Categorie
Attualità democrazia Media e tecnologia

“Se il premier cerca un riavvicinamento con la Chiesa deve semplicemente cambiare stile di vita, deve semplicemente fare il politico e non il manager o l’uomo di spettacolo”.

Boffo, La Cei torna all’attacco: “Avvertimento mafioso”-Repubblica.

Nel fascicolo riguardante il procedimento per molestie a carico di Dino Boffo “non c’è assolutamente alcuna nota che riguardi le sue inclinazioni sessuali”. A confermarlo è il gip di Terni Pierluigi Panariello. Che cos’è allora la “velina” anonima recapitata ai vescovi italiani (che l’hanno cestinata) e finita nelle mani di Feltri (che l’ha citata testualmente sul Giornale)? “Un’intimidazione che da siciliano definirei di tipo mafioso”, risponde monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del consiglio Cei per gli affari giuridici.

La Cei. Ricevuta l’informativa sul direttore dell’Avvenire, il monsignore racconta di averla “cestinata” e di essere “rimasto indignato della cosa”. Un testo del genere, “indirizzato a più persone”, ha lo scopo di “un avvertimento” che, osserva il vescovo, “io da siciliano definirei di tipo mafioso” in particolare “nei confronti dei due cardinali citati, Camillo Ruini e Dionigi Tettamanzi”. L’intera vicenda legata a questa informativa per Mogavero è “un affaraccio brutto”,”inquietante”, “spazzatura maleodorante” e “prestarsi a un gioco di questo genere è offensivo della dignità delle persone, della libertà di stampa e anche di una certa professionalità. Non credo proprio – sottolinea – si tratti di un autentico scoop”.

Il vescovo di Mazara del Vallo ragiona anche sulle conseguenze del caso Boffo. “Bisogna capire – spiega – che quando si entra nel piano della rappresaglia si sa da dove si comincia ma non si sa dove si va a finire, soprattutto perchè esistono persone che poi in queste situazioni ci sguazzano. Certi signori – rimarca – si sono assunti la responsabilità morale di aver messo in moto un meccanismo che speriamo si fermi qui”. In merito alla rivendicazione del direttore del Giornale di avere agito in autonomia dal presidente del Consiglio, Mogavero afferma: “Nessuno nega autonomia a Feltri ma non sono disponibile a pensare che nessuno della proprietà del Giornale fosse al corrente di quanto si stava per pubblicare, saremmo fuori dal mondo se si sostenesse una cosa del genere. Può essere che non lo sapesse il presidente del Consiglio – conclude – ma non la proprietà”.

Tutta la vicenda “peserà sui rapporti Stato-Chiesa”. Infatti, “se il premier – continua il vescovo – cerca un riavvicinamento con la Chiesa deve semplicemente cambiare stile di vita, deve semplicemente fare il politico e non il manager o l’uomo di spettacolo”. Poi, prosegue Mogavero, “il giudizio sulla sua politica lo daranno il Parlamento e la storia ma se cerca la vicinanza con il mondo ecclesiastico deve assumere un rigoroso stile di vita”. “Non ci interessa la sua vita privata – conclude – ci interessa che non ne faccia motivo di spettacolo”. Secondo Mogavero la vicenda si trasformerà in “una bomba a orologeria” e, aggiunge, “mi dispiace che il povero Boffo abbia dovuto pagare un prezzo così alto ma se questo è servito a far saltare l’incontro tra il segretario di stato vaticano il card. Tarcisio Bertone e il premier Silvio Berlusconi all’Aquila, sono contento”.

Il giudice di Terni. Il gip di Terni conferma che la “velina” utilizzata da Il Giornale di Feltri per la Giustizia non esiste e non è mai esistita, così come nessuna nota che riguardi l’orientamento sessuale di Boffo. Il giudice di Terni si sta occupando della vicenda essendo stato chiamato a decidere in merito alle richieste di accesso agli atti presentate da diversi giornalisti. Sulla medesima istanza deve esprimere un parere anche il procuratore della Repubblica Fausto Cardella. Dopo che lo avrà fatto gli atti passeranno al gip che dovrà pronunciarsi (una decisione è attesa non prima di domani mattina). Già in passato altri cronisti presentarono richiesta di accesso agli stessi atti ma il gip di allora respinse le istanze. La vicenda di Boffo venne definita con un decreto penale di condanna di 516 euro relativo al reato di molestie alla persona. Un atto al quale il direttore di Avvenire non fece opposizione e quindi la vicenda si chiuse senza la celebrazione del processo. Nell’indagine venne ipotizzato anche, inizialmente, il reato di ingiurie, ma la querela che ne era alla base – secondo quanto emerge dallo stesso fascicolo – venne poi rimessa. Tra gli atti del procedimento non figurano intercettazioni telefoniche. Ci sono invece i tabulati relativi al telefono di Boffo dal quale partirono le presunte chiamate moleste. (beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

L’attacco de Il Giornale contro il direttore de l’Avvenire: ” è una bufala che il documento del Giornale sia un atto giudiziario.”

Su Boffo una velina che non viene dal Tribunale di GIUSEPPE D’AVANZO-Repubblica.
LA “nota informativa”, agitata dal Giornale di Silvio Berlusconi per avviare un rito di degradazione del direttore dell’Avvenire, Dino Boffo, non è nel fascicolo giudiziario del tribunale di Terni. Non c’è e non c’è mai stata. Come, in quel processo, non c’è alcun riferimento – né esplicito né implicito – alla presunta “omosessualità” di Dino Boffo. L’informazione potrebbe diventare ufficiale già domani, quando il procuratore della Repubblica di Terni, Fausto Cardella, rientrerà in ufficio e verificherà direttamente gli atti.

Bisogna ricordare che il Giornale, deciso a infliggere un castigo al giornalista che ha dato voce alle inquietudini del mondo cattolico per lo stile di vita di Silvio Berlusconi, titola il 28 agosto a tutta pagina: “Il supermoralista condannato per molestie/ Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi italiani e impegnato nell’accesa campagna stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell’uomo con il quale aveva una relazione”. Il lungo articolo, a pagina 3, dà conto di “una nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore disposto dal Gip del tribunale di Terni il 9 agosto del 2004”. La “nota” è l’esclusivo perno delle “rivelazioni” del quotidiano del capo del governo.

L'”informativa” subito appare tanto bizzarra da essere farlocca. Nessuna ordinanza del giudice per le indagini preliminari è mai “accompagnata” da una “nota informativa”. E soprattutto nessuna informativa di polizia giudiziaria ricorda il fatto su cui si indaga come di un evento del passato già concluso in Tribunale.

Scrive il Giornale: “Il Boffo – si legge nell’informativa – è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla onde lasciasse libero il marito con il quale Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione. Rinviato a giudizio, il Boffo chiedeva il patteggiamento e, in data 7 settembre del 2004, pagava un’ammenda di 516 euro, alternativa ai sei mesi di reclusione. Precedentemente il Boffo aveva tacitato con un notevole risarcimento finanziario la parte offesa che, per questo motivo, aveva ritirato la querela…”.

È lo stralcio chiave dell’articolo punitivo. È falso che quella “nota” accompagni l’ordinanza del giudice, come riferisce il Giornale. L'”informativa” riepiloga l’esito del procedimento. Non è stata scritta, quindi, durante le indagini preliminari, ma dopo che tutto l’affare era già stato risolto con il pagamento dell’ammenda. Dunque, non è un atto del fascicolo giudiziario. Per mero scrupolo, lo accerterà anche il procuratore di Terni Cardella che avrà modo di verificare, con i crismi dell’ufficialità, che la nota informativa non è agli atti e che in nessun documento del processo si fa riferimento alla presunta “omosessualità” di Boffo. La “nota informativa”, pubblicata dal Giornale del presidente del Consiglio, è dunque soltanto una “velina” che qualcuno manda a qualche altro per informarlo di che cosa è accaduto a Terni, anni addietro, in un “caso” che ha visto coinvolto il direttore dell’Avvenire.

L’evidenza sollecita qualche domanda preliminare: è vero o falso che Dino Boffo sia “un noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni”? È vero o falso che la polizia di Stato schedi gli omosessuali?

Sono interrogativi che si pone anche Roberto Maroni, la mattina del 28 agosto. Il ministro chiede al capo della polizia, Antonio Manganelli, di accertare se esista un “fascicolo” che dia conto delle abitudini sessuali di Dino Boffo. Dopo qualche ora, il capo della polizia è in grado di riferire al ministro che “né presso la questura di Terni (luogo dell’inchiesta) né presso la questura di Treviso (luogo di nascita di Boffo) esiste un documento di quel genere” e peraltro, sostiene Manganelli con i suoi collaboratori, “è inutile aggiungere che la polizia non scheda gli omosessuali: tra di noi abbiamo poliziotti diventati poliziotte e poliziotte diventate poliziotti”. “Da galantuomo”, come dice ora il direttore dell’Avvenire, Maroni può così telefonare a Dino Boffo e assicurargli che mai la polizia di Stato lo ha “attenzionato” né esiste alcun fascicolo nelle questure in cui lo si definisce “noto omosessuale”.

Risolte le domande preliminari, bisogna ora affrontare il secondo aspetto della questione: chi è quel qualcuno che redige la “velina”? Per quale motivo o sollecitazione? Chi ne è il destinatario?
C’è un secondo stralcio della cronaca del Giornale che aiuta a orientarsi. Scrive il quotidiano del capo del governo: “Nell’informativa si legge ancora che (…) delle debolezze ricorrenti di cui soffre e ha sofferto il direttore Boffo “sono a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori””. C’è qui come un’impronta. Nessuna polizia giudiziaria, incaricata di accertare se ci siano state o meno molestie in una piccola città di provincia (deve soltanto scrutinare i tabulati telefonici), si dà da fare per accertare chi sia o meno a conoscenza nella gerarchia della Chiesa delle presunte “debolezze” di un indagato. Che c’azzecca? E infatti è una “bufala” che il documento del Giornale sia un atto giudiziario. E’ una “velina” e dietro la “velina” ci sono i miasmi infetti di un lavoro sporco che vuole offrire al potere strumenti di pressione, di influenza, di coercizione verso l’alto (Ruini, Tettamanzi, Betori) e verso il basso (Boffo). È questo il lavoro sporco peculiare di servizi segreti o burocrazie della sicurezza spregiudicate indirizzate o messe sotto pressione da un’autorità politica spregiudicatissima e violenta. È il cuore di questa storia. Dovrebbe inquietare chiunque. Dovrebbe sollecitare l’allarme dell’opinione pubblica, l’intervento del Parlamento, le indagini del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), ammesso che questo comitato abbia davvero la volontà, la capacità e soprattutto il coraggio civile, prima che istituzionale, di controllare la correttezza delle mosse dell’intelligence.

Quel che abbiamo sotto gli occhi è il quadro peggiore che Repubblica ha immaginato da mesi. Con la nona delle dieci domande, chiedevamo (e chiediamo) a Silvio Berlusconi: “Lei ha parlato di un “progetto eversivo” che la minaccia. Può garantire di non aver usato né di voler usare intelligence e polizie contro testimoni, magistrati, giornalisti?”.

Se si guarda e si comprende quel che capita al direttore dell’Avvenire, è proprio quel che accade: il potere che ci governa raccoglie dalla burocrazia della sicurezza dossier velenosi che possano alimentare campagne di denigrazione degli avversari politici. Stiamo al “caso Boffo”. La scena è questa. C’è un giornalista che, rispettando le ragioni del suo mestiere, dà conto – con prudenza e misura – del disagio che nelle parrocchie, nei ceti più popolari del cattolicesimo italiano, provoca la vita disordinata del capo del governo, il suo modello culturale, il suo esempio di vita. È un grave smacco per il presidente del Consiglio che vede compromessa credibilità e affidabilità in un mondo che pretende elettoralmente, indiscutibilmente suo. È un inciampo che può deteriorare anche i buoni rapporti con la Santa Sede o addirittura pregiudicare il sostegno del Vaticano al suo governo.

Lo sappiamo, con la fine dell’estate Berlusconi decide di cambiare passo: dal muto imbarazzo all’aggressione brutale di chi dissente. Chiede o fa chiedere (o spontaneamente gli vengono offerte da burocrati genuflessi e ambiziosissimi) “notizie riservate” che, manipolate con perizia, arrangiate e distorte per l’occasione, possono distruggere la reputazione dei non-conformi e intimidire di riflesso i poteri – in questo caso, la gerarchia della Chiesa – con cui Berlusconi deve fare i conti.

Quelle notizie vengono poi passate – magari nella forma della “lettera anonima” redatta da collaboratori dei servizi – ai giornali direttamente o indirettamente controllati dal capo del governo. In redazione se ne trucca la cornice, l’attendibilità, la provenienza. Quei dossier taroccati diventano così l’arma di una bastonatura brutale che deve eliminare gli scomodi, spaventare chi dissente, “educare” i perplessi.

A chi altro toccherà dopo Dino Boffo? Quanti sono i dossier che il potere che ci governa ha ordinato di raccogliere? E contro chi? E, concluso il lavoro sporco con i giornalisti che hanno rispetto di se stessi, a chi altro toccherà nel mondo della politica, dell’impresa, della cultura, della società? (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Media e tecnologia

O il mondo è pieno di “giornali deviati” oppure la querela contro Repubblica è un boomerang contro il governo italiano.

Sorpresa e proteste sulla stampa europea: “Minacce per zittire i giornali indipendenti” di ENRICO FRANCESCHINI-repubblica.

Dalla prima pagina del Financial Times alle colonne dei maggiori quotidiani britannici, francesi, spagnoli, tedeschi, dall’Europa alle Americhe, la decisione di Silvio Berlusconi di denunciare “la Repubblica” e almeno due quotidiani stranieri per diffamazione, insieme allo scontro “senza precedenti” tra il premier italiano e il Vaticano, dominano i servizi della stampa internazionale di oggi. Tutti i giornali paragonano l’iniziativa legale del premier a una “dichiarazione di guerra” per intimidire i media indipendenti e sottolineano la gravità dell’annullamento dell’incontro previsto all’Aquila tra il capo del governo e il segretario di stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. “Non posso ricordare un giorno più nero nelle relazioni tra questo governo e la Chiesa”, confida al Daily Telegraph di Londra una fonte vaticana.

Il Financial Times dedica alla vicenda un articolo di prima pagina, intitolato “Berlusconi denuncia per le accuse sullo scandalo”, in cui il corrispondente da Roma, Guy Dinmore, scrive che il primo ministro italiano “ha cercato di zittire i suoi critici con una serie di azioni legali contro almeno tre giornali in Italia, Francia e Spagna”, spiegando quindi i motivi delle denunce annunciate dall’avvocato del premier e parlamentare del Pdl, Niccolò Ghedini, contro “Repubblica”, per la ripetuta pubblicazione delle dieci domande a Berlusconi e per avere citato un articolo del francese Nouvel Observateur in cui si affermava che Berlusconi poteva essere ricattato, contro “Le Nouvel Obeservateur” per l’articolo in questione, intitolato “Sesso, Potere e Bugie”, e contro “El Pais”, per la pubblicazione delle foto dei party nella villa di Berlusconi in Sardegna. Il quotidiano finanziario afferma che gli avvocati di Berlusconi stanno valutando simili denunce anche a Londra contro giornali britannici.

Anche il Guardian, quotidiano londinese di centro-sinistra, dedica ampio spazio agli ultimi sviluppi del caso, con un articolo intitolato “Berlusconi dichiara guerra ai media europei per le notizie sullo scandalo di sesso”. Dopo avere riferito i dettagli delle azioni legali del premier contro la stampa, il giornale parla della “nuova tenpesta” con il Vaticano, originata dall’attacco lanciato dal Giornale, il quotidiano di proprietà del fratello di Berlusconi, contro il direttore del quotidiano cattolico l’Avvenire, Dino Boffo, accusato di avere minacciato nel 2004 la moglie di un suo amante omosessuale, Il Guardian nota che comunque la partecipazione di Berlusconi alla cerimonia della Perdonanza avrebbe rischiato di suscitare controversie perché il premier doveva essere accompagnato da Mara Carfagna, il ministro per le Pari Opportunità, “un ex-modella in topless già al centro di una polemica tra il primo ministro e sua moglie”.

I due maggiori quotidiani conservatori del Regno Unito, il Times e il Telegraph, mettono l’accento sulla “crescente spaccatura” tra Berlusconi e il Vaticano. In un commento del corrispondente da Roma Richard Owen, il Times nota che un “l’eccesso di zelo” del direttore del Giornale Vittorio Feltri, che in un editoriale ha scritto “è giunto il momento di smascherare i moralisti, tutti hanno le loro debolezze sessuali”, ha prodotto “un’esplosione che si è fatta sentire in tutta Italia”, e che “dopo gli eventi di venerdì sarà ancora più difficile (per Berlusconi) ottenere l’approvazione del Papa”. In segno di solidarietà con “Repubblica” e come protesta per l’offensiva contro i media, il Times ripubblica sul proprio sito internet le dieci domande poste al premier dal nostro giornale, che sono al centro della sua denuncia per diffamazione.
Il Telegraph riporta che il Vaticano è “furioso” per l’attacco contro il direttore dell’Avvenire, venuto dopo che il giornale dei vescovi aveva ripetutamente criticato la “condotta morale” del premier italiano.

In Spagna, il quotidiano El Pais, anchesso citato in giudizio da Berlusconi, titola sulla “guerra aperta” del nostro capo del governo “contro i media e contro la chiesa”, definendo “senza precedenti” la decisione del Vaticano di annullare la cena tra il segretario di stato e il presidente del consiglio. Anche El Mundo titola sulla “campagna di azioni legali” del Cavaliere per “portare in tribunale i media europei”. In Francia, sia Le Matin che Liberation pubblicano le dieci domande di “Repubblica” a Berlusconi. In Argentina, il Clarin parla di “crisi” tra Berlusconi e il Vaticano. Negli Stati Uniti, il Wall Street Journal riporta tutti i nuovi sviluppi del caso. E altrettanto fa l’Irish Examiner in Irlanda.

Critiche dal giornale conservatore tedesco die Welt che nell’editoriale definisce la situazione uno “Squallido ping pong”. Il direttore, Thomas Schmid, scrive che “dietro tutta la vicenda c’è una specifica immaturità italiana, ripartita tra i due campi”. “Da una parte c’è un presidente del Consiglio che ama non attenersi alle regole e danneggia così l’impalcatura politica, ma proprio per questo è molto amato da tanti italiani”, è l’analisi della Welt. “Dall’altra parte c’è una sinistra fossilizzata, che non riesce a mandare giù il fatto che uno come Berlusconi sia diventato un grosso personaggio politico”. “L’effetto è disastroso”, osserva il giornale tedesco, “poiché la follia della sinistra, che non è riuscita a superare i suoi settarismi, rende facile a Berlusconi il compito di presentarsi come una specie di dominatore assoluto, che disprezza le forze politiche al di fuori delle sue alleanze di partito”. La conclusione del quotidiano è che “la bella e forte Italia merita di più di questo noioso pingpong”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche Salute e benessere Scuola

Cosa succederà dopo che Berlusconi e la Chiesa avranno fatto la pace.

(da blitzquotidiano.it)
……”Pochi forse si porranno la domanda più fastidiosa: quanto costerà all’Italia, in denaro e in libertà, la pace con il Vaticano? Mentre infatti appare difficile che la Chiesa scarichi Berlusconi in mancanza di alternative valide dal suo punto di vista, è verosimile che cerchi di trarre il massimo vantaggio dalla situazione di debolezza del primo ministro per le polemiche sulla sua vita sessuale che hanno dominato l’estate: saranno concessioni di tipo fiscale o a favore della scuola religiosa o degli insegnanti di religione; saranno concessioni in materia di libertà individuali, come la pillola Ru486.

Fronti aperti ce ne sono tanti, incluso l’atteggiamento del Governo, cui la Lega di Umberto Bossi fa da pilota, in materia di clandestini. Nei paesi di loro provenienza la Chiesa è molto impegnata nella sua opera di missione e ottenere qualcosa in questo campo sarebbe un gran colpo d’immagine.” ……(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia

Perché se le stanno dando di “santa” ragione?

L’undicesima domanda: ma Berlusconi è ancora lucido? Il Tg1 “oscura” Fini, la querela boomerang a Repubblica, l’insulto di Feltri a Boffo e la Chiesa cancella la cena del perdono di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

A questo punto s’impone a forza di logica e di fatti l’undicesima domanda: il Berlusconi degli ultimi giorni e delle ultime ore è politicamente lucido? O non è in preda ad una rabbia mal condita da senso di onnipotenza che può finire per essere autolesionista se non proprio auto distruttiva? Perché un uomo sostanzialmente invulnerabile in termini di consenso allinea mosse in sequenza serrata che lo mettono in pericolo?

L’altra sera il Tg1 di Augusto Minzolini non dà nei titoli di testata dell’edizione principe delle venti la notizia che la terza autorità dello Stato italiano, il presidente della Camera Gianfranco Fini, ha definito «vagamente razziste» le leggi vigenti sull’immigrazione. In Italia nessuno ha fatto una piega, ma il metodo è sovietico: la tv di Stato cancella quella parte di Stato che non piace al Politburo vincente. Minzolini non può aver fatto da solo, perché qualcuno gli ha impartito quest’ordine? L’ordine e la sua esecuzione non turbano nessuno, il che non toglie sia un ordine rabbioso.

Passano poche ore e Berlusconi e il suo staff decidono di querelare “Repubblica” per le famose dieci domande al premier. Querela vuol dire processo. Processo nel quale, quando si terrà, i querelanti dovranno dimostrare che mai Berlusconi incontrò Noemi senza la presenza dei genitori, che mai prostitute furono invitate in quanto tali a Palazzo Grazioli o a Villa Certosa… Saranno interrogati come testi Patrizia D’Addario, Tarantini, gli uomini delle scorte, Noemi e i suoi genitori. Sarà un massacro mediatico per Berlusconi querelante, anche se Berlusconi fosse puro come un giglio, lui che ha detto: «Non sono un santo». E se venisse convocata a testimoniare anche Veronica Lario. Un uomo esperto di comunicazione e immagine come Berlusconi queste cose le sa, perchè allora querela? L’opinione pubblica italiana ha assorbito senza troppi scossoni la sessualità esuberante e compulsiva del premier, il danno è stato limitato. Perchè rimettere in moto il ventilatore del fango, anche ammesso, e per nulla concesso, che di solo fango si tratti?

E infine la più grossa e incomprensibile, il gesto che per la prima volta da venti anni assimila Berlusconi a quel Tafazzi che da solo si martellava gli attributi, quel Tafazzi che è sempre stato la rappresentazione tragicomica della capacità di comunicazione della sinistra. Tafazzi stavolta si incarna in Vittorio Feltri, neo direttore de Il Giornale, neo nominato per volontà e scelta di Berlusconi. Il Giornale scrive che Boffo, direttore dell’Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani, farebbe bene a tacere su morale e dintorni perché nel suo passato ci sono niente meno che intimidazioni alla moglie di un uomo con cui Boffo avrebbe avuto una relazione. Insomma omosessuale e protervo. L’articolo compare la mattina del giorno in cui è prevista una cena di riconciliazione tra Berlusconi e il cardinale Bertone a L’Aquila. Una cena che celebra una “Perdonanza” antica con evidenti e propagandati, annunciati riflessi ad una contemporanea perdonanza. Ma è evidente che la Chiesa non può tollerare l’insulto pubblico al direttore del suo giornale. La cena, l’incontro vengono annullati. Berlusconi balbetta di una sua volontaria rinuncia per «evitare strumentalizzazioni». Ma è evidente che è stata la Chiesa a dire che quella cena e perdonanza a questo punto non erano più possibili. La scena è quella di Berlusconi che va ad abbracciare Gheddafi ma che la Chiesa non abbraccia.

Ha deciso e fatto da solo Vittorio Feltri? Forse sì, forse no, non è dato sapere. Certo è che Feltri deve aver respirato un clima, un clima rabbioso che in qualche modo la ha autorizzato a mordere. Ma mettersi contro la Chiesa, creare o subire un incidente diplomatico e politico così clamoroso non è scelta o azione lucida. Per la prima volta Berlusconi invulnerabile incontra sulla sua strada qualcuno tanto potente da infliggergli ferita, forse ferita destinata anche ad infettarsi. Questo qualcuno è la Chiesa cattolica che in Italia conta e può molto? No, questo qualcuno che fa davvero male a Berlusconi è Berlusconi stesso. Quindi l’undicesima domanda: l’uomo più abile e vincente dell’ultimo ventennio italiano è ancora lucido? E, se non lo è, perché?

(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità

La protesta dei terremotati de l’Aquila al corteo per la Perdonanza: “il nuovo miracolo italiano, sei mesi nelle tende”.

(fonte:ilmessaggero.it)

“Il nuovo miracolo italiano: sei mesi nelle tende”. E’ quanto si leggeva sullo striscione esposto dai membri della conferenza dei comitati al passaggio della parte politica del corteo con in testa rappresentanti locali e a cui partecipava il capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso.

Sono stati distribuiti volantini per contestare la carenza del piano case nei confronti dell’emergenza del sisma. «La situazione prevista – si leggeva nel volantino – per il mese di settembre è questa: 35 mila persone senza casa a fronte di 4.500 posti disponibili nel progetto case».

Lo striscione è stato abbassato solo al passaggio dei vigili del fuoco con la teca che porta il corpo di Celestino. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia

La Federazione nazionale della stampa italiana contro Il Giornale.

(fonte:ilmessaggero.it)
«È cosa non qualificabile che per contrastare e far cessare (inutilmente crediamo) voci e idee che sono, anche senza pregiudizio politico, fuori dal coro e non classificabili secondo immediati schemi della politica, si vada a scandagliare nelle fogne, come ha fatto oggi il giornale di famiglia del capo del Governo, nei confronti nel quotidiano dei vescovi, l’Avvenire, e del suo direttore Boffo», dice il segretario della Fnsi Franco Siddi.

«Tanto palese appare – aggiunge Siddi – infatti lo scopo: non tanto quello di informare ma quello di scagliare fango in modo da “pareggiare” mediaticamente conti improponibili». «È incredibile – dice ancora – che, attraverso questa via, si voglia limitare e intimidire il giornale dei vescovi nella libertà di dire la loro in testimonianza dei propri principi di fede e al direttore e ai giornalisti di Avvenire di esercitare la loro funzione nell’opera di informazione e di critica senza travestimenti. Ogni giornale ha legittimamente una sua linea e ogni indirizzo diverso va rispettato, secondo, però, un’etica della convivenza che non può mai far venir meno la civiltà del confronto né ridurre gli accadimenti a occasioni di lotta feroce e di resa dei conti vendicativa tra fazioni e parti che magari stanno altrove». Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità

Niente Perdonanza per Berlusconi. A letto senza cena.

(fonte:repubblica.it)

Salta la cena, tanto attesa dal premier travolto dalle polemiche sulla sua vita personale, tra Berlusconi e il Segretario di stato vaticano, Tarcisio Bertone. L’incontro era previsto per stasera all’Aquila, a conclusione delle celebrazioni per la Perdonanza. Ma a poche ore dall’appuntamento abruzzese arriva una nota della sala stampa vaticana, nella quale si informa che il presidente del Consiglio, “per evitare strumentalizzazioni” ha deciso di inviare all’Aquila in rappresentanza del governo il sottosegretario alla presidenza Gianni Letta.

Lo stop all’incontro della Perdonanza, che nelle intenzioni del premier avrebbe dovuto essere l’inizio di una ricucitura – con grande risalto mediatico – con la Chiesa, arriva nelle ore più calde dello scontro tra Il Giornale, quotidiano di proprietà berlusconiana, e Avvenire, giornale della Cei. Momenti concitati, con la nota della Santa Sede che giunge poco dopo la netta presa di posizione della stessa Cei in difesa di Dino Boffo.

Un’ora dopo la dichiarazione del Vaticano sulla cena saltata, Berlusconi ha incontrato a Palazzo Grazioli i sottosegretari alla presidenza, Gianni Letta e Paolo Bonaiuti, mentre l’Osservatore romano ha pubblicato in prima pagina una nota per ribadire che la Chiesa non vuole essere coinvolta in vicende politiche contingenti. “Per la Chiesa di oggi – è scritto nell’editoriale – la penitenza è una cosa seria, tanto da non dover venire confusa con polemiche contingenti”.

Nel pomeriggio, all’Aquila, il sottosegretario Letta ha poi avuto un breve colloquio con il cardinale Bertone.
Il rappresentante del governo e il segretario di stato vatiocano si sono incontrati sul piazzale di Collemaggio poco prima della messa, si sono salutati con una stretta di mano e due baci sulle guance e sono quindi entrati in una tenda della Protezione civile dove hanno avuto un colloquio di pochi minuti.

Ai cronisti che lo interrogavano sulla rinuncia di Berlusconi a presenziare alla cerimonia, Bertone ha risposto con un’altra domanda: “A me lo chiedete?”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia

Ecco l’articolo de Il Giornale, di proprietà del Presidente del consiglio, e ri-diretto da Vittorio Feltri in cui si attacca il direttore del quotidiano L’Avvenire, giornale dei vescovi italiani.

Boffo, il supercensore condannato per molestie di Gabriele Villa-Il Giornale.
«Articolo 660 del Codice penale, molestia alle persone. Condanna originata da più comportamenti posti in essere dal dottor Dino Boffo dall’ottobre del 2001 al gennaio 2002, mese quest’ultimo nel quale, a seguito di intercettazioni telefoniche disposte dall’autorità giudiziaria, si è constatato il reato». Comincia così la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore, alias il direttore del quotidiano Avvenire, disposto dal Gip del Tribunale di Terni il 9 agosto del 2004.

Copia di questi documenti da ieri è al sicuro in uno dei nostri cassetti e per questo motivo, visto che le prove in nostro possesso sono chiare, solide e inequivocabili, abbiamo deciso di divulgare la notizia. A onor del vero, questa storia della non proprio specchiata moralità del direttore del quotidiano cattolico, circolava, o meglio era circolata a suo tempo, per le redazioni dei giornali. Dove si chiacchiera, anche troppo, per tirar tardi la sera. C’è chi aveva orecchiato, chi aveva intuito, chi credeva di sapere.

Ma le chiacchiere non bastano a crocefiggere una persona. O meglio bastano, sono bastate, solo nel caso di due persone: Gesù Cristo per certi suoi miracoli e, più recentemente, Silvio Berlusconi per certi suoi giri di valzer con signore per la verità molto disponibili.
Ma torniamo alle tentazioni, in cui è ripetutamente caduto Dino Boffo e atteniamoci rigorosamente ai fatti, così come riportati nell’informativa: «…Il Boffo – si legge – è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione. Rinviato a giudizio il Boffo chiedeva il patteggiamento e, in data 7 settembre del 2004, pagava un’ammenda di 516 euro, alternativa ai sei mesi di reclusione. Precedentemente il Boffo aveva tacitato con un notevole risarcimento finanziario la parte offesa che, per questo motivo, aveva ritirato la querela…».

Dino Boffo, 57 anni appena compiuti, è persona molto impegnata. O, come si dice quando si pesca nelle frasi fatte, vanta un curriculum di rispetto. È direttore di Avvenire da quindici anni, direttore e responsabile dei servizi giornalistici di Sat 2000, il network radio-televisivo via satellite dei cattolici italiani nel mondo, nonché membro del comitato permanente dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, che detta le linee guida delle Università Cattolica del Sacro Cuore. Acuto osservatore della vita politica italiana e delle vicende che segnano il mutamento dei tempi e dei costumi, recentemente, in più d’una occasione, Boffo si è sentito in obbligo, rispondendo alle pressanti domande dei suoi smarriti lettori, di esprimere giudizi severi sul comportamento del presidente del Consiglio. E, turbato proprio da quel comportamento, è arrivato a parlare di «disagio» e di «desolazione». Persino, e dal suo punto di vista è assolutamente comprensibile, di «sofferenza». Quella sofferenza, per citare testualmente quanto ha scritto ancora pochi giorni fa, sul giornale che dirige «che la tracotante messa in mora di uno stile sobrio ci ha causato». Questa riflessione l’ha portato a esprimere, di conseguenza, più e più volte il suo desiderio più fervido, ovvero il «desiderio irrinunciabile che i nostri politici siano sempre all’altezza del loro ruolo». (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

Le reazioni dall’estero alla denuncia contro Repubblica: i giornali esistono per fare domande.

(fonte: la Repubblica).
JOFFRIN: “DOMANI PUBBLICHIAMO LE 10 DOMANDE”
E’ un inammissibile attacco alla libertà di espressione e di critica. Non mi stupisce che venga da un personaggio come Berlusconi, ma è un segnale inquietante per tutta l’Europa. Tra l’altro, non escludo che si possa fare ricorso alla Corte europea per contrastare questa palese minaccia al diritto dell’informazione. I metodi del primo ministro italiano mostrano un disprezzo assoluto delle regole democratiche. Rispondere alle domande dei giornalisti è infatti il minimo che gli elettori possono pretendere da ogni governante. Berlusconi invece è infastidito da ogni manifestazione di opposizione. Fa finta di dire che sono attacchi alla sua vita privata e cerca di nascondere alle troppe menzogne che ha detto in questi mesi. I suoi metodi mi ricordano quelli di Putin: manca soltanto che faccia uccidere i giornalisti più scomodi. In Francia non sarebbe pensabile una denuncia come quella che ha fatto Berlusconi a Repubblica. Sarebbe uno scandalo. Esiste una tacita regola repubblicana che impedisce al Presidente di portare in giustizia giornalisti e oppositori. Libération ha deciso che pubblicherà domani le 10 domande di Repubblica a Silvio Berlusconi.
Laurent Joffrin (direttore di Liberation)

RUSBRIDGER: “ESISTIAMO PER FARE DOMANDE”
Gli organi di informazione indipendenti esistono per chiedere domande scomode ai politici. In Gran Bretagna, come nella maggior parte delle democrazie, sarebbe impensabile per un primo ministro fare causa a un giornale perché fa delle domande. Sarebbe anche impensabile usare le leggi sulla diffamazione per impedire ai cittadini di sapere quello che autorevoli giornali stranieri stanno dicendo sul loro paese. Le azioni contro la Repubblica somigliano molto a un tentativo di ridurre al silenzio o intimidire gli organi di informazione che rimangono direttamente o indirettamente indipendenti dal primo ministro italiano. Spero che i giornali di tutto il mondo seguano con grande attenzione questa storia.
Alan Rusbridger (direttore del quotidiano The Guardian di Londra)

CAMPBELL: “INIMMAGINABILE”
Chiunque abbia esperienza del modo in cui funzionano i media in Gran Bretagna, troverà piuttosto straordinario il fatto che un primo ministro faccia causa a un giornale per una serie di domande, e per avere riportato quello che scrivono giornali stranieri.
Il tutto è ancora più straordinario perché il primo ministro in questione è a sua volta un potentissimo editore. Un fatto, anche questo, che sarebbe inimmaginabile nella cultura politica del nostro paese.
Alastair Campbell (ex portavoce di Tony Blair)

DI LORENZO: “E’ IN GIOCO LA DEMOCRAZIA”
Per il direttore di Die Zeit, “la questione non riguarda certo solo Repubblica, è in gioco il ruolo dei media in una democrazia. E non credo che Repubblica si lascerà intimidire, per cui non capisco il passo di Berlusconi nemmeno da un punto di vista tattico.
Giovanni Di Lorenzo (direttore di Die Zeit)

VIDAL: “UN AVVERTIMENTO A TUTTI I GIORNALISTI”
Questa denuncia è un avvertimento a tutti i giornalisti italiani, un modo di zittire la stampa. Il messaggio è chiaro: vietato criticare, vietato fare domande. E’ molto preoccupante vedere che il premier italiano vuole colpire così platealmente una delle poche voci di informazione libera e indipendente. La cifra richiesta, poi, è disproporzionata. Nel merito il premier italiano sbaglia, perché il compito di un organo di stampa è anche quello di fare domande. La Repubblica ha posto domande non soltanto sono legittime ma sono anche doverose, visto che Berlusconi ha spudoratamente mentito al suo paese. Questo attacco legale dimostra che in Italia c’è un’anomalia, ovvero un premier proprietario di un impero mediatico che ha anche la tendenza a voler mettere sotto silenzio l’opposizione. Reporters Sans Frontières è pronta a denunciare in ogni sede internazionale questo grave attacco alla libertà di stampa in Italia.
Esa Vidal (responsabile Europa Reporters sans Frontieres)

WERGIN: “IN ITALIA POCA PLURALITA”
Secondo Clemens Wergin, editorialista di politica estera ed esperto di affari italiani della Welt, a proposito della querela di Berlusconi legata alle dieci domande poste da Repubblica, “il fatto è strano, visto che la pluralità del panorama mediatico in Italia mi sembra già abbastanza ristretto. La situazione appare a tinte forti in generale, uno scandalo in cui sembra essere coinvolto il capo del governo italiano, feste forse con prostitute seminude, sembra molto strana, vista dalla Berlino protestante, dove governa una Cancelliera tutt’altro che a forti tinte. Berlusconi ha commesso un grave errore, sembra che non capisca il ruolo di una stampa libera. Il semplice fatto che Repubblica abbia posto domande è parte del giusto ruolo dei media. Uno stile inquietante.”
Clemens Wergin (editorialista del Die Welt)

GIESBERT: “LA DEMOCRAZIA E’ MALATA”
Il conflitto tra il potere politico e la stampa è sempre latente ma quando esplode in questo modo significa che la democrazia è malata. Finora in Francia c’è stata una regola d’oro secondo la quale i Presidenti non si rivolgono a un giudice per difendersi dagli attacchi dei giornali. Per i francesi la funzione presidenziale è sacra. Il capo dello Stato sa che se si abbassasse a questi metodi contro la stampa perderebbe inevitabilmente prestigio. Il fatto che Berlusconi abbia attaccato legalmente Repubblica è un’ammissione di debolezza. Il vostro capo del governo si comporta come un qualsiasi cittadino, dimenticando il suo ruolo istituzionale. Ma per il vostro giornale è paradossalmente anche un attestato di libertà e di indipendenza.
Clemens Wergin (editorialista del Die Welt). Beh buona giornata.

Share
Categorie
Popoli e politiche

Quando erano gli emigrati italiani a crepare e a essere buttati a mare.

Quando i migranti eravamo noi: “I nostri morti gettati nell’oceano”di GIULIA VOLA-Repubblica.

Loro muoiono nel Mediterraneo. Quando gli emigrati eravamo noi, morivamo nell’Atlantico. “Buttarono nell’Oceano donne, un bambino e molti vecchi, in tutto quasi venti persone. Così raccontava mio padre”. Maria Dominga Ferrero vive in provincia di Cordoba, in Argentina, nella casa che suo padre comprò quando, nel 1888, arrivò alla “Merica” a bordo del ‘Matteo Bruzzo’. Una casa con i muri bianchi, la cucina grande, le stanze ariose e l’orto nel retro. “In barca gli dicevano ‘coma esto, gringo de mierda’, mangia questo. Era pane e vermi. Vide morire di fame una donna incinta. Ma cosa poteva fare?”.

Maria parla un po’ in piemontese e un po’ in castigliano, mentre gira la minestra di verdure che bolle sul fuoco. “La solfa era la stessa. La differenza era che se sopportavi il male potevi fare suerte, fortuna. Non come capita agli immigrati che oggi vanno in Italia. A l’è vera? Non è vero?”. La domanda rimane sospesa, Maria apre i cassetti, cerca ricordi. “Mio padre – dice – all’inizio vendeva la verdura che coltivava ma nessuno capiva la sua lingua. Così vendeva tutto a 5 centesimi”.

Loro, i sopravvissuti di oggi, vengono rinchiusi nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. Noi finivamo negli Alberghi degli immigrati gestiti dallo Stato o nei Conventilli in mano ai privati. Felicia Cardano è molto anziana, ma ricorda bene i racconti di famiglia: “Mio padre arrivò a Buenos Aires nel 1889 a bordo del ‘Frisca’. Durante il viaggio morirono il suo migliore amico e altre trenta persone. Lo misero all’Hotel della Rotonda, un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza. Si poteva rimanere al massimo cinque giorni, il tempo di trovare un lavoro in città o nei campi, dove era più facile”.

Scenari confermati da Luigi Barzini che così scriveva sul Corriere della Sera nel 1902: “L’Hotel degli emigranti (lo chiamano Hotel!) ha una forma strana, sembra un gasometro munito di finestre (…). L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d’umanità accatastata, di miseria (…). Più in alto, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi d’amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero guarda indietro!”.

Gli stessi graffiti ricoprono adesso le pareti dei Cie, memoria recente del transito dei migranti di oggi, stranieri di tutto il mondo, che lavorano nei cantieri, nei campi, nelle cucine dei ristoranti, nelle case, invadono i quartieri, contaminando le loro e le nostre abitudini. Noi, i “gringos” di allora, invadevamo “le passeggiate perché sono gratuite, le chiese perché credenti devoti e mansueti, gli ospedali, i teatri, gli asili, i circoli e i mercati”: così scriveva infastidito all’inizio del secolo il sociologo argentino Ramos Mejía.

Numeri alla mano, dal 1886 al 1889 gli emigrati partiti da Genova e sbarcati a Buenos Aires raddoppiarono da 43mila a 88mila. Nel 1897 nel porto argentino erano già sbarcati un milione di italiani. Nel 1895, su 660mila abitanti di Buenos Aires, 225mila erano dei nostri. In provincia di Cordoba i 4.600 del 1869 diventarono 240mila nel 1914. Muratori, fabbri, falegnami, calzolai, sarti, fornaciai, meccanici, vetrai, imbianchini, cuochi, domestici, gelatai e parrucchieri: non avevamo concorrenza.

“Si lavorava da matin a seira e la domenica si andava a messa ben vestiti – raccontano le sorelle Fusero, nipoti di Bartolomeo arrivato a Buenos Aires il 22 novembre 1905, a 22 anni – . I bambini mangiavano il gelato, le donne bevevano la limonata e gli uomini il vermouth. Si cantava Quel mazzolin di fiori, La Piemontesina e Ciao bela mora ciao, si giocava a bocce e si chiacchierava. La sera si mangiava la bagna càuda e prima di andare a dormire si pregava: il parroco dovette imparare il piemontese perché le donne, non riuscivano a confessarsi. Nduma bin! Eravamo messi bene! Siamo nati tutti nella stessa camera, all’ombra di un magnolia nata da un seme portato dall’Italia”.

Centoventi anni dopo, i nuovi migranti inseguono in Europa il posto migliore dove vivere. Poi chiamano a raccolta il coniuge, i figli, il fratello, l’amico. Nel frattempo mandano i soldi a casa. “Noi, poveri e affamati di allora, andavamo a fare l’America – racconta la nipote di Giuseppe Caffaratti, torinese arrivato in Argentina nel 1890 a 15 anni – perché peggio di com’era in Italia non si poteva: era uno sgiai, uno schifo”. “Emigravamo per mangè”, racconta Reinaldo Avila, nipote di Giuseppe partito da Caraglio, in provincia di Cuneo, nel 1883. “Mio nonno era un contadino ignorante, si è spaccato la schiena nei campi. Oggi qui tocca ai boliviani e in Italia agli africani. È la vita”.

Loro, i profughi di oggi, scappano dalle guerre moderne, dalla miseria dell’Africa, dell’Asia e dell’Est europeo. Noi, vittime di allora, fuggivamo dalla Grande Guerra. Racconta Margherita Lombardi, nipote di Clelia scappata da Alessandria: “Mia zia perse un figlio in battaglia nel 1916 e un altro nel viaggio sull’Oceano. Si salvò solo lei”. Si fuggiva dalle cartoline precetto, il terrore delle madri: “Meglio un figlio lontano ma vivo che vicino ma sotto terra, disse mia nonna a mio padre Fernando – racconta Gladis Fiacchini – . Siamo cugini di Renato Zero, ma abbiamo perso i contatti: mio padre non volle mai più ritornare indietro”.

Altri fuggivano dopo aver visto la morte in faccia. “Ci imbarcammo sulla ‘Filippa’ senza documenti e senza un soldo il giorno dopo che Miguel tornò dal campo di concentramento in Germania”, ricorda Letizia Garessio. Suo marito, Miguel Bautista Pistone, argentino nato da italiani emigrati in America a metà ‘800, era tornato in Italia dopo aver fatto fortuna e durante la guerra era finito in un campo di concentramento: “Miguel era pelle e ossa – dice Letizia – , che cosa potevano fargli? Chi gli avrebbe impedito di salvarsi?”. Gli dico che ora l’Italia respinge i profughi che vengono dal mare: “Meno male che siamo nati un secolo fa e che siamo scappati qui – commenta – . Miguel tornò in Italia solo una volta per vendere tutto e comprare una casa qui”.

“Mio padre scappò da Fossano e dalla guerra che gli aveva ucciso un fratello – racconta Antonio Caballero – , aveva 17 anni e fin dal primo giorno cominciò a dimenticare l’Italia. Non ho mai parlato con i miei parenti rimasti a casa. Non ho mai imparato l’italiano perché nessuno me l’ha mai insegnato. Nessuno di noi ha fatto fortuna, semplicemente siamo sopravvissuti”.

I migranti di oggi arrivano in Italia con il sogno di guadagnare per poter tornare in patria. Ma anche loro spesso finiscono per mettere radici. Come il nonno di Teresa Burdone, piemontese emigrato in Argentina alla fine dell’Ottocento: “Quasi tutti noi – dice Teresa – , figli o nipoti di italiani, abbiamo la doppia cittadinanza e un’altra vita da vivere, ma il cognome ci ricorda che siamo stranieri da sempre”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

Berlusconi denuncia il quotidiano la Repubblica.

La menzogna come potere di GIUSEPPE D’AVANZO-Repubblica.

Avanzare delle domande a un uomo politico nell’Italia meravigliosa di Silvio Berlusconi è già un’offesa che esige un castigo?

L’Egoarca ritiene che sollecitare delle risposte dinanzi alle incoerenze delle dichiarazioni pubbliche del capo del governo sia diffamatorio e vada punito e che quelle domande debbano essere cancellate d’imperio per mano di un giudice e debba essere interdetto al giornale di riproporle all’opinione pubblica. E’ interessante leggere, nell’atto di citazione firmato da Silvio Berlusconi, perché le dieci domande che Repubblica propone al presidente del Consiglio sono “retoriche, insinuanti, diffamatorie”.

Sono retoriche, sostiene Berlusconi, perché “non mirano a ottenere una risposta dal destinatario, ma sono volte a insinuare l’idea che la persona “interrogata” si rifiuti di rispondere”. Sono diffamatorie perché attribuiscono “comportamenti incresciosi, mai tenuti” e inducono il lettore “a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti”. Peraltro, “è sufficiente porre mente alle dichiarazioni già rese in pubblico dalle persone interessate, per riconoscerne la falsità, l’offensività e il carattere diffamatorio di quelle domande che proprio “domande” non sono”.

Come fin dal primo giorno di questo caso squisitamente politico, una volta di più, Berlusconi ci dimostra quanto, nel dispositivo del suo sistema politico, la menzogna abbia un primato assoluto e come già abbiamo avuto modo di dire, una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi non occulta i “duri fatti”; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di nemici e immaginari complotti politici.

Non c’è, infatti, nessuna delle dieci domande che non nasca dentro un fatto e non c’è nessun fatto che nasca al di fuori di testimonianze dirette, di circostanze accertate e mai smentite, dei racconti contraddittori di Berlusconi.

E’ utile ora mettersi sotto gli occhi queste benedette domande. Le prime due affiorano dai festeggiamenti di una ragazza di Napoli, Noemi, che diventa maggiorenne. E’ Veronica Lario ad accusare Berlusconi di “frequentare minorenni”. E’ Berlusconi che decide di andare in tv a smentire di frequentare minorenni. Nel farlo, in pubblico, l’Egoarca giura di aver incontrato la minorenne “soltanto tre o quattro volte alla presenza dei genitori”. Questi sono fatti. Come è un fatto che le parole di Berlusconi sono demolite da circostanze, svelate da Repubblica, che il capo del governo o non può smentire o deve ammettere: non conosceva i genitori della minorenne (le ha telefonato per la prima volta nell’autunno del 2008 guardandone un portfolio); l’ha incontrata da sola per lo meno in due occasioni (una cena offerta dal governo e nelle vacanze del Capodanno 2009).

La terza domanda chiede conto al presidente del Consiglio delle promesse di candidature offerte a ragazze che lo chiamano “papi”. La circostanza è indiscutibile, riferita da più testimoni e direttamente dalla stessa minorenne di Napoli. La quarta, la quinta, la sesta e settima domanda ruotano intorno agli incontri del capo del governo con prostitute che potrebbero averlo reso vulnerabile fino a compromettere gli affari di Stato. La vita disordinata di Berlusconi è diventata ormai “storia nota”, ammessa a collo torto dallo stesso capo del governo e in palese contraddizione con le sue politiche pubbliche (marcia nel Family day, vuole punire con il carcere i clienti delle prostitute). La sua ricattabilità – un fatto – è dimostrata dai documenti sonori e visivi che le ospiti retribuite di Palazzo Grazioli hanno raccolto finanche nella camera da letto del Presidente del Consiglio.

L’ottava domanda è politica: può un uomo con queste abitudini volere la presidenza della Repubblica? Chi non glielo chiederebbe? La nona nasce, ancora una volta, dalle parole di Berlusconi. E’ Berlusconi che annuncia in pubblico “un progetto eversivo” di questo giornale. E’ un fatto. E’ lecito che il giornale chieda al presidente del Consiglio se intenda muovere le burocrazie della sicurezza, spioni e tutte quelle pratiche che seguono (intercettazioni su tutto). Non è minacciato l’interesse nazionale, non si vuole scalzarlo dal governo e manipolare la “sovranità popolare”? In questo lucidissimo delirio paranoico, Berlusconi potrebbe aver deciso, forse ha deciso, di usare la mano forte contro giornalisti, magistrati e testimoni. Che ne dia conto. Grazie.

La decima domanda infine (e ancora una volta) non ha nulla di retorico né di insinuante. E’ Veronica Lario che svela di essersi rivolta agli amici più cari del marito per invocare un aiuto per chi, come Berlusconi, “non sta bene”. E’ un fatto. Come è un fatto che, oggi, nel cerchio stretto del capo del governo, sono disposti ad ammettere che è la satiriasi, la sexual addiction a rendere instabile Berlusconi.

Questa la realtà dei fatti, questi i comportamenti tenuti, queste le domande che chiedono ancora oggi – anzi, oggi con maggiore urgenza di ieri – una risposta. Dieci risposte chiare, per favore. E’ un diritto chiederle per un giornale, è un dovere per un uomo di governo offrirle perché l’interesse pubblico dell’affare è evidente.

Si discute della qualità dello spazio democratico e la citazione di Berlusconi ne è una conferma. E dunque, anche a costo di ripetersi, tutta la faccenda gira intorno a un solo problema: fino a che punto il premier può ingannare l’opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle “veline”, sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna?

La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti? Con la sua richiesta all’ordine giudiziario di impedire la pubblicazione di domande alle quali non può rispondere, abbiamo una rumorosa conferma di un’opinione che già s’era affacciata in questi mesi: Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un’altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. La sua ultima mossa conferma un uso della menzogna come la funzione distruttiva di un potere che elimina l’irruzione del reale e nasconde i fatti, questa volta anche per decisione giudiziaria.

La mordacchia (come chiamarla?) che Berlusconi chiede al magistrato di imporre mostra il nuovo volto, finora occultato dal sorriso, di un potere spietato. E’ il paradigma di una macchina politica che intimorisce. E’ la tecnica di una politica che rende flessibili le qualifiche “vero”, “falso” nel virtuale politico e televisivo che Berlusconi domina. E’ una strategia che vuole ridurre i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà e quando c’è chi non è disposto ad accettare né ad abituarsi a quella menzogna invoca il potere punitivo dello Stato per impedire anche il dubbio, anche una domanda. Come è chiaro ormai da mesi, quest’affare ci interroga tutti. Siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo.

Possiamo o è già vietato, chiederci quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell’epoca dell’immagine, della Finktionpolitik? Sono i “falsi indiscutibili” di Berlusconi a rendere rassegnata l’opinione pubblica italiana o il “carnevale permanente” l’ha già uccisa? Di questo discutiamo, di questo ancora discuteremo, quale che sia la decisione di un giudice, quale che sia il silenzio di un’informazione conformista. La questione è in fondo questa: l’opinione pubblica può fare delle domande al potere? (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Berlusconismo: la Rai censura Videocracy, film di Erik Gandini.

La Rai rifiuta il trailer di Videocracy “E’ un film che critica il governo” di MARIA PIA FUSCO-Repubblica.

Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c’è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent’anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.

“Come sempre abbiamo mandato i trailer all’AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film”, dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. “Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset”.

A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.

“Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un “inequivocabile messaggio politico di critica al governo” perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi”, prosegue Procacci “ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò “l’Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità””.

A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: “L’80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione”. Dice la lettera di censura dello spot: “Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata”, non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che “attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso”. “Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent’anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce “la creazione di un sistema di disvalori””.

Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi “Noemi o D’Addario” e non c’è un collegamento con l’attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi “caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all’ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell’attività di imprenditore televisivo”.

“Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re – dice Procacci – Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come “Viva Zapatero” o a “Il caimano”, che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l’Italia è cambiata”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Leggi e diritto Popoli e politiche

Cosa succede quando lasciamo fare al Governo orribili leggi, come quella sull’immigrazione.

Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all’Italia di EZIO MAURO-la Repubblica.

Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell’ospedale “Cervello”. Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d’agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all’altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d’istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po’ di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d’acqua. La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l’unica donna sopravvissuta – con altri quattro giovani uomini – sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.

Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d’immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna – una vergogna della democrazia – darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l’asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire quell’Italia che cercavano, e incominciare a vivere.

Un’Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un’amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con “L’Aurora”. In più, a casa la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell’Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando la bocciano a scuola, l’undicesimo anno, e scatta l’arruolamento obbligatorio nell’esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?

Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d’acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l’Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio finale.

Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov’è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d’acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l’indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transfer, da qualche parte sicura.

Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo da parte il pane e nemmeno l’acqua dalle porzioni razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c’è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci, dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non riescono a trovare spazio, c’è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l’ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c’è l’Italia, Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero. Nient’altro.

“Adei”, madre, sto andando, pensa senza dormire. “Amlak”, dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c’è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d’uomini, ma non c’è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l’elica. Le donne si coprono la testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l’acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.

La notte fa più paura. Non c’è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.

All’inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l’ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: “Giù, giù, vai in mare, vai”. Ma il settimo giorno i problemi cambiano.

Muore Haddish, che ha vent’anni, ed è il prino. Continua a vomitare da ventiquattr’ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. “Mai”, acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete “mai” nella testa, c’è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. “E’ arrivato – dice all’alba Ghenè – noi siamo in viaggio e lui è arrivato”. I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia sottovoce.

Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: “Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera”. Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. “Meut”, la morte, comincia a dominare tutti i pensieri, riempie “semai”, il cielo, verrà dal mare, “bahari”. Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà.

Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l’acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l’ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l’idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.

Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c’è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l’unica protezione dal freddo, l’unico cuscino, la coperta, l’unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l’ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c’è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po’ nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.

L’acqua è un’ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t’importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l’incubo e comincia la realtà. Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d’uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi.

Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all’amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all’Italia, non sa dov’è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev’essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l’energia o la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott’acqua e sparire, ma vuoi che sia finita. Persa l’Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte, “Adei, Amlak, semai, bahari, meut”. Rivede suo padre accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all’improvviso, che c’è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione.

Dentro c’è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l’acqua l’anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti al sole. E’ un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve seguire.

Un giorno e una notte. Poi l’ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c’è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov’è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu.

Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d’acqua. Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l’altro naufrago ricoverato al “Cervello”, Hadengai, in camera non c’è, l’hanno chiamato per una radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra gonfie, con l’altra mano, dove c’è un anello giallo alto e sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all’Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l’ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po’ di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell’Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po’ più in là.

I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un’idea di che cosa sia davvero l’Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra l’ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c’è scritto “la vita è un bene prezioso”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia Lavoro Pubblicità e mass media

Per uscire dalla crisi bisogna rilanciare i consumi. Come si rilanciano i consumi? Aumenti salariali uguali per tutti.

Paolo Ferrero (prc) e le gabbie salariali: 200 euro netti di più per tutti, in busta paga, come aumenti di paga e minori tasse-blitzquotidiano.it
Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, non solo è contro il ripristino delle gabbie salariali, ma vuole un aumento per tutti. Che poi “tutti” voglia dire che ne sono esclusi i dipendenti senza contratto regolare, non tutelati dallo statuto dei lavoratori né iscritti al sindacato, conta poco. Di fronte all’estremismo della proposta della Lega, una reazione altrettanto netta e estremista ci voleva.

Se si legge la dichiarazione di Ferrero controluce, ci si trova il riferimento a uno degli ostacoli principali dello sviluppo italiano, la scarsa capacità di spesa delle classi alla base della piramide sociale.

La ricetta di Ferrero, al di là della provocazione, tocca quindi il cuore del problema: o si aumentano gli stipendi o si riducono le tasse. In ogni caso è un fatto che può riguardare solo chi è già inserito nel mondo del lavoro con un regolare contratto, che poi vuole dire la maggioranza dei dipendenti italiani. Chi lavora in “nero” non ha, se non altro, problemi di tasse.

Ha dichirato Ferrero: «La discussione sulle differenziazioni dei salari che il governo continua a alimentare, oggi con il ministro Sacconi, serve in realtà soltanto a abbassare il livello medio dei salari stessi. La vera questione non è introdurre differenziazioni, che servono solo a mettere i lavoratori gli uni contro gli altri: la questione è aumentare i salari in modo generalizzato di 200 euro al mese, da introdurre in busta paga sia attraverso detrazione fiscali sia con maggiori erogazioni». (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Finanza - Economia Lavoro

L’Alitalia da azienda di Stato ad azienda governativa era meglio quando era peggio.

La nuova Alitalia più in ritardo della vecchia di MASSIMO MUCCHETTI-corriere.it
L’estate avrebbe dovuto rilanciare la nuova Alitalia all’insegna della qualità. E invece la compagnia di bandiera, dopo il salvataggio tricolore voluto da Silvio Berlusconi, sta rendendo un servizio peggiore di prima. Gli italiani in viaggio per le vacanze avrebbero dovuto scoprire le virtù taumaturgiche della gestione privata e invece sono tentati di pensare che andava meglio quando andava peggio. L’allarme viene dal maggior aeroporto italiano, Fiumicino.

A luglio a Fiumicino la percentuale dei voli Alitalia in partenza puntuali, o con un ritardo inferiore ai 15 minuti, è scesa al 44%. Dodici mesi prima, quando la società era sull’orlo del fallimento, la percentuale di puntualità era al 50% e nel luglio 2007 al 53%. Agosto sta confermando la tendenza. E la compagnia ha ridotto del 23% i collegamenti. I velivoli restano fermi sulla pista, manca il catering, il pilota viene con un altro volo che però è in ritardo. Le scusanti di sempre. E anche peggio, se si passa al servizio bagagli.

Secondo gli standard internazionali, il 90% dei bagagli dovrebbe poter essere ritirato entro 32 minuti dall’atterraggio dei voli nazionali ed entro 42 minuti per gli internazionali. Ebbene tra il luglio 2008 e il luglio 2009 siamo scesi dal 67 al 51%. Eppure, questa volta, non c’è conflittualità sindacale. Certo, Fiumicino non è un gioiello di efficienza. Negli anni Novanta, governi ed economisti pensarono che, separando lo scalo monopolio naturale dalla compagnia di bandiera che qui aveva e ha la sua base d’armamento, si facilitasse la competizione tra i vettori a beneficio dei consumatori. E ritennero che lo si potesse vendere senza curarsi se l’acquirente pagava con soldi suoi o con quelli delle banche. Adesso scopriamo che la società Aeroporti di Roma avrebbe dovuto ultimare il molo C entro il 2005 e invece, se andrà bene, lo farà tra due anni. La sua priorità non era investire per lo sviluppo, ma spremere il limone per pagare i debiti fatti dall’acquirente per comprare le azioni. L’economia del debito non è solo un’invenzione americana.

Stiamo imparando che gestire una compagnia aerea— ma anche un grande aeroporto o, su un altro piano, la rete ferroviaria—è un mestiere terribilmente complicato, che richiede società stabili, capaci di allevare e selezionare nel tempo una classe manageriale competente. Questa è la storia di Air France e Lufthansa. O di hub come Parigi Charles de Gaulle o Francoforte e Monaco che hanno conservato legami di ferro con le compagnie nazionali. Con l’alibi della Cisl che non voleva lo straniero e della Cgil incapace di fare un accordo separato, il governo ha fatto decadere la cessione di Alitalia ad Air France, che avrebbe garantito la continuità aziendale a beneficio di creditori, dipendenti ed erario. In nome della bandiera: anche quando non conviene più. E del Nord: anche se il treno della grande Malpensa il Nord l’aveva perso da anni.

Adesso, abbiamo un’Alitalia mignon, in ritardo, con i soldi contati e Air France che comunque condiziona tutto pur avendo solo il 25%. E Fiumicino sempre al centro, ma con 85 milioni da prendere dalla liquidazione. E il ragionevole sospetto che i soci reggano il gioco contando i giorni che mancano a quando potranno finalmente vendere Alitalia ai francesi. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Finanza - Economia Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

La strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa: le legge contro i clandestini sono un’arma di distruzione di massa, nella guerra tra poveri in Italia e contro i poveri del mondo.

Quei morti che gridano dal fondo del mare di EUGENIO SCALFARI
È SINGOLARE (non trovo altro aggettivo) il comportamento della stampa nazionale sulla strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa.
Il primo giorno, con notizie ancora incerte, tutti hanno aperto su quell’avvenimento: il numero delle vittime, la storia raccontata dai cinque sopravvissuti, i dubbi del ministro Maroni sulla loro attendibilità, le responsabilità della Marina maltese, i primi commenti ispirati al “chissenefrega” di Bossi e di Calderoli.

Ma dal secondo giorno in poi i nostri giornali hanno voltato la testa dall’altra parte. Le notizie nel frattempo sopraggiunte sono state date nelle pagine interne. Uno solo, il “Corriere della Sera”, ha tenuto ancora quella strage in testata di prima pagina ma senza alcun commento. Il notiziario all’interno tende a riposizionare i fatti entro lo schema della responsabilità maltese. Il resto è silenzio o quasi. Fa eccezione “Repubblica” ma il nostro, com’è noto, è un giornale sovversivo e deviazionista e quindi non può far testo.

Comincio da qui e non sembri una stravaganza. Comincio da qui perché la timidezza, la prudenza, il dire e non dire dei grandi giornali nazionali sono lo specchio d’una profonda indifferenza dello spirito pubblico, ormai ripiegato sul tirare a campare del giorno per giorno, senza memoria del passato né prospettiva di futuro, rintronato da televisioni che sfornano a getto continuo trasmissioni insensate e da giornali che debbono ogni giorno farsi perdonare peccati di coraggio talmente veniali che qualunque confessore li manderebbe assolti senza neppure imporre un “Pater noster” come penalità minimale.

Perfino il durissimo attacco della Chiesa e della stampa diocesana, che su altri temi avrebbe avuto ampia risonanza, è stato registrato per dovere d’ufficio. Bossi, che ha orecchie attentissime a queste questioni, si è addirittura permesso di mandare il Vaticano a quel paese, definendo insensate le parole dei vescovi sulla strage del mare e invitando il papa a prendere gli immigrati in casa sua perché “noi qui non li vogliamo”.
Alla vergogna c’è un limite. Noi l’abbiamo varcato da un pezzo nella generale apatia e afasia.

* * *

Ci sono varie responsabilità in quanto è accaduto nel barcone dei 78 eritrei, per venti giorni alla deriva in uno specchio di mare popolatissimo di motovedette, aerei, elicotteri, pescherecci delle più diverse nazionalità, italiani, maltesi, ciprioti, egiziani, tunisini e libici. Responsabilità specifiche e responsabilità più generali.

La prima responsabilità specifica riguarda il mancato avvistamento da parte della nostra Marina e della nostra Aviazione. Venti giorni, un barcone di quindici metri con 78 persone a bordo, sballottato dai venti tra Malta e Lampedusa, un braccio di mare poco più ampio di quello percorso da una normale regata di vela.
I ministri Maroni e La Russa dovrebbero fornire al Parlamento e alla pubblica opinione l’elenco dei voli e dei pattugliamenti da noi effettuati in quello spazio e in quei giorni. Il ministro dell’Interno finora si è limitato a chiedere un rapporto sull’accaduto al prefetto di Agrigento.

Che c’entra il prefetto di Agrigento? Il responsabile politico dei respingimenti in mare è il ministro dell’Interno che si vale della guardia costiera, delle capitanerie di porto e delle forze armate messe a disposizione dalla Difesa. Maroni e La Russa debbono rispondere, non il prefetto di Agrigento.

La seconda responsabilità specifica riguarda il pattugliamento italo-libico sulle coste della Libia. Sbandierato ai quattro venti come un grande successo diplomatico, viaggi del premier in Libia, abbracci e baci sulle guance tra Berlusconi e Gheddafi, promesse di denaro sonante e investimenti al dittatore-colonnello, viaggio del medesimo con relativa tenda a Villa Pamphili, scortesie a ripetizione, sempre del medesimo, nei confronti di quasi tutte le autorità istituzionali italiane; secondo viaggio del colonnello e seconda tenda al G8 dell’Aquila, dichiarazioni del ministro degli Esteri, Frattini, per sottolineare l’importanza dell’asse politico Roma-Tripoli.

Risultati zero. Riforma dei centri di accoglienza libici sotto controllo italiano, zero. Quei centri sono un inferno dove i migranti provenienti dall’Africa sahariana e dal Corno d’Africa sono ridotti per mesi in schiavitù e sottoposti alle più infami vessazioni fino a quando alcuni di loro vengono affidati ai mercanti del trasporto e imbarcati per il loro destino. Le vittime in fondo a quel tratto di Mediterraneo non si contano più.

In quei centri, tra l’altro, le autorità italiane dovrebbero individuare quegli immigranti che hanno titolo per essere trattati come rifugiati politici. Queste verifiche non sono avvenute. I migranti eritrei in particolare dovrebbero poter godere di uno “status” particolare come ex colonia italiana, ma nessuno se ne è occupato (e meno che mai, ovviamente, il prefetto di Agrigento).

In compenso le motovedette italiane dal primo giugno ad oggi hanno intercettato un elevato numero di barconi e li hanno respinti nel girone infernale dei centri di accoglienza libici, il che significa che le partenze dalla coste cirenaiche continuano ad avvenire in barba a tutti gli accordi.
Questo stato di cose è intollerabile. Frutto di una legge perversa e d’un reato di clandestinità che ha addirittura ispirato un gioco di società inventato dal figlio di Bossi e brevettato con il titolo “Rimbalza il clandestino”.
Mancano le parole per definire queste infamità.

* * *

Ma esistono altresì responsabilità generali, al di là del caso specifico. Le ha elencate con estrema chiarezza il proprietario di un peschereccio di Mazara del Vallo da noi intervistato ieri.
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l’autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall’intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell’Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare. La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabrodo.

* * *

Alcuni si domandano i motivi del silenzio di Berlusconi su questo delicatissimo tema. La ragione è chiara e l’ha fornita l’onorevole Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl insieme a La Russa e Bondi e quello che meglio di tutti conosce la natura del capo del governo essendo stato con lui e con Dell’Utri uno dei tre fondatori di Forza Italia nell’ormai lontano 1994.

Di che cosa vi stupite, ha scritto Verdini in una sua lettera al “Corriere della Sera” di pochi giorni fa ribattendo alcune domande di Sergio Romano nel suo fondo domenicale. Di che cosa vi stupite? Silvio Berlusconi, con almeno una parte di sé, è un leghista né più né meno di Bossi e quando nel ’93 decise di impegnarsi in politica pensò, prima di decidersi a fondare un nuovo partito, di guidare con Bossi la Lega. Poi scelse di fondare un partito nazionale del quale il nordismo leghista sarebbe stato il pilastro più rilevante.

Così Verdini, il quale in quella lettera rivendica il merito d’aver convinto il premier all’opportunità di dar vita a Forza Italia.
Non si poteva dir meglio. C’è da aggiungere che il peso della Lega è ultimamente aumentato in proporzione diretta alla minor forza politica del premier. La Lega ha oggi una forza di ricatto politico che prima non aveva e la sta esercitando in tutte le direzioni non senza alcuni contraccolpi sulle strutture e sulle alleanze all’interno del Pdl.

Uno dei temi di dibattito di queste ultime settimane è stato il collante che spiega nonostante tutto la persistenza del potere berlusconiano e la sua eventuale capacità di sopravvivere ad un possibile ritiro di Berlusconi dalla gestione diretta di quel potere. Tra le varie spiegazioni è mancata quella a mio avviso decisiva. Il collante del berlusconismo consiste nell’appello continuamente ripetuto e aggiornato agli istinti più scadenti che rappresentano una delle costanti della nostra storia di nazione senza Stato e di Stato senza nazione.

Una classe dirigente dovrebbe rappresentare ed evocare gli istinti più nobili di un popolo, educandolo con l’esempio, spronandolo ad una visione alta del bene comune. Un compito difficile che alcune figure della nostra storia esercitarono con passione, tenacia e abilità politica.
È più facile evocare gli “spiriti animali” e questo è avvenuto frequentemente nelle vicende del nostro paese a cominciare dal “O Franza o Spagna purché se magna” e alle sue più recenti e non meno abiette manifestazioni.

Giorni fa, rispondendo nel suo giornale alla lettera di un giovane leghista a disagio ma privo di alternative alla sua visione nordista, Galli Della Loggia spiegava al suo interlocutore quale fosse l’errore in cui era incappato: una falsa prospettiva storica, un falso revisionismo che ha messo in circolazione una falsa e deteriore immagine del nostro Risorgimento.
Ho riletto un paio di volte l’articolo di Della Loggia perché non credevo ai miei occhi. Il revisionismo da lui lamentato come deformazione della nostra storia unitaria è nato negli ultimi quindici anni proprio sulle pagine del suo giornale e lo stesso Della Loggia ne è stato uno dei più autorevoli esponenti.

Meglio tardi che mai. Purtroppo di vitelli grassi da sacrificare per il ritorno del figliol prodigo oggi c’è grande scarsità. Il solo vitello grasso in circolazione è lo scudo fiscale preparato da Tremonti, che però non riguarda la questione dell’Unità d’Italia e del revisionismo politico. Festeggia soltanto gli evasori fiscali. Anche questa è una (pessima) costante nella storia di questo paese. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia Pubblicità e mass media

“In attesa di sapere se Agnelli sia stato o meno un “furfante”, Feltri, che non è un maramaldo, ricorderà quanto sia furfantissimo il suo editore, come al fondo della fortuna di Berlusconi ci siano evasione fiscale e falso in bilancio, corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni.”

L’Avvocato e il Cavaliere di GIUSEPPE D’AVANZO-Repubblica.
SI E’ insediato ieri alla direzione del Giornale della famiglia Berlusconi, Vittorio Feltri, un tipo che – a quanto dice di se stesso – “non ha la stoffa del cortigiano”. Lo dimostra subito.
Feltri scatena, fin dal primo editoriale, un violentissimo, sbalorditivo assalto a Silvio Berlusconi, suo editore e capo del governo. Per dimostrare che, nel lavoro che lo attende, non sarà né ugola obbediente né sgherro libellista, il neo-direttore sceglie un astuto espediente. Le canta a nuora perché suocera intenda. O, fuor di metafora, ad Agnelli (morto) perché Berlusconi (vivo) capisca e si prepari.

Feltri si dice stupefatto per “quanto sta avvenendo sul fronte fiscale”. Trasecola per quel che si dice abbia combinato in vita Gianni Agnelli che “avrebbe esportato o costituito capitali all’estero sui quali non sarebbero state pagate le tasse”. Decide di liberarsi una buona volta di quell’inutile fardello che è il garantismo, favola buona soltanto per il Capo e gli amici del Capo, e picchia duro, durissimo.

Questo “furfante” di un Agnelli, scrive Feltri, “ha sottratto soldi al fisco”, e quindi “ha procurato un danno allo Stato”, “ai cittadini che le tasse le pagano”; ha saccheggiato “per montagne di quattrini neri” le casse di società quotate in Borsa, “derubando gli azionisti”. E allora, si chiede, è più grave “rubare al popolo o toccare il sedere a una ragazza cui va a genio di farselo toccare”? Conclude quel diavolo di un Feltri: “Ne riparleremo”.

E’ l’impegno che Feltri assume dinanzi ai suoi lettori e la minaccia che il neo-direttore del Giornale riserva, nel primo giorno, al suo povero editore. Feltri non è ingenuo e non è uno sprovveduto. E’ un professionista tostissimo e soprattutto ha memoria lunga. E statene certi – questo annuncia il suo editoriale – parlerà presto di quel “furfante” del suo editore. Gli getterà in faccia, senza sconti, le 64 società off-shore “All Iberian” che Berlusconi si è creato all’estero, governandole direttamente e con mano ferma.

Gli ricorderà, e lo ricorderà ai suoi lettori, come lungo i sentieri del “group B very discreet della Fininvest” siano transitati quasi mille miliardi di lire di fondi neri, sottratti al fisco con danno di chi paga le tasse; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come “i politici costano molto… ed è in discussione la legge Mammì”).

E ancora, la proprietà abusiva di Tele+ (violava le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le “fiamme gialle” ); il controllo illegale dell’86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l’acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma che hanno messo nelle mani del capo del governo la Mondadori; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato e in spregio dei risparmiatori, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente.

In attesa di sapere se Agnelli sia stato o meno un “furfante”, Feltri, che non è un maramaldo, ricorderà quanto sia furfantissimo il suo editore, come al fondo della fortuna di Berlusconi ci siano evasione fiscale e falso in bilancio, corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; manipolazione, a danno degli azionisti, delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

E, giurateci, quel diavolo di Feltri non si fermerà qui. Ricorderà le diciassette leggi ad personam che hanno salvato il suo editore da condanne penali, protetto i suoi affari, alimentato i profitti delle sue imprese. Ricorderà, con il suo linguaggio concreto e asciutto, quanto quell’uomo che ci governa sia, oltre che “un furfante”, un gran bugiardo.

Rammenterà ai lettori del Giornale quando Berlusconi disse: “Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conoscevo neppure l’esistenza” (Ansa, 23 novembre 1999, ore 15,17). O quando giurò sulla testa dei figli: “All Iberian? Galassia off-shore della Fininvest? Assolute falsità”.

La trama dell’offensiva di Feltri contro il suo editore già fa capolino. Presto leggeremo un altro editoriale, altri editoriali all’acido muriatico. Nel solco delle menzogne diffuse dal premier che evade le tasse, Feltri ricorderà che è stato Berlusconi a mentire agli italiani negando di frequentare o di aver frequentato minorenni, giurando sulla testa dei figli di condurre una vita morigerata da buon padre di famiglia, prossima alla “santità”, per intero dedicata alla fatica di governare il Paese.

Feltri concluderà che un uomo, un “furfante” che trucca bilanci, deruba i contribuenti e le casse dello Stato, si cucina legge immunitarie perché governa il Paese e per di più mente senza vergogna sull’origine della sua fortuna e sulla sua vita privata, diventata pubblica, non può essere affidabile quando parla del destino dell’Italia, qualsiasi cosa dica o prometta. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: in piena crisi di raccolta pubblicitaria è stata fatta la cosa sbagliata nel momento sbagliato.Infatti senza Sky la Rai perde ascolti.

Rai invisibile su Sky e gli ascolti vanno giù di ALDO FONTANAROSA
RaiTre in affanno in prima serata, quella che più conta. RaiDue in affanno al mattino (quando davanti alla tv ci sono i bambini) e nel pomeriggio dei telefilm. Assomiglia a una falsa partenza, in termini di ascolti, la decisione Rai di oscurare alcuni programmi sui decoder Sky. I numeri dell’Auditel parlano infatti di cali di ascolti che, nel caso della Terza rete, possono arrivare all’1,4%.

L’oscuramento dei programmi è effetto della nuova guerra che oppone la tv di Stato a Sky. La prima battaglia si è consumata sui 6 canali di Raisat che la tv pubblica confezionava per Sky: la loro fornitura è stata interrotta il 30 luglio. La seconda battaglia si consuma ora sull’oscuramento. Sono negati a Sky tutti gli eventi per i quali la Rai non abbia anche i diritti di trasmissione per l’estero. In 19 giorni – tra il 2 e il 20 agosto – lo schermo blu è comparso già 168 volte: colpiti e affondati 19 eventi di RaiUno; 23 eventi di RaiTre; addirittura 126 di RaiDue.

L’oscuramento ha invaso tre fasce orarie. Quella mattutina di RaiDue, intanto. Tre le 7 e 30 e le 10 e 45, non si vendono più sei serie di cartoni animati (dalla “Sirenetta” a “I miei amici Tigro e Pooh”). Colpita anche la fascia pomeridiana di RaiDue, da cui sono sparite serie di telefilm come “Streghe” e “Law & Order”. Ma è soprattutto RaiTre a pagare un prezzo alto. L’8 agosto, ad esempio, la Terza Rete ha subìto un’oscuramento totale che è iniziato alle 21 (con il film “Collateral”) ed è proseguito alle 23,30 con il film “Carter”. Stesso copione il 15 agosto, quando il doppio colpo di spugna ha cancellato prima “La banda degli onesti”, a seguire “Getaway” con Steve McQueen.

L’oscuramento sembra produrre anche un prezzo in termini di ascolti. Prendiamo il periodo dal 2 al 18 luglio, quando la Rai non criptava i suoi programmi sul satellite, e la fascia bambini di RaiDue (tra le 7,30 e le 10,45). Paragoniamo gli ascolti di questo periodo con quelli del periodo tra il 2 e il 18 agosto, quando invece va in scena l’oscuramento. La Seconda rete perde lo 0,8% in termini di share. La perdita di RaiDue sfiora l’1% nella fascia dei telefilm (tra le 14 e le 18); mentre la perdita di RaiTre (in prima serata, tra le 21 e le 23) arriva all’1,4%.

Altro periodo: dal 12 al 28 luglio (nessun oscuramento). Lo paragoniamo sempre al periodo 2-18 agosto (oscuramento). Le perdite di RaiDue sono confermate – soprattutto nel pomeriggio dei telefilm – mentre RaiTre tiene, sia pure a fatica. Questi numeri forniscono munizioni alle armi di chi (soprattutto nel Pd) sconsigliava alla Rai di divorziare da Sky. Chi invece difende l’opportunità del divorzio potrà aggrapparsi ad un altro dato dell’Auditel, stavolta favorevole alla tv di Stato. Parla di una tenuta, anzi di un progresso di RaiUno (che aumenta ad agosto fino al 2,9% in prima serata). E’ come se molti italiani – trovando lo schermo blu su RaiDue oppure su RaiTre – abbiano riparato intanto su RaiUno.

In queste ore, anche Sky passa ai raggi X i dati Auditel. La pay-tv vuole capire, in prima battuta, come si comportino i suoi abbonati quando si imbattono in un programma Rai nascosto. Prendiamo il caso della Nazionale. La tesi di Sky è che 18 suoi abbonati ogni 100 abbiano trovato RaiUno criptata per Svizzera-Italia (il 12 agosto) ed abbiamo visto altre cose (film, telefilm, partite di club, cucina) senza farsi problemi. Se invece non l’avessero trovata criptata, certo l’avrebbero seguita (perché così si erano comportati in occasione di precedenti amichevoli visibili sul satellite).

Questa è la pistola fumante, secondo Sky: è la prova che la Rai disperde ascoltatori e commette dunque un errore epocale mentre divorzia dal decoder della pay-tv. Se la tesi sia giusta, lo diranno i prossimi mesi di studio e di polemica politica. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche

Un popolo spaventato si governa meglio. Ecco come Bush ottenne il secondo mandato alla Casa Bianca. (Ogni allusione alle politiche sulla sicurezza del governo Berlusconi è assolutamente intenzionale).

Usa/ L’amministrazione Bush voleva alzare il livello di allerta contro il terrorismo alla vigilia delle elezioni 2004, una mossa politica più che di sicurezza-blitzquotidiano.it

Escono nuove rivelazione sulla politica di George W. Bush e soprattutto su come l’ex presidente degli Stati Uniti usasse la paura per gli attentati terroristici come mezzo per ottenere consensi. L’ex capo della Sicurezza degli Stati Uniti, Tom Ridge, infatti, rivela, nel suo libro “The Test of Our Times” (Un’indagine sui nostri tempi) che nel 2004 Bush tentò di far innalzare il livello di allerta sul terrorismo. Una richiesta che Ridge e altri della Sicurezza ritennero ingiustificata, tanto che la proposta venne bocciata.

Secondo quanto scrive Ridge, anche il Generale John Ashcroft e il segretario della Difesa Donald Rumsfeld appoggiarono la proposta di Bush, sostenendo che gli eventi internazionali, le minacce di Bin Laden e le elezioni alle porte avrebbero portato ad un incremento delle possibilità di attacchi terroristici.

Ma Ridge sostiene, come sostenne all’epoca opponendosi alla proposta, che le motivazioni che spinsero Bush a voler alzare il livello di allerta erano più politiche che di sicurezza. L’ex governatore della Pennsylvania, infatti, sottolinea come non ci fosse nessun dato concreto che potesse far temere un attacco terroristico.

Un’ipotesi che l’ex consulente alla Sicurezza, Frances Townsend, rimanda al mittente sostenendo che sulla proposta di Bush «vi fu un dibattito e Tom Ridge non era l’unica persona contraria all’incremento del livello di allerta, ma non ci furono mai discussioni di stampo politico».

A guardare il risultato di quelle elezioni e delle motivazioni che spinsero la maggior parte degli Americani a votare per Bush, qualche dubbio viene che Ridge avesse ragione. Proprio nell’agosto 2004 Bush tornò a parlare del pericolo di attentati terroristici e due mesi dopo i sondaggi dicevano che per un elettore su cinque il terrorismo era l’argomento che aveva maggiormente influenzato il voto. L’86 per cento di quegli elettori votò per Bush, consacrandone la vittoria, solo il 14 per cento preferì il candidato democratico John Kerry. (Beh, buona giornata).

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: