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Chi di tivù ferisce, di tivù perisce.

(fonte: blitzquotidiano.it)
«Basta, finiamola con questo scandalo. Quello che bisogna concertare è che la vostra azione permetta di chiudere la trasmissione. Non voglio più vedere Antonio Di Pietro in tv». Questo sarebbe il contenuto esplosivo di una delle telefonate del novembre 2009 tra Silvio Berlusconi e il commissario dell’Autority per le comunicazioni, Giancarlo Innocenzi, intercettata dalla procura di Trani. Secondo quanto riportano oggi Il Corriere della Sera e La Repubblica, a questa esplicita richiesta del premier, Innocenzi avrebbe risposto: «L’ho chiesto anche a Calabrò», cioè Corrado Calabrò, presidente dell’Agcom.

La data è 12 novembre e, secondo La Repubblica, su Rai 2 è in onda Annozero, si parla del caso del sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, per il quale la procura di Napoli ha chiesto l’arresto. Silvio Berlusconi prende il telefono e chiama il commissario dell’Agcom, Giancarlo Innocenzi: «Ma la stai guardando la trasmissione? – gli dice – È una cosa oscena! Adesso bisogna concertare una vostra azione che sia di stimolo alla Rai per dire: adesso basta, chiudiamo tutto!». Il presidente chiude. Poi richiama: «Non si può vedere Di Pietro che fa quella faccia in televisione!» commenta, riferendosi al leader dell’Italia dei Valori ospite di Michele Santoro insieme con il vicepresidente della commissione Antimafia Fabio Granata (Pdl), il direttore di Libero Maurizio Belpietro e il giudice Piercamillo Davigo.
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

La mappa delle alleanze: ecco quello che farà la Sinistra alle elezioni regionali 2010.

da Liberazione di giovedì 18 febbraio 2010

Il punto sulle regionali. La Federazione della Sinistra va da sola anche in Lombardia e Marche
Campania, contro le due destre si candida Paolo Ferrero

Checchino Antonini-da Liberazione

E’ stato lo stesso Paolo Ferrero a dare la notizia al suo arrivo a Napoli nel pomeriggio di ieri: sarà proprio il segretario nazionale del Prc, il candidato Presidente della Federazione della Sinistra alla guida della regione Campania.
“De Luca non è un candidato di sinistra – spiega a Liberazione – invece in Campania c’è bisogno di sinistra. Le critiche e la discontinuità che abbiamo chiesto spesso a Bassolino non si risolvono tornando ad Achille Lauro (controversa figura di armatore e sindaco populista e reazionario di Napoli negli anni ‘50, ndr), ma guardando al meglio di ciò che la sinistra ha prodotto in Campania e quindi guardando a Maurizio Valenzi (prestigiosa figura di sindaco comunista di Napoli negli anni ‘70, ndr)”.
Con la candidatura di un leader nazionale, per di più piemontese, “vogliamo sollevare il problema politico di una regione dove si sfidano due candidati di destra – conclude Ferrero – non mi pare un fatto amministrativo”.

La genesi della decisione nelle parole di Tommaso Sodano, ex presidente della commissione ambiente del Senato: “Avevamo chiesto discontinuità con la stagione di Bassolino, ma il Pd non ha mai dato segnali di disponibilità in questo senso”.

Infatti, in una prima fase s’erano profilate primarie tutte dentro lo scontro nel Pd: l’assessore bassoliniano Marone contro De Luca, sindaco a Salerno. “De Luca è l’uomo che si richiama alla destra europea, che prova a incarnare il peggiore populismo – continua Sodano – avevamo rotto con lui già a Salerno dopo varianti urbanistiche in odore di speculazione. In quella città ha sfidato il suo stesso partito, correndo con una lista contrapposta. E’ lui che scendeva dalla macchina dei vigili per buttare all’aria le bancarelle dei senegalesi o che, di fronte al municipio, strapppava i manifesti di Rifondazione, che lo criticavano”.

Ora De Luca è molto indietro nei sondaggi e tenta di spostare a destra la sua campagna con dichiarazioni clamorose, come quelle veicolate nelle ultime ore.
“E’ stato chiesto a S&L (Sinistra e Libertà, il partito di Vendola, ndr) e a Idv (il partito di Di Pietro, ndr) – ricorda Sodano – di mettere insieme un polo alternativo. Ma la plateale assoluzione di De Luca al congresso dipietrista marca la mastellizzazione di quel partito. Non si può sempre vivere con il ricatto del meno peggio. E’ quell’idea che porterà alla sconfitta un centrosinistra che governa in Campania dal ‘93. Con questa operazione, invece, si prova a restituire dignità alla parola sinistra”.

“La vicenda campana assume un valore quasi paradigmatico, con il Pd che impone una sua candidatura rispetto alle resistenze sia degli alleati ma anche di un pezzo di quel partito. E, con De Luca, avanza una candidatura francamente indigeribile al di là delle sue vicende giudiziarie. Il sindaco di Salerno non fa mistero di un suo “leghismo meridionale”. Una candidatura che di per sé rompe a sinistra. Appare grave il ritorno indietro di S&L e di Idv e, per tutto questo scende in campo Ferrero a indicare una questiona nazionale: non tutto è digeribile in nome dell’unità”. Così spiega Gianluigi Pegolo, responsabile dipartimento Democrazia e Istituzioni, facendo il punto sulla partecipazione della Federazione alle imminenti regionali.

Se le cose dovessero restare così, a 39 giorni dall’apertura delle urne, Rifondazione corre da sola in tre regioni. La Campania, appunto, ma anche in Lombardia con Agnoletto, candidato presidente e nelle Marche dove la Federazione è apparentata con una lista di S&l e Massimo Rossi sfida Pd e destre. Rossi, già sindaco di grottamare e presidente della provincia di Ascoli, è stato il primo amministratore pubblico a praticare la strada della democrazia partecipata.

In Umbria la trattativa è in corso ma è assai probabile che si chiuda con un accordo di centrosinistra. E’ tramontata, infatti, l’ipotesi di una associazione dell’Udc alla compagine di centrosinistra e sembra che Casini voglia candidare a Presidente Paola Binetti.

L’accordo tecnico elettorale è stato siglato in tre regioni: in caso di vittoria non prevede una collocazione della Federazione al governo. Succede in Piemonte, Lazio e Basilicata. Spiega ancora Pegolo che questi accordi parziali scaturiscono dall’esigenza di impedire un successo delle destre.

Sette, invece, gli accordi organici. Se si vincesse ci saranno assessori espressione della Federazione. Si va dal Veneto – guidato da tempo dal centrodestra – dove la Federazione è in una coalizione di forze di opposizione a Toscana, Emilia, Umbria e Liguria, regioni in cui “veniamo fuori da esperienze di governo comune”.

E poi ci sono Puglia e Calabria.

In Puglia e Toscana la Federazione è in lista coi verdi. In Puglia la “bicicletta” (due simboli a indicare la lista) è un esito che contraddice i propositi di S&l (il partito di Vendola, ndr) prima delle primarie.

Dopo la vittoria di Vendola, difatti, gli ex Prc e l’ex Sd prova a spendersi il logo da sola.

Più in generale, dove non è stato possibile un centrosinistra organico è stato per via dell’ indisponibilità del Pd su programma e candidature – continua Pegolo – in alcune regioni sarebbe stato possibile dare vita a poli alternativi ed è avvilente constatare come in Campania Idv e S&l siano rientrati nell’alveo o trovarsi davanti alle pulsioni anticomuniste di Penati in Lombardia.

Nelle Marche, invece, non è stata lanciata alcuna discriminante contro di noi da parte di S&l, e lì la sinistra di alternativa è riuscita a non accettare i dictat del Pd che ha espresso posizione intollerabile”.
Infatti, dopo aver aperto un tavolo ditrattativa con le sinistre, i democratici hanno preteso che si facessero da parte, dopo un lungo periodo di governo comune, per far posto a un’alleanza con l’Udc.
(Beh, buona giornata).

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Attualità

Il G8 e le nuove baruffe chiozzotte:”due eminenti personaggi della politica italiana di oggi, il primo ministro Silvio Berlusconi e il più rumoroso dei suoi oppositori, Antonio Di Pietro, si sono esibiti in una serie di numeri di cui non ci si può non vergognare.”

Berlusconi, Di Pietro/ I rapporti con gli stranieri e la lezione di Sarkozy
di Marco Benedetto-blitzquotidiano.it

Nell’ultimo numero di Tex, un capo indiano cheyenne riceve in consegna un reprobo della sua tribù catturato da Tex Willer e gli dice: i conti li facciamo poi al nostro accampamento. Non vuole, Orso Bruno, davanti al viso pallido, capo per giunta di un’altra tribù, esibire un suo uomo sottoposto alla inevitabile pesante punizione.

L’orgoglio che dimostra il capo dei Cheyenne ha disertato gli italiani negli ultimi mille anni, da quando un nobile pugliese chiamò i normanni a dargli man forte, giù giù per i vari Pontefici romani, granduchi, principi e re che hanno offerto a re e imperatori d’oltralpe un pretesto per venire in Italia e trasformarci in colonia, status che l’ultimo pezzo di territorio nazionale ha perso, magari di malavoglia, solo nel 1918, cioè meno di un secolo fa.

Per non smentire questa gloriosa e nobile tradizione, due eminenti personaggi della politica italiana di oggi, il primo ministro Silvio Berlusconi e il più rumoroso dei suoi oppositori, Antonio Di Pietro, si sono esibiti in una serie di numeri di cui non ci si può non vergognare.

Berlusconi e Di Pietro hanno dei tratti in comune, il principale dei quali è la demagogia, che, in quanto tale, non conosce ritegno. Quel che è accaduto negli ultimi giorni non deve stupire, ma merita indignarsi un po’.

Il caso peggiore è quello di Berlusconi, perché è il capo del Governo, più grave è quel che ha fatto Di Pietro, per l’atto in sé.

Berlusconi se l’è presa, in pubblico, in attacchi diretti e sfrontati, non solo con i giornali italiani, come un qualunque allenatore di calcio, ma anche con i giornali stranieri, con una caduta di stile che dispiace molto.

Nella piazzata internazionale, Berlusconi era stato già preceduto dal suo ministro degli Esteri Franco Frattini: riesce difficile immaginare Hillary Clinton ingarellarsi con Repubblica, ma non c’è da aspettarsi molto di più da un ministro che lascia nelle mani di una banda di pirati dieci marittimi nostri connazionali (ma quelli sono dei poveri proletari meridionali, senza alcun appoggio mediatico, non dei giornalisti, anche se di sinistra) e tratta via sms le sue questioni di cuore come uno qualunque di noi.

Berlusconi invece non ha scusanti, per la sua storia imprenditoriale e politica. Che lui, primo ministro dell’Italia ottava potenza mondiale, attacchi pubblicamente un giornale straniero, coprendolo di insulti, va al di là di ogni immaginazione. Risulta difficile vedere la regina d’Inghilterra, o anche il suo plebeo primo ministro Gordon Brown, dare sciabolate verbali al Corriere della Sera o al Messaggero. Berlusconi non è il primo. Anni fa ci fu un presidente della Repubblica che mandò l’ambasciatore italiano a Londra a lamentarsi con il ministero degli Esteri inglese per quel che aveva scritto di lui il Sunday Times. Ma quella era la prima repubblica, il presidente era democristiano, altri tempi. Da Berlusconi, una caduta di stile così non ce l’aspettavamo.

Non è che gente tipo George Bush o Barack Obama vadano in estasi quando un giornale li attacca, ma non si espongono; lasciano le cose in mano agli addetti stampa che tolgono il giornalista inviso dalle liste dei buoni con quel che ne consegue, magari affidano alle guardie alla porta il compito di negare l’accesso, ma non scendono in litigi che nuocciono solo alla loro dignità.

Se quello di Berlusconi è un imperdonabile errore, il caso Di Pietro, però, è molto più grave. Di Pietro ha comprato una pagina sull’International Herald Tribune, edizione mondiale del New York Times, stampata e distribuita in tutto il mondo, da Parigi a Hong Kong a Tokyo, per esibire in dimensione planetaria la sua faccia formato full size e fare sapere a tutti ma proprio tutti che in Italia la democrazia è in pericolo.

Siamo tutti abbastanza sicuri che, messo nelle condizioni di poterlo fare, non ci sia politico al mondo che un pensierino ai pieni e assoluti poteri non lo faccia. Infatti la democrazia non si trova allo stato libero in natura, è frutto di un continuo, faticoso, doloroso processo di aggiustamento, non si basa su buona volontà e stati d’animo, ma su regole abbastanza rigide che bilanciano, vincolano e contrappongono i poteri che gestiscono lo Stato per conto delle classi, degli interessi, dei gruppi sociali che si contrappongono in un paese.

Che la democrazia sia in pericolo è una costante universale. Gli attentati alla democrazia non si manifestano solo con i colpi di stato, i carri armati, gli arresti in massa degli oppositori. Ci sono strumenti più sottili e meno visibili, come l’uso del potere giudiziario o l’abuso del potere amministrativo, e essi costituiscono una tentazione irresistibile per chiunque occupi il Governo, anche nel paese più democratico al mondo, come gli Stati Uniti: sul fronte giudiziario ricordiamo la Corte Suprema americana che coprì il pasticcio elettorale di Bush e, ancor più di recente, il procuratore generale dello stato dell’Illinois che arrestò il governatore, compagno di partito di Barack Obama, sulla base di una intercettazione; sul piano dell’abuso amministrativo dei poteri, cosa remota dagli interessi di massa, una delle aspettative generate dall’elezione di Obama è proprio quella che ripristinerà il corretto funzionamento dei poteri esecutivo e legislativo, violentato dal colpo di stato strisciante di Bush e Cheney.

Però nessuno negli Stati Uniti d’America si è sognato di comprare una pagina sul Sole 24 Ore per raccontarci tutto ciò, perché anche i più arrabbiati delle due parti sa bene che sbandierare i problemi di un paese sotto gli occhi degli altri paesi non serve a nulla. Se poi a farlo è un italiano, serve solo a peggiorare la già scadente immagine di cui gli italiani soffrono nel mondo, e questo non solo per colpa delle gaffes internazionali di Berlusconi.

Attaccare Berlusconi in Italia è un dovere. Puntare il dito contro di lui chiamando il mondo a giudicarlo è solo demagogia. Non serve certo a fare cadere Berlusconi, il quale, anzi, più debole è, meglio è per gli altri, come il successo apparente del G 8 di cartapesta ha dimostrato.

Né possiamo essere così ingenui che democrazia, diritti civili, libertà negli altri paesi agli Usa stiano veramente a cuore. Ogni tanto, principalmente per ragioni di politica interna, affrontano il tema, fanno la faccia feroce, fanno anche la guerra, per esportare la democrazia: ma con l’Iraq, non con l’Iran (almeno per ora), con l’Afghanistan, non con l’Arabia Saudita. Impongono le sanzioni alla Birmania non alla Cina, come nel ‘36 le imposero all’Italia di Mussolini, non alla Germania di Hitler.

Al governo americano, quale che sia il suo colore, vanno benissimo paesi tra i più corrotti al mondo, come l’Arabia Saudita dove le adultere sono lapidate o l’Egitto di Mubarack, dove se invochi dio una volta di troppo non esci più di galera.

E va benissimo anche Berlusconi, costretto, dal peso degli scandali, a scodinzolare come un cagnolino tra le gambe di Obama.

E costretto anche a inginocchiarsi davanti a uno come Sarkozy, chiedendogli pubblicamente scusa e prendendosela con il suo proprio quotidiano di famiglia, da lui co-fondato, il Giornale, perché si era ingaggiato in una giusta polemica con Carla Bruni, moglie di Sarkozy, precipitosamente sposata dopo l’elezione a presidente, per tappare il buco lasciato dal grande amore Cecilia.

D’altra parte Berlusconi sa bene che Sarkozy non si abbassa a litigare con i giornali: alza il telefono, chiama i padroni e fa licenziare i direttori, come è accaduto, appunto, col povero direttore di Paris Match, la cui unica colpa fu di avere pubblicato le foto della Cecilia mano nella mano col suo amante. Se se la cava solo con un pubblico rimprovero, il direttore del Giornale può ringraziare il Cielo, perché può essere certo che Sarkozy la sua testa a Berlusconi l’ha chiesta di sicuro.

Anche nel caso delle scuse a stranieri il destino ha accomunato Di Pietro e Berlusconi, anche, in questo, Di Pietro ha aperto la strada, chiedendo scusa al Guardian per l’attacco di Berlusconi. Errore grave per una serie di molte ragioni.

Ricordiamo un precedente, non italiano: Sarkozy disse il peggio del primo ministro spagnolo Zapatero e la cosa finì sui giornali; Segolene Royal, candidata della sinistra alla presidenza francese e sconfitta dallo stesso Sarkozy prese la palla al balzo e chiese scusa a Zapatero. Gliene dissero di tutti i colori, da tutte le parti, e da allora, sarà un caso, ma della povera Royal si è sentito parlare molto poco. Chissà se a Di Pietro qualcuno glielo ha raccontato. (Beh, buona giornata).

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“Il 14 luglio una giornata di silenzio per protestare – insieme ai giornalisti dei quotidiani, delle televisioni e dei siti intenet – contro il decreto Alfano.”

Blog in sciopero: “rumoroso silenzio” contro il decreto Alfano
Scritto da: Marco Pratellesi alle 11:54

Per la prima volta nella storia della Rete, i blog osserveranno il 14 luglio una giornata di silenzio per protestare – insieme ai giornalisti dei quotidiani, delle televisioni e dei siti intenet – contro il decreto Alfano. «Non si tratta di un’adesione allo sciopero dei giornalisti, ma di una protesta della Rete italiana contro un provvedimento che avrà l’effetto di disincentivare l’uso dei blog e delle libere piattaforme di condivisione dei contenuti», spiegano in una nota i promotori dell’iniziativa, il blogger e giornalista Alessandro Gilioli e il docente di diritto informatico Guido Scorza.

Alla protesta “del silenzio” aderirà anche il blog del leader dell’Idv, Antonio Di Pietro: «Il 14 luglio aderirò allo sciopero dei blogger contro il bavaglio alle intercettazioni e all’informazione, promosso dalla legge criminale del ministro Alfano, e contro la norma del diritto di rettifica entro 48 ore per tutti i siti, norma ribattezzata dalla Rete ammazza Internet».

Al posto dei consueti post, i blog italiani pubblicheranno solo un banner di protesta contro il provvedimento, «in particolare contro quella parte che soffoca la libertà della Rete con il pretesto dell’obbligo di rettifica». Le adesioni a quella che è stata ribattezzata la giornata del “rumoroso silenzio” dei blog sono raccolte sul sito Diritto alla Rete

«I blogger – dice la nota dei promotori – sono già oggi del tutto responsabili, in termini penali, di eventuali reati di ingiuria, diffamazione o altro: non c’è alcun bisogno di introdurre sanzioni insostenibili per i “citizen journalist”. Chiediamo ai blog e ai siti italiani – conclude – di fare una giornata di silenzio, con un logo che ne spiega le ragioni, nel giorno in cui anche i giornali e le tv tacciono. È un segnale di tutti quelli che fanno comunicazione che, insieme, dicono al potere: “Non vogliamo farci imbavagliare”». (scaricaillogobanner.jpg). (Beh, buona giornata.)

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