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Finanza - Economia Lavoro

Gli operai della Fiat di Termini Imerese sono catastrofisti?

Termini è sola di Loris Campetti-Il Manifesto

L’editto con cui Berlusconi ordina ai sudditi l’ottimismo per superare la crisi richiama, più che la parola d’ordine di Mike Bongiorno ai tempi in cui il Cavaliere non gli aveva ancora dato il benservito (Allegria!), la canzone di Dario Fo “Ho visto un re”: “Perché noi allegri dobbiam restare/ ché il nostro piangere fa male al re/ fa male al ricco e al cardinale/ diventan tristi se noi piangiam”. I poveracci a cui i potenti hanno tolto il poco che avevano devono essere ottimisti sulle capacità demiurgiche del Re. Ridi dunque, o taci, stai al gioco o sei un disfattista. Sarà difficile che Berlusconi riesca a convincere gli operai di Termini Imerese a starsene buoni, a essere fiduciosi perché la crisi non c’è. Neanche portando ballerine, hostess e escort nella piazza grande del paese riuscirebbe a strappare il sorriso a quelle tute blu che vedono nero e non sono disposti a scomparire in silenzio. Ma se chiude la fabbrica di automobili, ci fa sapere Marchionne sorretto dal consenso, dalla subalternità o dal disinteresse della politica, non c’è problema: ci sarà una bella riconversione. Mica si può vivere di sole automobili. Già, ma che faranno quei 2.200 lavoratori che dipendono direttamente o indirettamente dalla Fiat? Arancini? E per conto di chi?

Il governo italiano si vanta di non aver messo becco sulle scelte della Fiat, per lasciar lavorare il Grande Timoniere. Mentre i governi di tutti i paesi in cui si producono auto intervengono sulle scelte strategiche e mettono mano al portafogli imponendo in cambio vincoli sociali e ambientali, il nostro governo non disturba il manovratore. Così ha buon gioco San Marchionne – a cui vanno riconosciuti coraggio, creatività e intelligenza economica – a evitare confronti sindacali e compromessi sociali, limitandosi a snocciolare le sue categorie: c’è la crisi – lui può dirlo, i suoi operai no – e si fanno troppe automobili. Dovendo tagliare è facile individuare l’agnello sacrificale. E’ Termini Imerese, cattedrale industriale nel deserto geografico e infrastrutturale di Sicilia, dove costa più che altrove produrre e trasportare le vetture. Non fa una piega.
Eppure di pieghe ce ne sono, e molte. Sono 2.200. Nessuno prova a spiegare loro che altro dovrebbero fare invece di assemblare automobili. Nessuno che ricordi che a fronte di un dipendente Fiat coperto, finché durerà la cassa integrazione, dagli ammortizzatori sociali, ce ne sono molti altri totalmente privi di sostegni, dunque espropriati di qualsiasi futuro lavorativo.

Si parla di Termini per parlare di tutta l’industria automobilistica nazionale. Un milione di persone lavora in Italia nel ciclo dell’auto. E il governo, liberale com’è in un mondo in cui si nazionalizzano anche le banche, non mette becco, non disturba. L’opposizione tace, pensando chi al prossimo congresso e chi alle prossime liste elettorali. E del lavoro chi se ne frega. Poi ci si chiede perché il voto operaio è in fuga.
L’autunno che verrà non sarà segnato da cori di osanna al Re.
Perciò destre e governo lavorano alla rottura del sindacato e all’isolamento dei “disfattisti”, togliendo alle opposizioni sociali il diritto di parola e di protesta. Varata con un accordo separato la controriforma dei contratti senza neanche chiedere il parere agli interessati, ora il blocco di potere che riscrive le regole della convivenza lavora a spaccare i metalmeccanici, isolando e criminalizzando la Fiom che non accetta di diventare complice e ostaggio di quel blocco di potere. Ma le lotte di oggi degli operai di Termini Imerese e quelle di pochi giorni fa di Pomigliano d’Arco annunciano sorprese a molti inguaribili ottimisti e ai loro lacché. Non lasciamoli soli. Gli operai, non gli ottimisti e i lacché. (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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