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Dopo i costi della crisi, ci tocca pagare i costi della speculazione.

I COSTI DEL CAPITALISMO LI PAGHINO QUELLI CHE LI STANNO PRODUCENDO, NON I LAVORATORI!
Sulla Grecia ci stanno truffando-paoloferrero.it

La vicenda della crisi greca è un esempio da manuale di una grande truffa in cui la speculazione guadagna e i lavoratori pagano. I giornali dicono che i governi europei stanno lottando contro gli speculatori e i mercati finanziari per difendere l’Euro. Si tratta di una balla colossale. In realtà i governi e i mercati finanziari stanno tutti dalla stessa parte contro i lavoratori. Vediamo perché:

In seguito all’attacco fatto dagli speculatori alla Grecia, i governi europei hanno dato un prestito alla Grecia condizionato al fatto che in Grecia si taglino i salari, le pensioni, lo stato sociale. Il governo Greco, con i soldi del prestito pagherà gli interessi sul suo debito a Banche e speculatori, interessi che sono aumentati a causa dell’attacco speculativo. Il governo Greco restituirà i soldi del prestito ai governi europei grazie ai sacrifici imposti ai lavoratori greci. In pratica i soldi del prestito vanno a banche e speculatori e quei soldi li mettono i lavoratori greci.

Dopo la Grecia, i governi europei hanno stanziato 600 miliardi di euro per far fronte ad eventuali speculazioni verso altri paesi e le borse hanno festeggiato crescendo del 10%. E’ evidente che gli speculatori fanno bene a festeggiare perché questo vuol dire che dopo aver guadagnato sulla Grecia, adesso potranno ripetere l’offensiva su altri paesi avendo a disposizione 600 miliardi su cui fare affari. Dappertutto si ripeterà lo stesso scenario: attacco speculativo su un paese per volta (Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia o Gran Bretagna), richiesta di pesanti sacrifici ai lavoratori per poter accedere al prestito europeo e conseguente versamento del prestito nelle tasche delle banche e degli speculatori. Si tratta di una truffa colossale che pagheranno innanzitutto i lavoratori dei paesi sottoposti ad attacchi speculativi, ma che avrà effetti negativi sui lavoratori di tutti i paesi. Infatti se si peggiorano le condizioni di lavoro in un paese queste si diffondono anche negli altri.

Ci sono soluzioni alternative: certo!

1) Il modo più semplice per bloccar questo gioco al massacro sulle spalle dei lavoratori è che la Banca Centrale Europea, quando un paese è sottoposto ad un attacco speculativo, intervenga immediatamente e senza condizioni ad acquistare i titoli di stato di quel paese. In questo modo l’attacco speculativo risulta inefficace, gli speculatori ci perdono e i lavoratori non devono fare nessun sacrificio per ingrassare i banchieri.
2) L’immediata rottura di ogni rapporto con i paradisi fiscali.
3) L’immediata nazionalizzazione degli istituti bancari di rilevanza nazionale che sono risultati impegnati in attività speculative
4) L’immediata modifica del Trattato di Maastricht, sostituendo le politiche restrittive di bilancio, alibi usato per tagliare servizi sociali e pensioni, distruggere diritti dei lavoratori, precarizzare il lavoro, con politiche finalizzate a redistribuire la ricchezza e a creare posti di lavoro, attraverso la riconversione ambientale dell’economia e la riduzione dell’orario di lavoro.

Per questo ci opponiamo a questo piano europeo approvato dal governo Berlusconi e chiediamo ai sindacati di costruire la mobilitazione. Occorre bloccare questo nuovo attacco ai lavoratori e ai pensionati che oggi avviene in Grecia e domani in Italia. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia

Come fa chi ha provocato la crisi a farci uscire dalla crisi? Semplice: ci tolgono i soldi dalle tasche, ci tolgono il futuro del futuro dei figli. E’ il neo-liberismo, bellezza!

E’ cominciata: tutta l’Europa per sopravvivere “mette le mani nelle tasche” dei suoi cittadini-blitzquotidiano.it

Piaccia o no ai governi dei singoli Stati, l’Europa per sopravvivere e non fare bancarotta “metterà le mani nelle tasche” di greci, spagnoli, portoghesi, francesi, tedeschi, inglesi, italiani…I governi di tutta Europa se lo sono reciprocamente promesso, non avevano alternative. Si sono però “dimenticati” di dirlo con chiarezza ai rispettivi governati. Per questa “omissione” hanno una sola robusta ma insufficiente attenuante: i cittadini di ogni paese fanno fatica a capire prima ancora che a digerire. E quindi, poichè non c’è “miglior sordo di chi non vuol sentire”, i governi mormorano, borbottano ma non parlano chiaro. Ogni giorni i cittadini d’Europa leggono o sentono in tv: 700 e passa miliardi stanziati come scudo per la crisi finanziaria. Oppure: la Bce compra i titoli di Stato dei paesi in forte deficit. I cittadini leggono, sentono e archiviano il letto e il sentito nel “cestino” di ciò che non li riguarda direttamente, di ciò che non tocca le loro tasche. I cittadini pensano, ostinatamente vogliono pensare che quei miliardi e quei soldi siano soldi di “altri”, soldi degli Stati e delle Banche Centrali. Così non è, presto i cittadini d’Europa vedranno che sono soldi “loro” perchè i soldi degli “altri” non esistono se non nella fantasia.

E’ fresca d’inchiostro la nuova ipotesi di “Patto economico” elaborata dalla Commissione Europea che i governi nazionali dovranno sottoscrivere la prossima settimana. C’è scritto che bisogna “prevenire” i casi di eccessivo defcit e debito pubblici. Che tutti i paesi devono sottostare ad esame e verifiche semestrali di quanto spendono, che chi sfora incassa “sanzioni automatiche”, che le sanzioni sono di fatto multe in denaro che finiscono in “depositi fruttiferi” che i songoli governi non amministrano più. C’è scritto insomma che la politica economica e finanziaria dei singoli paesi deve essere “coerente” con quella di tutti gli altri Stati. C’è scritto che italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, portoghesi, greci e tutti gli altri devono reciprocamente rendersi conto di come spendono i loro euro. Diminuzione di sovranità per ogni paese? Certamente sì. Ma, se non piace, Barroso, presidente della Commissione Europea, parla chiaro: “Se i governo non vogliono l’unione economica, tanto vale dimenticarsi dell’unione monetaria e rinunciarvi”. Se non piace, addio euro, ciascun per sè e dio per tutti. I paesi deboli svaluteranno la moneta e avranno la maxi inflazione, i paesi debolissimi avranno default e bancarotta, quelli forti si faranno male ma sopravviveranno.

Vale la pena di “tradurre” cosa significhi il nuovo “Patto economico”, quello senza il quale l’Europa si scioglie e l’euro si squaglia e ciascuno resta solo con i suoi debiti. Significa che entro il 2012/2013 tutti i paesi d’Europa devono avere un deficit annuo rispetto al Pil intorno al tre per cento (l’Italia è sopra il cinque, la Grecia intorno al 15, Gran Bretagna e Spagna intorno al dieci…). Significa anche che chi ha un debito pubblico pari o superiore al cento per cento del Pil, qui purtroppo l’Italia guida la classifica dei debitori, deve smetterla di accumulare debito. Deve smetterla se vuole che dei suoi debiti rispondano e siano garanti anche gli altri Stati, governi e cittadini europei.

In Spagna Zapatero ha già “tradotto”: meno cinque per cento di stipendio ai dipendenti pubblici. Ha “tradotto” a denti stretti Zapatero, ma non poteva non “tradurre”. “Traduzione” portoghese: meno sei per cento sugli stipendi pubblici e privatizzazione di grandi compagnie pubbliche, cioè meno soldi per i dipendenti e meno dipendenti. Traduzione francese: meno dieci per cento complerssivo della spesa pubblica, regola del pensioni due e assumi uno nella Pubblica amministrazione, cancellazione di 500 esenzioni e agevolazioni fiscali per le aziende private. Traduzione tedesca: addio al calo delle tasse promesso in campagna elettorale. Traduzione greca: via la tredicesima e la quattordicesima per i pubblici dipendenti, stipendi congelati per i dipendenti privati, aumento dell’Iva. La traduzione inglese ancora non c’è, Cameron si è appena insediato ma tutti sanno che i Conservatori taglieranno le spese per il Welfare britannico, nè i laburisti avrebbero potuto fare diversamente se avessero vinto le elezioni.

E la “traduzione” italiana qual è? Per ora suona come 26 miliardi di minor spesa in due anni, per ora. Due miliardi in meno tra Sanità e spesa farmaceutica, circa dieci miliardi in meno di spesa tra ministeri ed Enti locali, probabile blocco dei contratti, cioè niente aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici. E niente calo delle tasse, neanche a parlarne. Forse addirittura un rinvio del federalismo se federalismo dovesse significare maggior spesa immediata prima dei vantaggi futuri.

Tutti dunque “metteranno le mani nelle tasche” dei loro cittadini. E lo faranno perchè altrimenti quelle tasche si “sfondano” o restano piene di soldi svalutati o di debiti impossibili da garantire. Sarà dura, amara, inevitabile e sarà meglio di ogni possibile alternativa. Sarebbe anche meglio che ce lo dicessero, con coraggio politico e civile. Più ce lo nascondono e più allevano una reazione isterica delle pubbliche opinioni, quella reazione che vogliono evitare. (Beh, buona giornata).

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“Obama si conferma come il “quarto uomo” o arbitro fuori campo che contribuisce alla cabina di regìa dell’Unione europea.”

Perché Wall Street si scopre euro-entusiasta-http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog

Nelle prime reazioni di mercati, politici ed esperti Usa al piano europeo. quasi tutte positive, traspare l’idea che lo scatto di decisionismo dell’Eurozona è per molti aspetti “made in Usa”:

1) Gli americani vedono nel combinato tra il maxifondo Ue da 700 miliardi e l’intervento della Bce ad acquistare titoli di Stato una replica perfetta del loro “piano Tarp”: il fondo da 700 miliardi (di dollari) che nell’ottobre 2008 l’allora ministro del Tesoro Paulson fece approvare al Congresso con il decisivo aiuto esterno di Obama (allora candidato). Perciò qui battezzano il piano europeo “Le Tarp”, aggiungendoci un tocco francese. Naturalmente il Tarp serviva a salvare dalla bancarotta la finanza privata, “Le Tarp” deve salvare dalla bancarotta gli Stati sovrani.

2) Il piano Paulson traduceva nel campo della finanza la “dottrina Powell”: in guerra devi andarci solo quando puoi mettere in campo forze smisuratamente superiori all’avversario. Quindi per impressionare i mercati niente mezze misure.

3) Il piano Paulson ottenne l’obiettivo immediato (il collasso del sistema bancario è stato evitato) però ha lasciato in eredità all’America problemi enormi di deficit, debito.

4) Lo stesso vale per il parallelo tra la Bce e la Fed. Anche la banca centrale americana fu costretta a una serie di strappi alle regole, interventi inusuali per dare liquidità alle banche ed anche comprare titoli di Stato Usa. Le resta in eredità una politica monetaria “drogata” che in futuro può rilanciare l’inflazione. Per gli americani il piano europeo ha le stesse caratteristiche: efficacia immediata, rinvio del conto da pagare.

5) Infine Obama si conferma come il “quarto uomo” o arbitro fuori campo che contribuisce alla cabina di regìa dell’Unione europea: ancora domenica si sono segnalate le sue telefonate a Merkel e Sarkozy. Ormai sembra quasi normale che un presidente americano intervenga regolarmente nel corso dei vertici europei per “aiutarli” a raggiungere il risultato desiderato.
(Beh, buona giornata).

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Il maxi piano salva- euro e un piccolo pianista da piano bar.

Angela Merkel, una delle vere protagoniste del vertice di emergenza della Eu ha detto: “Il maxi-piano è necessario per garantire il futuro dell’euro. E’ necessario attaccare i problemi alla radice e combattere realmente le cause delle tensioni che pesano sulla moneta unica”.

Il ministro francese delle Finanze Cristine Lagarde ha evitato di attribuire meriti al proprio Paese: “Abbiamo serrato le file per salvare l’euro”.

“L’eurozona sta certamente riguadagnando fiducia. I nostri fondamentali sono buoni”, sostiene il presidente della commissione Ue, Jose Manuel Barroso.

Dopo il piano “la Bce si aspetta ora una politica di rigore nei bilanci pubblici dai governi europei”, ribadisce il presidente della Bce Jean Claude Trichet. “Per noi – ha spiegato riferendosi alla richiesta fatta dall’Ecofin a Spagna e Portogallo – questo impegno è stato assolutamente decisivo”. Silenzio sulla portata degli interventi: “E’ la Bce che decide”.

E poi, ecco il perepèperepè, paraponzi ponzi pù: “Un impulso fondamentale allo sblocco dei serrati negoziati sul piano di salvataggio dell’euro ieri all’Ecofin l’ha dato il presidente Berlusconi quando, poco prima dell’1 di notte, ha chiamato al telefono il cancelliere Merkel”, recita un comunicato di Palazzo Chigi. Pitipitù, pitipitù, paaaa! Meno male che Silvio c’é, come i supplì, al telefono. Beh, buona giornata.

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Che sta succedendo all’economia europea/9.

CRISI FISCALE, CONTAGIO E FUTURO DELL’EURO, di Marco Pagano-lavoce.info

Cerchiamo di capire il terremoto finanziario che sta scuotendo Eurolandia. Perché gli scenari paventati da giornali e televisione si stanno susseguendo in modo così tumultuoso che non è facile seguirne la logica. Crisi fiscale, contagio, collasso della moneta unica: potrebbe diventare uno tsunami ben peggiore di quello dei mutui subprime. Ma il modo per arginarlo c’è, rafforzando le strutture comunitarie e sovranazionali. Trasformando la crisi in un’occasione storica per l’Europa.

Crisi fiscale, contagio, collasso dell’euro … Cerchiamo di capire cosa sta succedendo, perché gli scenari paventati da giornali e televisione si stanno susseguendo in modo così tumultuoso che non è facile seguirne la logica. Invece è proprio in situazioni di emergenza come questa che è importante fare chiarezza, proprio per evitare che si realizzino gli scenari peggiori e individuare la via di uscita.
Punto primo. Quando uno stato sovrano accumula un livello molto elevato di debito, gli investitori cominciano a temere che esso non sia “sostenibile”, cioè che lo Stato non riuscirà a restuire capitale e interessi generando avanzi di bilancio in futuro (cioè un gettito fiscale superiore alla spesa pubblica). In questo caso, chiedono tassi di interesse maggiori per acquistare nuovo debito pubblico, poiché vogliono essere compensati per il rischio di insolvenza. Ciò in realtà aggrava il pericolo di insolvenza, perché appesantisce i conti pubblici, per cui alla fine arriva il momento in cui non c’è più un tasso di interesse capace di compensarli del rischio di insolvenza: allora essi smettono di sottoscrivere il debito pubblico. Questa è la crisi fiscale, e ha solo due esiti possibili, che fra l’altro non si escludono tra loro: 1) l’insolvenza da parte dello stato, con conseguente ristrutturazione del debito (come ha fatto l’Argentina); 2) la “monetizzazione” del debito, che viene acquistato dalla banca centrale immettendo moneta nell’economia e quindi causando inflazione e deprezzamento del tasso di cambio.

DALLA GRECIA ALL’ITALIA

Punto secondo. Nel caso della Grecia, la seconda strada – quella della monetizzazione – era esclusa dalla sua appartenenza all’area dell’euro: il governo greco non poteva imporre alla Banca centrale europea (Bce) di acquistare i propri titoli del debito pubblico, per cui la sola strada aperta era quella dell’insolvenza e della ristrutturazione del debito, a meno di non ottenere prestiti da altri paesi a tassi inferiori a quelli richiesti dal mercato. Ma perché i paesi dell’area dell’euro hanno deciso di fare questo sacrificio? Come si è visto in questi giorni, dopo non poche indecisioni lo hanno fatto soprattutto per timore del “contagio”. Ma cos’è questo contagio? Qui veniamo alla parte più interessante della storia.
Punto terzo: il contagio. Ammaestrati dalla crisi della Grecia, gli investitori hanno cominciato a sospettare che altri paesi con elevato debito pubblico – Portogallo, Spagna, Italia – possano trovarsi in una situazione simile. Perché? Come i governi di questi paesi si sono affrettati a spiegare, i loro conti pubblici non sono nello stato drammatico di quelli greci. Allora perché gli investitori sono preoccupati? Perché rischiano i propri soldi in una scommessa perdente? Perché, come dicono gli economisti, in questa partita tra Stati sovrani e investitori ci possono essere “equilibri multipli” (1): anche quando uno Stato non è molto indebitato, gli investitori possono cominciare a temere che, non volendo alzare la pressione fiscale oltre un certo livello “politicamente sostenibile”, in futuro esso potrà voler ricorrere alla ristruttrazione o alla monetizzazione del debito, o a entrambe. Nel timore che questo accada, essi spingono i tassi a livello talmente alto che “la loro profezia si autoavvera”: a quei tassi, lo stato che altrimenti avrebbe fatto fronte ai suoi debiti finisce davvero per dover davvero ristrutturare o monetizzare il debito, cioè per non ripagarlo interamente.
Quindi tutto dipende dalla “fiducia” degli investitori: se e fin quando la fiducia c’è, si resta nell’“equilibrio buono” con tassi di interesse moderati e mercati tranquilli; quando la fiducia scompare, si salta all’“equilibrio cattivo”, quello in cui c’è la crisi fiscale. Il “contagio” che la crisi greca ha scatenato è stato proprio questo: ha indebolito la fiducia degli investitori anche verso stati che avrebbero potuto continuare a navigare in acque tranquille se avessero continuato a godere della loro fiducia. Si noti fra l’altro che l’onere stesso del salvataggio della Grecia sta appesantendo i conti pubblici di Portogallo, Spagna e Italia, e anche questo ha contribuito a indebolire la fiducia nella loro solidità di debitori.

LA BORSA E LA SPECULAZIONE

Punto quarto: il rifinanziamento del debito pubblico. I paesi in questione sono esposti alla crisi fiscale (l’“equilibrio cattivo”) nella misura in cui sono costretti a ricorrere ai mercati per il rifinanziamento del debito pubblico, e quindi a seconda di quanto debito pubblico scadrà nei prossimi mesi. Ciò a sua volta dipende dalla scadenza media del debito pubblico: se il debito pubblico è per lo più a lunga scadenza, la quantità di debito da rifinanziare in un dato intervallo di tempo è piccola, e anche doverlo fare a tassi elevati è un costo sopportabile. In questo caso, il rischio di crisi fiscale è escluso. Se invece il debito è per lo più a breve termine, cosicché la quantità di debito da rifinanziare è elevata, il rischio di crisi fiscale esiste, come dimostrato da Giavazzi e Pagano (1990). (2) L’argomentazione è simile quella usata nel valutare la solvibilità delle imprese delle banche, in cui il “rollover risk” derivante dall’indebitamento a breve è uno dei fattori che determina il rischio di fallimento.
Punto quinto: il deprezzamento dell’euro. Perché l’euro si sta deprezzando? Una possibile risposta è che man mano che la crisi si allarga ad altri grandi paesi dell’area dell’euro, il rischio di monetizzazione del debito pubblico da remoto si fa più concreto. Se la Grecia può essere salvata (forse) dagli altri paesi dell’area euro, questo non può certo valere per l’imponente debito pubblico di Italia, Spagna e Portogallo. A quel punto, il rischio che la Bce debba monetizzarlo esiste, e i timori di inflazione che ne derivano potrebbero spiegare il deprezzamento dell’euro. Ma poiché ciò metterebbe a repentaglio la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, e rappresenterebbe un imponente trasferimento di risorse dai paesi forti dell’euro a quelli deboli, è uno scenario poco probabile.
Una spiegazione alternativa del deprezzamento dell’euro è il timore della rottura dell’eurosistema, uno scenario fino a poco tempo fa impensabile: proprio per non essere chiamati a contribuire alle finanze dei paesi deboli dell’area dell’euro con la monetizzazione del debito, i paesi forti potrebbero spingere quelli deboli al di fuori dell’eurosistema. Ovviamente questo è uno scenario drammatico, in quanto la ridefinizione dei confini della moneta unica difficilmente potrebbe avvenire senza impressionanti scossoni. E inoltre nel frattempo la crisi fiscale potrebbe tradursi nell’insolvenza sul debito pubblico di vari paesi dell’area dell’euro, con effetti globali devastanti: considerato che il debito pubblico di questi paesi è massicciamente presente nei bilanci di banche e assicurazioni di tutto il mondo, e soprattutto dell’area dell’euro, potrebbero determinarsi catastrofiche reazioni a catena in tutto il sistema finanziario. Il “contagio” diventerebbe davvero globale. Al confronto, la crisi innescata dai mutui “subprime” diventerebbe un pallido ricordo.
Ciò spiega perché le borse stanno crollando, e perché i governanti siano molto preoccupati, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Tuttavia, le invettive dei governi contro gli “speculatori” e i “mercati” sono infantili. La parola “speculatore” nasce dal latino specula (vedetta), e indica chi cerca di “guardare lontano”, e quindi metaforicamente “prevedere il futuro”. Nel momento in cui un qualsiasi risparmiatore decide se sottoscrivere i titoli del debito pubblico, anch’egli cerca di “guardare lontano”, e in questo senso in qualche misura siamo tutti speculatori. E tutti contribuiamo a determinare l’andamento dei mercati, perfino quando decidiamo di non servircene. Sta ai governi dimostrare che in questo momento speculatori e mercati stanno sbagliando previsioni e scommesse.

RECUPERARE LA FIDUCIA DEI MERCATI

Ma esiste un modo di recuperare la fiducia dei mercati? Poiché l’origine del problema è nella politica fiscale, il modo di recuperarla è sul fronte del fisco: occorre dare segnali forti e coordinati che gli stati deboli dell’area dell’euro sono capaci di “mettere a posto” i propri conti pubblici, accettando un monitoraggio e una disciplina comunitaria molto forte sulle proprie finanze.
Ciò vuol dire limitare significativamente la sovranità fiscale degli stati membri, dopo aver già accettato di delegare quella monetaria alla Bce. Ma occorre andare ben oltre la fragile disciplina del trattato di Maastricht e del patto di stabilità, assoggettando direttamente le leggi di bilancio degli stati membri dell’Unione a limiti comunitari vincolanti e a istituzioni dell’Unione Europea che li facciano valere. Non è affatto cosa di poco conto: difficile da realizzare e politicamente dolorosa, come le dimostrazioni e i morti di Atene dimostrano. I governi e soprattutto i parlamenti nazionali saranno disposti a farlo? Se sì, allora da questa crisi l’Europa riemergerà più forte di prima, e procederà verso il completamento della sua struttura sovranazionale con l’introduzione graduale di istituzioni fiscali federali, ovvero la naturale controparte della Bce.
Potrebbe anche essere l’occasione per colmare finalmente il deficit democratico dell’Unione Europea, poiché è naturale che decisioni vincolanti di natura fiscale siano prese da organismi rappresentativi. In tal modo, i limiti alla sovranità fiscale nazionale avrebbero una legittimazione democratica sovranazionale, invece di essere visti come diktat di organismi tecnico-burocratici o di comitati di ministri degli stati membri. Se i paesi dell’euro avranno il coraggio di accettare questa grande sfida, non solo la fiducia tornerà sui mercati, ma questa crisi diventerà l’occasione di una svolta storica nella costruzione europea. (Beh, buona giornata).

(1) Si veda ad esempio Guillermo Calvo, “Servicing the Public Debt: The Role of Expectations,” American Economic Review, September 1988.
(2) Francesco Giavazzi e Marco Pagano, “The Management of Public Debt and Financial Markets,” in High Public Debt: the Italian Experience, edited by L. Spaventa and F. Giavazzi, Cambridge University Press, Cambridge, 1988.

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Che sta succedendo all’economia europea/8.

Come far piangere gli speculatori, di LUIGI SPAVENTA-repubblica.it

IN CHE COSA consiste la speculazione? In un’imponente concentrazione di mezzi finanziari atta a provocare un esito che, pur se non altrimenti giustificato, fa vincere la scommessa. La speculazione si batte non con le deprecazioni né mandando i marines, ma facendo piangere chi ci ha provato: le lacrime di chi ci ha provato sono i soldi che gli si fanno perdere. Per far perdere i soldi alla speculazione, le autorità devono essere decise e dimenticare per un momento le regole del galateo.

I ribassisti ne fanno di tutte; dispongono dei mezzi tecnici più sofisticati; operano con una leva gigantesca, senza impegnare soldi propri. Se la pressione cresce (otto giorni fa al mercato dei derivati di Chicago si contavano 103.400 contratti al ribasso sull’euro, pari a quattro volte le posizioni lunghe, per un valore di quasi 17 miliardi di dollari) che cosa dovrebbero fare le autorità che tutelano la nostra stabilità? Consultare il manuale di buone maniere di Monsignor della Casa e reagire senza dare prova di maleducazione? Oppure togliersi i guanti e picchiare?

Nell’agosto del 1998, in esito alla crisi finanziaria del Sud-Est asiatico, quando finirono al tappeto le economie più dinamiche dell’area, la speculazione prese di mira con pesanti bordate la valuta e il mercato azionario di Hong Kong. Poiché i consueti strumenti di difesa (aumento dei tassi) non bastavano, l’autorità monetaria del territorio buttò alle ortiche l’ortodossia e decise di presentarsi in borsa come compratore di ultima istanza, in contropartita dei venditori a pronti e a termine, e acquistò azioni – azioni, si badi, non casti titoli di Stato – per 15 miliardi di dollari. Questa operazione (battezzata doppio slam, double whammy) inflisse gravissime perdite ai ribassisti, che dovettero abbandonare il terreno con gravi perdite. Vi fu anche un lieto fine: l’autorità monetaria rivendette gradualmente le azioni acquistate lucrando un profitto di 4 miliardi per le casse pubbliche (così come la banca centrale americana sta facendo profitti, rivendendo i titoli acquistati durante la crisi per sostenere le banche).

Non suoni eresia: la sola entità che possiede più mezzi di qualsiasi diabolico speculatore è una banca centrale che abbia il potere di emettere moneta. Solo quella banca centrale può essere compratore di ultima istanza di qualsiasi attività finanziaria che sia oggetto di un attacco speculativo ribassista, a condizione che quella attività sia denominata nella valuta che essa emette (per la Bce un titolo in euro, per la Federal Reserve un titolo in dollari).

Naturalmente questo è un rimedio estremo per mali estremi: per metterlo in opera si deve essere convinti che il valore mirato dalla speculazione non sia quello “giusto”; che senza turbolenze si potrebbe raggiungere un valore diverso e mettere in opera procedure più ordinate. Mi pare evidente che queste condizioni ricorrano oggi: occorre tempo per verificare il funzionamento del piano messo su per la Grecia; Spagna e Portogallo non meritano le frustate ad essi inflitte dai mercati solo per bastonare l’euro; il funzionamento dell’euro dovrà essere ripensato, ma non in un’affannosa emergenza. La Banca centrale europea è chiamata a fare la sua parte (“tutte le istituzioni… convengono di ricorrere a tutta la gamma di strumenti disponibili per garantire la stabilità”, recita il comunicato del Consiglio europeo di venerdì).

L’art. 123 del Trattato di Lisbona vieta esplicitamente alla Bce l’acquisto diretto di titoli di debito emessi dai governi o da altri enti del settore pubblico, ma non ne impedisce l’acquisto sul mercato, con operazioni che un tempo venivano definite di mercato aperto. Le dissertazioni sull'”azzardo morale” (nozione cara agli economisti) e sul rischio di inflazione non hanno pregio: lasciar prevalere i ribassisti quando si ritengano ingiustificati i loro obiettivi, quello sì è offrire occasione di azzardo morale; sappiamo che la massa monetaria creata occasionalmente (e quanta se ne creò per finanziare le banche!) può essere agevolmente riassorbita, anche liquidando nel tempo i titoli immessi nell’attivo anche con operazioni di acquisto. Altri espedienti sono opportuni, ma non sufficienti a battere la speculazione.

Un fondo di assistenza di qualche decina di miliardi? Ottimo, ma complicato da mettere in opera; soprattutto si indica alla speculazione che essa vince se riesce a mobilitare (magari solo sulla carta) una cifra maggiore. Più soldi resi disponibili dalla Bce alle banche? A poco servirebbero, posto che al momento le banche, di nuovo diffidenti l’una dell’altra, stanno depositando liquidità a Francoforte. È il momento del coraggio: si può riuscire a farli piangere gli speculatori, ma non con le chiacchiere di chi, come avrebbe detto Krusciov, non ha divisioni da mandare in combattimento. (Beh, buona giornata).

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Cosa sta succedendo all’economia europea/7.

(fonte: repubblica.it)
Dopo la maratona di ieri, durata oltre dieci ore, i ministri delle Finanze dell’Unione europea hanno trovato l’accordo per un piano salva-euro che potrebbe raggiungere i 720 miliardi. L’intesa è per 500 miliardi di aiuti europei cui si aggiungerà una cifra non precisata del Fondo monetario internazionale che secondo la presidenza di turno spagnola della Ue potrebbe arrivare a 220 miliardi. Al fondo non parteciperà la Gran Bretagna: “Voglio essere chiaro, la proposta di creare un fondo per la stabilità dell’euro è una faccenda che riguarda i paesi dell’Eurogruppo”, ha detto il titolare delle Finanze di Londra, Alistair Darlin.

Oggi volano le Borse dopo l’accordo sul piano anti-speculatori e l’annuncio che anche le banche centrali interverranno sui mercati. Piazza Affari si è impennata fin dall’apertura e sale di oltre il 7%. In avvio ben 16 titoli dell’indice Ftse non riuscivano a fare prezzo per eccesso di scostamento. A beneficiare soprattutto il settore bancario, più penalizzato nelle sedute della scorsa settimana dalle vendite. Unicredit e Intesa salgono di oltre il 15 e oltre il 14%, rialzi a due cifre anche per Mediobanca e Popolare di Milano.

Lisbona guadagna oltre l’8%, seguita da Bruxelles con oltre il 7,5. Oltre il 7 anche Parigi, seguita da Amsterdam (5%) e Francoforte e Londra oltre il 4. Atene è balzata di oltre 7 punti percentuali in apertura.

Forse più ancora che dalle decisioni dell’Ecofin il maxi-rimbalzo è provocato dall’annuncio che anche le banche centrali intervengono per sostenere la stabilità finanziaria. La Banca centrale europea, subito dopo la fine della riunione dei 27 a Bruxelles da Francoforte ha annunciato “misure eccezionali” sul mercato dei titoli di Stato e su quello dei cambi. L’intento, è scritto in un comunicato, è “di mettere fine alle disfunzioni” che sono state riscontrate dopo l’esplosione della crisi greca. Altra misura è stata concertata con la Fed, e le banche centrali di Canada, Inghilterra, Svizzera alle quali si è poi aggiunta quella giapponese. In sostanza i banchieri centrali hanno riattivato il meccanismo di scambio delle divise (swap) per facilitare l’approviggionamento in dollari delle banche della zona euro.

Misure necessarie, secondo la Bce, per fare fronte “alle gravi tensioni osservate sui mercati finanziari”. Buona la reazione dell’Euro che torna ad 1,30 nel cambio con il dollaro dopo che nei giorni scorsi era sceso sotto quota 1,26. “Il fondo rafforzerà e proteggerà l’euro, ma i problemi vanno affrontati alla radice” rafforzando la disciplina di bilancio” commenta il cancelliere tedesco Angela Merkel.

La prima Borsa a chiudere, dopo gli interventi di Ue, Fmi e banche centrali è stata quella di Tokyo: l’indice Nikkei chiude a +1,30% dopo due sessioni in calo. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/6.

Vertice salva-euro in bilico ,Dopo lo stop di Londra arrivano i dubbi di Berlino,di Fabio Grattagliano-sole24ore.com

La Germania ha proposto un piano di aiuti finaziari per i paesi della zona euro in difficoltà pari a una cifra di 600 miliardi di euro, con la partecipazione del Fondo monetario internazionale. Lo si apprende a margine della riunione dell’Ecofin

I ministri dell’economia e delle finanze dei 27 paesi Ue riuniti a Bruxelles per trovare una soluzione in grado di salvare in maniera strutturale l’euro e i paesi sotto minaccia della speculazione hanno preso una pausa. La riunione dell’Ecofin è stata al momento sospesa per consentire i lavori del Comitato economico e finanziario della Ue, l’organismo dedicato ad affrontare le modalità più tecniche del piano che sta cercando una sintesi in grado di accontentare tutte le posizioni espresse al tavolo dei ministri.

L’ultima bozza che circola
Se accolto dagli stati membri, il piano di aiuti finanziari sarebbe senza precedenti nella storia dei salvataggi. I 600 miliardi, l’ultima cifra che circola assieme alle bozze dei tecnici al lavoro, sarebbero così composti: 60 miliardi di garanzie dalla Commissione dell’Ue, 440 miliardi di garanzie dagli stati membri e 100 miliardi di euro di linee di credito messe a disposizione – se necessario – dal Fondo monetario internazionale. Nelle conversazioni telefoniche intercorse oggi tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il presidente francese Nicolas Sarkozy, sono servite – riferiscono fonti diplomatiche – a rafforzare l’asse con Washington per la partecipazione del Fmi. Il modello che verrebbe seguito per le garanzie degli stati membri sarebbe lo stesso usato per il caso Grecia. Germania e Olanda però si sono opposte al sistema di garanzie che era stato individuato nella proposta della Commissione. «È un’arma formidabile contro la speculazione», commentano fonti diplomatiche. «Se Francia e Germania sono unite e determinate è impossibile che la speculazione attacchi paesi come la Spagna o il Portogallo».

Il rifiuto di Londra. La ricerca di un meccanismo condiviso di stabilizzazione della moneta unica ha ricevuto un pesante stop dopo il rifiuto della Gran Bretagna a contribuire alla creazione del fondo. Anche la Germania starebbe creando qualche difficoltà sul fondo e in maniera particolare sul meccanismo di garanzie dei prestiti. «Voglio essere chiaro – ha detto il cancelliere dello scacchiere Allistair Darling – la proposta di creare un fondo per la stabilità dell’euro è una faccenda che riguarda i paesi dell’Eurogruppo. Quello che non faremo e non potremo è dare sostegno all’euro. La responsabilità di sostenere l’euro deve essere in capo ai membri dell’eurogruppo». Il rifiuto di Londra – che riguarderebbe solo la disponibilità di risorse al fondo e non uno stop politico alla creazione dello stesso – potrebbe spingere l’Ecofin verso l’ipotesi di limitare il meccanismo di prestiti garantiti ai soli 16 paesi della zona dell’euro.

Piano di salvataggio. Secondo le indiscrezioni le garanzie sul tavolo dovrebbero ammontare a 60/70 miliardi di euro: una cifra in grado di mobilitare sui mercati prestiti per almeno 600 miliardi. Se avere un fondo a 27 o a 16 «è una questione ancora in discussione», sottolineano fonti a Bruxelles. «Mai dire mai» ha detto il ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, arrivando alla riunione, mentre la collega spagnola Elena Salgado, ministro dell’Economia e delle Finanze e presidente di turno dell’Ecofin ha detto che «La Spagna non si prepara a ricorrere a nessun fondo» rispondendo alla domanda se Madrid si stesse accingendo ad usufruire del piano salva-Stati allo studio dei ministri della Ue.

Le opzioni sul tavolo. Tra le opzioni in gioco, una prevede che l’Ecofin approvi la costituzione di un Fondo di stabilizzazione sul modello già utilizzato in passato per gli aiuti a paesi non dell’eurozona (Lettonia, Ungheria e Romania): a intervenire in questi casi è l’articolo 143 del Trattato Ue in caso di grave minaccia di difficoltà nella bilancia dei pagamenti. Si tratterebbe di estendere anche ai paesi dell’eurozona la possibilità di ricevere supporto finanziario allargando l’ipotesi anche per difficoltà di approvvigionamento sui mercati per finanziare il debito sovrano. Fondendo le somme disponibili per i due strumenti si arriverebbe a una dotazione di oltre 100 miliardi di euro. Il problema è che l’articolo 143 è applicabile solo agli Stati dell’eurozona. La soluzione potrebbe arrivare grazie all’articolo 122 del trattato Ue, che prevede che il Consiglio dei 27 in caso di circostanze eccezionali possa decidere a maggioranza qualificata di concedere assistenza finanziaria a uno stato in difficoltà. L’ipotesi, in un primo momento osteggiata dal governo di Londra perché in questa evenienza la Gran Bretagna riteneva di poter essere “costretta” a fornire la propria quota di finanziamento, è ora valutata da Londra con maggior favore.

Banchieri riuniti. A Basilea i banchieri centrali della Bce attendono di capire quale ruolo sarà loro attribuito dall’Ecofin nella gestione del piano di difesa dell’euro e in special modo sulle modalità di acquisto di titoli di Stato in cambio di impegni precisi dei paesi sul risanamento dei bilanci. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/5.

La speculazione, l’Europa divisa e la speranza di Kohl, di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Per fortuna oggi si vota nel North-Rhine Westfalia (Cristianodemocratici al 34,3% e liberali al 6,5%: perdono il Nordreno-Westfalia, il land più popoloso, e non hanno più la maggioranza al Bundesrat, la Camera delle Regioni. Bene i socialdemocratici con il 34,5%, i Verdi (12,6%) e la sinistra radicale (6%), ndr). Dovrebbe essere una notizia trascurabile nel panorama della crisi finanziaria ma purtroppo, nella mancanza di regole europee comuni e condivise, le decisioni sono rimaste in mano agli stati nazionali e i governanti hanno agito tendendo conto non degli interessi di lungo periodo ma delle passioni popolari del momento . Si è verificato perciò lo scenario peggiore tra tutti quelli prevedibili, uno scenario in cui un problema di dimensioni quantitative modeste, come il deficit greco, ha prodotto le peggiori conseguenze possibili, sconvolgendo i mercati azionari ed obbligazionari di tutta Europa. Quando la politica non adempie al suo compito, la speculazione non può che approfittare del disorientamento generale e fare duramente il proprio gioco. Ed è questo che è avvenuto nella scorsa settimana, in cui l’attacco speculativo non solo ha provocato pesanti ribassi in borsa ma ha generato una catena di crisi di fiducia che ha reso più difficile e costoso il funzionamento dei crediti interbancari e ha infine messo a dura prova la solidità dei titoli di Stato di diversi paesi, con l’ovvia ultima conseguenza di attentare al cuore stesso dell’Euro.

La finanza (o forse meglio dire la speculazione finanziaria) ha travolto la politica perché essa ha per definizione interessi e obiettivi ben precisi mentre la politica europea non è stata in grado di preparare una forte strategia comune. Il prezzo di tutto ciò è elevatissimo: basti pensare che la metà del pacchetto di aiuti preparato qualche giorno fa sta ora andando in fumo per l’aumento dei tassi di interesse del debito pubblico greco, aumento dovuto proprio alla difficoltà, alla lentezza e alla scarsa convinzione con cui era stato preparato dagli “amici” europei.
Insomma la speculazione agisce quando sa di essere più forte della politica, più forte degli Stati. Oggi in Europa lo è.

Non solo perché è in grado di mobilitare enormi masse di denaro in un brevissimo periodo di tempo ( rapidità moltiplicata dagli automatismi con cui vengono dati gli ordini di acquisto o di vendita) ma anche perché tutto questo provoca ondate di panico nei possessori di titoli, allarmati da questi eventi improvvisi, imprevisti e della cui portata non sono in grado di rendersi conto. Nei giorni scorsi molti possessori di azioni sono corsi a vendere semplicemente per paura, così come sono corsi verso i Bund tedeschi altrettanti proprietari di obbligazioni pubbliche di diversi paesi.

Ad eventi così veloci si contrappone una situazione europea in cui nessuno ha il potere di agire con la necessaria rapidità e ogni decisione viene presa dopo che la speculazione ha raddoppiato la dimensione dell’intervento necessario. Questa è la ragione per cui l’attacco è stato mosso verso i paesi dell’Euro, anche se essi hanno in media un deficit molto molto inferiore a quello degli Stati Uniti o della Gran Bretagna ma hanno un potere politico frammentato, diviso e incapace di reagire agli eventi guardando in faccia alla realtà. Identica è la spiegazione sul contradditorio comportamento delle società di rating, che hanno promosso a pieni voti la banca Lemhan fino alla vigilia del fallimento e che ora gettano ombre di sospetto sull’Italia senza nulla dire riguardo all’enorme deficit di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Intanto a Bruxelles si continua a discutere sui possibili interventi urgenti della Banca Centrale Europea e su come i mercati reagiranno domani di fronte alle misure prese. Se cioè sarà sufficiente un’iniezione aggiuntiva di liquidità alle banche perché acquistino titoli di Stato dei paesi sotto tiro o se si andrà verso la più complessa e ipotetica possibilità che sia la BCE stessa a comprare direttamente tali titoli. Vedremo domani se la decisione presa sarà in grado di calmare la furia dei mercati ma teniamoci ben in mente che, in ogni caso, si tratta di un rimedio di breve periodo. Il problema resta quello di creare degli strumenti di politica economica per tutta l’area dell’Euro che permettano di evitare i disastri come quello greco e che, se accadono, rendano possibile imporre nuovi comportamenti in modo rapido e autorevole.

Ritorniamo quindi al nostro problema di costruire una politica economica europea da affiancare alla politica monetaria, una politica abbastanza forte da imporre e fare rispettare le regole comuni. E’ proprio quello che i leader europei non hanno nel passato voluto e che gli eventi di questi giorni costringeranno invece a fare. A meno che non si voglia la distruzione dell’Euro, cosa che a nessuno giova a cominciare dalla Germania. Quando fra poche ore si chiuderanno le urne nel North-Rhine Westfalia si dovrà quindi ricominciare a parlare del nostro futuro, che esisterà solo se sarà un futuro comune. Per ora l’unica voce ottimista che ho potuto ascoltare in Germania è quella dell’ex cancelliere Helmut Kohl che, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, mi ha rasserenato assicurandomi che la Germania è, nonostante tutto, pienamente consapevole del valore positivo ed indispensabile della solidarietà europea. Mi auguro proprio che abbia ragione.(Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/1.

I giorni terribili dell’attacco all’euro di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it

Due giorni terribili e una terribile nottata tra i capi dei governi europei, mentre crollavano le Borse di tutto il continente e Wall Street addirittura precipitava di mille punti in pochi minuti. Un errore umano? Molto peggio: l’errore umano aveva messo in moto le tecnologie computerizzate che avevano trasmesso l’ordine di vendere a tutti gli operatori collegati in rete. Così la tecnologia amplifica e soverchia le manchevolezze degli umani, dei quali sempre più spesso diventa padrona.
Quei minuti di panico si sono tuttavia protratti per tutta la giornata sulle due sponde dell’Atlantico; la riunione dei leader europei è durata otto ore, con lo spettro di che cosa potrà accadere lunedì alla riapertura dei mercati.

Lo spettro dell’affondamento dell’euro ha dato loro il coraggio che fin qui gli era
mancato. Soprattutto era mancato ad Angela Merkel, cioè alla Germania e alla Bundesbank che ne rappresenta il cuore monetario, ancora nostalgico del marco, abbandonato in favore della concezione europeistica di Kohl. C’è voluto un intervento diretto di Barack Obama sulla cancelliera della Germania federale per farle comprendere che la fase dei “se” e dei “ma” doveva essere superata e che non era più questione di giorni ma di ore se non addirittura di minuti per prendere le decisioni necessarie. Si vedrà domani se i mercati si stabilizzeranno e se la speculazione concederà alla politica una pausa di respiro.

I provvedimenti decisi dal vertice europeo sono stati, finalmente, all’altezza della sfida: la disponibilità della Bce, ovviamente con decisione autonoma, ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco e la decisione della Commissione di Bruxelles di mobilitare 70 miliardi di euro accantonati nel bilancio dell’Unione per far fronte alle calamità naturali e usarli invece per prestiti immediati ai Paesi in difficoltà.
La frustata che gli speculatori hanno dato ai governi li ha finalmente risvegliati dall’ipnosi e li costringerà a reagire?

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La novità delle ultime quarantott’ore è questa: i governi hanno capito che l’attacco della speculazione non è più soltanto contro la Grecia. L’obiettivo è assai più alto, il dissesto dell’economia greca ne è stato soltanto il detonatore, ma ormai è chiaro quale sia il bersaglio: l’euro, la moneta unica europea, la tenuta del sistema europeo e la sua necessaria evoluzione politica. L’aveva già scritto qualche giorno fa Mario Pirani su queste pagine e l’ha detto giovedì scorso con chiarezza il ministro Tremonti alla Camera. C’erano solo cinquantotto deputati ad ascoltarlo e quasi tutti dell’opposizione, il che non depone a favore della sensibilità europeistica del nostro Parlamento e sottolinea il suo inguaribile provincialismo.

A questo punto le domande che dobbiamo porci sono tre: perché la speculazione attacca l’Europa, le sue Borse, la sua moneta? Quali sono, tecnicamente e politicamente, i punti deboli dell’Unione europea? Quali sono le terapie necessarie per difenderci? Possiamo aggiungere anche una quarta domanda: chi sono gli speculatori? È mai possibile che abbiano tanti mezzi e tanto coraggio da partire in battaglia contro una struttura di dimensioni continentali che coincide con l’area più ricca del mondo?

Questa quarta domanda è preliminare alle altre e va dunque affrontata per prima. La speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni. La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato. Il mercato consiste in un luogo organizzato dove si registrano – attraverso la domanda e l’offerta – le aspettative di un’immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l’aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo.

La crisi di due anni fa partì dalla bolla immobiliare americana e si propagò con la velocità del fulmine in tutto il mondo. Fu la prima vera prova della globalizzazione finanziaria. Si confrontarono le aspettative ribassiste e deflazionistiche con la risposta dei governi, a cominciare da quello americano. I governi riuscirono a gestire la crisi e a controllare le aspettative ma pagarono un prezzo altissimo: dovettero iniettare sul mercato migliaia di miliardi di liquidità accumulando debiti immensi. Sono stati chiamati “debiti sovrani” e “fondi sovrani” sono stati chiamati gli enti preposti alla loro gestione.

L’uscita dalla crisi prevede che i debiti sovrani siano riassorbiti gradualmente ma in un periodo relativamente breve di tre o quattro anni. Ogni sistema, ogni fondo sovrano effettuerà l’operazione di assestamento secondo i propri mezzi e le proprie scelte; l’inflazione sarà inevitabilmente una scelta comune, non facile da guidare e difficilissima da far accettare alle pubbliche opinioni. Ma ancora più difficile sarà l’assestamento basato sul taglio di spese, inasprimento di imposte, disagio sociale. Il caso greco ne è la più lampante dimostrazione anche perché è maturato su un terreno politicamente e socialmente friabilissimo.
Adesso è la volta dell’Unione europea, la crisi si è concentrata su quell’obiettivo. Come ha ricordato Tremonti, la parola crisi in greco significa discontinuità.

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Perché la speculazione attacca la moneta europea, le sue Borse, le sue banche? La risposta è semplice: la speculazione attacca i fondi sovrani europei, cioè la struttura finanziaria dell’Unione attraverso gli Stati che la compongono e cerca di colpire la stessa Banca centrale europea, cioè il cuore dell’Unione, il solo ente veramente autonomo e veramente federale che gli Stati abbiano finora saputo esprimere.
La speculazione, cioè l’insieme delle forze che operano nei mercati internazionali, sa da tempo che la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano. Questa situazione le conferisce il massimo di indipendenza, ma al tempo stesso il massimo di solitudine e di fragilità. La politica monetaria è interamente nelle mani della Bce e di conseguenza sono di sua esclusiva spettanza la quantità di moneta in circolazione, il tasso ufficiale di sconto, le operazioni di mercato aperto.

Ma gli Stati membri mantengono il completo dominio delle rispettive politiche di bilancio, delle rispettive politiche fiscali, della spesa pubblica sia nazionale sia locale, degli incentivi, delle pubbliche retribuzioni, dell’organizzazione del “welfare”. I meccanismi di coordinamento sono blandi e nella maggioranza dei casi si risolvono in raccomandazioni. Il bilancio amministrato dalla Commissione di Bruxelles non ha alcuna vera flessibilità.

Insomma l’Europa è ancora lontanissima dall’essersi data una struttura federale e politiche comuni, anzi unificate, con massicci trasferimenti di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo nel campo della politica estera, di quella della difesa, dei diritti e dei doveri, delle elezioni parlamentati e del governo dell’Unione.
La speculazione conosce perfettamente questa situazione ed ha interesse a bloccare qualsiasi sviluppo dell’Unione verso un assetto federale. L’ideale per le forze di mercato è che esso sia regolato il meno possibile e che il potere economico, soprattutto nei suoi aspetti finanziari, sia il solo dominante nello spazio globale del pianeta.

Questa è dunque la posta, la quale tuttavia comporta anche una contro-indicazione: se gli Stati nazionali membri dell’Unione hanno chiaramente capito la pericolosità estrema dell’attacco, vorranno e sapranno elaborare una risposta che sia all’altezza della crisi? Vorranno affrontare il problema della sovranazionalità europea cedendo all’Unione la parte politica della loro sovranità? O si limiteranno a rendere più strette le maglie del coordinamento tra le loro politiche nazionali?

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La crisi in corso contiene dunque un pregio, l’abbiamo già detto: ha reso attuale e non oltre procrastinabile il tema dello Stato federale europeo. Purtroppo non sembra che l’evidenza e l’urgenza di risolverlo siano in grado di indurre le classi dirigenti e le opinioni pubbliche nazionali a varcare finalmente la soglia di un vero federalismo. Mancherà certamente il contributo della Gran Bretagna, ancora irretita dal mito anglosassone e dalla relazione speciale tra Londra e Washington.
Quanto agli Stati europei del continente, non sembra che dispongano di una visione europea unitaria. Una classe dirigente europea e un’opinione pubblica europea capaci di sospingerli e costringerli non esistono. Ci sono singoli individui e ristretti ambiti sociali minoritari, niente di più.

Se debbo esprimere un’opinione personale, credo che l’attacco in corso contro l’attuale sistema europeo si attenuerà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, ma non sarà affatto sgominato. Verrà contenuto, questo è probabile, ma preparerà ulteriori ondate. Voglio dire insomma che la crisi non è alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi con tutta la sua terribilità.
(Beh, buona giornata).

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