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democrazia Politica Potere Società e costume

Il vecchio che andava con le minorenni e la buttava in politica.

di Riccardo Tavani

Il Tribunale di Milano non aveva ancora finito di leggere la sentenza contro Silvio Berlusconi sul caso Ruby Karima che già un lupanare mediatico era pronto a spalancare le porte sulle proprie oscenità. È stato tutto non mandato ma “rovesciato” a puttane. “SIAMO TUTTI PUTTANE” ha intitolato la sua manifestazione a Roma Giuliano Ferrara, ribaltando completamente forma e sostanza della sentenza. Questa si divide, infatti, in due parti e nessuna delle due mette in discussione la libertà del Cavaliere di andare o meno a puttane.

La prima parte della sentenza, quella decisamente meno rilevante, assommante a un solo anno di condanna riguarda non la prostituzione in genere, ma quella minorile. Giuliano Ferrara, Daniela Santanchè, Marina Ripa di Merana hanno tutta la libertà di proclamarsi pubblicamente puttane, ma riguardo la specifica connotazione di “minorenni” sono totalmente fuori bersaglio. La protesta di Piazza Farnese avrebbe dovuto intitolarsi “SIAMO TUTTE PUTTANE MINORENNI” e mettere in piazza non tanta nobile stagionatura quanto la sua progenie, ovvero figli, figlie, nipoti e nipotine.

Il tema delle puttane, però, è solo un plateale rovesciamento cabriato con doppio avvitamento di ciò che realmente è accaduto. Berlusconi è stato soprattutto condannato a 6 anni per “concussione con costrizione”, operata con la sua famosa telefonata diretta alla Questura di Milano la notte che Ruby fu arrestata per furto e fatta scarcerare in quanto “nipotina di Mubarak”. “Concussione con costrizione” è la formulazione prevista dalla nuova legge che prende in considerazione anche il ruolo svolto dalla persona concussa, la quale potrebbe essere attivamente consenziente o collaborante all’atto di concussione. Nel caso del tentativo del Cavaliere di indurre a un comportamento illegale il personale di Polizia presente in quel momento in ufficio, per i giudici di Milano, si è trattato di “costrizione”. Rovesciare questa seconda e più rilevante parte del giudizio, e dunque l’intero suo impianto, a puttane è davvero un bel salto più che mortale mortifero per chi lo azzarda.

C’è da considerare, semmai, che cosa significhi per un uomo di potere chiamare direttamente al telefono un ufficio periferico dell’articolazione istituzionale per impartire un ordine che contravviene alla legalità formale del potere. L’alto grado di un potere è solitamente connotato dal suo muovere in maniera indiretta e occulta le leve a sua disposizione per ottenere qualcosa o far andare le cose in un certo modo. Berlusconi, con la sua stessa discesa politica in campo, smentisce questa consolidata regola storica. Non si limita a costituire e finanziare lobbies a suo vantaggio, vuole agire direttamente. La prassi del potere aziendale la trasferisce direttamente nella sfera politica. È un potere che vuole essere immediato, agire direttamente sul tempo presente, sulla vita.

Qual è, però, il vero potere sulla vita se non proprio quello sessuale, erotico? La sfera più intima, molecolare, atomica del potere è proprio quella erotica. Una persona di potere è inevitabilmente, necessariamente attratta dalla corrusca zona erotica. Come può una famiglia di potere planetario quale i Kennedy non volere per sé quella che è ritenuta nel suo tempo la donna più desiderabile del pianeta, Marilyn Monroe? L’esercizio di qualsiasi tipo di potere è inscindibile dall’ambito e dall’ambizione erotica. Nel suo romanzo “Santa Evita”, sulla vicenda biografica e di potere tra il caudillo argentino Juan Perón e sua moglie Eva Duarte, lo scrittore Tomás Eloy Martínez spiega bene questo connubio di bio-politica, affermando che la prima vera cellula del potere nasce proprio nell’intimità nascosta di un’alcova.

Lo scadimento, però, dalla maggiorata Marilyn alla minorenne Ruby è stridente, fa accapponare la pelle. Nell’era non più del governo ma della “governance”, che è nozione tipicamente aziendale; non più della democrazia e della politica, ma della finanza e della tecnoscienza, il bio-potere tende a controllare e conformare anche gli aspetti più riservati e persino triviali della sfera individuale. Così esso stesso si fa triviale, postribolare, rovescia il simbolo della bellezza come cultura a meretricio diretto della suburra. Una chiamata personale in Questura una notte di maggio: per il Cavaliere c’è più orgasmo che nella dazione diretta di danaro al senatore Sergio Di Gregorio o in una notte elegante con Patrizia Daddario. Il rovescio delle sentenze nelle puttane è anche il più classico rovescio da contrappasso. (Beh, buona giornata).

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Attualità Marketing Media e tecnologia Nessuna categoria Società e costume

Ultimo telegramma da Calcutta.

di Riccardo Tavani

“Ultimo telegramma Stop Da Calcutta Stop Oggi 14 luglio 2013 Stop Ultimo telegrafico bye da intera India STOP”.

Il prossimo 14 luglio chiuderà ogni ufficio e cesserà definitivamente qualsiasi servizio telegrafico su tutto il vasto territorio di quel sub continente chiamato India. Un sevizio garantito dal 1850 dal Bharat Sanchar Nigam Limited (BSNL), compagnia di comunicazioni che è arrivata a inviare oltre sessanta milioni di telegrammi, attraverso quarantacinquemila uffici nel 1985, anno che segna il vertice della sua storica attività.

Oggi siamo a soli 75 uffici con un movimento di appena cinquemila telegrammi l’anno e addetti che passano da circa tredicimila a mille unità, anche se esistono altri seicento sportelli in franchising, che hanno garantito il loro servizio in tutti i 671 distretti territoriali dell’India. Il primo telegramma fu spedito 163 anni fa da Calcutta, (oggi Kolkata), a Diamond Harbour, a 50 km di distanza.

Shamim Akhtar, direttore generale dei servizi telegrafici di BSNL ha dichiarato: “SMS e smartphone hanno reso obsoleto il servizio telegramma, stiamo perdendo oltre 23 milioni di dollari l’anno”.

Non è dello stesso parere RD Ram, un nome che è già una memoria elettronica in sé e che ha lavorato però per 38 anni proprio in un ufficio telegrafico di Delhi. Afferma Ram:

“La penetrazione della telefonia mobile è molto più bassa di quella pubblicizzata, ha raggiunto appena un triste 26 per cento, anche se qualcuno nel più remoto villaggio ha un telefono cellulare.
Il telegramma ha la sua valenza legale, come una valida forma di prova è ancora accettato dai tribunali. Ed è preso sul serio da un giudice, quando un funzionario del governo invia un telegramma per avvertire che non potrà essere presente in Tribunale perché non sta bene.
Il sessantacinque per cento dei telegrammi quotidiani è inviato dal governo. Io mi preoccupo per il restante trentacinque per cento, un certo numero di telegrammi è inviato da coppie in fuga, si sposano segretamente perché i loro genitori non permettono unioni di casta differente, classe, o religione non gradita. Le coppie di sposi, temendo vendette da parte dei congiunti, con il telegramma informano la polizia e la Commissione nazionale per i diritti umani”.

Aldilà del valore legale e istituzionale del telegramma in India e altre parti del mondo, dell’importante e anzi cruciale ruolo storico e sociale che ha svolto, va considerato il fatto che mai fino ad oggi un nuovo medium ne aveva completamente divorato un altro, dai messaggi con segnali luminosi, alle lettere d’amore, ai “pizzini” tra mafiosi e carcerati.

Il teatro non è stato mangiato dal cinema, il cinema dalla Tv, la Tv da DVD e Internet. Si è avuta una nuova “dislocazione” nel sistema di relazione tra i vari media, però mai una completa cannibalizzazione.
Il teatro non è stato mangiato dal cinema, il cinema dalla Tv, la Tv da DVD e Internet. Si è avuta una nuova “dislocazione” nel sistema di relazione tra i vari media, però mai una completa cannibalizzazione.

Sono certo, Ferri, ci fossi tu in India avresti già ideato e lanciato una campagna a favore di un altro telegramma ancora dopo quel monsone il 14 luglio 2013 spazzerà via pali e linee del servizio telegrafico tra i più vasti del mondo STOP (Beh, buona giornata).

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Ambiente Finanza - Economia Lavoro Politica Salute e benessere

Il decreto Ilva non va contro la Costituzione.

Tutti i cittadini hanno il diritto al lavoro e la Repubblica ha il compito di rendere effettivo questo diritto costituzionale

di Cesare Salvi da avvenirelavoratori.eu

Il decreto Ilva è stato contestato sul piano della legittimità costituzionale da esponenti di Confindustria e del centrodestra (Brunetta, Sacconi). La tesi avanzata è che il decreto violerebbe le garanzie costituzionali della proprietà e della libertà di iniziativa economica. Si prospetta di sollevare la questione in sede di esame parlamentare. La vicenda è emblematica, al di là del merito del decreto. Si fronteggiano infatti due concezioni dei principi fondamentali della nostra Costituzione economica.

Fino a non molto tempo fa, questa controversia sarebbe stata impensabile. La Costituzione, infatti, prevede espressamente che la libera iniziativa economica privata non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art.41); nonché il principio della funzione sociale della proprietà privata, che attribuisce alla legge il compito di determinarne i “modi di godimento e i limiti” (art.42). Ma l’attacco contro questi principi è in corso da tempo.

Del resto, il centro destra ha presentato nella passata legislatura disegni di legge costituzionali per eliminarli e le corti di giustizia europee ripropongono il primato della libertà economica e dei diritti proprietari. E le idee liberiste rischiano di diventare senso comune.

Basti pensare che la questione Ilva è stata fin qui presentata come un conflitto tra tutela del lavoro e tutela della salute e dell’ambiente; laddove il vero conflitto è fra la libertà economica, da un lato, e dall’altro, appunto, i diritti dei lavoratori e dei cittadini. E questo conflitto è previsto e risolto in via di principio, a favore dei secondi, dalle norme costituzionali prima ricordate.

Tali norme si collegano ai principi fondamentali contenuti all’inizio della Costituzione: l’eguaglianza sostanziale, il diritto al lavoro, la tutela della salute come diritto del cittadino e interesse collettivo.

Sono questi principi, di straordinaria attualità nell’Italia e nel mondo di oggi, che inducono molti a dire la tanto criticata frase per la quale “la Costituzione italiana è la più bella del mondo”. Ma sarebbe sbagliato chiudersi in una sorta di concorso di bellezza nella nostra Carta fondamentale.

Anche la costituzione di Weimar era molto bella e ha fatto la fine che ha fatto. Il problema è se quei principi vengono presi sul serio, se ci crediamo ancora. Non solo l’Ilva: Indesit, Terni, gli oltre 500.000 licenziati nell’industria (anche se si preferisce dire “esuberi”), quello che è emerso nel processo Eternit: tutto ciò ci dice che quelle norme costituzionali è come se non esistessero.

Si discuta dunque degli aggiornamenti ritenuti necessari per la seconda parte della Costituzione; ma intanto si operi per l’attuazione della prima parte. A cominciare dalle norme che riconoscono a tutti i cittadini il diritto al lavoro e attribuiscono alla Repubblica il compito di promuovere le condizioni che rendano effettivo, e al lavoratore il diritto a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. Libertà, dignità, diritto al lavoro.

Se non si riparte da questi principi, è difficile pensare a un futuro migliore per l’Italia. (Beh, buona giornata).

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business Cinema Cultura Marketing Media e tecnologia Popoli e politiche

L’eccezione culturale e la strategia cinematografica del Festival di Cannes.

di Riccardo Tavani.

Uno dei temi di scontro tra gli Usa e gli Stati europei resta la cosiddetta “eccezione culturale”(*) sul cinema e sui prodotti audiovisivi. Le major americane del settore vogliono una completa liberalizzazione del mercato, mentre l’Europa – capofila la Francia – sostiene che la cultura non è una merce come le altre: è patrimonio stesso della Res publica, dello Stato e va dunque protetta e opportunamente incentivata. Gli Stati europei hanno ottenuto che il tema fosse stralciato da quelli all’ordine del giorno nel recente G8 irlandese. Obama, in considerevole difficoltà a causa del “data-gate”, lo scandalo dello spionaggio capillare sull’intero traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani, non ha per il momento voluto aprire le ostilità sul tema, ma la partita e’ solo rimandata. Gli Usa – come ha paventato anche Romano Prodi – potrebbero, per ritorsione, sollevare anche essi una loro specifica e magari economicamente più pesante “eccezione”, ad esempio sull’agricoltura. Anche il ministro italiano Bray si e’ schierato per l’eccezione francese, mentre all’interno del Governo non tutti sono sulla sua posizione.

Per capire perché la Francia sia quella più determinata su questo punto, basterebbe guardare ai film del Festival di Cannes che in queste giornate si sono visti in rassegna a Milano e a Roma.

La manifestazione alla Croisette non è semplicemente una “mostra’ dell’arte cinematografica, come Venezia e Berlino. E’ anche questo ma soprattutto l’espressione dell’intervento produttivo e culturale francese sulle cinematografie di quasi tutto il mondo, quelle economicamente più deboli in particolare. Cannes solca come una vera e propria portaerei produttiva i mari di tutto il mondo, pasturando di capitali per il cinema quelle acque, per trainarne poi in patria i risultati migliori. La grande maggioranza delle pellicole presentate a Cannes sono frutto della coproduzione francese nel mondo. Tra queste anche le nostre “La grande Bellezza” e “Salvo”. La prima non e’ stata degnata di alcun riconoscimento, mentre la seconda e’ meritatamente onorata di un “Gran Premio” e di una “Menzione Speciale”, in proporzione – sembrerebbe – proprio alla quantità e qualità dell’intervento francese.

Il film vincitore del Festival è “La vie d’Adele” del franco tunisino Abdel Kechiche, della non giustificata durata di tre ore. Una pellicola, dunque, dal sapore pienamente europeo, francese, ma co-prodotta anche con inglesi e americani. E’ la formazione erotico-sentimentale in versione lesbo di una liceale con una ambiziosa universitaria e pittrice, più tesa al successo e alla sua stabilita quotidiana che all’amore con una ragazzina non del suo côté.

Una vittoria forse già in qualche modo “instradata” dalla direzione strategica di Cannes. Moltissime sono state le pellicole “seminate” e poi scelte per questa edizione che vedono come protagonisti non solo i giovani ma addirittura gli adolescenti. Una scelta che ha tutto il sapore di un investimento strategico-globale, di egemonia culturale e produttivo di lungo respiro, che forse ha qualcosa a che fare proprio con la “eccezione culturale” e lo scontro con le major americane. (Beh, buona giornata).

(*) Cosa è l’eccezione culturale? (di R.T.)

Steven Spielberg, presidente della giuria all'ultimo Festival di Cannes
Steven Spielberg, presidente della giuria all’ultimo Festival di Cannes

L’eccezione culturale è una politica che consiste nel tenere la produzione culturale al di fuori delle leggi di mercato. Essa permette agli Stati di mettere in atto dei meccanismi di aiuto e sostegno alla loro cultura, sotto forma di sovvenzioni come gli aiuti all’industria cinematografica e più generalmente ad ogni forma di opera creativa. Ma questo può anche concretarsi nell’applicazione di quote di diffusione cioè imporre per legge che un certo numero di opere diffuse per radio o televisione siano prodotte in Europa. All’epoca gli americani volevano inserire la questione della proprietà intellettuale nel commercio internazionale, ma l’Unione europea si oppose. Per gli USA la cultura è un prodotto come gli altri che non può essere sovvenzionato.

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Attualità Cinema Politica Società e costume

La ministra, la santa e la leghista.

di Riccardo Tavani

Dolly Velandro, la leghista che ha elevato una così commossa invocazione al cielo, affinché mandi in terra un angelo giustiziere, nelle sembianze di uno stupratore della ministra Cécile Kyenge, ha immediatamente precisato di non essere una persona “cattiva”. No, e come si potrebbe soltanto sospettarlo?! Anzi, al cielo invocato lei indubbiamente salirà come una santa! Una santa figlia che, considerata la fede-idea fissa della sua anima e missione, non potrà che somigliare a Santa Maria Goretti, la martire della palude pontina, concupita e uccisa non da un bruto bracciante foresto, ma dal figlio del più intimo amico di famiglia.

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Attualità democrazia libertà, informazione, pluralismo, Movimenti politici e sociali

Cose turche: un video girato dai manifestanti a piazza Taksim.

di Riccardo Tavani

Turchia contro l'arroganza del potere.
Turchia contro l’arroganza del potere.

Ecco un contributo in video, direttamente a Istanbul, realizzato dai manifestanti.
Ogni tanto qualche piazza del mondo si accende e brilla su tutto il pianeta come una stella della speranza nel cielo della sera. Subito accorrono i troni e i loro stregoni a spegnerla, occultarla, affinché i cuori dei giovani, anche degli altri popoli e delle altre metropoli, non si aprano alla sua struggente bellezza.

E i cuori dei vecchi rimangano il polveroso campo di selce di un falso destino di rimpianto e tristezza. Saluti da Piazza Taksim, Istanbul, Europa.
(A chi impasta di stelle quelle piazze, beh, buona giornata).

http://www.youtube.com/watch?v=T91ve_KTTgM

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Cinema Cultura Società e costume

Roma alla ricerca della sua “grande bellezza” perduta.

Lo schermo cinematografico come velo della bellezza e sedimento della memoria. Un flaneur dell’apparenza sul filo narrativo-filosofico di Proust e Benjamin.

Un punto di vista filosofico su "La grande bellezza" di Sorrentino.
Un punto di vista filosofico su “La grande bellezza” di Sorrentino.
Una scena di "La grande bellezza":
Una scena di “La grande bellezza”:

di Riccardo Tavani

Nel suo saggio sulle Affinità Elettive di Goethe, Walter Benjamin scrive che la bellezza è inseparabile dall’apparenza. Il termine apparenza va qui inteso nel suo senso etimologico e filosofico più profondamente originario, ossia del rendersi manifesto, del presentarsi di qualcosa allo sguardo. L’apparenza è così una sorta di velo che si offre come mezzo diafano sul quale la bellezza si proietta, rendendosi così visibile, ma che allo stesso tempo la cela, per custodirne il segreto inespresso e mai del tutto esprimibile. In questo senso niente come la pellicola e lo schermo cinematografico si offrono in tutta la storia dell’Occidente come quel velo primordiale che manifesta e cela al tempo stesso la bellezza nella sua vibrazione più intensa e struggente. Ciò vale anche per il film di Paolo Sorrentino, ma certamente non solo perché il tema della Grande bellezza è già inciso nel titolo.

Questa pellicola, però, è segnata anche da un significato oggi più in uso dell’apparire, ovvero quello del voler sembrare, dare l’impressione, prevalentemente, se non completamente, volgarmente ingannevole, falsa. Fin dalle prime scene si mostra il tema della bellezza di Roma, città eterna, accanto alla triviale apparenza umana. Vorremo anche notare che il titolo del romanzo giovanile scritto da Jep Gambardella, il protagonista della vicenda, è L’apparato umano. Il sostantivo apparato non ha una radice etimologica lontana da quella di apparenza, tanto che originariamente apparato è l’insieme di addobbi, ornamenti, paramenti che servono a fare da involucro e sfondo alle feste – sacrali o profane che siano – e agli spettacoli in genere. In termini propriamente sceno-tecnici l’Apparato è il complesso delle scene, dei vestiari, delle comparse, con il quale si rappresenta un’opera o un ballo a teatro: la mise-en-scène dei Francesi.

Siamo proprio al centro della scena di questo film: l’ammasso rutilante, ributtante, ridicolo e pietoso insieme, di personaggi e comparse che ruota attorno al raffinato napoletano, trapiantato Roma, Jep Gambardella, magistralmente interpretato da Toni Servillo. Re delle feste e delle prestigiose terrazze romane, Jep percorre le vie e le situazioni notturne della città come quel flaneur baudeleriano, descritto proprio da Walter Benjamin nei suoi Passagen su Parigi.

Lo spirito di Jep non è però tanto quello di chi deambula attentamente distratto per le strade e le ombre della città, lasciandosi assorbire dai sui fracassi e dai suoi silenzi. No, l’animo di Jep è quello di un flaneur completamente disincantato, ironicamente agrodolce e feroce. Beve un certo numero cocktail fino all’alba, ma non tanti da stordirsi del tutto e perdere la coscienza critica. Lui solca il suo film, come Marcel Proust attraversa la sterminata tessitura della sua Recherche, descrivendo luoghi, volti, modi, mode, smorfie, linguaggi, flatulenze, singhiozzi e sberleffi. E la pellicola è contrappuntata da alcune peculiari citazioni proustiane.

“Jep, perché non hai più scritto nessun romanzo celebrity pokies, eri davvero bravo?”, gli domandano continuamente. Lui, che ora fa il giornalista per una raffinata rivista culturale, una volta, all’improvviso, risponde: “Io cercavo la bellezza”. La bellezza non c’è più, muore attorno a lui. Il suo amico, aspirante scrittore, Romano non riesce ad afferrarla, né quella fisica di una donna che gli piace, o di Roma che parimenti lo respinge, né nei suoi tentativi di scrittura per il teatro. Ramona, che Jep incontra in un nigth di Via Veneto, è l’emblema della bellezza che gli si spegne tra le braccia, senza neanche poter fare più l’amore.

La bellezza, per lui ora sessantacinquenne, è rimasta Elisa, quella lontana ragazza, innamorata di lui, ma che poi lo ha lasciato, con la quale si scambiavano sguardi intensamente perduti sugli scogli di Capri. Lei, una volta, gli si svela, nella luce sul mare da cui sorge Venere e, come una vera dea, senza mai dirgli neanche una parola. Gli mostra la sua nudità, si toglie la camicetta, il velo della bellezza, poi fa un passo indietro sullo scoglio e sparisce, ovvero, senza una ragione, un perché non appare mai più nella sua vita. Ora la notizia della sua morte lo precipita di nuovo nell’enigma, nel segreto di quel remoto ricordo, del suo amore, custoditi, come per l’Ottilia delle Affinità Elettive, in un diario per sempre muto.

“Solo il ricordo dà all’amore la sua anima”, scrive Benjamin. La bellezza – per parafrasare una celebre espressione del suo amico Theodor Adorno sulla forma artistica– è memoria sedimentata. Il soffitto della camera da letto diventa per lui lo schermo cinematografico, dalla cui impercettibile increspatura riaffiorano le immagini silenziose del mare e della sua giovane, inafferrabile dea.

Schermo, velo, pellicola, sedimento: non è solo una delle tante, possibili storie del presente che si mette nella forma d’arte peculiare del cinema per raccontare e veicolare un senso. È anche il cinema che assume le sembianze di un racconto d’oggi per parlare di sé, dell’apparenza, del trucco, del non senso che gli sono propri. Il vero cinema, parlando della vita, è sempre anche una metafora velata di se stesso. E il film di Sorrentino riesce bene a ri-velare questo suo imprescindibile aspetto.

Sotto le stelle di Caracalla, Jep, come il Gattopardo nel film di Visconti, sente che l’ombra tra le antiche rovine è soffice di morte. Vorrebbe sparire, come in un trucco tipico del cinema, tra quelle mura, pregne del bello in ogni loro sacro, corroso poro. La stella della sera, però, ci dice sempre Benjamin, è anche quella della speranza, di una pur fragile possibilità di riscatto, di una debole forza messianica, che offriamo al passato e a chi in esso è rimasto ammutolito.

Così, proprio come il Marcel della Ricerca del tempo perduto, Jep termina il filo narrativo dei suoi smarriti passagen attraverso l’eterna, grande bellezza di Roma, affermando che ora può cominciare a scrivere il suo romanzo. Romanzo che, esattamente come in Proust, altro non è che quello appena finito di scorrere sotto i nostri occhi di lettori o di spettatori.
(Beh, buona giornata).

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