico. Questo, tuttavia, vuol dire che la ripresa, quando arriverà, sarà più lenta ed incerta e che la crisi, se arriverà a colpire duro, troverà un organismo già indebolito. Soprattutto, perché il malessere dell’economia italiana, che viene da lontano e che la crisi globale può solo aggravare, ha già intaccato la resistenza di quelle classi medie che sono il nerbo dell’esercito dei consumatori.

Una ricerca condotta da Interactive Market Research ci fornisce un panorama degli umori e delle paure di queste classi medie. Come tutti i sondaggi on line, il campione non è rappresentativo della realtà nazionale. Ma, in questo caso, è un vantaggio. Perché un campione con il 30 per cento di laureati e il 50 per cento con un reddito sopra i 2 mila euro mensili è l’immagine della classe media attiva e, se da questa esce un sentimento univoco di pessimismo e rinuncia, i prossimi mesi saranno duri per tutti. E, qui, quasi metà degli intervistati ha difficoltà ad arrivare a fine mese e tre quarti si dichiarano molto preoccupati, al pensiero di un acquisto imprevisto che costi quanto un mese di stipendio. La lista delle rinunce e delle cose indispensabili ci fornisce una guida per capire chi soffrirà di più e chi meno, per la crisi.

Via libri, dvd, giornali, sigarette, cinema e teatro. Più televisione? Rai e Mediaset, però: metà del campione dichiara di aver rinunciato a Sky. Niente videocamera o videogames. Anche la tv a schermo piatto può attendere. Tagliati la palestra e l’estetista. Niente abiti eleganti, borse, attrezzature sportive. Neanche il cappotto nuovo. Al supermercato, basta con i dolci, l’acqua minerale, pesce, vino e birra. In generale, basta con i prodotti di marca: chi se ne frega dell’abito griffato e, per mangiare, vanno benissimo i prodotti con il marchio del supermercato locale.

Se ogni crisi, come dicono gli economisti, è anche un’opportunità, questa è l’ora dei terzisti, delle etichette anonime e un incubo per che si è preoccupato soprattutto di costruire il proprio “brand”, il proprio marchio. E, poi, chi si salva? Sulla tavola delle classi medie continueranno ad esserci pane, pasta, olio, latte, uova e carne. I bambini avranno i loro giocattoli. Se proprio bisogna spendere, agli interventi di piccola manutenzione per la casa non si può rinunciare. Ai gadget tecnologici, invece, sì. La decimazione è quasi totale. Quasi. Per Nokia, Dell, Ericsson, Samsung, Asus, c’è un po’ di luce, in fondo al tunnel. Computer e telefonino restano due must. La classe media affonda, ma comunica. (Beh, buona giornata). 

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Il pacchetto sicurezza ha preso di mira Internet.

Con il pacchetto sulla sicurezza approvato dal Senato, il Governo italiano dà al ministro degli Interni il potere di chiudere siti Internet, filtrarli e multarli pesantemente.

Infatti, il pacchetto sulla sicurezza appena approvato dal Senato (dovrà ancora tornare alla Camera) prevede che il ministero dell’Interno potrà ordinare l’oscuramento dei siti Internet sui quali si commette il reato di apologia o si istiga a delinquere. Lo stesso ministero potrà chiedere che vi vengano apposti filtri adeguati. I siti “disobbedienti” dovranno pagare una sanzione dai 50mila a 250mila euro.

In pratica il governo si arroga un potere che nei Paesi democratici può essere esercitato solo dall’autorità giudiziaria e mai dal governo per via amministrativa.
Il senatore  Gianpiero D’Alia, dell’UDC, firmatario dell’emendamento anti-internet accolto nel pacchetto sulla sicurezza ha detto: “In questo modo diamo concretezza alle nostre iniziative per ripulire la rete, e in particolare il social network Facebook, dagli emuli di Riina, Provenzano, delle Br, degli stupratori di Guidonia e di tutti gli altri cattivi esempi cui finora si è dato irresponsabilmente spazio.” 

Ripulire? Un verbo che evoca tristi esempi di soppressione delle libertà civili.

E’ la solita vecchia storia della censura di tutti i tempi: fare della libertà di opinione e di espressione una mera questione di ordine pubblico.  

Ecco il testo inserito nel pacchetto sicurezza, con i complimenti ai senatori che lo hanno approvato e a quelli che, pur non condividendolo non lo hanno pubblicamente denunciato come  attentato alla libertà di espressione, di opinione  e al diritto all’ informazione.  Così i complici si sono deliberatamente messi sullo stesso piano  dei colpevoli. (Beh, buona giornata)

Art. 50-bis.

(Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet)

1. Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l’interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.

2. Il Ministro dell’interno si avvale, per gli accertamenti finalizzati all’adozione del decreto di cui al comma 1, della polizia postale e delle comunicazioni. Avverso il provvedimento di interruzione è ammesso ricorso all’autorità giudiziaria. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengano meno i presupposti indicati nel medesimo comma.

3. I fornitori dei servizi di connettività alla rete internet, per l’effetto del decreto di cui al comma 1, devono provvedere ad eseguire l’attività di filtraggio imposta entro il termine di 24 ore. La violazione di tale obbligo comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000, alla cui irrogazione provvede il Ministro dell’interno con proprio provvedimento.

4. Entro 60 giorni dalla pubblicazione della presente legge il Ministro dell’interno, con proprio decreto, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con quello della pubblica amministrazione e innovazione, individua e definisce i requisiti tecnici degli strumenti di filtraggio di cui al comma 1, con le relative soluzioni tecnologiche.

5. Al quarto comma dell’articolo 266 del codice penale, il numero 1) è così sostituito: “col mezzo della stampa, in via telematica sulla rete internet, o con altro mezzo di propaganda”.»

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Prove tecniche di Terza repubblica: il Vaticano contro Napolitano.

di LUIGI LA SPINA da lastampa.it
Lo strapotere della Chiesa lo scivolone del Quirinale il pugno del Cavaliere.

In un momento in cui ogni coscienza si sente dilaniata da una scelta ugualmente terribile e iniqua, in una questione in cui nessuno si può arrogare il monopolio della giustizia e della verità perché è il dubbio che ci tormenta, c’è una sensazione che addolora di più e acuisce tristezza e pena: la consapevolezza che il grave conflitto politico e istituzionale che si è aperto ieri si gioca sulla pelle di una ragazza. Anzi, sul corpo di una ex ragazza divenuta donna nella lunghissima attesa della morte.

Se guardiamo l’incalzare febbrile delle vicende che, in queste ore, si sono susseguite fuori da quella porta che, fortunatamente, ancora separa Eluana dai politici, dai giudici, dai preti, dai dimostranti, dagli schermi tv, si possono cogliere almeno tre impressioni fondamentali: la volontà della Chiesa cattolica, meglio del Vaticano, di dimostrare la forza del suo potere sulla classe politica italiana; la mossa irrituale, comprensibile ma forse sbagliata nella valutazione delle conseguenze, da parte del presidente Napolitano, quando ha spedito la lettera con il preventivo «no» al decreto; il pugno di Berlusconi, con un duplice obbiettivo, di mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica e di dimostrare la necessità di una riforma costituzionale che rafforzi i poteri del premier.

Per i laici è solo una coincidenza, per i credenti un segno provvidenziale. Per tutti, è comunque curioso che proprio nei giorni in cui si celebrano l’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa e il quarto di secolo della revisione di quegli accordi, allo scontro tra istituzioni italiane si affianchi il rischio di una dura polemica tra Santa Sede e presidenza della Repubblica. Con ministri vaticani che criticano pesantemente Napolitano.

Nell’augurio che non si apra nella società italiana una «guerra di religione» di cui non si sente davvero il bisogno, né se ne comprende la giustificazione, è interessante notare come, sul caso Eluana, sia stata la Santa Sede a esprimere i toni più forti ed esasperati, sia nella polemica pubblica sia col protagonismo indiscusso del Segretario di Stato, cardinal Bertone, nel dialogo con i leader della nostra scena politica. Questo corrisponde alla prevalenza, ormai evidente nel pontificato di Benedetto XVI, degli aspetti teologici su quelli diplomatici. Un carattere che tende a sottovalutare il ruolo anche di capo di Stato che il Pontefice riveste e, quindi, delle pesanti conseguenze che certe parole e certe accuse possono avere sul rapporto tra Vaticano e presidente di uno Stato laico. Uno Stato che rivendica, o dovrebbe rivendicare, la piena autonomia delle sue scelte contro ogni tipo di ingerenze esterne, sia spirituali che temporali.

Sarebbe un errore, però, scambiare l’indubbio segnale di forza dimostrato dal Vaticano sulla classe politica italiana, con un’accresciuta influenza della Chiesa nella nostra società. Forse alla debolezza dei partiti e delle leadership si affianca, parallelamente, il timore dei vertici vaticani di un crescente distacco tra i sentimenti e i costumi degli italiani e la Chiesa. Un rischio che si cerca di esorcizzare più con fredde dimostrazioni di potere e di autorità che con manifestazioni di vicinanza pastorale ed affettiva ai problemi concreti della nostra popolazione.

Nell’ex residenza dei Papi, al Quirinale, si è vissuta una giornata di altrettanta tensione. È stato evidente il tentativo compiuto da Napolitano di avvertire pubblicamente Berlusconi di quella responsabilità di uno scontro istituzionale che si sarebbe assunta varando il decreto per Eluana. Nel timore di dover esprimere un «no» che lo avrebbe esposto all’accusa di aver voluto firmare una sentenza di morte. Ma il parere preventivo, arrivato proprio durante un consiglio dei ministri che stava decidendo sulla questione, può apparire lesivo di quella piena autonomia e responsabilità che la Costituzione riserva al governo in questi casi.

Nella partita a scacchi tra organi dello Stato che si è svolta ieri resta da notare la determinazione del presidente del Consiglio nell’imboccare consapevolmente la via dello scontro col Quirinale. Non tanto e non solo per piegarsi alle volontà del Vaticano, assumendo il ruolo di difensore della fede e della morale cattolica nella politica italiana, in una versione confessionale dell’eredità democristiana. Quanto per assestare, in modo clamoroso, un colpo al prestigio e al ruolo del Capo dello Stato e a chi, come Fini, ne segue troppo pedissequamente i consigli. Sfogando un risentimento che Berlusconi cova da tempo nei confronti di Napolitano e che, finora, si era acconciato a mimetizzare nella diplomazia istituzionale molto a malincuore. Nella speranza, inoltre, di dimostrare quanto sia necessario un riequilibrio dei poteri a favore della presidenza del Consiglio, manifestatasi così impotente in una questione così delicata. Sarà difficile che una riforma costituzionale quale Berlusconi vagheggia sia realizzabile, almeno in tempi ragionevolmente brevi. Ma in politica, soprattutto in quella italiana, non sempre servono i risultati. Bastano le intenzioni. (Beh, buona giornata).

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Prove tecniche di Terza repubblica: l’appello di Libertà e Giustizia.

Firma l’appello su www.libertaegiustizia.it

“Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità… La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti.
Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme”.
Norberto Bobbio

Primi firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Gae Aulenti, Umberto Eco, Claudio Magris, Guido Rossi, Sandra Bonsanti, Giunio Luzzatto, Simona Peverelli, Elisabetta Rubini, Salvatore Veca.

Rompiamo il silenzio. Mai come ora è giustificato l’allarme. Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti. Quando i legami sociali sono messi a rischio, non stupiscono le idee secessioniste, le pulsioni razziste e xenofobe, la volgarità, l’arroganza e la violenza nei rapporti tra gli individui e i gruppi. Preoccupa soprattutto l’accettazione passiva che penetra nella cultura. Una nuova incipiente legittimità è all’opera per avvilire quella costituzionale. Non sono difetti o deviazioni occasionali, ma segni premonitori su cui si cerca di stendere un velo di silenzio, un velo che forse un giorno sarà sollevato e mostrerà che cosa nasconde, ma sarà troppo tardi.

Non vedere è non voler vedere. Non conosciamo gli esiti, ma avvertiamo che la democrazia è in bilico.

Pochi Paesi al mondo affrontano l’attuale crisi economica e sociale in un decadimento etico e istituzionale così esteso e avanzato, con regole deboli e contestate, punti di riferimento comuni cancellati e gruppi dirigenti inadeguati. La democrazia non si è mai giovata di crisi come quella attuale. Questa può sì essere occasione di riflessione e rinnovamento, ma può anche essere facilmente il terreno di coltura della demagogia, ciò da cui il nostro Paese, particolarmente, non è immune.

La demagogia è il rovesciamento del rapporto democratico tra governanti e governati. La sua massima è: il potere scende dall’alto e il consenso si fa salire dal basso. ll primo suo segnale è la caduta di rappresentatività del Parlamento. Regole elettorali artificiose, pensate più nell’interesse dei partiti che dei cittadini, l’assenza di strumenti di scelta delle candidature (elezioni primarie) e dei candidati (preferenze) capovolgono la rappresentanza. L’investitura da parte di monarchie o oligarchie di partito si mette al posto dell’elezione. La selezione della classe politica diventa una cooptazione chiusa. L’esautoramento del Parlamento da parte del governo, dove siedono monarchi e oligarchi di partito, è una conseguenza, di cui i decreti-legge e le questioni di fiducia a ripetizione sono a loro volta conseguenza.

La separazione dei poteri è fondamento di ogni regime che teme il dispotismo, ma la demagogia le è nemica, perché per essa il potere deve scorrere senza limiti dall’alto al basso. Così, l’autonomia della funzione giudiziaria è minacciata; così il presidenzialismo all’italiana, cioè senza contrappesi e controlli, è oggetto di desiderio.

Ci sono però altre separazioni, anche più importanti, che sono travolte: tra politica, economia, cultura, e informazione; tra pubblico e privato; tra Stato e Chiesa. L’intreccio tra questi fattori della vita collettiva, da cui nascono collusioni e concentrazioni di potere, spesso invisibili e sempre inconfessabili, è la vera, grande anomalia del nostro Paese. Economia, politica, informazione, cultura, religione si alimentano reciprocamente: crescono, si compromettono e si corrompono l’una con l’altra. I grandi temi delle incompatibilità, dei conflitti d’interesse, dell’etica pubblica, della laicità riguardano queste separazioni di potere e sono tanto meno presenti  nell’agenda politica quanto più se ne parla a vanvera.

Soprattutto, il risultato che ci sta dinnanzi spaventoso è un regime chiuso di oligarchie rapaci, che succhia dall’alto, impone disuguaglianza, vuole avere a che fare con clienti-consumatori ignari o imboniti, respinge chi, per difendere la propria dignità, non vuole asservirsi, mortifica le energie fresche e allontana i migliori. È materia di giustizia, ma anche di declino del nostro Paese, tutto intero. 

Guardiamo la realtà, per quanto preoccupante sia. Rivendichiamo i nostri diritti di cittadini. Consideriamo ogni giorno un punto d’inizio, invece che un punto d’arrivo. Cioè: sconfiggiamo la rassegnazione e cerchiamo di dare esiti allo sdegno. 

Che cosa possiamo fare dunque noi, soci e amici di Libertà e Giustizia? Possiamo far crescere le nostre forze per unirle alle intelligenze, alle culture e alle energie di coloro che rendono vivo il nostro Paese e, per amor di sé e dei propri figli, non si rassegnano al suo declino. Con questi obiettivi primari.

Innanzitutto, contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo. Nelle condizioni politiche attuali del nostro Paese, esse sarebbero non strumenti di efficienza della democrazia ma espressione e consolidamento di oligarchie demagogiche.

Difendere la legalità contro il lassismo e la corruzione, chiedendo ai partiti che aspirano a rappresentarci di non tollerare al proprio interno faccendieri e corrotti, ancorché portatori di voti. Non usare le candidature nelle elezioni come risorse improprie per risolvere problemi interni, per ripescare personaggi, per pagare conti, per cedere a ricatti. Promuovere, anche così, l’obbligatorio ricambio della classe dirigente.

Non lasciar morire il tema delle incompatibilità e dei conflitti d’interesse, un tema cruciale,  che non si può ridurre ad argomento della polemica politica contingente, un tema che destra e sinistra hanno lasciato cadere. Riaffermare la linea di confine, cioè la laicità senza aggettivi, nel rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica, indipendenti e sovrani “ciascuno nel proprio ordine”, non appartenendo la legislazione civile, se non negli stati teocratici, all’ordine della Chiesa.

Promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali.

Sono obiettivi ambiziosi ma non irrealistici se la voce collettiva di Libertà e Giustizia potrà pesare e farsi ascoltare. Per questo chiediamo la tua adesione. (Beh, buona giornata).

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Prove tecniche di Terza repubblica.

“La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l’unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un’aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all’esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell’urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato.”

di EZIO MAURO da repubblica.it

UNA questione di vita e di morte, una tragedia familiare, un caso di amore e di disperazione tra genitori e figlia che cercava di sciogliersi nella legalità dopo un tormento di 17 anni, è stato trasformato ieri da Silvio Berlusconi in un conflitto istituzionale senza precedenti tra il governo e il Quirinale, con il Capo dello Stato che non ha firmato il decreto d’urgenza del governo sul caso Englaro, dopo aver inutilmente invitato il Premier a riflettere sulla sua incostituzionalità, e con Berlusconi che ha contestato le prerogative del Presidente della Repubblica, annunciando la volontà di governare a colpi di decreti legge senza il controllo del Quirinale. Pronto in caso contrario a “rivolgersi al popolo” per cambiare la Costituzione.

Il Presidente del Consiglio non era mai intervenuto in questi mesi nel dibattito morale, politico e culturale sollevato da Beppino Englaro con la scelta di chiedere la sospensione della nutrizione artificiale per sua figlia, ponendo fine ad un’esistenza vegetativa di 17 anni, giudicata irreversibile da 14. Ma ieri l’istinto populista ha consigliato al Premier di scegliere proprio il dramma pubblico di Eluana, giunto al culmine della sua valenza emotiva sollecitata dalla cornice di sacralità guerresca del Vaticano, per sfidare Napolitano su una questione di fondo: il perimetro e la profondità del potere del suo governo, che Berlusconi vuole sovraordinato ad ogni altro potere, libero da vincoli e controlli, dominus incontrastato del comando politico.

È uno scontro che segna un’epoca, perché chiude la prima fase di un quindicennio berlusconiano di poteri contrastati ma bilanciati e ne apre un’altra, che ha l’impronta risolutiva di una resa dei conti costituzionale, per arrivare a quella che Max Weber chiama l'”istituzionalizzazione del carisma” e alla rottura degli equilibri repubblicani: con la minaccia di una sorta di plebiscito popolare per forzare il sistema esistente, disegnare una Costituzione su misura del Premier, e far nascere infine un nuovo governo, come fonte e risultato di questa concezione tecnicamente bonapartista, sia pure all’italiana.

Il caso Eluana, dunque, nel momento più alto della discussione e della partecipazione del Paese, si è ridotto a pretesto e strumento di una partita politica e di potere. Berlusconi aveva infine ceduto alle pressioni del Vaticano e all’opportunità di dare alla sua destra senz’anima e senza tradizione un’identità cristiana totalmente disgiunta dalle biografie e dai valori, ma legata alla precettistica e alle politiche concrete della Chiesa: così ieri mattina ha annunciato al Consiglio dei ministri la volontà di varare un decreto legge di poche righe, per vanificare la sentenza definitiva della magistratura che accoglie la richiesta di Beppino Englaro, e per impedire la sospensione già avviata ad Udine dell’alimentazione e dell’idratazione per Eluana.

Il Presidente della Repubblica, che già aveva spiegato giovedì al governo l’insostenibilità costituzionale del decreto, ha deciso di assumersi su un caso così delicato una pubblica responsabilità, che non si presti ad equivoci davanti all’esecutivo, al Parlamento, alla pubblica opinione. Dando forma e sostanza all’istituto della “moral suasion”, ha scritto una lettera a Berlusconi in cui spiega le ragioni che rendono impossibile il decreto, se si guarda – come il Capo dello Stato deve guardare – soltanto alla Costituzione, ai suoi principi, ai criteri che stabilisce per la decretazione d’urgenza. C’è una legge sul fine-vita davanti al Parlamento, dice Napolitano nel messaggio, c’è la necessità di rispettare una pronuncia definitiva della magistratura, se non si vuole violare “il fondamentale principio della separazione e del reciproco rispetto” tra poteri dello Stato, c’è la norma costituzionale dell’uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge, quella sulla libertà personale, quella sulla possibilità di rifiutare trattamenti sanitari. Ci sono poi i precedenti di altri inquilini del Quirinale – Pertini, Cossiga, Scalfaro – che non hanno firmato decreti-legge, e soprattutto c’è la funzione di “garanzia istituzionale” che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Da qui l’invito al governo di “evitare un contrasto”, riflettendo sulle ragioni del no del Presidente.

Con ogni probabilità è stato questo richiamo al ruolo di garanzia del Quirinale, unito al gesto pubblico di rendere nullo il decreto del governo, rifiutandosi di emanarlo, che ha convinto Berlusconi a sfruttare l’occasione per aprire la contesa suprema sul potere al vertice dello Stato. In conferenza stampa il Premier ha spiegato la sua scelta sul caso Englaro con motivazioni morali (“Non mi voglio sentire responsabile di un’omissione di soccorso per una persona in pericolo di vita”) ma anche con giudizi medico-scientifici approssimativi (“Lo stato vegetativo potrebbe variare”), e con affermazioni incongrue e sorprendenti: “Eluana è una persona viva, che potrebbe anche avere un figlio”.

Ma il cuore del ragionamento berlusconiano è un altro: la lettera di Napolitano è impropria, perché il giudizio sulla necessità e urgenza di un decreto spetta per Costituzione al governo e non al Quirinale, mentre il giudizio di costituzionalità tocca al Parlamento. Non solo, ma il decreto d’urgenza è l’unico vero strumento di governo in un sistema costituzionale antiquato. E se il Capo dello Stato “decidesse di caricarsi della responsabilità di una vita”, non firmando il decreto, il governo si ribellerebbe invitando il Parlamento “a riunirsi ad horas” per approvare “in due o tre giorni” una legge stralcio che anticipi il testo in discussione al Senato, bloccando così l’esito della vicenda Englaro. Eluana, tuttavia, è già sullo sfondo, ridotta a corpo ideologico e a pretesto politico. Ciò che a Berlusconi interessa dire è che non si può governare il Paese senza la piena e libera potestà governativa sui decreti legge. “Si può arrivare ad una scrittura più chiara della Costituzione. Senza la possibilità di ricorrere a decreti legge, tornerei dal popolo a chiedere di cambiare la Costituzione e il governo”.

La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l’unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un’aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all’esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell’urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato. Un Capo dello Stato minacciato pubblicamente dal Premier, se non firma il decreto per un deficit costituzionale, di “caricarsi della responsabilità di una vita”. Qualcosa che non era mai avvenuto nella storia della Repubblica, per i toni politici, per i modi istituzionali, per la sostanza costituzionale: e anche per la suggestione umana.

La risposta di Napolitano poteva essere una sola: con rammarico, il Presidente non firma, perché il decreto è incostituzionale. L’assunzione di responsabilità del Quirinale rende nullo il decreto, e costringe Berlusconi a imboccare la strada parlamentare, sia pure con le forme improprie annunciate ieri. Ma la lacerazione rimane, il progetto di salto costituzionale anche. È un progetto bonapartista, con il Premier che chiede di fatto pieni poteri in nome del legame emotivo e carismatico con la propria comunità politica, si pone come rappresentante diretto della nazione e pretende la subordinazione di ogni potere all’esecutivo. Avevamo avvertito da tempo che qui portavano le leggi ad personam, i “lodi” che pongono il Premier sopra la legge, la tentazione continua di sovraordinare l’eletto dal popolo agli altri poteri. Ieri, Napolitano ha saputo opporsi, in nome della Costituzione. La risposta del Premier è stata che il Capo dello Stato non potrà mai più opporsi, e la Costituzione cambierà.

Ecco perché la data di ieri apre una fase nuova nella vita del Paese, una Terza Repubblica basata su una nuova geografia del potere, una nuova legittimità costituzionale, un nuovo concetto di sovranità, trasferito dal popolo al leader. Si può far finta di non vedere cosa sta accadendo, con l’immorale pretesto della tragedia di Eluana? Ieri la voce più forte a sostegno di Napolitano è stata quella del Presidente della Camera, che sembra ormai muoversi in un perimetro laico e costituzionale, da destra repubblicana. Dall’altra sponda del Tevere, mai così stretto, è venuto il plauso a Berlusconi del Cardinal Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, e la sua “profonda delusione” per la scelta di Napolitano di non firmare il decreto. Come se insieme alle chiavi di San Pietro il Vaticano avesse anche la golden share del governo italiano e delle sue libere istituzioni. Certo, sotto gli occhi attoniti del Paese e sotto gli occhi che non vedono di Eluana Englaro ieri è andato in scena uno scambio di favori al ribasso, col Dio italiano consegnato alla destra berlusconiana, come un protettorato, in cambio di una difesa di valori disincarnati e precetti vaticani, da parte di un paganesimo politico servile e mercantile. Dal caso Eluana non nasce una forza cristiana: ma un partito ateo e clericale insieme, che è tutta un’altra cosa. (Beh, buona giornata).

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Dopo Wall Street crolla anche il Wall Street Journal: la crisi della pubblicità mette in crisi i giornali.

da repubblica.it

Primo rosso da oltre tre anni per la News Corporation di Rupert Murdoch: il colosso dei media chiude il secondo trimestre dell’esercizio 2008-2009 con perdite per 6,4 miliardi di dollari. E annuncia un “rigoroso taglio dei costi” che si tradurrà in una riduzione della forza lavoro, anche al Wall Street Journal. A pesare sui conti della società sono gli 8,4 miliardi di svalutazioni effettuate e il calo della raccolta pubblicitaria sia dei quotidiani del gruppo sia delle stazioni televisive, che hanno visto scendere l’utile di gestione del 93%.

“I nostri risultati trimestrali riflettono direttamente il difficile clima economico” spiega Murdoch, presidente e amministratore delegato di News Corp. “Il rallentamento è più severo e probabilmente più lungo di quanto precedentemente previsto” e per questo News Corp “sta mettendo in atto un rigoroso piano di riduzione dei costi in tutte le attività e di riduzione personale dove è opportuno”.

La riduzione dell’organico riguarderà anche il Wall Street Journal, l’illustre quotidiano economico di Dow Jones, gruppo acquistato da Murdoch nel dicembre 2007 per 5,2 miliardi di dollari. L’imprenditore non ha specificato quali settori del gruppo saranno colpiti dal ridimensionamento. Ma secondo quanto riportato dallo stesso Wall Street Journal, i tagli riguarderanno circa 24 posizioni e saranno effettuati attraverso licenziamenti e incentivi all’uscita.

News Corp, così come tutte le società media, accusa un calo della raccolta pubblicitaria, oltre che un rallentamento nelle vendite di dvd. Nel trimestre che si è chiuso il 31 dicembre scorso le vendite di News Corp sono scese del 9,4% a 7,87 miliardi di dollari, al di sotto quindi delle attese degli analisti. Nel quarto trimestre 2008 l’industria dei giornali americana ha accusato – secondo le stime di Wachovia Capital markets – un calo della raccolta pubblicitaria del 20%.

Fra le varie unità del gruppo News Corp, la divisione cable network ha registrato un utile operativo di 428 milioni di dollari, grazie all’aumento dei prezzi delle pubblicità. La divisione film e produzione televisiva, invece, ha visto scendere i propri profitti del 72% a causa della brusca frenata delle vendite di dvd.

Significativa battuta d’arresto anche per la divisione via satellite, i cui profitti operativi sono scesi dell’84% in seguito all’aumento dei costi legato al più alto volume di sottoscrittori, e ai diritti tv per lo sport rincarati, così come i costi di marketing. In rosso anche Fox Interactive e MySpace, che soffrono una perdita di 38 milioni in seguito all’espansione internazionale, alla crescita del numero di utilizzatori unici e al lancio di MySpace Music. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

L’Unione europea contro la legge Gasparri: un richiamo ufficiale sul duopolio Rai Mediaset.

da ilmessaggero.it

La Legge Gasparri sul sistema radiotelevisivo e della Rai è ancora sotto osservazione da parte della Ue. Il portavoce della Commissione Ue Jonathan Todd ha confermato le notizie secondo le quali ieri Bruxelles ha inviato un nuovo richiamo a Roma con una lettera indirizzata al governo.

La procedura, aperta nel luglio 2006, contesta in particolare il sistema di duopolio televisivo dell’Italia, con Rai e Mediaset, e il sistema in vigore di assegnazione delle frequenze digitali. E nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale l’Italia avrebbe riprodotto lo schema di duopolio. Bruxelles chiede dunque al governo italiano di superare questa situazione cambiando i criteri previsti. 

«La procedura di infrazione Ue contro la Legge Gasparri non è stata affatto archiviata e la mancata apertura del mercato delle frequenze è una grave ipoteca sulla transizione al digitale nel nostro paese» ha detto Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione del Pd. Il decreto dello scorso anno «non serviva a chiudere la procedura di infrazione, ma dava una ulteriore legittimazione all’occupazione di fatto delle frequenze da parte di emittenti come Rete 4 prive di concessione. Allora riuscimmo a sventare l’operazione “salvafrequenze di Rete4” e oggi la Ue conferma le nostre ragioni di allora». (Beh, buona giornata).
 

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Attualità Leggi e diritto

Dalla parte del Presidente della Repubblica.

Il testo completo della lettera inviata a Silvio Berlusconi
dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da repubblica.it

 

“Signor Presidente, lei certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima sul piano umano e quanto mai delicata sul piano istituzionale – scrive Napolitano -. Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti. I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento, specialmente da quando sono stati resi particolarmente acuti dal progresso delle tecniche mediche. Non è un caso se in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate – prosegue il capo dello Stato -, trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente. Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge, piuttosto che un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica, appare soluzione inappropriata”.

“Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare – sottolinea Napolitano – non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso. Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente.

Decisione definitiva, sotto il profilo dei presupposti di diritto, deve infatti considerarsi, anche un decreto emesso nel corso di un procedimento di volontaria giurisdizione, non ulteriormente impugnabile, che ha avuto ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e in relazione al quale la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile pronunciarsi a norma dell’articolo 111 della Costituzione: decreto che ha dato applicazione al principio di diritto fissato da una sentenza della Corte di cassazione e che, al pari di questa, non è stato ritenuto invasivo da parte della Corte costituzionale della sfera di competenza del potere legislativo.

Desta inoltre gravi perplessità l’adozione di una disciplina dichiaratamente provvisoria e a tempo indeterminato, delle modalità di tutela di diritti della persona costituzionalmente garantiti dal combinato disposto degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: disciplina altresì circoscritta alle persone che non siano più in grado di manifestare la propria volontà in ordine ad atti costrittivi di disposizione del loro corpo”.

“Ricordo infine che il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato – aggiunge – ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori. Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate in questa lettera valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione di urgenza che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare”. (Beh, buona giornata)

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Attualità Leggi e diritto

Scontro istituzionale tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica.

Una domanda.

 

di HANS SUTER

 

Dove era il giornalista che tirava una scarpa a Berlusconi nella conferenza stampa ? (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Mettiamo in crisi la crisi.

Globalizzazione in crisi, partita aperta

 

di FRANCESCO PICCIONI*

 

     1) La crisi della globalizzazione è stata per un anno negata con ogni mezzo mediatico possibile. Come si sa, un buon tappeto può nascondere molta spazzatura. Ma non pulisce mai nulla.

Poi è esplosa, provocando la sostanziale scomparsa delle cinque banche d’affari (Bearn Stearns, Lehmann Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs) che avevano dominato il sistema finanziario globale per un ventennio e letteralmente inventato il “sistema parallelo” fondato sull’emissione di certificati e “prodotti derivati”.

Da quel momento è partita la corsa ai salvataggi statuali delle banche principali e la gara a cercare una spiegazione tranquillizzante. La più diffusa recita: è stata colpa dell’avidità di finanzieri senza scrupoli, di regole sfilacciate, di controllori che hanno chiuso gli occhi. La soluzione – se così fosse – sarebbe teoricamente semplice: un buon sistema di regole globali e il rafforzamento dei poteri di controllo, previo un generoso programma di finanziamenti pubblici sufficienti a sbloccare l’erogazione del credito e a far ripartire la produzione. E’ quel che stanno tentando di fare.

Confutare ideologicamente questa spiegazione è inutile. L’unica cosa che si deve e può fare è, prima, ricostruire l’ordine cronologico delle manifestazioni della crisi, per poi cogliere i nessi strutturali che l’hanno provocata e fatta maturare.

 

     2)  Si proveniva da un decennio segnato da “bolle speculative”, che esplodevano l’una dopo l’altra (“tigri asiatiche” 1997, “new economy” 2000, scandali Enron e Worldcom 2002, “bolla immobiliare” 2007).

Il primo segnale evidente che il ciclo economico reale stava andando incontro a ostacoli di enormi dimensioni è stato dato dal prezzo del petrolio. Tra la fine del 2002 e la prima metà del 2008 il prezzo del greggio è passato da circa 20 dollari al barile a un massimo di 147. La parallela discesa della quotazione del dollaro ha attutito questo balzo, comunque quantificabile in un aumento del 500%.

Il petrolio (l’energia) non è una merce qualsiasi, perché entra nella formazione del prezzo di tutte le altre merci. E’ una caratteristica rara, condivisa soltanto con la forza-lavoro umana. Ogni modificazione nel suo prezzo si ripercuote in tempi rapidi su tutto il sistema dei prezzi, a livello globale.

E’ inoltre una merce fisica, per di più non riproducibile. Ed è tuttora insostituibile, non essendo state trovate fonti alternative di pari potenza e versatilità. Le quantità esistenti sono date; l’umanità sta semplicemente consumando un qualcosa destinato a finire (gli iperottimisti parlano di 30 anni).

La rapidissima salita del prezzo in così breve tempo segnalava che l’offerta (l’estrazione) faticava a tener dietro alla domanda crescente. I “paesi emergenti” (Cina e India su tutti), nel corso degli ultimi 30 anni, sono diventati la “manifattura del mondo”, mentre i paesi avanzati preferivano delocalizzare e concentrarsi sulla fornitura di servizi. Una diversa divisione internazionale del lavoro che ha convinto alcuni a ritenere che fosse ormai finita l’epoca del predominio della produzione materiale per aprire quella dell’immateriale.

La parallela crisi ambientale si disponeva a sua volta a rappresentare un secondo e decisivo limite alle capacità espansive del modo di produzione capitalistico. Al punto da far spostare spesso l’attenzione della “sinistra globale” dall’analisi dei meccanismi economici a quella dei fenomeni ambientali e climatici. Come se le due crisi fossero in alternativa, invece che convergenti e contemporanee.

 

      3)  La crisi della globalizzazione è stata universalmente riconosciuta nel momento in cui ha assunto la più classica delle forme: quella finanziaria. Proprio la buona salute della finanza, del resto, aveva permesso di sottovalutare gli innumerevoli segnali negativi. Una vera “ironia della storia” che – proprio quando la maggioranza dei commentatori politico-sistemici si era ormai uniformata al mantra del “nuovo” contro il “vecchio” – la crisi si sia manifestata in forme così dannatamente “classiche” da rendere addirittura intuitiva la sua natura “strutturale” e “materiale”.

L’esperienza maturata dalla Grande Depressione successiva al 1929 ha spinto governi e banche centrali ad attivarsi in tempi più o meno rapidi per il salvataggio degli istituti finanziari “troppo grandi per fallire”, mobilitando immense risorse monetarie cash, ma senza prevedere un parallelo incremento della pressione fiscale. Un’asimmetria che solleva molti dubbi sulla praticabilità di medio periodo di simili strategie.

 

      4)  La recessione produttiva segue, come da manuale, il crash della finanza. Le fabbriche chiudono e licenziano; l’output si contrae. La domanda solvibile risente sia del minor numero di occupati che delle incertezze sul futuro. La dinamica salariale si blocca per l’aumento improvviso dei disoccupati e delle paure. I servizi privati si  riducono, moltiplicando gli effetti depressivi. La domanda di beni durevoli scompare o quasi (basta guardare le vendite di automobili), la popolazione cerca di difendere i consumi primari riducendo tutti gli altri. Si fa forte la differenza di potere d’acquisto tra le popolazioni tra paesi che hanno un sistema sanitario e pensionistico pubblico, come l’Europa, e quelli che non ce l’hanno (Usa).

Le risposte dei governi seguono logiche e preoccupazioni limitate. La globalizzazione, come fenomeno unificante il mondo, diventa un problema e non è più una risorsa. Rialzano la testa i nazionalismi e i più ridicoli localismi; si riaffaccia con prepotenza il potere disciplinante delle religioni, unici sistemi ideologici in grado di fornire “speranza” a masse crescenti di umanità spaventata.

E’ la situazione che ci troviamo davanti.

 

5) Le cause strutturali della crisi rispondono naturalmente a dinamiche più profonde e di più lungo periodo. La globalizzazione che abbiamo conosciuto – la seconda, dopo quella della seconda metà dell”800 – ha preso forma compiuta con il Crollo del Muro e la caduta dell’impero sovietico. La fine del “mondo diviso in due” ha posto le premesse per la formazione di un vero mercato unico globale. L’est europeo, le repubbliche ex sovietiche, la Cina, l’India e molti altri paesi fin lì ai margini dello sviluppo diventavano la “nuova frontiera” alla vigilia del terzo millennio. Un’immensa prateria di risorse disponibili, pronte (addirittura consensualmente!) ad essere messe in produzione senza freni, lacci o lacciuoli.

La delocalizzazione della produzione manifatturiera è così diventata possibile. La circolazione di beni e capitali non ha più conosciuto limiti; ed anche quella delle persone, pur con limitazioni assai maggiori, ha conosciuto un’accelerazione notevole. Ogni paese – meno gli Stati uniti – si è spesso trovato in balia di forze economiche superiori al proprio prodotto interno lordo. Una nuova epoca di “accumulazione originaria” ha cambiato la faccia del mondo, ridotto al minimo i margini di manovra delle democrazie, semidistrutto le forme organizzative del lavoro, svuotato dal di dentro le ragioni costitutive di un pensiero alternativo o rivoluzionario.

Il trionfo del “pensiero unico” ha avuto insomma una solidissima base oggettiva, che si può riassumere nel venir meno delle possibilità di azione dello “stato nazione”, ovvero l’ambito entro il quale erano fin lì erano state concepite le politiche industriali idonei a “costruire il socialismo”. Per ironia, l’internazionalismo diventava la bandiera del capitale, mentre le resistenze “socialiste” prendevano progressivamente i connotati ­ troppo spesso retrivi ­ della riottosità nazionalista.

     

      6)  Elemento decisivo: il mercato del lavoro di è moltiplicato per due o per tre. Le politiche nazionali dei paesi new entry sono state connotate dalla competizione reciproca nell’offrire agli investitori le migliori condizioni: nessun diritto al lavoro, facilitazioni fiscali, assenza di controlli. Processi che hanno messo in produzione per il capitale oltre un miliardo di nuovi lavoratori e creato al contempo un esercito salariale di riserva di dimensioni sconfinate, utilissimo per premere al ribasso sul costo del lavoro ovunque, agendo sui differenziali salariali locali.

Abbiamo così avuto il blocco di fatto dei salari occidentali, con una perdita del potere di acquisto quantificabile ­ nell’intero periodo ­ nel 50% (negli anni ’70, una famiglia monoreddito poteva avere un tenore di vita pari a quello garantito oggi soltanto dalla presenza di due stipendi).

La conseguente tendenza alla riduzione relativa dei consumi occidentali è stata addirittura invertita grazie al massiccio ricorso all’indebitamento delle famiglie. Più ancora del credito al consumo bisognerebbe concentrare l’attenzione sul mercato della casa. L’eliminazione (là dove esistevano) di politiche di edilizia popolare ha costretto il mondo del lavoro dipendente a ricorrere in massa all’acquisto tramite mutui di lunghissima durata. Non è stato un caso, né un fenomeno naturale. Ma una “governo della domanda effettiva” che dimostra come il neo-liberismo sia una formula ideologica che nasconde – ma non cancella – l’intervento dello stato nell’economia.

 

7) La deflazione salariale globale ha liberato profitti giganteschi dalla necessità di reinvestimento nella produzione. La contemporanea abolizione di molti limiti posti proprio durante la Grande Depressione favoriva la proliferazione di “prodotti finanziari” dal rendimento costantemente superiore a quello garantito dalla normale attività produttiva. Anzi, creava un vero e proprio sistema bancario “fuori bilancio” parallelo a quello ufficiale, ma sempre collegato con gli istituti finanziari classici.

Lo sbilanciamento della profittabilità a favore delle attività finanziarie è un pericolo sempre in agguato, nel capitalismo di ogni epoca; ma le banche centrali erano nate esattamente con la funzione di agire sul mercato monetario in modo da assicurare un “saggio medio di rendimento” a tutti i capitali, comunque impiegati. Negli ultimi 20 anni, però, hanno agito quasi sempre in reazione a grossi crolli delle borse. E hanno finito per assumere la finanza come il baricentro delle proprie attenzioni.

Le grandi masse di profitto “liberate” hanno dovuto trovare nuove forme di investimento. I prodotti finanziari “derivati” sono stati il sole che ha attirato la liquidità globale per due decenni. Da qui uscivano ­ sotto le vesti di venture capital ­ solo per tentare avventure che sembravano ancora più profittevoli, ma non sempre fortunate: ricordate la new economy?

Di “bolla” in bolla questa massa inconcepibile di capitale in cerca di valorizzazione ha devastato paesi e settori, fino a piombare sul mercato che sembrava più “stabile” di tutti: l’immobiliare. Anche qui, però, i profitti “normali” erano insufficienti. La necessità di valorizzare ha ingigantito la spinta al finanziamento a credito, “costringendo” letteralmente anche i privi di reddito statunitensi a indebitarsi per trovare un tetto (sono i mutui lì definiti ninja: not job, not income, not asset).  L’altissima probabilità di insolvenza aveva già una rete di protezione disponibile: gli strumenti finanziari di “distribuzione del rischio” ampiamente utilizzati come paracadute nelle grandi fusioni societarie a debito. Un ventaglio di “cartolarizzazioni” praticamente infinito, in cui un debito diventa a sua volta fonte di profitto e che viene “garantito” con l’emissione di altri titoli cartacei fino a rendere assolutamente irrintracciabile il “sottostante” concreto. Un meccanismo che può stare in piedi solo se altro capitale “vero” affluisce costantemente vero i “prodotti” di carta. L’ultima risorsa sociale fatta affluire verso questo gorgo è stata – nel nostro paese – la quota di “salario differito” rappresentata dal tfr, tramite i fondi pensione.

La strategia di “distribuzione del rischio” è stata negli anni così efficace da far sì che quel rischio ci è tornato nelle tasche moltiplicato. Una sola cifra ci consente di dare la dimensione approssimativa della voragine: la massa dei prodotti finanziari “derivati” ha raggiunto – alla fine del 2008 – i 600.000 miliardi di dollari. All’incirca undici volte il prodotto interno lordo globale. Per capirci: se l’umanità fosse un normale debitore privato, dovrebbe lavorare gratis e senza mangiare per undici anni solo per rimettere a posto la situazione. Ovviamente, non andrà in questo modo. Ma la massa di ricchezza “da distruggere” ha queste dimensioni. Ci sono mezzi più rapidi, com’è noto. Ma non privi di rischi, come la guerra.

 

     8)  La globalizzazione capitalistica ha unificato il mondo più di quanto non abbiamo fatto le buone intenzioni politiche. E’ un processo contraddittorio, che ha posto le basi per un salto di qualità della convivenza umana. Ma lo ha fatto in conseguenza di finalità – il profitto di impresa – spaventosamente inadeguate alla complessità del processo stesso. Si pesi alla straordinaria insensatezza di una produzione agricola fondata su sementi geneticamente modificate e private della capacità di riproduzione. Ecco un’immagine plasticamente corrispondente alla logica del capitale: la riproduzione del ciclo vitale (il “bene comune” per antonomasia) impedito “scientificamente” per garantire il profitto di una singola impresa.

La brusca interruzione rappresentata della crisi può perciò mettere in moto forze centrifughe altamente distruttive. La stessa reazione istintiva di vari governi – l’uso di fondi pubblici per salvare i comparti strategici – può facilmente degenerare in protezionismo nazionalista, avviando una competizione che prefigura conflitti di intensità più o meno grande. Una competizione escludente che trascina in genere con sé la riduzione degli spazi democratici.

C’è quindi bisogno di soluzioni su scala globale, non di toppe locali. L’esigenza di un “governo mondiale” è messa sul tavolo dalla stessa dimensione della crisi. Ma il solo nominarla è accusabile di ingenuità. Persino l’obiettivo subordinato – una “nuova Bretton Woods” che definisca regole ed istituzioni, a partire da un “regolatore bancario” unico e dall’eliminazione dei “paradisi fiscali” – si scontra con interessi potenti, miranti al semplice ripristino del vecchio andazzo che ci ha portato a questo punto. Abbiamo bisogno di una globalizzazione più avanzata, non di tornare al pericolosissimo giochino delle “piccole patrie” tremontian-leghiste. A questo punto della storia nessun paese potrà più far da solo. Competenze, risorse, strutture, legami sono stati spalmati sulla superficie del pianeta. Ri-concentrarli in aree più ristrette non è solo costoso: è impossibile quanto il ripristinare una “purezza della razza” dopo secoli di melting pot.

     

      9) Nessuna forza politica o sindacale, in questo quadro, può quindi dirsi “progressista” se limita il proprio orizzonte progettuale agli angusti confini nazionali. La crisi scompagina gli assetti consolidati. Ciò che ieri sembrava impossibile oggi sembra il minimo necessario. Per tutti – per il capitale quanto per il lavoro – la crisi è un’occasione per cambiare tutto. Questa la posta in gioco, questa la dimensione del problema. 

       10) La sfida implica, come minimo, una “pubblicizzazione della finanza” per mettere in moto un “esercito del lavoro”. Non è il comunismo, ma semplicemente la chiave teorica del New Deal rooseveltiano. La dimensione minima per poterla affrontare è quella continentale, consapevoli però che nessuna “chiusura” è possibile neppure  questo livello (le risorse energetiche vitali – per esempio dipendono nella quasi totalità dai buoni rapporti con Russia, Medio Oriente e Nord Africa). Ma nessuna forza politica europea tradizionale è in grado di porre in campo una visione di medio periodo di tal fatta.

    

      11) La crisi è un’occasione per disegnare una politica industriale di dimensione europea, in sinergia con la macro-aree confinanti. Una politica che strutturi un nuovo modello produttivo incentrato su almeno due pilastri: a) l’obiettivo della piena occupazione, per mantenere vive e attive le competenze accumulate in due secoli di sviluppo tecnologico-industriale e contenere l’impoverimento sociale, altrimenti esplosivo; b) una rivoluzione tecnologica progettuale, consapevolmente perseguita, che porti fuori dalla dipendenza dagli idrocarburi.

Inutile, credo, e presuntuoso, mettersi qui a sproloquiare circa “piani” più dettagliati. Qualsiasi idea ha bisogno di “camminare sulle gambe degli uomini”, che in questo caso significa una rete su scala europea di organizzazioni, partiti, sindacati, associazioni in grado di dar corpo sociale a una critica sociale dell’esistente. Con lo sguardo e la mente capaci di individuare, nella matassa imbrogliata della crisi, gli assi di una trasformazione non solo astrattamente “desiderabile”, ma soprattutto concretamente possibile. Ovvero necessaria. (Beh, buona giornata)

 

* giornalista economico del Il Manifesto

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Attualità

Non c’è più religione: anche il Papa prima dice poi smentisce.

 

« Richiamandoci dunque fedelmente alla tradizione, come l’abbiamo assunta dalle prime epoche del Cristianesimo, noi insegniamo, ad onore di Dio, nostro Salvatore, per gloria della Religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio, e dichiariamo quale dogma rivelato da Dio: ogni qualvolta il Romano Pontefice parla ex cathedra, vale a dire quando nell’esercizio del Suo Ufficio di pastore e Maestro di tutti i cristiani, con la sua somma Apostolica Autorità dichiara che una dottrina concernente la fede o la vita morale dev’essere considerata vincolante da tutta la Chiesa, allora egli, in forza dell’assistenza divina conferitagli dal beato Pietro, possiede appunto quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle munire la sua Chiesa nelle decisioni riguardanti la dottrina della fede e dei costumi. Pertanto, tali decreti e insegnamenti del Romano Pontefice non consentono più modifica alcuna, e precisamente per sé medesimi, e non solo in conseguenza all’approvazione ecclesiastica. Tuttavia, chi dovesse arrogarsi, che Dio ne guardi, di contraddire a questa decisione di fede, sarà oggetto di scomunica. »
 
(Pastor Aeternus, 18 luglio 1870)

 

In una nota ufficiale della Santa Sede si afferma che le posizioni negazioniste del vescovo Richard Williamson erano “non conosciute dal Santo Padre nel momento della remissione della scomunica”. Benedetto papa Ratzingher, cerchi di stare più attento, no? Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Salute e benessere Società e costume

Il diritto di Eluana: “Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza.”

 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.

Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13).

Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio.

E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.

Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e – per alcuni – Dio?

La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita.

La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.

È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino. L’autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche al timore di chi – non meno solitario – mantiene la sonda.

Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?

Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte il popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Crisi finanziaria globale: “tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.”

QUANDO GLI ECONOMISTI SBAGLIANO*

di Daron Acemoglu da lavoce.info

La crisi impone alla disciplina economica una riflessione. In primo luogo, sugli errori intellettuali che hanno impedito agli economisti di individuarne per tempo le cause. Ma agli economisti si chiede anche di indicare i rischi delle politiche anticrisi di molti paesi. Come i riflessi che potrebbero avere su riallocazione e innovazione e dunque sulla crescita di lungo periodo. I piani di sostegno alle economie sono probabilmente il modo migliore per combattere il pericolo dell’affermarsi di reazioni populiste e anti-mercato. A patto però che siano ben congegnati.

La crisi globale rappresenta un’opportunità di riflessione critica per la disciplina economica, un’opportunità per allontanarci da convinzioni che non avremmo dovuto abbracciare così ingenuamente. Idee come il supporto indiscriminato alla deregolamentazione del mercato o il rigetto della volatilità aggregata ora si rivelano frivoli capricci, mentre le astrazioni dai fondamenti istituzionali del mercato ci appaiono ingenue. Questi limiti richiedono riflessione e auto-analisi e, si spera, nuove ricerche da parte dei giovani economisti. La crisi è anche un’opportunità per individuare le lezioni più importanti che restano immutate dopo i recenti eventi e per chiederci se queste lezioni possono guidarci nell’attuale dibattito di policy.
Su Cepr Policy Insight n. 28 ho esposto il mio pensiero su quali siano stati gli errori intellettuali commessi e quali lezioni se ne possano trarre in termini di nuovo lavoro teorico che si rende necessario. E suggerisco anche che nel dibattito sulle politiche per contrastare la crisi sono state sottovalutate lezioni importanti della teoria economica e della crescita.

COMPIACENZA INTELLETTUALE

Molte cause della crisi sono oggi evidenti, ma la maggior parte di noi non le ha riconosciute in anticipo. Tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.

–   Politiche “intelligenti” e nuove tecnologie hanno messo fine all’era della volatilità aggregata.

Benché i dati mostrino un marcato declino della volatilità aggregata dagli anni Cinquanta in avanti, è ora chiaro che la fine del ciclo economico era un’illusione. Anzi le politiche e le tecnologie che hanno reso l’economia più forte contro i piccoli shock, l’hanno anche resa più vulnerabile agli eventi con bassa probabilità. La diversificazione dei rischi idiosincratici ha creato una molteplicità di relazioni fra controparti. Questa nuova, densa trama di interconnessioni ha creato potenziali effetti domino tra istituzioni finanziarie, imprese e famiglie.
I crolli nel valore delle attività e le contemporanee insolvenze di molte imprese mettono in luce che la volatilità aggregata è parte integrante del sistema di mercato. Èanche parte integrante del processo di distruzione creativa. La comprensione che la volatilità non ci abbandonerà, dovrebbe riportare la nostra attenzione verso modelli che ci aiutino a interpretarne le varie fonti e a individuare quali componenti siano associate a un funzionamento efficiente dei mercati e quali invece sono la conseguenza di fallimenti del mercato evitabili.

–        L’economia capitalista vive in un vuoto istituzionale nel quale i mercati controllano miracolosamente il comportamento opportunistico.

I liberi mercati non sono mercati senza regole. Istituzioni e regole ben concepite sono necessarie per il funzionamento corretto dei mercati. Negli ultimi quindici anni, alle istituzioni è stata data molta attenzione, ma si concentrava sulla comprensione delle ragioni per cui le nazioni povere sono povere, non sulla comprensione di quali istituzioni sono necessarie quale base per il funzionamento dei mercati e per il mantenimento della prosperità nelle economie avanzate. 

–        Potevamo essere certi che le grandi aziende con una storia alle spalle si sarebbero auto-controllate perché avevano sufficiente “capitale reputazionale”.

La convinzione si è rivelata errata per due difficoltà fondamentali: il controllo deve essere fatto da individui e il controllo basato sulla reputazione esige che le sanzioni ex post siano credibili. Entrambe le cose si sono dimostrate false. Gli individui possono non curarsi del capitale reputazionale dell’azienda e la scarsità di capitale specifico e di know how significa che le sanzioni necessarie non erano credibili.

IL LATO POSITIVO

Possiamo solo dare la colpa a noi stessi per non aver compreso elementi importanti dell’economia e per non aver avuto una capacità di previsione maggiore di quella dei politici. Anzi, possiamo biasimare noi stessi per essere stati complici dell’atmosfera intellettuale che ha portato al disastro attuale. Ma la crisi rappresenta anche una opportunità: ha aumentato la vitalità dell’economia e ha messo a fuoco molte interessanti, stimolanti ed eccitanti domande. I brillanti giovani economisti non hanno di che preoccuparsi per trovare nuovi e importanti problemi su cui lavorare nei prossimi dieci anni.

QUELLO CHE DOVREMMO DIRE AI POLITICI

Le tre idee sbagliate non toccano i principi economici correlati alla crescita di lungo periodo e all’economia politica. Questi principi hanno avuto uno scarso ruolo nei recenti dibattiti accademici e sono stati del tutto ignorati in quelli politici. Come economisti, dovremmo ricordare ai politici le implicazioni che questi principi hanno nelle scelte attuali.
Il primo punto è che risolvere il problema di breve periodo con politiche che danneggiano la crescita di lungo periodo è una pessima scelta sotto il profilo della policy e del benessere. Innovazione e riallocazione sono la chiave della crescita di lungo periodo, ma gruppi potenzialmente potenti tendono a resistere a tali cambiamenti. Nei paesi in via di sviluppo, è facile che popolazioni impoverite, che soffrono shock negativi e crisi economiche si rivoltino contro il sistema di mercato e sostengano politiche populiste e anticrescita. Ma sono pericoli presenti anche nelle economie avanzate, specialmente nel mezzo di una crisi economica come quella attuale.
Piani di aiuto che salvano il settore finanziario o quello dell’auto avranno ripercussioni sull’innovazione e la riallocazione. Può soffrirne in particolare la riallocazione, se i piani di aiuto bloccano i fattori in settori e attività a bassa produttività. I segnali del mercato dicono ad esempio che lavoro e capitale dovrebbero essere riallocati lontano dalle “Big Three” di Detroit e i lavoratori altamente qualificati dovrebbero essere riallocati dall’industria finanziaria verso altri settori più innovativi. Uno stop alla riallocazone significa anche uno stop all’innovazione.

REAZIONE DA EVITARE

Queste preoccupazioni non sono una ragione sufficiente per opporsi ai piani di aiuto, ma sono piuttosto un appello a considerarne le implicazioni per la crescita di lungo periodo. Un’azione decisa contro la crisi è necessaria, non solo per attenuare i colpi della recessione, ma anche per evitare una reazione che potrebbe essere profondamente negativa per la crescita di lungo periodo. Una lunga e profonda recessione fa nascere il rischio che consumatori e politici inizino a ritenere i liberi mercati responsabili dei mali economici di oggi. Se accadesse, potremmo assistere a un allontanamento dall’economia di mercato. Il pendolo potrebbe oscillare troppo, oltrepassando i liberi mercati con regole adeguate, verso un forte coinvolgimento degli Stati nell’economia che potrebbe mettere a rischio le prospettive di crescita futura dell’economia globale.
Un buon piano di aiuti, pur con tutte le sue imperfezioni, è probabilmente il modo migliore di combattere questi pericoli. Tuttavia, i dettagli dovrebbero essere costruiti in modo tale da causare il minor danno possibile al processo di riallocazione e innovazione. Sacrificare la crescita per il timore del presente sarebbe un errore altrettanto grave dell’immobilismo: non si dovrebbe escludere il rischio che possa crollare la fiducia nel sistema capitalistico. (Beh, buona giornata).

 

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Legge Alfano contro le intercettazioni: “muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale.”

 
di GIAN CARLO CASELLI* da lastampa.it
Molto si è scritto sul tema delle intercettazioni. In particolare sugli emendamenti del governo al progetto di legge ancora in discussione. Si sa, quindi, che mentre per mafia e terrorismo le intercettazioni richiederanno «sufficienti indizi di reato», per tutti gli altri delitti (dalla rapina all’omicidio, dal traffico di droga allo stupro, dalla corruzione all’aggiotaggio) occorreranno «gravi indizi di colpevolezza»: si potranno disporre intercettazioni solo se saranno già accertati i colpevoli. Ma se si conoscono i colpevoli, manca l’altro requisito richiesto dagli emendamenti (l’intercettazione è data «quando è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini»), per cui l’intercettazione non sarà mai data. Escluso il perimetro mafia-terrorismo, bloccando le intercettazioni in tutti gli altri casi, si sacrifica la sicurezza dei cittadini, la possibilità stessa di difenderli efficacemente dalle aggressioni d’ogni sorta di pericolosa delinquenza. Conviene?

Ma c’è un altro punto degli emendamenti governativi di cui meno si è parlato, mentre presenta anch’esso profili d’incongruenza: la disposizione relativa ai procedimenti contro ignoti, per i quali l’intercettazione dev’essere richiesta «dalla persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato». Prendiamo un caso tipico, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Il sequestrato non potrà chiedere l’intercettazione del suo telefono; semmai lo potranno fare i familiari. Ma questi, per tutelare l’integrità del loro caro, potrebbero avere interesse a vedersela direttamente coi sequestratori con una trattativa privata, baipassando la polizia e la magistratura (soprattutto nei casi «di sequestri mordi e fuggi»). In tal modo sarebbe rimessa alla discrezionalità di un privato, scosso dal delitto che ha colpito la famiglia, la difficile scelta se mettere o no sotto controllo i suoi telefoni, che all’inizio dell’indagine sono di solito l’unica strada per non brancolare nel buio.

Anche le estorsioni danno quasi sempre vita, all’inizio, a procedimenti contro ignoti (pensiamo all’incendio doloso d’un negozio o cantiere, presumibile opera di un racket, che spesso non è mafia). La vittima, specie quella (statisticamente frequente) che fa di tutto per escludere ogni riferibilità a estorsioni, si guarderà bene dal chiedere che il suo telefono sia messo sotto controllo. Magari perché bloccato dalla paura degli estortori (che conosce o intuisce chi possano essere). Di nuovo: una scelta difficile, che potrebbe aprire l’unica via possibile all’accertamento della verità, rimessa a un privato. Mentre ci sono in giro gruppi di balordi o bande che praticano estorsioni e sequestri, delinquenti che occorre neutralizzare nell’interesse della sicurezza generale, oltre che dei singoli soggetti coinvolti (facilmente ricattabili dai delinquenti con minacce di ritorsioni in caso di collaborazione con le autorità). Può poi accadere che si sospetti qualcosa che porta all’ambiente di lavoro del sequestrato o dell’estorto (tipico il caso del dipendente infedele «basista»), ma senza la richiesta della vittima niente intercettazioni «nei luoghi di sua disponibilità». Non credo di esagerare dicendo che tanti gravi delitti potranno essere di fatto agevolati. Muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale. (Beh, buona giornata).

*procuratore capo di Torino

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“Il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.”

di Roberto Natale* – da liberainformazione.org

La minaccia del carcere per i giornalisti è venuta meno, ma la sostanza non cambia: anche dopo gli emendamenti presentati dal governo il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.

Non solo perché le sanzioni rimangono comunque pesanti: diecimila euro di ammenda massima per il singolo cronista, che diventano però quasi cinquecentomila per l’editore che ospiti il pezzo; con l’ovvia conseguenza – giustamente denunciata dalla Fieg – che i proprietari dei giornali sarebbero indotti ad intervenire sui contenuti, violando le prerogative dei direttori ed attuando quella “censura preventiva” contro la quale ha messo in guardia il Presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick.

Il disegno di legge si conferma incompatibile con il diritto ad informare e ad essere informati perché il governo ha scelto di non modificare la scelta di fondo: quella di impedire la cronaca giudiziaria, vietando la pubblicazione (“anche parziale, o per riassunto o nel contenuto”, e “anche se non sussiste più il segreto”) degli atti di indagine fino al termine dell’udienza preliminare. E’ qui l’attacco più grave, dissimulato sotto gli insistenti richiami alla riservatezza. La privacy è diritto caro anche a noi giornalisti, ed abbiamo dato piena disponibilità a rendere più incisive, se necessario, le norme di autoregolamentazione per salvaguardarla.

Ma non ha senso invocare la sfera privata quando parliamo di scalate bancarie, del crack Parmalat, dello scandalo del calcio, della clinica Santa Rita: tutte vicende che, se la proposta Alfano fosse stata già legge, i cittadini italiani avrebbero potuto conoscere soltanto mesi o anni dopo.

E’ questo il gigantesco esproprio che si prepara, ai danni di noi giornalisti e ai danni dell’intera comunità civile: verrà mutilato il suo diritto di conoscere fatti di assoluta rilevanza sociale, che solo un’interessata mistificazione politica può cercare di spacciare per pettegolezzo o gossip.

Ne va proprio della qualità della nostra democrazia. E dunque dobbiamo sapere sviluppare ogni possibile alleanza. Con gli editori c’è un’ampia concordanza, che attende di essere tradotta in visibili, incisive iniziative comuni: consapevoli entrambi, giornalisti e imprenditori, che per la vita dell’informazione il diritto di fare cronaca è essenziale almeno quanto nuovi ammortizzatori sociali per il settore. E insieme ci sono i nostri lettori, spettatori, ascoltatori: pochi altri temi ci consentono di presentarci loro come titolari e difensori di un diritto di tutti.

Il Presidente del Consiglio ama ripetere che, nei suoi comizi, nessuno alza la mano quando lui chiede chi sia sicuro di non essere intercettato. Gli proponiamo di aggiungere un’altra domanda: chiedere alla piazza chi avrebbe rinunciato a sapere di Moggi, di Antonio Fazio, di una truffa ai danni dei piccoli risparmiatori, dei trapianti disposti da medici senza scrupoli. Abbiamo la forza di essere dalla parte dell’interesse generale. Perciò nessuno strumento sindacale andrà risparmiato, nelle prossime settimane, se servirà per evitare una legge-bavaglio. (Beh, buona giornata).

* Presidente Fnsi

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Attualità Leggi e diritto

A me non mi ferma Nettuno.

“Per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”. Maroni dixit. Beh, buona giornata.

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