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L’euro brucia?

(fonte: repubblica.it)

Le “banche preparano un piano di emergenza per il crollo dell’euro”. E’ questo lo scenario descritto in un editoriale di The New York Times. “Al crescente coro di osservatori che teme che il crollo dell’eurozona sia a portata di mano, Angela Merkel ha risposto a chiare lettere: è uno scenario che non potrà mai verificarsi. Ma alcune banche non ne sono più così sicure” si legge nell’editoriale. “In particolare – continua – perchè la crisi del debito sovrano ha minacciato di investire la stessa Germania questa settimana, quando gli investitori hanno iniziato a mettere in dubbio il rango di principale pilastro della stabilità europea del Paese”.

“Ieri, Standard & Poor’s – ricorda Nyt – ha ridimensionato il rating del Belgio da AA+ ad AA, evidenziandone l’impossibilità di ridurre in tempi rapidi il fardello del debito. Le agenzie di rating hanno inoltre avvertito che la Francia potrebbe perdere il suo rating AAA se le proporzioni della crisi aumentassero. Giovedì erano inoltre stati abbassati i rating di Portogallo e Ungheria, accostati a spazzatura. Mentre i leader europei sostengono che non ci sia ancora bisogno di approntare un piano B, alcune delle principali banche mondiali, ed i loro supervisori, stanno predisponendo proprio questo”.

“Non possiamo essere, e non lo siamo, compiacenti su questo fronte”, ha affermato Andrew Bailey, funzionario dell’Autorità dei Servizi Finanziari della Gran Bretagna. “Non dobbiamo ignorare la prospettiva di un allontanamento disordinato di alcuni Paesi dall’eurozona” ha aggiunto.

“Banche come Merrill Lynch, Barclays Capital e Nomura – continua l’editoriale de The New York Times – hanno diffuso una cascata di rapporti questa settimana che esaminano la possibilità di un crollo dell’eurozona”. “La crisi finanziaria dell’eurozona è entrata in una fase ben più pericolosa” hanno scritto venerdì gli analisti della Nomura. “A meno che la Banca Centrale Europea intervenga per aiutare dove i politici hanno fallito, un collasso dell’euro al momento sembra più probabile che possibile” ha detto la banca.

“I principali istituti finanziari britannici, come Royal Bank of Scotland, stanno predisponendo piani di emergenza nel caso l’impensabile viri verso la realtà, hanno indicato i loro supervisori giovedì”, riporta ancora l’editoriale di Nyt. “Le authority degli Stati Uniti -c ontinua ancora l’editoriale – stanno incalzando le banche americane come Citigroup ed altri istituti, a ridurre l’esposizione verso l’eurozona. In Asia, le autorità di Hong Kong hanno intensificato il monitoraggio dell’esposizione delle banche straniere e nazionali alla luce della crisi europea”.

“Ma le banche dei grandi paesi dell’eurozona che solo recentemente sono stati infettati dalla crisi non sembrano essere così agitate. Banche in Francia e Italia in particolare, – si legge ancora nell’editoriale de The New York Times – non starebbero creando piani di backup, affermano i banchieri, per la semplice ragione che essi hanno concluso che è impossibile che l’euro possa crollare. Sebbene banche come Bnp Paribas, Sociètè Gènèrale, UniCredit ed altre hanno recentemente scaricato decine di miliardi di euro di debito sovrano europeo, il pensiero è che ci sono pochi motivi per fare di più”. “Mentre negli Stati Uniti vi è chiaramente una visione che l’Europa può naufragare, qui, crediamo che l’Europa deve rimanere così com’è” ha detto un banchiere francese, riassumendo il pensiero delle banche francesi.

“Così nessuno dice, Abbiamo bisogno di un ripiego” ha detto il banchiere, che non era autorizzato a parlare pubblicamente”. “Quando Intesa Sanpaolo, la seconda banca più grande d’Italia, ha valutato diverse situazioni in preparazione per il suo piano strategico 2011-13 a marzo scorso, nessuna – continua l’editoriale – si basava sul possibile crollo dell’euro”, e “anche se la situazione si è evoluta, non abbiamo rivisto il nostro scenario per tenere conto di questo” ha detto Andrea Beltratti, presidente del consiglio di amministrazione della banca” si legge ancora su The New York Times.

“Mr. Beltratti – prosegue il giornale – ha detto che le banche sarebbero le ‘prime del branco’ in caso di nervosismo crescente sull’euro, e che Intesa Sanpaolo è stata “molto attenta” dal punto di vista della liquidità e del capitale. Nella tarda primavera, la banca ha alzato il suo capitale da cinque miliardi di euro, uno dei maggiori incrementi in Europa”.

“Mr. Beltratti – riferisce ancora l’editoriale – ha detto che l’Italia, come l’Unione europea, potrebbe adottare una serie di misure politiche che potrebbero tenere a bada la crisi della moneta unica. Io certamente mi sentivo più sicuro pochi mesi fa, ma mi sento ancora ottimista”. “I leader europei di questa settimana hanno dichiarato di essere più determinati che mai a mantenere la moneta unica in vita, specialmente con le elezioni più importanti che si profilano in Francia l’anno prossimo ed in Germania nel 2013. Se non altro, – conclude l’editoriale – la signora Merkel ha detto che avrebbe raddoppiato i suoi sforzi per spingere l’Unione verso una maggiore unità fiscale e politica”.
(beh, buona giornata)

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Finanza - Economia

“Obama si conferma come il “quarto uomo” o arbitro fuori campo che contribuisce alla cabina di regìa dell’Unione europea.”

Perché Wall Street si scopre euro-entusiasta-http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog

Nelle prime reazioni di mercati, politici ed esperti Usa al piano europeo. quasi tutte positive, traspare l’idea che lo scatto di decisionismo dell’Eurozona è per molti aspetti “made in Usa”:

1) Gli americani vedono nel combinato tra il maxifondo Ue da 700 miliardi e l’intervento della Bce ad acquistare titoli di Stato una replica perfetta del loro “piano Tarp”: il fondo da 700 miliardi (di dollari) che nell’ottobre 2008 l’allora ministro del Tesoro Paulson fece approvare al Congresso con il decisivo aiuto esterno di Obama (allora candidato). Perciò qui battezzano il piano europeo “Le Tarp”, aggiungendoci un tocco francese. Naturalmente il Tarp serviva a salvare dalla bancarotta la finanza privata, “Le Tarp” deve salvare dalla bancarotta gli Stati sovrani.

2) Il piano Paulson traduceva nel campo della finanza la “dottrina Powell”: in guerra devi andarci solo quando puoi mettere in campo forze smisuratamente superiori all’avversario. Quindi per impressionare i mercati niente mezze misure.

3) Il piano Paulson ottenne l’obiettivo immediato (il collasso del sistema bancario è stato evitato) però ha lasciato in eredità all’America problemi enormi di deficit, debito.

4) Lo stesso vale per il parallelo tra la Bce e la Fed. Anche la banca centrale americana fu costretta a una serie di strappi alle regole, interventi inusuali per dare liquidità alle banche ed anche comprare titoli di Stato Usa. Le resta in eredità una politica monetaria “drogata” che in futuro può rilanciare l’inflazione. Per gli americani il piano europeo ha le stesse caratteristiche: efficacia immediata, rinvio del conto da pagare.

5) Infine Obama si conferma come il “quarto uomo” o arbitro fuori campo che contribuisce alla cabina di regìa dell’Unione europea: ancora domenica si sono segnalate le sue telefonate a Merkel e Sarkozy. Ormai sembra quasi normale che un presidente americano intervenga regolarmente nel corso dei vertici europei per “aiutarli” a raggiungere il risultato desiderato.
(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

Fiat-Opel, Marchionne scopre difficoltà politiche: “Forse ci avrebbe pensato prima, se non fosse stato un po’ troppo coccolato dal silenzio e dalla acquiescenza di politici e sindacati italiani. Morale, la mancanza di dissenso fa male, non solo alla democrazia. Fa proprio male e basta.”

Fiat, Opel e l’auto europea. Una occasione perduta sul calcolo elettorale
di Marco Benedetto-blitzquotidiano.it

Sergio Marchionne, dopo avere risollevato la Fiat dall’abisso in cui era precipitata alcuni anni fa (come sempre la sconfitta è orfana) ha giocato due carte ambiziose e coerenti con un ragionamento strategico semplice e fondamentale: un’azienda che produce poco più di un milione di auto all’anno e perde quote di anche nel suo mercato di casa non può andare molto distante.

L’idea non è nuova, perché la perseguì il grande risanatore (in condizioni politico – ambientali molto peggiori di Marchionne) della Fiat, Vittorio Ghidella. Quella volta il discorso era con la Ford. Finì male, per le divergenze tra i vertici della Fiat che si manifestarono allora. Ma il concetto è sempre quello.

Marchionne ha giocato con coraggio, abilità e una durezza poco italiane. Con una carta, quella americana, ha vinto; con l’altra, quella tedesca, appare di ora in ora sempre meno probabile che ce la faccia. Lo stesso Marchionne ha cominciato realisticamente a ricooscere le difficoltà del percorso che ha davanti.

Non c’è nulla che sorprenda nella divergente evoluzione sui due lati dell’Atlantico, anzi, in un certo senso, sono speculari nelle ragioni che ne sono alla base. In entrmbi i casi, c’è da dire, che i governi americano e tedesco hanno agito secondo una pura logica elettorale, del tipo: navigazione a vista, senza alcun riguardo per l’interesse di più lungo respiro dell’industria dell’auto nei due continenti.

Il presidente americano Barack Obama ha scelto Fiat come partner per Chrysler per le stesse ragioni per le quali qalla fine i politici tedeschi sceglieranno Magna: perchè le due scelte sono quelle che costano meno in termini occupazionali. Obama include nella sua base elettorale i lavoratori dell’auto, che si era parzialmente alienato all’inizio della vicenda General Motors e Chrysler per l’approccio troppo in stile Wall Street dei suoi interventi pubblici in materia. La logica industriale, l’interesse di lungo periodo dell’America portavano a una fusione tra GM e Chrysler, con la nascita di un gigante americano capace di competere da pari con i giapponesi. Ha scelto gli italiani, perché limitate, al di là dei discorsi, sono le sinergie possibili, soprattutto quelle che possono portare a tagli di occupazione a Detroit e dintorni. Questo in futuro potrebbe portare a interrogarsi, parlando in italiano, sulla convenienza per Fiat dell’operazione senza gli altri elementi del puzzle disegnato da Marchionne.

Obama avrebbe forse potuto seguire un’altra linea, quella di compensare i tagli all’occupazione derivanti dal colosso dell’auto all- american con interventi di aiuto sociale, versione americana della casaa integrazione o del prepensionamento. Ci sono i precedenti. Quando agli inizi degli anni ‘80 i giornali passarono alle nuove tecnologie di composizione “a freddo”, ottennero il consenso alla drastica riduzione di organici che ne conseguiva garantendo l’impiego a vita ai lavoratori in esubero. Ma i giornali lo fecero con i propri denari, scommettendo sullo sviluppo che ne sarebbe venuto.

L’industria dell’auto americana, però, è in fallimento e non può quindi finanziare garanzie ai lavoratori; né lo può lo Stato, perché i soldi, e sono tanti, servono anche per altre emergenze e l’emergenza più grossa, secondo il governo americano, è garantire la salvezza del sistema bancario. Di qui la necessità per Obama di trovare qualcuno che, per un complesso di ragioni, anche industrali, potesse prestarsi al gioco.

Le stesse identiche ragioni sono quelle che muovono Angela Merkel, cancelliere tedesco, e i suoi colleghi, di destra come di sinistra. La crisi è profonda, c’è da rimettere in moto tutta l’industria tedesca, a cominciare dall’ex Germania dell’est che è un po’ come il Meridione per l’Italia del dopoguerra, non ci sono soldi per garantire il posto di lavoro ai lavoratori dell’auto, che sono certamente una minioranza privilegiata nella classe operaia tedesca. Con l’aggravante che, mentre Obama è di sinistra e interventi di tipo sociale possono trovare collocazione nella sua ideologia, la Merkel è anche di destra e fin dall’inizio della crisi Opel, mesi fa, ha sempre detto che a salvare la casa automobilistica non ci pensava nemmeno (salvare la Opel con intervento pubblico avrebbe avuto poi un’altra conseguenza: quella di aiutare un azionista americano, essendo Opel posseduta da GM).

Nel caso di Opel, la strada proposta da Marchionne era quella giusta, se si voleva ragionare in termini di interesse europeo complessivo: sarebbe nato un colossetto dell’auto, che avrebbe fatto fare ad entrambe le case quel salto di dimensione di cui hanno disperatamente bisogno). Certo ci sarebbero stati forti tagli all’occupazione e infatti i primi in Germania a schierarsi contro la proposta Fiat sono stati i sindacati.

Poi i dubbi hanno guadagnato momento in Italia come in Germania. Data la situazione delle finanze pubbliche dei due paesi, non si poteva nemmeno pensare, non parlare, di contributi o interventi sociali. E poi ci sono le elezioni: e non a caso ai sindacati tedeschi si sono accodati i politici, in Germania tutti, in Italia quelli al governo. Finalmente anche i sindacati italiani, prima troppo impegnati a fare politica e a scimmiottare Berlusconi sul palcoscenico dell’Abruzzo, hanno parlato.

E qui viene una considerazione: senza volere ridurre il valore di Marchionne, nessuno che fosse in età adulta e consapevole negli anni di piombo, prima della svolta impressa alla Fiat e all’Italia dalla gestione di Ghidella, può ignorare le diverse condizioni ambientali in cui operò il management Fiat negli anni ‘70 e quelle in cui opera adesso (vero è che nei vent’anni dopo Ghidella, pur operando in una condizione di strapotere rispetto al sindacato, la gestione della Fiat non impedì che l’azienda scivolasse nel precipizio).

In Italia, però, la posizione di politici e sindacati può essere solo difensiva. Il pallino in mano ce l’hanno i tedeschi: il Governo centrale, le varie regioni che pesano molto più che da noi, essendo la Germania un vero stato federale fin dal 1870, e i sindacati, il cui peso è maggiore che in Italia perché sono organici alla gestione delle imprese.

E qui entra in scena Magna, l’alternativa a Fiat: è un’azienda di componentistica, non produce auto, le sinergie possibili sono minime. Ai politici interessa il consenso, perché il consenso si traduce in voti; e i politici tedeschi non fanno eccezione. La loro scelta era scritta nel muro. Marchionne ha combattuto a testa bassa, con la determinazione di chi crede, con ragione, alla bontà del suo progetto. Ma venerdì sera ha cominciato a guardare in faccia la realtà, riconoscendo che si tratta di una partita complessa e che in Germania ci sono le elezioni, che possono influire sulle scelte. L’onestà di queste parole fa onore a Marchionne. Forse ci avrebbe pensato prima, se non fosse stato un po’ troppo coccolato dal silenzio e dalla acquiescenza di politici e sindacati italiani. Morale, la mancanza di dissenso fa male, non solo alla democrazia. Fa proprio male e basta. (Beh, buona giornata).

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